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Autore Discussione: da Il riformista - 3 pezzi.  (Letto 2622 volte)
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« inserito:: Agosto 23, 2007, 10:15:00 pm »

SUL GIORNALE DEL 23 AGOSTO

Quando l’Italia mancò l’appuntamento con il mercato

di Massimo Lo Cicero


L’autunno ci sta preparando un vero ingorgo di scelte, ciascuna delle quali sarebbe molto difficile da affrontare mentre tutte insieme potrebbero generare un vero collasso, politico ed economico. Proporre una legge finanziaria, capace di reggere la turbolenza dei mercati finanziari senza compromettere l’obiettivo della crescita, e una politica del lavoro, che sappia convivere con la dimensione flessibile e globale della produzione contemporanea.
Realizzare questo traguardo in una situazione nella quale si deve trovare una sequenza affidabile tra crescita ed equità sociale, senza cadere nella trappola delle credenze palingenetiche, ereditate dal passato, sulle virtù sociali della spesa pubblica. La soluzione di questo puzzle si deve affiancare con la nascita di un nuovo partito, quello democratico, promosso dai due pilastri portanti della coalizione di maggioranza ma aperto a un processo di integrazione verso energie culturali, sociali e politiche fino ad ora estranee e marginali rispetto alla coalizione e ai suoi pilastri portanti. Questa alchimia organizzativa, programmatica e politica non sarebbe una operazione banale in condizioni meno turbolente e avvelenate di quanto non siano oggi quelle determinate da un quindicennio di bipolarismo impotente nel nostro paese.

Riflettere sugli anni Ottanta, come hanno fatto da queste colonne Paolo Franchi e Claudio Martelli, può essere una buona palestra per cercare di capire dove e come l’Italia abbia deragliato in quegli anni, perdendo letteralmente il treno del cambiamento, e per quali ragioni, grazie alla nostra mediocre deriva negli anni novanta, il nostro paese sia oggi marginale e fragile nei nuovi equilibri mondiali. Il passo falso degli anni Ottanta è evidente. Quelli sono gli anni in cui viene liquidata, dalla svolta liberista di Reagan e della Thatcher, la illusione che lo Stato nazionale potesse determinare le sorti dei mercati che ricadevano nei suoi perimetri amministrativi. Ma proprio la riproposizione, certamente brutale, della centralità dell’impresa e dell’integrazione dei mercati, come chiave di volta della crescita, rappresenta la leva potente che permette, nel decennio successivo, a Clinton e a Blair di utilizzare l’onda della globalizzazione e nella new economy: rifondando la prospettiva della giustizia sociale sulla capacità di cavalcare i mercati e non sulla invadenza degli apparati amministrativi rispetto alla civiltà degli scambi. Una conferma clamorosa del fatto che una spallata di “destra” all’equilibrio sociale sia l’unica condizione perché la “sinistra” sappia ricostruire la propria identità programmatica e politica. Perché nasca una “destra” della “sinistra” capace di liberarsi delle eredità obsoleta delle stagioni passate. Negli anni Ottanta tutto questo non è accaduto in Italia. Perché la poderosa spallata, inferta da Craxi, all’equilibrio bilaterale tra comunisti e cattolici, non ha affatto spostato l’asse del sistema fuori dello statalismo e dentro il mercato. Craxi batte la collusione - tra Stato, grandi imprese e sindacati - alimentata dalla scala mobile ma lascia in piedi, anzi per certi versi asseconda, la dilatazione degli interessi alimentati dalla spesa pubblica.(...)


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Michael Moore e la scelta tra un dito medio e un anulare
di Michele Anselmi


Sicko è formula gergale americana. Viene da sick, ovvero malato, ma con un allargamento di senso tendente al peggiorativo. Per cui sicko significa: deviato, sadico, insano, perverso, idiota, stupido. Tutti aggettivi che per Michael Moore, il cineasta più detestato da Bush, quindi più amato a sinistra, bene si attagliano al sistema sanitario americano. Presentato in anteprima mondiale a Cannes e preceduto negli ultimi giorni da una raffica di interviste tutte uguali, il nuovo documentario del regista di Fahrenheit 9/11 esce oggi da noi in centinaia di copie, distribuito da Raicinema-01. Sarà un successo come il precedente? Il pubblico progressista farà la fila, alimentando il tam-tam mediatico, per indignarsi di fronte ai guasti impressionanti sui temi della salute che il film denuncia nei suoi 123 minuti? Chissà.

Certo, Michael Moore sembra cambiato rispetto a due anni fa. Il cappellino da baseball è sempre lo stesso, la stazza se possibile è aumentata (magari una dieta a base di frutta e verdura gli farebbe bene), ma la voce è più quieta, l’atteggiamento meno sulfureo e provocatorio, lo sguardo - direbbero gli anglofoni - più compassionevole. Risultato: i siti anti-Moore cresciuti come funghi, anche per reazione a un consenso planetario, continuano a bersagliarlo; lui signorilmente li invita a continuare, in nome del libero pensiero, salvo poi svelare nell’epilogo di Sicko di aver inviato un anonimo assegno da 12 mila dollari a uno sfegatato avversario perché potesse curare la moglie gravemente malata senza dover chiudere il sito a rischio bancarotta.

Evidentemente sono lontani i tempi di Roger & me, 1989, quando il ruspante documentarista cercava inutilmente, anche spassosamente, di intervistare lo sfuggente capitalista Roger Smith per fargli (farci) capire cos’era diventata la cittadina di Flint, Michigan, dopo lo smantellamento di una fabbrica General Motors. Oggi Moore gestisce una florida società produttiva e un piccolo impero editoriale, l’Oscar gli ha dato potere e visibilità, Mondadori pubblica in Italia ogni suo libello, i festival più importanti fanno a gara per accaparrarsi i suoi film. Trasformatosi in cane da guardia del potere, sceglie con cura gli argomenti sui quali fare campagna, ben sapendo che quando si muove sono in molti, specie nel mondo delle corporation, a tremare. In Sicko lo dice pure. È bastato fare il suo nome, autentico spauracchio, perché una compagnia d’assicurazione rivedesse di corsa il parere negativo in merito a un impianto auricolare destinato a una bambina che stava diventando sorda.

Al grido di «Se vuoi stare bene in America… non ammalarti mai», Moore mette dunque sotto accusa le criminali magagne di un sistema sanitario che si fonda non sulla copertura universale bensì sul potere enorme delle società assicurative, per loro natura portate a risparmiare sulle prestazioni mediche e sulla tipologia dei casi.(...)


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Il progetto fallito della grande Landesbank che avrebbe reso Berlino immune dalla crisi

di Tonia Mastrobuoni


In Germania le entrate fiscali continuano a correre e consentono al governo di essere ottimista sulle prospettive di crescita di quest’anno. Non solo: per alcuni economisti Berlino potrebbe raggiungere il pareggio o addirittura un leggero surplus di bilancio entro dicembre.
Nel primo semestre, rendeva noto ieri un rapporto del ministero delle Finanze, le entrate sono infatti aumentate del 14,4% rispetto allo stesso periodo del 2006. Quindi, dopo i segnali di debolezza registrati nel secondo trimestre (con il fiacco aumento congiunturale dello 0,3%), il ministero è ottimista sulla dinamica dell’economia tedesca: «Nel secondo semestre la ripresa si dovrebbe rafforzare, sostenuta anche dai consumi interni», si legge nel rapporto. Berlino prevede finora una crescita per il 2007 a 2,6%. Ma secondo alcuni economisti interpellati dal quotidiano finanziario Handelsblatt per la prima volta dal 1989 la Germania potrebbe aver registrato nei primi sei mesi dell’anno una differenza positiva tra entrate e uscite, potrebbe cioè aver incassato un miliardo di euro in più di quanto ha speso. E concludere l’anno con un pareggio o addirittura un surplus di bilancio, invece che un deficit (al momento le stime del governo parlano di un rapporto dello 0,5% tra indebitamento e Pil). Prospettive che stanno mettendo le ali anche all’occupazione: secondo l’Agenzia federale del Lavoro entro fine anno ci saranno 310 mila impiegati in più. E l’anno prossimo i disoccupati tedeschi potrebbero scendere a 3,44 milioni: il dato più basso dal 1993.

Eppure un’incognita resta. Legata all’evoluzione della crisi dei mutui americani che ha pesantemente colpito alcune banche tedesche e che secondo alcuni osservatori potrebbe avere ricadute sull’economia reale. Certamente ha fatto cambiare umore agli esperti consultati dallo Zew per l’elaborazione dell’indice congiunturale sull’economia, reso noto martedì e crollato dal +10,4 di luglio al -6,9 di questo mese. E nonostante la nuova iniezione di liquidità (40 miliardi di euro) decisa ieri dalla Banca centrale europea, il pessimo umore degli analisti deve essersi accentuato, quando Jean-Claude Trichet ha fugato nel pomeriggio ogni dubbio sulle sue intenzioni a breve. In sostanza non dovrebbe esserci nessun rinvio: il prossimo rialzo dei tassi di interesse dal 4 al 4,25 per cento sarà deciso da Francoforte già il 6 settembre.

Tuttavia, nell’opinione del presidente dello Zew, Wolfgang Franz, le conseguenze dello tsunami con epicentro a Wall Street saranno «limitate», per la Germania. E sui giornali tiene invece banco il dibattito su quello che viene percepito come l’anello debole della catena di fallimenti partita dalla Florida, ossia le Landesbanken, le banche regionali pubbliche. Dopo la progressista Sueddeutsche, anche l’Handelsblatt commentava ieri negativamente il salvataggio della SachsenLb attraverso una linea di credito da 17,3 miliardi di euro messa a disposizione da un pool di casse di risparmio e banche pubbliche. La banca che fa capo al Land della Sassonia «ha corso giganteschi rischi per i quali devono pagare i contribuenti, ora», scrive il quotidiano.

Dopo le dichiarazioni del ministro delle Finanze Peer Steinbrueck, che aveva auspicato nei giorni scorsi una fusione tra un’altra Landesbank in difficoltà a causa della crisi dei mutui, la WestLb del Nordreno-Westfalia, con la “cugina” del Land Baden-Wuerttenberg, la Lbbw, si moltiplicano quindi le esortazioni a tornare ad un vecchio progetto della fine degli anni Ottanta: quello di unificare le undici Landesbanken in un unico istituto di credito nazionale. Già il matrimonio tra WestLb e Lbbw creerebbe un gigante da 700 miliardi di euro, ovvero la terza banca tedesca dopo Deutsche Bank e Commerzbank. Il problema però è politico: l’ambizioso piano di creare un’unica Landesbank federale è già naufragato una volta per la mancanza di disponibilità dei potentati locali di mollare il controllo di questi istituti di credito. «Una Landesbank - ricordava ieri l’Handelsblatt - rappresenta pur sempre l’orgoglio di ogni “principe” regionale», cioè di ogni presidente di Land.

Ma la polemica riguarda anche la vulnerabilità di queste banche emersa con la crisi dei mutui subprime. Legata in parte proprio alle loro dimensioni ridotte e al fallito tentativo di unificarle. Strette tra le grandi banche d’affari e le Sparkassen, non potendo offire servizi retail, non potendo più contare dal 2005 sulla garanzia dello Stato, si sono avventurate negli anni scorsi su un terreno scivoloso, quello, appunto, dei prodotti finanziari ad alto rischio. E ora che si sentono sinistri scricchiolii provenire anche da altre Landesbanken (la BayernLb o la Landesbank Berlin), un’analista commentava ieri con il Financial Times che il salvataggio della SachsenLb avvenuto nei giorni scorsi è grave «perché sarà utilizzato come precedente per invocare la crisi di sistema». Risolta finora tout court ttingendo al portafoglio del caro vecchio contribuente.


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