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Autore Discussione: Bossi: io, la malattia, la vita  (Letto 3190 volte)
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« inserito:: Agosto 24, 2007, 06:38:54 pm »

Venerdì, 24 Agosto 2007
 
 
 
Bossi: io, la malattia, la vita 
Chiacchiere notturne con il Senatùr: una volta parlava solo di politica...

 Il mezzo toscano è un vizio da politico. Odora di riunioni pensose, di incontri carbonari e notti passate a sognare di cambiare il mondo con un disegno di legge. Umberto Bossi ha mantenuto quel vizio, nonostante tutto: nonostante la vita gli abbia riservato uno scherzo di quelli che ti cambiano dentro, più ancora che nel fisico. Ma le abitudini non possono cambiare, sono un feticcio al quale ci si aggrappa per dimostrare a se stessi che si è più forti degli scherzi, più forti del destino. Così il mezzo toscano fende l'aria già satura di un albergo di Calalzo quando la mezzanotte è già passata, come ai bei tempi delle pizze con i fedelissimi e i giornalisti. La saletta si sta svuotando, Giulio Tremonti e Roberto Calderoli si arrendono alle fatiche di una giornata spesa tra telefonate a Berlusconi e progetti di rivolta fiscale.

Bossi invece comincia la sua nottata, e trova in un giornalista il casuale compagno di resistenza umana.



Non ci sono interviste a quest'ora, non ci sono politici. C'è la scatola dei mezzi toscani, e una bottiglia di minerale.

Ci sono i figli, un pensiero che ritorna ogni mezz'ora: prima con la voglia di telefonare a casa per sentire come stanno, ma all'una di notte non è il caso. Poi con la voce roca che si anima e scatta una, due, tre, quattro fotografie: «A Roberto farò fare agraria, adesso vedo se riesco a comperare qualche campo. Mi ha sventrato un pezzo di giardino per farsi l'orto e il pollaio, la mattina lo sento che raccatta le foglie col rastrello, e cura le piante: è una passione vera». Abbassa gli occhi, la seconda foto è per il piccolo Sirio, «che lo mando in montagna con una guida e quello me lo porta sulla cresta, sugli strapiombi. Ma i figli devono crescere, mica rischiare di morire»; preoccupazioni di padre. La terza foto è per Renzo, «che ha dentro qualcosa per la politica, si è fatto da solo una sezione della Lega». E poi c'è il grande, il Riccardo frutto del primo matrimonio, quello che «si è preso un calcio in culo quando mi ha detto che lo volevano all'Isola dei famosi: ma vedi di finire 'sta benedetta università, va'». Non è un rimprovero, è una carezza a quel ragazzo che sembra ieri quand'era un bambino, e voleva sentire e risentire una favola mentre in auto lo portava a sciare.

Sì, ma la politica? Un lampo negli occhi: «La verità è che Berlusconi ci ha provato, con quel partito della Brambilla». Insomma, ha buttato lì il petardo per vedere quello che succedeva, e quando ha visto franare la montagna ha nascosto la mano. Ma chissenefrega, in fondo. Sono le due di notte, fuori piove e manca il caminetto di casa, quello costruito «con il marmo rosa del versante svizzero di una montagna che sul nostro lato dà invece una pietra grigia che va bene per le chiese». Il caminetto davanti al quale si siede la sera ad ascoltare i ragazzi che suonano il piano e la chitarra con Manuela, la seconda moglie e il primo pensiero perché «senza di lei non esisterebbe niente, la Lega, i figli, io stesso». È lei che non l'ha mollato un istante, quando il destino ha giocato il suo scherzo. È lei che ha preso in mano il pallino e l'ha strappato da Varese, «dove un medico insisteva a chiedermi "quando hai sentito il dolore al petto", e io invece con un soffio di voce cercavo di gridargli che non avevo un infarto, e che avevo i polmoni pieni d'acqua e bastava che mi desse un diuretico per salvarmi. Invece lui niente, insisteva per farmi la coronarografia che ha fatto scoppiare tutto. Avrei dovuto denunciarlo, ma a che servirebbe ormai...». La Manuela che lo ha schiaffato in clinica a Sion, mentre noi giornalisti lo cercavamo in mezzo mondo, e che ha trovato anche la forza di mettere in riga i colonnelli che non sapevano cosa fare: «"Adesso dovete dimostrare di saper stare uniti", gli ha detto. E loro hanno capito». Hanno aspettato che riaprisse gli occhi, «che il primario svizzero mi dicesse "Umberto, affacciati alla finestra che sei guarito". E sotto l'ospedale c'erano duecento ragazzi bergamaschi con le bandiere della Lega».

I medici, la coronarografia, gli ospedali, le rane vivisezionate nelle notti da studente di medicina all'ospedale di Pavia, «e mi costringevano a provare e riprovare che anche senza testa toccando un nervo saltavano, povere bestie»: i camici bianchi sono una costante che non l'ha mai abbandonato nemmeno dopo aver lasciato gli studi per andare a scrivere di notte sui piloni dei cavalcavia "Lombardia libera". Lui e Ronchi, povero Ronchi; portato via troppo presto come Castellazzi, «una brava persona che sono stato costretto a cacciare dalla Lega perché aveva fretta di trovare un accordo con Craxi quando invece eravamo appena nati»; portato via come Daniele Vimercati, il "Vim" primo giornalista compagno di nottate del Senatùr nascente. Gli occhi si abbassano, guardano indietro. Meglio pensare alle scritte sui muri, a Maroni che lo accompagnava in macchina e lo lasciava sul ciglio della strada per venire a riprenderlo a "lavoro finito": «E quella volta che nella nebbia vedo due fari, credo che sia Roberto e invece sono i carabinieri. Lui sbuca dall'altra parte e io mi tuffo nella sua auto rovesciandomi addosso tutta la colla usata per attaccare i manifesti: tappezzeria da buttare. Peccato che fosse la macchina di sua mamma, appena comprata, povera donna». Notti ruggenti, notti pericolose non solo per i carabinieri; notti di pugni con i compagni e i camerati per un manifesto elettorale in più, con Manuela che fingeva di non spaventarsi neanche quando rientrava nel cuore della notte con un naso grosso così, maglia e pantaloni e scarpe imbevute di sangue sgorgato grazie a un cazzotto dritto dritto di un energumeno comparso mentre attaccava l'annuncio di un comizio. «I carabinieri ci tenevano sotto pressione, si piazzavano perfino davanti alla scuola dove insegnava la Manuela e lei si vergognava ma taceva: una grande donna».

Ah, le donne. Ma dov'è il Bossi sanguigno, che non risparmiava battute e commenti salaci? Nessun accenno, neanche quando si butta là un nome a caso; chessò, Brambilla... Al massimo un'alzata di mano con un gesto che sembra scacciare una mosca. Parole dolci per le "sue" leghiste, per la Rosi Mauro e l'Alessandra Guerra, curioso di sapere che tipo fosse quest'ultima quando qualche anno fa o giù di lì era nostra compagna di liceo. Puntigliosa? «Come adesso». La politica si avvicina pericolosamente, parlando dell'euro che ha dimezzato il valore degli stipendi italiani. «Avremmo dovuto batterci di più per avere la banconota da un euro. Anzi, prima ancora avremmo dovuto fare una battaglia per adottare il Franco svizzero, altro che la moneta europea». E allora ecco la Puglia bellissima con le vacanze al mare di Ostuni, e la Calabria selvaggia ma irrecuperabile ai parametri del Nord. E le università alle quali iscrivere i figli, «quella dell'Insubria attira perfino gli svizzeri». E i figli, ancora i figli, sempre i figli. E la notte che segna le 4 e mezza, come ai bei tempi quando però i mezzi toscani coprivano discorsi politici; invece oggi una boccata e via, il resto finisce nel portacenere, a chiudere i pensieri di un uomo che una volta non dormiva per parlare di politica e oggi non dorme per parlare della vita. Gli scherzi del destino non ti modificano le abitudini ma ti cambiano dentro, eccome se ti cambiano.

Ario Gervasutti
 
 
da gazzettino.quinordest.it
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