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Autore Discussione: Addio Bruno Trentin...  (Letto 6140 volte)
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« inserito:: Agosto 24, 2007, 06:19:59 pm »

«Addio Bruno». Lunedì i funerali di Trentin

Bruno Ugolini


È piombata all’improvviso la notizia della scomparsa di Bruno Trentin. Ha scosso gli animi dei molti che lo hanno conosciuto, ascoltato, amato. Per le sue idee, per la sua passione, per il suo rigore, per il suo stile di vita.

Il cronista che qui scrive lo ha seguito per anni, fin da quando era prestigioso dirigente dei metalmeccanici. Quel che ha imparato lo ha imparato da lui. Anche nel saper affrontare, come in queste ore, momenti di acuto dolore.

Già in questi mesi di sofferenza, dopo la caduta dello scorso anno, si è sentita la sua mancanza. Alludo all’assenza amara di una voce che sapeva guardare con lucidità e con speranza le vicende di un mondo, di un Paese, di una politica che a stento cerca il filo di un futuro incerto.

Autonomia, lavoro, libertà. Sono le tre parole care a Bruno Trentin. E tornano in mente ora, mentre tento di ripensare, così come l’ho conosciuta, la vita di un dirigente sindacale, di un dirigente politico, di un leader della sinistra italiana ed europea. A molti poteva apparire, di primo acchito, come un aristocratico, un raffinato intellettuale, chiuso nella sua torre d’avorio. Ma era lo stesso uomo che nell’autunno caldo affrontava tempestose assemblee operaie, a volte rischiava di buscare i bulloni in testa.

Aveva il gusto del confronto, aspro, non solo con gli avversari politici, con le controparti imprenditoriali o con dirigenti di partito. Sapeva affrontare anche masse di lavoratori agitati da ribellismi corporativi. Perché non li considerava plebaglia pezzente, capace solo di invocare le grazie di un boss o di un moderno principe o di protestare al vento. Considerava i «salariati» come dei protagonisti, dei «produttori». Così li aveva chiamati nel titolo di un bel libro: Da sfruttati a produttori. Era il senso di una battaglia fatta di unità, di lotte e di conquiste ma soprattutto intrisa di un concetto a lui molto caro: «autonomia». È la sua prima parola. Autonomia per il sindacato, per la Cgil, per i lavoratori, autonomia per «sé».

Non era facile riassorbire Trentin in qualche parrocchia grande o piccola. I suoi amici politici sono stati, certo, Norberto Bobbio, Riccardo Lombardi, Vittorio Foa, Pietro Ingrao e molti altri Ma non è stato mai semplice incasellarlo in una precisa corrente. Meglio ripescare le parole lontane di uno stimato giornalista, Giorgio Bocca. Nel 1975 scriveva su Il Giorno: «Quando parla uno come Trentin non ha senso chiedersi se appartenga alla destra o alla sinistra del partito comunista, perché quando parla uno come lui si capisce che il duro ripensamento critico e la ricerca creativa appartengono a tutti coloro che vogliono uscire dai luoghi comuni, dalle pigrizie».

È abituato fin da piccolo alle difficoltà, alle «scalate». Forse per questo ha continuato ad amare tanto la montagna, le rocce da dominare. Nasce in Francia a Pavie, vicino a Tolosa, nella regione della Guascogna, il 18 dicembre del 1926. Il padre Silvio Trentin, professore di diritto amministrativo a Ca’ Foscari, Venezia, non ha voluto giurare fedeltà al fascismo. È emigrato, prima facendo il contadino, poi il tipografo ad Auch, poi il libraio a Tolosa. Fonda un movimento di sinistra: «Libertà e federalità». E così operando incontra altri esuli come Lusso, Carlo Rosselli, Cianca, Amendola, Nenni, Saragat. Il figlio Bruno cresce in tale clima. Frequenta il liceo di Tolosa.

È un quindicenne dalle idee anarchiche che assiste all’invasione dei tedeschi, organizza con altri un «gruppo insurrezionale», finisce in carcere. Riesce ad uscire e va a fare il contadino per qualche mese in un campo di rifugiati spagnoli. L’8 settembre del 1943 padre e figlio decidono di rientrare in Italia ma sono arrestati. Silvio, sofferente al cuore, morirà il 12 marzo del 1944, a 59 anni, in una clinica di Padova.

Bruno, comandante di una brigata partigiana delle formazioni di Giustizia e Libertà conosce Riccardo Lombardi. Siamo nel 1946 ed entra nel Partito D’Azione. Si laurea così in giurisprudenza all’Università di Padova con Norberto Bobbio e vince una borsa di studio ad Harward per qualche mese. Ed ecco l’incontro decisivo con la Cgil e con Giuseppe Di Vittorio. Sta nell’ufficio studi, accanto a Vittorio Foa e decide d’scriversi al Partito comunista. Nel 1958 è vicesegretario della Cgil e nel 1962 va a dirigere la Fiom, il sindacato dei metalmeccanici. Un’esperienza prolungatasi per 15 anni, fino al 1977, e che trasforma la sua biografia. Trentin, con Piero Boni, con Pierre Carniti, con Giorgio Benvenuto, con molti altri, costruisce un’esperienza inedita di unità sindacale, di democrazia operaia.

Sono gli anni sessanta, quelli dell’autunno caldo. Ma anche in queste circostanze Trentin mette in campo una «filosofia» che lo accompagnerà nel corso degli anni sindacali. Quella contro la «faciloneria», contro quei dirigenti sindacali che amano sommare tutte le «esigenze», senza scegliere. È la polemica nei confronti di un sindacalismo modello Cgt, fatto più di propaganda che di risultati.

Così è contrario - ma resta in minoranza - agli aumenti eguali per tutti, battendosi per il cosiddetto salario di qualifica. Perché la qualifica, la professionalità, è frutto di sacrifici, di studi di impegno «da far pagare al padrone». Sono tempi non facili, di scontri anche nel Pci e negli stessi organismi dirigenti della Fiom, ad esempio quando occorre battersi per i nuovi organismi di base, al posto delle vecchie commissioni interne. C’è negli interventi di Trentin un’ossessione continua, la determinazione a puntare più sugli assetti di potere nella fabbrica e nella società che alla redistribuzione del reddito. È il braccio di ferro instaurato a Mirafiori, proprio nell’autunno caldo, tra il sindacato che vuole i delegati e «Lotta Continua» che invoca cento lire all’ora d’aumento salariale e disprezza gli «accordi-bidone».

Dopo l’esperienza tra i metalmeccanici Trentin approda alla segreteria della Cgil e, nel 1988, assume la carica di segretario generale. Sono gli anni della concertazione, allorché, nel 1992 (governo Amato) firma un accordo che cancella la scala mobile senza contropartite e poi si dimette. Ha agito per senso di responsabilità, di fronte al tracollo economico ma denuncia il condizionamento del «male oscuro» che percorre le correnti politiche della Cgil (in seguito superate).

Un anno dopo contribuisce a costruire un’intesa (governo Ciampi) con un nuovo sistema contrattuale come alternativa alla scala mobile. È lui, da segretario generale della Cgil, a promuovere quella che diventa la nuova organizzazione degli atipici, il Nidil. E sempre in quel ruolo consegna al suo sindacato, attraverso una lunga discussione collettiva, una piattaforma per il futuro, un «programma fondamentale» imperniato sui diritti e sulla solidarietà.

Abbiamo citato la parola autonomia. Bisogna citarne un’altra: lavoro. E qui arriviamo ai suoi ultimi impegni, durante l’esperienza di euro parlamentare per i Ds e a capo dell’ufficio programma del partito guidato da Piero Fassino. Trentin non può ipotizzare una sinistra staccata dai temi del lavoro. L’obiettivo sta nel cambiare il lavoro nei suoi aspetti di fatica e di stress, ma anche nel rapporto con le gerarchie proprietarie, senza chiudersi in una nostalgica difesa del fordismo. Il perno centrale sta nel «sapere», nella conoscenza, da conquistare giorno per giorno.

Anche per queste ragioni confessa, nella sua ultima intervista, a proposito del futuro partito democratico, che vorrebbe morire socialista. Perché tutto si può buttare, dopo il crollo del cosiddetto socialismo reale, ma non la possibilità di rendere gli uomini e le donne che lavorano non oggetti inanimati, bensì dei protagonisti. È un po’ il senso delle sue parole durante un incontro con un gruppo di studenti che qui mi piace rammentare. E così arriviamo alla terza parola: «libertà», la libertà di vivere una vita degna di essere vissuta. Sono il modo migliore per ricordarlo: «Mi chiamo Bruno Trentin, ho 71 anni. Ho passato tutta una vita nel lavoro sindacale. Probabilmente questa scelta l’ho fatta perché ho scoperto, anche quand’ero molto giovane, nella classe lavoratrice, una straordinaria voglia di conoscenza e di libertà, proprio in quei lavoratori che non avevano avuto la fortuna di un’educazione, di partecipare ad un’esperienza di studi. Proprio lì ho trovato un bisogno straordinario, molto più grande di quello di avere un alto salario, ecco, di diventare persone libere, di esprimersi attraverso il proprio lavoro liberamente, di conoscere. E questo spiega anche la grande fierezza, che risorge continuamente nel mondo del lavoro, in tutti i continenti, in tutti i paesi. Questa è la cosa che mi ha profondamente affascinato e che mi ha dato la voglia di mettermi proprio al servizio di questa causa».

Uomini come Bruno Trentin, sono nati e vissuti per questi ideali. Qualcuno oggi sostiene che sono ideali morti e sepolti. Perché tutto è cambiato e quell’antico, orgoglioso mondo del lavoro non esisterebbe più. Come se nelle nuove forme lavorative, quelle che impegnano milioni di giovani e meno giovani, non rinascesse una spinta proprio alla riconquista di spazi di libertà e autonomia. È la lezione che nasce dagli ultimi scritti di Trentin, nella sua tenace e troppo spesso ignorata scrittura di un programma per la sinistra. Dove non ci si rifugia nella nostalgia del passato ma si delinea una strategia innovativa basata su nuovi obiettivi. A cominciare da quelli che parlano di conoscenza, di formazione, le armi moderne per rendere davvero ancora una volta liberi milioni di donne e uomini che trascorrono gran parte della propria vita, anche dopo il duemila, lavorando. E connotando così profondamente le proprie esistenze.

brunougolini@mclink.it

Pubblicato il: 24.08.07
Modificato il: 24.08.07 alle ore 15.15   
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« Ultima modifica: Agosto 29, 2007, 05:50:25 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 24, 2007, 06:35:59 pm »

Dalla parte dei lavoratori

Guglielmo Epifani


Bruno Trentin è stato un innovatore permanente, è stato un uomo che ha segnato molto anche la storia recente del sindacato. La Cgil di oggi affonda una parte delle sue radici nei cambiamenti dei primi anni Novanta, un periodo che segna la sua identità moderna, e Bruno Trentin è stato in questo un protagonista.

Ho avuto con lui i contatti più stretti quando divenne segretario generale ed io, con Sergio Cofferati e Alfiero Grandi, entrai in segreteria. Trentin non avrebbe voluto quell’incarico, il periodo era difficile, ma dopo Pizzinato era lui il sindacalista di maggior prestigio. Accettò per senso di responsabilità.

La sua lezione, la sua eredità sta soprattutto nell’aver rifondato l’identità della Cgil, di averla basata sul programma, non più sull’appartenenza per logiche di partito. Il congresso del 1991 segnò una trasformazione in parte epocale, non più una Cgil retta da un patto tra forze politiche, ma da un’identità programmatica. E con regole di democrazia formali e sostanziali che hanno consentito all’organizzazione di passare indenne attraverso tutte le trasformazioni politiche, partitiche e istituzionali dell’ultimo ventennio. Un contributo molto alto, a mio avviso.

E poi l’identità della Cgil come sindacato dei diritti, collettivi e individuali, un messaggio culturale di grandissima modernità perché si superò il diritto specifico dell’appartenenza al lavoro, per considerare il diritto di cittadinanza. Fu una grande svolta culturale.

Infine i due accordi del 1992-1993 molto complessi, soprattutto il primo. Bruno Trentin lo firmò e si dimise perché non aveva ottemperato il mandato. Fu una fase molto drammatica della vita della Cgil, quella in cui Trentin fu più colpito. Ricordo il suo viaggio in Corsica, con le dimissioni, il travaglio di una scissione tra il mandato avuto e il senso di responsabilità: fece prevalere il senso di responsabilità. Di recente, quando trattando sulle pensioni Romano Prodi ha detto «o firma la Cgil o mi dimetto», ho pensato molto a Bruno Trentin, a quello che ha vissuto. Quando tornò dalla Corsica, ci fu un consiglio generale, era settembre, fu una riunione molto tesa, lo convincemmo a ritirare le dimissioni. Ero responsabile dell’organizzazione, poi fui il segretario aggiunto, quelle sue lacerazioni l’ho vissute da vicino.

Quello che non gli andò giù dell’accordo del ‘92 non fu il fatto che dovette accettarlo: lui voleva che si sospendessero gli effetti della contrattazione aziendale, non una moratoria di quella contrattazione. Trentin voleva salvare il principio secondo cui si poteva negoziare anche in quella fase drammatica. Poi gli effetti economici della contrattazione potevano slittare nel tempo. Questo passaggio chiave, fondato, rigoroso, non gli fu reso possibile. Ciò malgrado, lui firmò. Fece prevalere il senso di responsabilità su cui il presidente del Consiglio di allora, Giuliano Amato, lo aveva nei fatti sfidato.

Con l’accordo del 1993, invece, Bruno Trentin ridisegnò la politica dei redditi, della concertazione, della politica contrattuale: quel modello ha segnato, anche questo, l’ultimo ventennio della storia delle relazioni industriali. Lui, teorico dell’autonomia dei consigli dei delegati, capisce il valore della formalizzazione delle regole contrattuali e della politica di confronto. Il ‘93 rappresenta il culmine di questa stagione.

Non c’è dubbio che la sua storia, il suo lavoro, abbiamo lasciato un’impronta profonda nella storia recente della Cgil, non solo in quella “antica”, cioè quella degli anni Cinquanta quando lavorava all’Ufficio studi, oppure dell’Autunno caldo che lo vide alla guida dei metalmeccanici della Fiom: protagonista indiscusso sia dell’idea dell’unità dal basso del movimento sindacale, sia del rapporto tra operai e studenti, un rapporto sempre fortissimo. Bruno aveva un’attenzione speciale per i temi della cultura, della formazione.

Poi ho ricordi del suo essere. Il suo amore per il rigore, quasi calvinista nell’intransigenza, l’attaccamento al merito sopra ogni cosa. Molto determinato quando impostava le battaglie che riteneva fondamentali. Chiuso, apparentemente scontroso, freddo, glaciale, era però capace di grande ironia oltre che di grandi tormenti. E di sorridere sulle vicende del mondo, del sindacato, della politica.

Anche quando ha lasciato la Cgil, ha continuato a seguirne le vicende, con rispetto, ma seguiva tutto. Un attaccamento davvero forte. Infine ricordo anche le sue ultime riflessioni sul Partito Democratico, ne capiva l’importanza ma temeva le modalità di costruzione del processo.

Poi quest’anno di silenzio.

I funerali spero si facciano, come è giusto, nella sede della Cgil. Mi piacerebbe molto che la nostra scuola di Ariccia portasse il suo nome.

Pubblicato il: 24.08.07
Modificato il: 24.08.07 alle ore 11.12   
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 25, 2007, 05:09:50 pm »

Damiano: «Bruno che sapeva parlare agli operai»
Felicia Masocco


«Non è vero che Bruno Trentin fosse un intellettuale aristocratico distaccato dai lavoratori. Al contrario. Lo ricordo all’assemblea del primo turno alle Carrozzerie di Mirafiori per il contratto dei metalmeccanici del ’73, un terreno difficile, migliaia di lavoratori che seppe convincere con il ragionamento, non con la demagogia».Cesare Damiano ricorda il leader sindacale scomparso, «un maestro per tutti noi».

Nel suo ufficio di ministro ha portato solo due foto, una la ritrae con Bruno Trentin.
«Si, sono foto che mi seguono nei vari traslochi. Un’immagine di un corteo di Mirafiori, del 1975; l’altra mi ritrae con Bruno Trentin. Era il 1991, Bruno era venuto per la celebrazione del centenario della Camera del lavoro di Torino. Sono immagini che mi riportano a una situazione che vivo sempre con commozione, e mi riportano a Bruno Trentin, come persona, come dirigente sindacale di altissimo profilo, un maestro per tutti noi».

Qual è stata la sua lezione?
«Negli anni 70 si sono fatte le più importanti conquiste contrattuali, Trentin era alla guida della Fiom. Sono anni di forte innovazione, dell’inquadramento contrattuale, delle 150 ore, dei diritti di informazione sull’impresa che dovevano far diventare i lavoratori -come scrisse in un famoso libro- "Da sfruttati a produttori", cioè consapevoli del proprio ruolo. Trentin fu un grande innovatore».

Che cosa è rimasto del suo tratto nel movimento sindacale di oggi?
«Moltissimo. Si pensi solo al passaggio della Cgil - che avvenne con Trentin segretario generale - da un sindacato ancorato alla vecchia logica dell’appartenenza partitica, al sindacato di programma, dei diritti. Il sindacato che coglie la trasformazione e guarda avanti in una fase molto difficile, in cui si trova a un bivio: confermare la sua vocazione confederale, o correre il rischio di regredire nel corporativismo. Credo che la più importante lezione di Trentin stia in questo, e nell’idea di governare il cambiamento invece che reagire con logiche propagandistiche».

Trentin viene descritto come un intellettuale, non si è visto in lui un trascinatore di masse. È d’accordo?
«No. Era indubbiamente un intellettuale. Ma l’ho conosciuto quando ero un giovane funzionario della Fiom, lui venne a Mirafiori per il contratto del 1973. Ricordo l’assemblea del primo turno alle Carrozzerie, quella più difficile, in grado di dare il via all’approvazione del contratto o alla sua bocciatura. Erano assemblee in cui bisognava confrontarsi con migliaia e migliaia di lavoratori che avevano espresso una forte partecipazione e si aspettavano un risultato. Trentin sapeva convincerli con il ragionamento, non con la demagogia. Quell’assemblea approvò l’accordo quasi all’unanimità».

Come visse invece l’esperienza del 1980?
«Ai cancelli della Fiat cercò con grande forza e coraggio di convincere i delegati, le cosiddette avanguardie, ad abbandonare la lotta ad oltranza e mantenere la lotta articolata: come si diceva allora “lavorare un’ora per il pane e un’ora per il latte”, per poter durare di più e portare a casa un risultato. Purtroppo prevalse un altro orientamento. Trentin non era una sorta di aristocratico isolato dai lavoratori. Al contrario, andava al contatto, era un uomo che andava controcorrente quando era convinto delle sue opinioni».

Fu protagonista dei due primi accordi di concertazione: firmò e si dimise, poi firmò ancora. Era o no fautore di quel metodo che allora era al debutto?
«Assolutamente un fautore ma visse, come noi vivemmo, l’accordo del ‘92 come un risultato che avrebbe impedito la contrattazione di secondo livello che giustamente Trentin difendeva. Nel ‘93, l’accordo con Ciampi ripristinò il diritto alla contrattazione e segnò una nuova stagione sindacale, un modello che dura tutt’ora».

L’ultima applicazione lo scorso 23 luglio. Lei questa volta lo ha vissuto da un altro punto d’osservazione. Le riserve della Cgil non mancano eppure ha firmato. Secondo lei Trentin avrebbe approvato il protocollo?
«Immagino di sì, anche se il rispetto per chi non c’è più impone di evitare interpretazioni di sorta. In ogni caso, questo protocollo è profondamente diverso da quello del ‘93: quello era il tempo del risanamento del debito, dell’ingresso in Europa, della guerra all’inflazione. Il protocollo di oggi è esclusivamente redistributivo, senza scambi, con l’obiettivo di salvaguardare la parte più debole del paese».

Pubblicato il: 25.08.07
Modificato il: 25.08.07 alle ore 15.15   
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 25, 2007, 05:30:20 pm »

Quel suo Sì che salvò il Paese e il sindacato
Sergio Cofferati


Per i sindacalisti della mia generazione Bruno Trentin è stato un costante punto di riferimento, da quando era segretario generale della Fiom nella stagione dei consigli, da lui fortemente voluta, fino a quando accettò di di dirigere la Cgil in un momento di grande difficoltà per l’organizzazione. Fu un punto di riferimento anche per chi veniva da esperienze e da categorie diverse dalla sua.

Quando diventai segretario generale dei chimici Bruno era già da tempo passato alla segreteria confederale. Nella cultura sindacale dell’industria di quegli anni l’esperienza dei metalmeccanici era davvero lontana da quella dei chimici. Tuttavia il rispetto che la mia categoria, tradizionalmente moderata, nutriva nei confronti di Bruno era rilevantissimo.

A lui e alla sua cultura il sindacato deve alcune delle innovazioni più importanti degli ultimi decenni: a partire da certi strumenti di regolazione contrattuale di un mercato del lavoro che andava cambiando, da lui promossi già negli anni 70, per arrivare ai nuovi modelli di relazione fra le parti sociali.

Il momento più alto di questa opera di innovazione fu il protocollo sulla politica dei redditi del 23 luglio '93, firmato col governo Ciampi, che per la parte relativa alla struttura e alle regole contrattuali è ancor oggi efficiente e operativo.

Il contributo che Bruno Trentin, con la sua specifica autonomia e capacità operativa, ha dato al risanamento economico del Paese negli anni 90, è stato straordinario. È importante ricordarlo, per il complesso e doloroso percorso che lo contrassegnò. Non a caso il '92, e in particolare l’estate-autunno di quell’anno, è ricordato come uno dei periodi più drammatici della storia recente della nostra economia. Allora la moneta italiana venne svalutata del 30% e la Banca d’Italia fu costretta a bruciare ingentissime risorse a difesa della lira. L’azione del governo e della Banca d’Italia fu accompagnata da una difficilissima e sofferta intesa sindacale. Il 31 luglio governo, imprese e sindacati firmarono un accordo che non solo sanciva il superamento irreversibile della scala mobile ma anche congelava per un tempo determinato una parte della libera contrattazione fra imprese e sindacati.

Fu un difficile e duro accordo sull’emergenza, che mise a repentaglio la tenuta dello stesso governo. Bruno lo firmò per senso di responsabilità. Non aveva un mandato della maggioranza della sua organizzazione. Firmò e dopo un’ora si dimise. La decisione venne presa durante una tesissima riunione tra lui e i segretari confederali che lo accompagnavano al negoziato.

Quella firma consentì all’economia italiana di creare le condizioni per una tenuta adeguata di fronte all’emergenza. E le successive dimissioni furono un gesto di esemplare rigore verso il sindacato.

Non fu facile, nell’autunno successivo, convincere Bruno a ritirare le dimissioni. Ma nulla fu facile, allora: ricordo le contestazioni dei sindacalisti durante lo sciopero di settembre. Il primo bersaglio fu proprio lui, a Firenze. Bruno rispose, come sempre, difendendo le ragioni dell’unità sindacale.

Nello stesso autunno riprese la trattativa col governo per definire il protocollo sulla politica dei redditi. Una parte venne conclusa col governo Amato. Poi, col governo Ciampi, la trattativa si completò con la parte più impegnativa, che portò a individuare regole e comportamenti necessari a un’equa ripartizione dei redditi, sia attraverso la politica governativa, sia attraverso la contrattazione sindacale.

Se l’Italia è riuscita a entrare nel gruppo di testa europeo e a rispettare i parametri di Maastricht, è in larga parte merito di quell’intesa e del clima di rispetto fra le parti che si creò allora.Bruno Trentin è sempre stato un europeista convinto. Il contributo da lui dato, con gli accordi del ‘92-93, alla collocazione europea del suo Paese è stato forse il naturale e rilevante approdo di un’idea e di una storia.

Ma c’è un altro aspetto, fra i tanti della cultura di Bruno, che mi piace ricordare: la sua capacità di ascoltare, di tenere conto delle opinioni degli altri, senza mai rinunciare alla sua. Quando mi volle in segreteria, notai che la stessa segretaria era molto ampia, non solo per numero (15 persone), ma anche per l’orizzonte di opinioni diverse che esprimeva: da Ottaviano Del Turco, aggiunto di Trentin, a Guglielmo Epifani, per arrivare ai segretari più radicali, come Paolo Lucchesi e Fausto Bertinotti.

Lui era in grado non solo di rispettare le tante sensibilità diverse della Cgil, anche di farsi carico di volta in volta delle problematiche più difficili che ognuna di quelle sensibilità rappresentava. Il suo era davvero un esercizio di leadership non limitativa delle opinioni altrui, ma sempre volta a trovare una sintesi.

Io penso che per queste ragioni Bruno Trentin, che è stato un punto di riferimento importantissimo per la Cgil e la sinistra, resterà un modello indimenticabile per molti cittadini di questo Paese.

Pubblicato il: 25.08.07
Modificato il: 25.08.07 alle ore 11.59   
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 26, 2007, 09:47:22 pm »

  Piero Fassino


Caro Bruno,
non potendo essere domani con i tanti amici e compagni che per l’ultima volta si stringeranno a te, voglio salutarti dalle colonne de l’Unità, questo nostro giornale a cui eri particolarmente affezionato e che per anni è stato il canale prezioso del tuo rapporto con i lavoratori e con i cittadini.
In queste ore di dolore e tristezza sento di doverti manifestare un sentimento di profonda gratitudine per quanto ci hai insegnato in tanti anni di militanza politica e sindacale.

Tu, Bruno, ci hai fatto amare il «lavoro», da te mai pensato e vissuto soltanto come lo strumento con cui gli individui procacciano a sé e la propria famiglia i mezzi del sostentamento quotidiano. No, tu ci hai educato a guardare al lavoro come alla più alta espressione della creatività umana. Il lavoro come manifestazione del sapere, della conoscenza, dell’ingegno.

Il lavoro come lo specchio in cui si riflette l’identità e l’immagine di ciascuno di noi. Per questo al centro del tuo pensiero e della tua azione hai sempre posto il cruciale tema dell’«organizzazione del lavoro», il cuore della fabbrica, il terreno strategico in cui esercitare un’azione sindacale volta non solo a difendere, tutelare, proteggere i diritti dei lavoratori, ma anche e soprattutto il luogo in cui contrattare, condividere, concertare, codecidere le dinamiche produttive e i destini che in ogni impresa ad esse sono legati.

«Centralità del lavoro»: è stata questa la formula con cui per molti anni si è definita quella tensione - morale prima ancora che politica - a dare al lavoro piena dignità, offrendo ad ogni donna e ad ogni uomo gli strumenti perché il suo lavoro fosse socialmente riconosciuto, adeguatamente remunerato, giuridicamente protetto, contrattualmente tutelato. E soprattutto valorizzato nella sua creatività, nel suo saper fare, nella sua professionalità.

Non a caso hai sempre polemizzato aspramente con chi traduceva un primitivo egualitarismo nella II categoria per tutti, nei passaggi automatici di qualifica, negli aumenti salariali indifferenziati. E, invece, hai guidato prima i metalmeccanici e poi l’intera Cgil a scommettere sulla contrattazione aziendale, sul rapporto fra salario e professionalità, sulla valorizzazione del saper fare intelligente di ogni lavoratore, compresi quei colletti bianchi, quegli impiegati, quei tecnici, a cui, dopo anni di pregiudizio e di insensibilità, proprio grazie a te il sindacato seppe aprirsi. Ed è giusto renderti merito di quanto tu abbia considerato il tema della formazione e del sapere come cruciale e si devono al tuo coraggio intellettuale conquiste di straordinario valore: le 150 ore con cui centinaia di migliaia di lavoratori completarono una formazione scolastica spesso interrotta e dispersa; i contratti di formazione lavoro con cui tantissimi giovani hanno trovato un’occupazione in condizioni più gratificanti; la promozione dell’occupazione femminile; le politiche di formazione permanente e di invecchiamento attivo.

Ed è stata proprio questa tensione a far sì che ogni lavoratore fosse pienamente padrone della propria condizione di lavoro e, dunque, del proprio destino che ti portava a guardare ad ogni innovazione del ciclo produttivo e dell’organizzazione del lavoro senza pregiudizi e chiusure ideologiche.
Innovazione, mobilità, flessibilità, ristrutturazione non sono mai state per te parole tabù. Al contrario ogni cambiamento era per te il terreno di una appassionante sfida per l’egemonia culturale. «Governare il cambiamento» era per te la bussola di una azione sindacale e politica che rifiutava l’arroccamento difensivo e le rigidità perdenti.
Per te decisivo era che lavoratori e sindacato non fossero subalterni, ma al contrario capaci di «stare dentro» ai processi produttivi, per dare loro una guida, per ridurne i rischi e ottimizzarne i benefici. E non a caso ogni qualvolta il movimento sindacale manifestava difficoltà o reticenze ad essere all’altezza delle sfide, tu non esitavi a far sentire la tua riflessione critica, come nel caso della scala mobile o di quella drammatica vertenza FIAT che nell’autunno dell’80 vivemmo insieme con sofferenza e travaglio profondo.

Il lavoro - così pensato e governato nel suo farsi ed evolvere quotidiano - è stato anche il terreno su cui ridefinire le forme della rappresentanza e dell’organizzazione sindacale. I Consigli di Fabbrica e i Delegati di squadra e di reparto eletti su scheda bianca tra tutti i lavoratori, indipendentemente dall’affiliazione sindacale di ciascuno, furono una vera rivoluzione culturale che aprì il movimento sindacale a una nuova generazione operaia, rimodellò forma, linguaggio, mentalità del sindacato; gli diede una nuova capacità di rappresentanza e di capacità contrattuale; fece del sindacato un soggetto politico che non esauriva la sua identità nella sola azione rivendicativa. E proprio Consigli e Delegati - la cui identità crebbe strettamente connessa alla massima valorizzazione della contrattazione aziendale - furono lo strumento per la costruzione di quell’unità sindacale che ebbe proprio nella tua Flm un punto di realizzazione alto. Una unità - che proprio perché fondata sulla centralità del lavoro - tu hai sempre concepito e praticato come inseparabile da una forte e vera autonomia del sindacato da ogni altro soggetto politico, sociale o istituzionale. In questo tuo straordinario percorso culturale, politico e umano hai lasciato il segno di un riformismo alto e forte, ispirato dai valori e dall’esperienza di quel socialismo democratico europeo a cui hai sempre guardato con attenzione. Un timbro di uomo di sinistra, riformista e innovatore , che hai reso evidente anche nella tua militanza di partito, condividendo con partecipazione vera i tanti passaggi che hanno caratterizzato l’evoluzione culturale e politica della principale forza della sinistra italiana. E voglio qui manifestarti una particolare gratitudine personale per come, in questi ultimi sei anni, hai voluto accompagnarmi con affetto e continua partecipazione nel difficile e appassionante cammino che da Pesaro ti ha condotto fino alle sfide nuove di oggi.

Si, davvero - come ha voluto ricordare Giorgio Napolitano - sei stato un «protagonista della storia italiana», contribuendo in maniera determinante a fare del sindacato un attore essenziale e centrale di ogni passaggio della vita della Repubblica. E, dunque, grazie caro Bruno. Grazie per la straordinaria lezione morale, intellettuale, politica che ci lasci.
Ci mancherai. Ci mancherai moltissimo. Ci mancherà quel tuo discorrere pacato e argomentato con cui ci guidavi, quasi per mano, a scavare nelle cose. Ci mancherà quel rigore intellettuale che non tollerava reticenze, opportunismi e ambiguità. Ci mancherà quel coraggio politico - come nel ’93 - non ti faceva arretrare di fronte alle scelte più difficili, se necessarie per il bene del paese.

Ci mancherà quel tuo sorriso timido e gentile, con cui mitigavi i tratti asciutti del tuo carattere alpino.
Mancherai a Marcelle, a cui ci stringiamo tutti con struggente affetto. Mancherai alle donne e agli uomini della Cgil con cui hai condiviso le tue «scelte di vita». Mancherai al tuo partito che aveva in te un punto di riferimento intellettuale e morale sicuro. Mancherai a tutti noi che ti abbiamo conosciuto e ti abbiamo amato.
Ma proprio per questo ti porteremo sempre con noi, nei nostri cuori, nelle nostre menti.
Ciao Bruno.


Pubblicato il: 26.08.07
Modificato il: 26.08.07 alle ore 8.27   
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 29, 2007, 06:13:15 pm »

La scelta di Bruno
Pierre Carniti


Il ricordo di Bruno Trentin acuisce il rimpianto. Per la Cgil e per l’intero sindacato italiano con la sua scomparsa viene meno un essenziale riferimento culturale e politico. In effetti per il ruolo e l’azione svolta in decenni di attività Bruno Trentin ha lasciato una traccia profonda nella vicenda sindacale italiana. Mi riferisco non tanto al contributo concreto fornito alla realizzazione di questo o quell’accordo, in funzione di questa o quella politica. Ovviamente la definizione delle politiche da perseguire costituisce sempre un passaggio impegnativo. In alcuni casi addirittura tribolato.

Tuttavia, per quanto rilevanti, le politiche sono sempre il prodotto della storia. Destinate quindi a mutare con il mutare del contesto storico. Ci sono invece degli aspetti che hanno costituito delle discriminanti, delle linee guida, nell’iniziativa di Trentin che mantengono sostanzialmente immutato il loro rilievo e che, sono indotto a pensare, a lui farebbe piacere che venissero ricordati anche in questo triste momento di commiato. Il primo riguarda l’impegno e la tensione unitaria. Oggi la questione non sembra proprio stare in cima alla scala delle priorità sindacali. Eppure resta fondato l’assunto che nella dialettica e nelle battaglie economiche-sociali non basta avere ragione. Ma occorre anche la forza per farla valere. E per i lavoratori questa forza dipende dal grado di unità che riescono a realizzare.

Un secondo aspetto, costantemente presente nell’analisi e nella valutazione di Trentin, è relativo al fatto che il sindacato, come tutte le istituzioni, è esposto al ricorrente pericolo di burocratizzarsi. Con il rischio che la democrazia interna scivoli progressivamente verso omaggi rituali a cui corrispondono rifiuti sostanziali. Il sindacato può scongiurare questo pericolo mortale solo se riesce a trovare la forza, il coraggio, la capacità per rimettere periodicamente in discussione sé stesso; i suoi assetti; la sua struttura, il suo modo di formare le decisioni. Trentin questo coraggio lo ha avuto ed ha saputo metterlo in campo.

Un terzo elemento riguarda la straordinaria capacità di apertura culturale di Trentin. Capacità che gli ha consentito di coinvolgere in maniera spregiudicata, valutando gli apporti anziché l’appartenenza, numerosi uomini di cultura nell’opera di dotare i lavoratori italiani di un sindacalismo che fosse all’altezza dei nuovi tempi e delle nuove sfide. Poiché si tratta di un problema che non si risolve mai una volta per tutte sarebbe auspicabile che un impegno in questa direzione riuscisse a farsi nuovamente strada.

La quarta dimensione riguarda l’autonomia del sindacato. I più anziani (o i meno giovani) ricordano bene che nell’Italia del dopoguerra, travolti da vent’anni di cultura fascista, non era assolutamente facile affermare l’autonomia del sindacato dallo Stato. Ancor meno quella dai partiti.

Tanto più rispetto ad una partito come quello comunista, convinto assertore che il primato della politica coincidesse con il primato del partito. Affermare l’autonomia del sindacato poteva quindi non essere agevole per un uomo come Trentin che partecipava anche alla vita di partito come parlamentare (anche se fu il primo ad accettare ed applicare la regola della incompatibilità) ed era nel contempo una presenza autorevole nel mondo comunista. Tuttavia egli aveva ben chiaro i termini del rapporto tra autonomia ed unità. Nel senso che, anche se è difficile stabilire una relazione logica e cronologica, in qualche misura meccanica, è del tutto evidente che senza autonomia l’unità risulta praticamente irrealizzabile e che senza unità l’autonomia viene messa costantemente a rischio. Questi erano i termini del problema ed in un modo o nell’altro bisognerà tornare ad affrontarli. Anche perché, come avrebbe detto con il suo inconfondibile umorismo Bruno, nelle grandi organizzazioni collettive i problemi non si comportano come il vino, che invecchiando migliora.

Per ultimo, ma non da ultimo, in cima alle preoccupazioni di Trentin c’è sempre stata la tenuta morale del sindacato. Che ovviamente vuol dire costante, rigorosa ed intransigente opposizione all’uso privato delle responsabilità sindacali. Oltre tutto ben sapendo che gli innovatori, quando cercano strade nuove per la soluzione dei problemi del lavoro, devono essere più severi ed accurati di altri anche sul piano della moralità pubblica.Credo di non sbagliare nel ritenere che se il mondo sindacale italiano è risultato estraneo, salvo casi marginali, rispetto ai diffusi fenomeni di corruzione pubblica, molto si deve a questa consapevolezza.

Consapevolezza che, negli anni dell’immediato dopoguerra, ha significato vegliare perché nella rinascita dell’organizzazione sindacale non trovassero spazio uomini d’avventura. Mentre nei decenni successivi, per l’importanza crescente che ve niva assumendo il sindacato, per il progressivo riconoscimento ottenuto, bisognava stare all’erta per scongiurare gli accresciuti rischi di trasgressione. In questo contesto l’unica garanzia non poteva che essere una costante attenzione al clima morale interno. In sostanza la convinzione che non c’è bravura o competenza che possa sostituirsi alla motivazione etica. L’esigenza permane ed il futuro del sindacalismo confederale dipende dalla capacità di farvi fronte.

C’è infine una traccia nell’intera vicenda di Bruno Trentin (sindacalista, intellettuale, politico) che mantiene intatta la sua rilevanza. Pur respingendo mitologie ottocentesche e convinto della assoluta necessità di un processo di modernizzazione del paese, Trentin ha sempre guardato al futuro civile come ad un assetto in cui il mondo del lavoro fosse cardine, in cui i lavoratori attraverso la loro organizzazione potessero pesare in quanto «soggetto politico autonomo». Nel suo progetto e nella sua azione c’è sempre stata una sapiente equidistanza sia da concezioni radicali e velleitarie, sia dal piatto realismo di chi intende il sindacato come semplice strumento tecnico.

Quel progetto, pur con gli adattamenti necessari, resta in larga misura ancora da perseguire. Per portarlo avanti c’è bisogno di un rinnovato impegno. C’è soprattutto bisogno, sulla base della testimonianza di vita di Bruno Trentin, che intuizione politico culturale e determinazione morale procedano sempre assieme. Per queste ragioni vorrei accomiatarmi da lui dicendogli semplicemente. «Ciao Bruno e grazie. Anche a nome di tutto il sindacato».

Pubblicato il: 29.08.07
Modificato il: 29.08.07 alle ore 10.19   
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