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Autore Discussione: MARIO BAUDINO  (Letto 3508 volte)
Admin
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« inserito:: Aprile 20, 2010, 09:36:42 am »

20/4/2010

L'apocalisse è rinviata
   
MARIO BAUDINO

Da oggi, a quanto sembra, si vola. E se il secondo vulcano islandese non scatenerà nei cieli una nuova tempesta di polveri, anche questa emergenza che sembrava dovesse durare mesi verrà superata.

L’Apocalisse si annuncia e non arriva mai, è sempre rinviata a data da stabilirsi, con grande delusione di alcuni e un po’ di cinico sollievo di altri. Gli aerei si alzeranno nel cielo come sempre; si sosterrà - come già si è cominciato a dire, da parte delle compagnie aeree - che gli enti per la sicurezza avevano esagerato la portata dell’allarme, e che il vero danno è stata semmai la prudenza eccessiva.

Se così sarà, il copione non avrà nulla di nuovo, si tratterà di una semplice replica di quanto è già accaduto nel recente passato; anzi per certi aspetti verrà perfezionato quello che ormai sta diventando il format delle nostre paure. E’ successo con l’influenza suina, a partire dall’aprile di un anno fa: i governi hanno fatto incetta di vaccini che per l’opinione pubblica non erano mai abbastanza, e che sono rimasti nei depositi perché il numero di vittime è risultato molto contenuto e la temuta pandemia non c’è stata. E’ successo poco prima con l’aviaria, annunciata come la peste del nuovo secolo, e anche in questo caso, salvo un drastico calo nel consumo del pollame, non è successo quasi nulla.

E’ successo con la «mucca pazza», che ha tagliato i consumi di bistecche e penalizzato seriamente la nostra fiorentina, ma anche in questo caso il panico è durato poco, per dar luogo all’impressione generalizzata che si fosse esagerato nelle precauzioni, magari in modo interessato. Cessato l’allarme, si cercano le lobby cui imputare loschi maneggi. O si va al cinema: il virus Ebola, che alligna in Africa ed è davvero micidiale, è stato oggetto di quattro film. E’ finito in due romanzi di Ken Follett e in uno di Tom Clancy, ha sedotto un terrorista giapponese come «arma letale», è stato un successone. Da noi non è ancora arrivato, ma non si sa mai.

Un tempo, quando le epidemie finivano - ma quelle erano vere epidemie, peste e colera che falcidiavano i popoli - si celebravano una congrua serie di Te Deum, si ringraziava il cielo e tutti erano molto più contenti. Oggi, dopo il grande timore e la diffusa sensazione di non essere protetti dalle istituzioni, si liquida la fine dell’emergenza con una valanga di critiche alle misure che prima non ci tranquillizzavano e ora ci appaiono eccessive, uno spreco, un danno all’economia o alla nostra tranquillità, forse un provocato allarme. Forse il nostro problema è che sappiamo curare tutto - o quasi - e quindi pensiamo di poter prevenire tutto; abbiamo la profonda convinzione che essere protetti con una copertura totale sia un nostro diritto.

Nello stesso tempo, nutriamo una irragionevole certezza che nessun vulcano - e tantomeno nessun pollo - possano rappresentare per noi un pericolo apprezzabile. Il risultato è che appena scatta l’allarme cadiamo preda del panico, pronti a decidere, subito dopo, che l’allarme era infondato. Che cosa ci ha deluso così profondamente? Da García Márquez in poi, si è imposto un aggettivo buono per tutti gli usi. Quando accade qualcosa di grave - e accade molto spesso - diventa un disastro «annunciato». Lo sapevamo, si poteva evitare, e molto spesso è persino vero. C’è però una sfumatura di soddisfazione se non di macabro trionfo nel volerlo sottolineare. Ma che succede quando qualcosa viene appunto «annunciato» e poi non si verifica? Incerti fra rivolta e oblio, guardiamo oltre, alla prossima Apocalisse. Quella futura, a venire, certissima. Quella che non ci deluderà.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Settembre 09, 2011, 05:23:46 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 25, 2011, 12:04:58 pm »

25/7/2011

Templari, mito da maneggiare con cura

MARIO BAUDINO

Una delle storie popolari più diffuse in Europa durante e dopo la Rivoluzione francese, degna di Alexandre Dumas, raccontava questo: quando Luigi XIV ebbe la testa mozzata dalla ghigliottina, tra la folla in delirio si fece avanti un vecchio dall’aspetto sciamannato che, bagnandosi col sangue del re, lanciò un grido terribile: «Giacomo di Molay, sei vendicato!». Può anche darsi che sia successo veramente. Perché da almeno un secolo le luci si erano riaccese su questo personaggio, arso nel 1314 per ordine di Filippo il Bello. Fu l’ultimo gran maestro dell’ordine dei Templari, i monaci guerrieri nati a partire dal 1120, un anno dopo la conquista di Gerusalemme, col compito di combattere i musulmani e proteggere i pellegrini.

Quando la rivoluzione uccise il re i Templari erano ormai usciti dall’oblio per entrare in una robusta leggenda; stavano diventando una favola in cui sette esoteriche, massoni, visionari d’ogni genere, artisti e negromanti mettevano un po’ di tutto, a piacere, immaginandoli depositari di un sapere segreto appreso in Palestina e sopravvissuto alla distruzione dell’ordine voluta per ragioni più che altro finanziarie dal Re di Francia. Qualcuno ha fatto loro scoprire l’America, prima di Colombo. E Breivik, il folle norvegese, non è certo il primo che si dedica a una strage «templare»; ci sono dei precedenti, come il caso di un Ordine del Tempio (solare, questa volta) che fra il ’94 e il ’95 in Svizzera e nel ’97 in Canada organizzò suicidi in massa.

Il «crociato» di Oslo guarda di preferenza agli aspetti storicamente accertati, se pure accontentandosi, nel suo manifesto, di Wikipedia. I Templari erano popolarissimi nell’Occidente cristiano. Nati come un piccolo gruppo associato ai canonici agostiniani incaricati di celebrare il culto nella moschea di al-Aqsa, divennero una grande potenza militare e, nel tempo, finanziaria, una specie di sacra multinazionale guerriera. La loro popolarità nell’Occidente cristiano nasceva dal fatto che si battevano con grande coraggio e rigida disciplina contro i musulmani, che la regola dell’ordine era stata scritta da San Bernardo di Chiaravalle, straordinario predicatore.

Alla lunga, dato il corso che prese la storia, perdevano sempre, e alla fine persero tutto (a causa di una sorta di Tangentopoli medioevale) ma questo aspetto, per i loro remoti seguaci del terzo millennio, è sicuramente irrilevante. E in ogni caso, sia nella tradizione esoterica (cominciata col «demologo» Cornelio Agrippa nel Cinquecento, fino al Codice da Vinci di Dan Brown) sia in quella più politica, finiscono per essere interpretati alla luce di un ideale ambiguamente «bianco» e occidentale, e altrettanto ambiguamente religioso. Umberto Eco nel Pendolo di Foucault ha lasciato una sentenza lapidaria: «Quando uno tira in ballo i templari è quasi sempre un matto». I templari sono perfetti per tutti gli usi: un contenitore da riempire di miti a piacere, anche i più folli. Poi, qualche volta, i miti uccidono.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9018
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 09, 2011, 05:21:48 pm »

Cultura

09/09/2011 - EVENTO

Una storia d'amore lunga 6000 anni In vetrina a Mantova

"Gli Amanti di Valdaro" due scheletri abbracciati da 6000 anni

Gli "Amanti di Valdaro" eccezionalmente al Museo Archeologico fino a domenica

MARIO BAUDINO
MANTOVA

Abbracciati teneramente, le gambe raccolte e incrociate l’uno con l’altra, le braccia di lui sul collo di lei, quelle di lei sulle spalle di lui, uniti da oltre 6000 anni in una pace d’abbandono che forse è stata amore. Sono gli «amanti di Valdaro», due scheletri risalenti al Neolitico ritrovati vicino a Mantova in una necropoli scoperta nel 2007. Finora nessuno aveva potuto gettare uno sguardo su quelle ossa innamorate, se non in fotografia. Da ieri sono forse la cosa pù bella del Festivaletteratura, pur senza essere Festival. Un’associazione nata tutta per loro che si è battezzata «Amanti a Mantova» è riuscita e esporli per qualche giorno nell’ingresso del Museo Archeologico, ancora in fase di ristrutturazione.

Oggi il progetto verrà illustrato in una conferenza stampa: l’obbiettivo è che i due possano avere, come avrebbe detto Virginia Woolf, una stanza tutta per sé, e magari anche un adeguato arredamento tecnologico per illustrarne la vicenda. Che è straordinaria, come un romanzo di cui possediamo alcuni capitoli, una narrazione al tempo stesso frammentaria e appassionante, una storia eterna. I due scheletri sono stati ovviamente studiati a lungo. Ora sappiamo che sono appartenuti a due giovani, un uomo e una donna, fra i 18 e i 20 anni. A sinistra il maschio, a destra la femmina, vissuti intorno a 6000 anni fa.

Rappresentano qualcosa di unico al mondo, sia per l’antichità sia per la posizione in cui sono stati trovati. E recano con sé una componente di mistero, perché sul significato del loro abbraccio mortale ed eterno (o quasi, dipende dai punti di vista e dal futuro dei musei) non si possono che formulare ipotesi. In un primo tempo, dato che erano state trovate accanto alcune punte di silice, si era pensato che potessero essere stati uccisi. Immaginare un compagno geloso, un capo-clan irascibile, una seduzione finita molto male non è poi così strano, visto che Mantova è la città del Rigoletto, e la casa dove Verdi concepì la sua (immaginaria) vicenda è a due passi dal museo, basta attraversare la piazza. Le prime analisi, però, stabilirono che non c’erano fratture e neppure microtraumi, dunque l’omicidio era da escludere.

Restava la malattia, forse il freddo: che i due ragazzi si fossero stretti per scaldarsi a vicenda in una gelida nottata neolitica? E’ possibile, ci dice la professoressa Silvia Bagnoli, animatrice e presidente del Comitato; però il luogo del ritrovamento, una necropoli, rende la cosa improbabile, o eccessivamente romanzesca. Sembrerebbe molto più verosimile pensare che i due corpi siano stati composti in quella posizione da mani pietose, che forse volevano lanciare un messaggio, magari non a noi posteri curiosi, ma certamente agli spiriti dell’aldilà, chiudere in un tenero abbraccio quello che era stato un amore (coniugale, probabilmente: è verisimile che a quel tempo ci si «sposasse» assai presto), consegnarlo tale e quale, incorrotto, al lungo viaggio della morte.

Queste cose le abbiamo lette nei feuilleton di Jean M. Auel, fra pitture rupestri e idilli nella caverne, sapiens-sapiens e neanderthaliani che si guardano in cagnesco, deliziose - per l’epoca - fanciulle in fiore: ma a vederle di persona e quasi toccarle l’impatto è ovviamente incommensurabile. La terra della zona ha conservato perfettamente le ossa, tanto che per non danneggiarle al momento dello scavo è stato sollevato e riposto in un adeguato contenitore l’intero blocco da cui affioravano, una zolla da due metri cubi che resta anche adesso il loro letto. I due amanti non hanno mai cambiato posizione, si stringono immutabili in un gesto che è nello stesso tempo affettuoso e sensuale, un gesto d’amore. Ora, dopo un’ultima notte che si perde nella vertigine dei millenni, avrebbero diritto forse a una prima notte al museo.

Non serve moltissimo, aggiunge la professoressa Bagnoli: 250 mila euro per una stanza dotata di un provvisorio accesso dall’esterno, e altri 200 mila per farla diventare una camera multimediale. Il prezzo di un appartamento in centro. Hanno sì 6000 anni, ma restano giovani e di poche pretese. E con un po’ di buona volontà, si potrebbe forse trovare posto anche per un loro antenato, non proprio il nonno visto che risale a 6500 anni fa, ma insomma un lontano trisavolo, il cui scheletro è stato ritrovato nella stessa necropoli. E’ un cacciatore, sepolto col cane e le armi. Non è mai uscito dalla cassa in cui è rinchiuso: esiste l’immagine, beninteso, ma salvo gli studiosi nessuno ha potuto ancora vederlo di persona. Per ora il cacciatore non riceve. Eppure anche lui ha una storia da raccontare, altrettanto straordinaria anche se forse un po’ meno appassionante; chi mai, del resto potrebbe rivaleggiare con un amore paleolitico stroncato a diciott’anni?

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/419418/
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 29, 2011, 05:29:01 pm »

Cultura

29/09/2011 - INTERVISTA

Adonis: "Nel mondo arabo non basta cambiare i regimi"

Adonis, 81 anni, da tempo vive a Parigi

Parla il grande poeta siriano, tra i favoriti per il Nobel "Bisogna cambiare i loro fondamenti, religiosi e culturali"

MARIO BAUDINO

Ali Ahmad Sai id Esber guarda alle primavere arabe con grande interesse ma senza dimenticare i problemi. «Cambiare il potere non è sufficiente, bisogna cambiare i fondamenti di questi regimi, che sono religiosi e culturali». E la strada è ancora lunga, aggiunge. È un grande poeta, rispettato come una bandiera culturale in tutto il mondo arabo, anche se inviso agli ultrareligiosi. Il suo nome anagrafico non dice molto; anzi, non dice nulla, tanto che a volte si fa fatica a rintracciarlo negli alberghi. Per tutti è Adonis, ciò che ha scelto di essere quando ha deciso di rivolgersi alla mitologia greca per firmare i suoi scritti. 81 anni, nato in un villaggio siriano, è cresciuto a Damasco, ha lavorato in Libano e da tempo vive a Parigi. Dopo un lungo esilio ora può tornare non solo nel suo Paese ma in tutto il mondo arabo, cui non ha mai lesinato critiche anche piuttosto aspre. A un passo dal Nobel (è di questi giorni la notizia che ancora una volta la sua candidatura viene considerata la più forte, almeno dai bookmaker inglesi), in Italia è stato scoperto da un altro poeta, Giuseppe Conte, e pubblicato da Guanda ( Memoria del vento , La preghiera e la spada , Cento poesie d’amore ), ma anche, soprattutto per la saggistica, da moltissimi altri editori. Oggi e domani è a Bari, nel quadro del festival «Frontiere».

Adonis, la sua poesia affonda le radici nel Mediterraneo pre-monoteista. Lei una volta mi ha detto che è necessaria una critica radicale al monoteismo perché è da lì che nascono le dittature. Come giudica un poeta l’ansia di libertà che sembra pervadere il mondo arabo?
«Gli arabi, come è noto, sono legati alla poesia più di quanto non lo sia il pubblico occidentale. Rappresenta la nostra tradizione per eccellenza, anche perché la nostra cultura è soprattutto orale, proprio come lo è nel suo fondo e nelle sue origini la poesia. Detto questo, non mi considero un poeta “impegnato” ideologicamente. Lo sono nel campo della responsabilità umana, e cioè per quanto riguarda l’uomo, la sua libertà, la sua apertura al mondo. Ho il massimo rispetto della religiosità: non sono certo contro la fede degli uomini. La mia critica non è sul piano della fede, ma su quello filosofico».

Che cosa vede negli accadimenti del 2011, da Tunisi a Damasco?
«Ci sono, al di là dei risultati, aspetti davvero interessanti. La gente non ha più paura, e le nostre società, il nostro mondo hanno esattamente bisogno di questo. Sta succedendo qualcosa di nuovo e atipico, anche se permane il timore di un certo ritorno del fondamentalismo. Lei sa che io sono radicalmente contro, sotto questo aspetto».

Una primavera ambigua?
«Diciamo che restano preoccupazioni. Per esempio: non si parla di libertà delle donne. Non si parla di politica culturale, e tantomeno di laicità. Ma in tutto questo la poesia non ha un ruolo diretto. Può spingere la gente a capire meglio. Non cambia le cose, ma interviene sul rapporto tra le parole e le cose, ne istituisce ogni volta uno nuovo. E il lettore può trovare in essa lo stimolo per cambiare anche lui».

Lei una volta ha definito la poesia «un fiume che scava il proprio letto». Il suo traduttore tedesco l’ha accusata di «scetticismo accomodante» quando, a fine agosto, le è stato conferito in Germania il prestigioso Goethe Preis.
«Il mio traduttore tedesco non ha capito nulla. Ho scritto moltissimi articoli contro il regime siriano, anche se trascorro in Libano parte dell’anno. E non mi sono certo pronunciato da solo: in Libano, nonostante tutto, sono in tanti a criticare apertamente la Siria».

C’è chi ha invocato un intervento «umanitario» in Siria, sul modello di quello in Libia.
«Sarebbe un errore spaventoso. L’Occidente difende i suoi interessi, come ha fatto in Iraq e ora in Libia. Se vogliamo parlare di diritti dell’uomo, allora, perché non cominciamo a difendere i palestinesi? L’intervento armato è un’ipocrisia occidentale. Il mondo arabo deve cambiare, e deve farlo senza aiuti interessati».

Parlerà di questo, stasera a Bari?
«Preferirei ascoltare la lettura delle mie poesie, e poi stare a sentire la gente, e discutere, se avranno qualcosa da chiedermi».

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/422554/
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