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Autore Discussione: BONO. L'Africa sigla un patto tra business e ideali  (Letto 1940 volte)
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« inserito:: Aprile 24, 2010, 11:25:21 pm »

24/4/2010

L'Africa sigla un patto tra business e ideali

BONO

Ho passato marzo con una delegazione di attivisti, imprenditori e forzati della politica trasferendomi nell’Africa dell’Ovest, del Sud e dell’Est e facendo ogni sforzo per ascoltare, impresa sempre difficile per un irlandese chiacchierone. E, tappandomi la bocca, sono riuscito a raccogliere melodie interessanti un po’ ovunque, dal palazzo al marciapiede. Malgrado il rombo assordante dell’entusiasmo per l’Africa che quest’estate ospiterà la Coppa del mondo di calcio, siamo riusciti ad ascoltare qualcosa di sorprendente. Un accordo nato tra due parti che in passato spesso in Africa sono state dissonanti: la classe imprenditoriale emergente e gli attivisti della società civile. Non è un mistero quanto possano essere tesi i rapporti tra gli impegnati di sinistra e le élite degli affari. In tutto il mondo. La società civile di regola considera gli affari un po’ incivili. E gli uomini d’affari tendono a pensare che gli attivisti siano fin troppo attivi. Ma in Africa, almeno per quel che ho visto, le cose stanno cominciando a cambiare.

L’energia di queste forze contrapposte confluisce e satura gli uffici, i consigli d’amministrazione e le associazioni. Il motivo è che entrambi questi gruppi – il settore privato e la società civile – vedono nel cattivo governo il principale ostacolo sulla loro strada. Così, stanno lavorando per ridefinire le regole della partita africana. Gli imprenditori sanno che anche una buona relazione con una amministrazione scadente allontana gli investimenti stranieri; la società civile sa che un Paese ricco di risorse può ottenere qualcosa di più che qualche problema in meno se si contrasta la corruzione. Questa unione di forze è guidata da alcune splendide personalità, poche delle quali sono note in America. Permettete che vi presenti alcuni di questi catalizzatori: John Githongo, il più famoso tra quanti denunciano i mali del Kenya, ha dovuto lasciare il suo Paese un paio di volte in gran fretta; era stato ingaggiato dal governo per un’operazione trasparenza e aveva svolto troppo bene il suo lavoro.

Ora ha messo su un gruppo chiamato Inuka, che affianca i poveri urbanizzati ai capitani d’industria creando alleanze tra comunità interetniche per combattere la povertà e vigilare sui governi locali. E’ il leader che dà ai kenioti una speranza per il futuro. A tavola con Githongo e con me una notte a Nairobi c’era DJ Rowbow. La sua emittente, Ghetto Radio, è stata la voce della ragione durante le tensioni etniche esplose in Kenya nel 2008. Mentre c’era chi incoraggiava gli abitanti di Kibera, uno dei più grandi slum dell’Africa, ad andare all’attacco, questo uomo decodificava la disinformazione e si poneva come intermediatore e pacificatore. La radio trasmette Bob Marley e una specie di frizzante reggae locale in parte Clash, e in parte Marvin Gaye. L’unica bugia che ha detto in tutta la sera era che amava gli U2. Da parte mia, potevo giocarmi la carta di Jay-Z e Beyoncé. «Sono miei amici» gli spiegai, eh, ottimi amici.

Ora, detto da me può sembrare scontato, ma vi dico che il migliore esempio di queste nuove regole è un musicista senegalese. Youssou N’Dour — forse il miglior cantante del mondo — è proprietario di un giornale ed è impegnato in una complicata trattativa per comprarsi una tv. La sua forza, la sua visione sono folgoranti. Sta creando la colonna sonora del cambiamento e sa come usare la sua voce (ho provato giusto a immaginare come potrebbe essere se io fossi proprietario del New York Times e anche della Nbc. Magari, un giorno...) A Maputo, in Mozambico, ho incontrato Activa, un gruppo di donne che, tra le altre cose, aiuta gli imprenditori a trovare capitali. Qui pubblico e privato si fondono facilmente sotto la guida di Luisa Diogo, ex primo ministro che ora è la matriarca di questo affascinante scorcio di Est Africa. Nota per la sua acconciatura in stile Guerre stellari e per il suo genio politico, ha la stessa energia da leonessa di Ellen Johnson Sirleaf, Ngozi Okonjo-Iweala o Graça Machel. La vera star del viaggio è un uragano fatto uomo: Mo Ibrahim, un imprenditore sudanese che ha fatto fortuna con la telefonia mobile.

Ho fantasticato di essere il ragazzo prodigio per questo Batman, ma via via che il viaggio proseguiva, ho capito in fretta che potevo al massimo essere Alfred, il suo maggiordomo. Dovunque fossimo, vecchi e giovani sgomitavano per avvicinarsi alla rockstar dell’innovazione e alla sua figlia bellissima e spaventosamente intelligente, Hadeel, che guida la fondazione di Mo ed è suo padre sputata (con un vestito di Alexander McQueen). I discorsi di Mo sono da posti in piedi perché anche quando è seduto è il tipo di persona che sa trascinare e coinvolgere. Mo fuma la pipa e chiama tutti «ragazzi». Dice: «Sentite ragazzi se questi problemi nascono da noi avremo anche la soluzione»: o, rivolto a me: «Ragazzi, se non ci avete ancora fatto caso, non siete africani». E già. E anche: «Ragazzi, voi americani siete investitori pigri. Qui c’è un sacco da fare ma voi volete crogiolarvi nelle acque stagnanti Dow Jones o del Nasdaq».

Ho interrogato a lungo gli africani sull’attivismo internazionale. Dovremmo fare i bagagli e tornarcene a casa? ho chiesto. Qualcuno ha detto di sì. Ma molti di più hanno detto no. Perché la maggior parte degli africani che abbiamo incontrato sembravano avvertire l’esigenza di nuove alleanze, non solo tra governi ma anche tra cittadini, tra imprenditori, con gente come loro. Credo che la solita relazione fra donatore e bisognoso abbia fatto il suo tempo. Gli aiuti, è chiaro, fanno parte del quadro. E’ fondamentale se hai l’Aids e stai lottando per sopravvivere o se sei una madre che si chiede perché non puoi proteggere i suoi figli da assassini dai nomi impronunciabili, o se sei un agricoltore e sai che nuove varietà di semi significa avere prodotti che si possono vendere al mercato in tempi di siccità o di inondazioni. Un aiuto intelligente che non chiede di meglio che sparire nel giro di una o due generazioni. Relegare gli aiuti ai libri di storia è l’obiettivo.

Voglio vivere per vedere realizzarsi le profezie di Mo Ibrahim. «Sì ragazzi - ha detto - il Ghana ha bisogno di sostegno in questi prossimi anni ma in un futuro non troppo lontano potrà offrirne e lei, Mr Bono, potrà venire qui giusto in vacanza». Ho già prenotato il biglietto. Sono tornato a casa con la mia famiglia... appena in tempo, stavo cominciando a perdermi. Mi stavo acclimatando, eccitato dal pensiero di ferrovie e cementifici, di un diverso tipo di febbre da Coppa del mondo, di giocatori avversari che si uniscono in una sola squadra, con una nuova formazione e nuove tattiche. Chi è del nostro fan club lo sa, me ne sono andato strabiliato (al solito) dalla diversità del continente, ma con la profonda sensazione che il popolo africano stia riscrivendo le regole del gioco.

copyright 2009 Bono/ The New York Times (Distributed by The New York Times Syndicate)
Traduzione a cura di Carla Reschia

da lastampa.it
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