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Autore Discussione: IN MEMORIA DI Edmondo BERSELLI. L'alto e il basso con naturalezza  (Letto 3857 volte)
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« inserito:: Aprile 12, 2010, 09:52:02 pm »

12/4/2010

L'alto e il basso con naturalezza
   
MARIO CALABRESI

Edmondo Berselli aveva due grandi doti non comuni: l’ironia e l’originalità. Era una persona che valeva la pena conoscere e avere la fortuna di incontrare, anche solo per pochi minuti in mezzo a una strada. In quattro frasi riusciva a illuminare una giornata e a sintetizzare tutto quello che c’era da ricordare dei giornali di quella mattina. Saltava da un argomento all’altro, mescolando l’alto e il basso con naturalezza, spiazzandoti continuamente con i suoi guizzi; ti parlava di una canzone, poi scartava sulla politica per chiudere con un pettegolezzo fulminante. Sottolineava questa brillantezza e il suo estro con un’impercettibile irrequietezza del corpo e con un continuo muoversi in treno per l’Italia, quasi un modo per dare sfogo a tutta l’energia che attraversava la sua testa.

Aveva un modo di pensare libero, mai stereotipato: aveva le radici in una terra di valori solidi e pensiero unico come l’Emilia, di cui manteneva la cadenza dialettale come vezzo, ma a lui piaceva scartare e dissacrare, rompere il conformismo e salutarti con una battuta feroce che ti rimaneva in testa per tutta la giornata.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Aprile 12, 2010, 09:53:58 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 12, 2010, 09:53:13 pm »

12/4/2010 (7:55)

Berselli, uno sguardo sul più mancino dei Paesi

Edmondo Berselli era nato il 2 febbraio del 1951 a Campogalliano in provincia di Modena.

Morto ieri a Modena, aveva 59 anni. Intellettuale disincantato ha saputo raccontare l’Italia con stile ironico e una punta di malinconia

PIERANGELO SAPEGNO

E’ morto presto Edmondo Berselli, a 59 anni. Aveva appena finito di scrivere il suo ultimo libro, lottando come sapeva fare lui contro il dolore e le pene, da modenese con radici trentine, questa strana congerie di pianura e di cime, che lo rendeva alla fine un introverso romantico, così sensibile agli affetti, ai valori e a tutte quelle buone cose che vengono da lontano. Stava male da parecchio, Edmondo Berselli, Eddy, come lo chiamavano gli amici. Ma non ha mai mollato niente, ha continuato fino all’ultimo a scrivere i suoi articoli sulla Repubblica e L’Espresso, e persino a rispondere a tutti quelli che lo tormentavano con email e messaggi telefonici, anche solo per salutarlo. Se gli ponevi un problema, s’affrettava solo, quasi vergognoso: «Adesso non ho tempo. Devo fare questa battaglia».

Ecco, l’ha fatta. Il suo ultimo libro, lui che non era un economista, l’ha scritto sulla crisi economica, ed è un saggio sorprendente dove s’intravede una uscita salvifica cristiana e solidarista, che è quasi un contrito atto di fede lasciato da un intellettuale laico così disincantato come lui. L’eroe di questo libro alla fine è papa Wojtyla. Non ha ancora un titolo. Non ha fatto tempo a darglielo, lui che era un genio nel crearli.

Ci penserà qualcuno. Il suo testamento, in fondo, Eddy l’ha lasciato, e non mi riferisco solo a quella decina di libri che ha mandato dagli anni 90 in poi nelle classifiche dei più venduti, da Post italiani, forse il titolo di maggior successo, agli ironici Sinistrati e Venerati maestri. Con quel suo stile «un po’ lunatico», come l’ha definito qualcuno, quel divagare picaresco da un’idea a un aneddoto e a un’intuizione, nessuno ha saputo raccontare come lui una terra e un Paese così complicati. L’ha fatto con amore e con una sorta di melanconia, quasi leggesse nello scorrere veloce che gli ha dato la vita la capacità di una dolenza misteriosa e di un ironico distacco.

Un po’, era diviso in due. Edmondo Berselli è sempre stato molto esclusivo con gli amici, da vero trentino. Ma poi con loro era un emiliano che faceva la notte suonando alla chitarra tutte le canzoni di Lucio Battisti, scherzando sulla vita davanti a piatti di tigelle e gnocchi fritti. Adesso aveva pure imparato a suonare il pianoforte. Noi che le abbiamo passate, quelle notti, le rimpiangiamo come rimpiangiamo lui. Allora, era il giovane vicedirettore del Mulino (ne sarebbe poi diventato un grande direttore). Magro come un chiodo, il volto scavato. Eravamo tutti magri. Aiutò il cronista che cercava di fare lo scoop con l’ultima intervista a Dino Grandi, ormai cieco e solitario: gliela fece lui, in realtà, perché l’uomo del 25 luglio si fidava solo di Berselli, anche se i meriti andarono al cronista.

Edmondo è stato a tutti gli effetti una scoperta dell’Avvocato della Ferrari Luca di Montezemolo, che leggendo i suoi fondi sulla Gazzetta di Modena diretta da Pier Vittorio Marvasi ne rimase così incuriosito da volerlo conoscere di persona. L’inizio del suo successo lo deve però, in realtà, a un cult book, Il più mancino dei tiri, che lui, dolente e appassionato tifoso juventino, dedicò al «piede sinistro di Dio», l’anarchico fuoriclasse dell’Inter Mariolino Corso, uno che metteva il suo genio e la sua sregolatezza in quell’immagine tanto di moda negli anni 60, con il passo sbilenco e i calzettoni abbassati sulle caviglie, come Omar Sivori o come George Best e Gigi Meroni, gli eroi un po’ folli di quell’era beat che aspettava il ‘68. A differenza del numero dieci argentino, che aveva vestito i suoi amati colori bianconeri, Corso era più identificabile in una sola squadra, l’Inter, che più della Juve aveva rappresentato quell’era, con i suoi successi e la sua epica morattiana.

Il fatto è che quegli anni sono stati uno dei grandi amori di Berselli, un amore emotivo e intellettuale insieme, e non solo perché erano quelli della sua giovinezza, ma perché ci coglieva quella spinta ideale così piena di fiducia nel futuro che noi non abbiamo mai più saputo ritrovare. E si spiegano così, forse, non tanto un altro libro, già esaustivo nel titolo, Adulti con riserva. Com’era allegra l’Italia prima del ‘68, in cui la modernizzazione durante il miracolo economico e gli anni Sessanta diventano l’occasione per raccontare «come eravamo» fra il centrosinistra e l’età dei beat, quanto soprattutto il suo lavoro teatrale e televisivo. Sulla scena ha portato Sarà una bella società, un lavoro di nuovo su quegli anni, affidato alla voce e al gruppo musicale dello storico leader dei Rokes, Shel Shapiro, quello della Pioggia che va. E in televisione ha realizzato due piccoli capolavori, trasmissioni cult come Giù al Nord e Sud al Sud, relegate dalla Rai in orari da sonnambuli, eppure quasi poetiche e cronistiche insieme nel riprodurre e ricercare atmosfere e tempi così lontani.

Il fatto è che era tutto questo: scrittore e giornalista (firma, negli anni, della Stampa, del Messaggero, del Sole-24 Ore, dell’Espresso e infine della Repubblica) autore di teatro e di tv, critico televisivo e critico musicale. Sapeva fare tutto bene. Ma la cosa che ha fatto meglio è la lezione che ha lasciato, quello sguardo particolare sugli affetti e sulle cose di tutti i giorni, e la capacità di ritrarre i personaggi e di spiegarli, come se si stesse assieme sotto a un portico nell’aia, dietro ai filari di pioppi. Forse basta davvero accontentarsi di ascoltare le sue storie, accoccolati su un divano, perché Eddy non muoia mai.

da lastampa.it      
 
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 12, 2010, 11:32:17 pm »

IL RICORDO

L'intellettuale ironico che raccontava il pop

di MICHELE SERRA


DICONO gli amici più vicini che la bella testa di Edmondo, negli ultimi mesi di faticosissima malattia, trovasse requie, e perfino felicità, solo nella scrittura. La cosa non sorprende. La testa di Edmondo era così piena di oggetti, di persone, di pensieri, che non poteva certo starsene in balia del male, a rimuginare sugli orribili impicci che ostano alla nostra libertà di pensare, e ai pensieri dare un senso, un ordine, una dignità formale.
La testa di Edmondo era speciale: difficile da padroneggiare, immagino, anche per lui che ne era il padrone. Era la testa di un accademico, ben strutturata attorno allo studio, politologia, sociologia, la politica dottrinaria, la storia del pensiero. Ma era piena di finestre spalancate sulla vita "normale", la sua, la nostra.

Le canzoni, il calcio, la televisione, quello che oggi si chiama genericamente "pop", erano per Edmondo materia di incessante curiosità, di partecipazione emotiva e razionale. Un intellettuale rigoroso che non diminuisce il suo calibro culturale solo perché la materia è vile e allegra, e parla di Mariolino Corso e di Pareto, dell'Equipe 84 e di Bauman, con lo stesso rispetto per i materiali della vita: questo era Edmondo Berselli, una smentita vivente della maniera appartata e schizzinosa con la quale il colto rischia sempre di guardare al "volgare". E al tempo stesso - e qui stava il difficile - uno che anche quando divagava lungo i margini più spensierati e leggeri della cultura di massa, non cadeva mai nel cosiddetto "cazzeggio", orrida parola che serve soprattutto a "prendere le distanze".
La distanza, per Edmondo, era sempre la stessa: le cose si guardano (tutte) perché ci stanno di fronte. Si deve "scendere verso terra e trovare le soluzioni lì dove le stai cercando, nei labirinti del quotidiano, tra le alternative intrinseche della realtà": così ha scritto nel suo ultimo libro, partorito già in malattia, sul suo cane Liù, riflessione intensa, divertente, gentile sui complicati rapporti tra i viventi, compresi quelli che per farsi capire possono solo abbaiare. Bene la teoria, bene conoscere i testi sacri e padroneggiare i classici: ma la realtà è solo "lì dove la stai cercando", "verso terra", ed è con il colossale groviglio della società di massa, è con il brulicare degli esseri viventi che ognuno di noi deve fare (umilmente) i suoi conti.

Quando lessi il suo libro (molto partecipe) sull'Emilia rossa, Quel gran pezzo dell'Emilia, gli feci notare, con scherzosa indignazione, che si era dimenticato di citare, nel suo enciclopedico percorso tra le persone e le cose della sua terra, la diva del cinema erotico soft Carmen Villani, che fu popolarissima verso la fine dei Settanta. Mi sembrò seriamente colpito da una chiosa così minima, e così poco nevralgica. Perché per lui il "pop" meritava lo stesso interesse di altre emerite rassegne di studiosi e di testi importanti. E molte delle sue energie, da adulto di successo, le ha dedicate all'inventario delle canzoni, alla critica televisiva, al racconto meditato dei suoi anni di formazione (gli anni del beat, i luminosi Sessanta non ancora incattiviti dall'ideologia), alla collaborazione teatrale con il suo amico Shel Shapiro, a un viaggio televisivo lungo i percorsi "padani" da restituire urgentemente a una memoria più serena e profonda, parlando più di Guareschi e Bertolucci, magari, che delle camicie verdi e degli ultimi ritrovati di una tradizione inventata.

Era un provinciale di mondo. Amava profondamente la sua Modena. Flessioni quasi impercettibili di quella parlata resistevano nella sua voce colta: no, non è necessario essere teatralmente, ruvidamente "indigeni" per avere una forte identità territoriale. Lo vidi l'ultima volta nella stazione di Brescello, il paese di don Camillo, per una chiacchierata televisiva su Guareschi e la sua Bassa, in un pomeriggio di novembre fradicio e freddo che più bassaiolo di così non si poteva. Non era mai invasivo, mai saccente, mai cattedratico, nei suoi confronti era difficile nutrire soggezione anche pensandolo direttore del Mulino, capo di un cenacolo tra i più autorevoli del Paese. Scriveva benissimo, una prosa ricca, allusiva, fulminante negli incisi, e se non tutti i savants diventano bravi giornalisti è probabilmente perché mancano della sua quasi infinita elasticità di pensiero, indispensabile per adattare all'uso quotidiano pensieri raccolti leggendo la saggistica pesante. Divagante, spiritoso, acuto, leggerlo non era mai un'esperienza scontata. In ogni editoriale, in ogni libro, si indovinava una diffidenza radicata verso l'eccesso di pathos, i sentimenti incontrollati. Non infiammabile, non infiammava mai: ragionava, con un piglio quasi anglosassone molto raro dalle nostre parti. Una "freddezza" continuamente corretta dallo humour, dall'intelligenza, dall'amore per la realtà.

Leggendo il suo Liù, che è quasi un testamento intellettuale, si capisce che molto del suo aplomb era dovuto a un profondo pudore. Il libro si chiude con una straordinaria mozione degli affetti, un lunghissimo elenco di amici e di luoghi, di persone e di città italiane, che adesso ci commuove profondamente. È un bell'elenco, in fin dei conti consolante, che racconta un'Italia migliore di come la pensiamo nel nostro ordinario malumore: sapeva vederla. Edmondo era un realista, ma non un pessimista. La fatica di capire, non certo la smania di giudicare, è stato il suo grande merito di intellettuale e di giornalista. Ci mancherà moltissimo, ci mancheranno i suoi nervi saldi, il suo rispetto per le piccole cose, la sua amicizia discreta, la misura di una scrittura che non si lascia mai sopraffare dalla realtà perché non la ripudia e non la bestemmia: la guarda, la vede, la accetta. Più difficile per noi accettare che Edmondo non ci sia più. Nel "labirinto del quotidiano", sapere che uno come lui stava cercando di orientarsi ci faceva sentire meno soli, e meglio accompagnati. Guardando una partita di calcio, ascoltando una canzone di Guccini o discettando sulla crisi della sinistra, continueremo a sentirlo nostro coetaneo, nostro amico, nostro compagno di viaggio.

© Riproduzione riservata (12 aprile 2010)
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 17, 2010, 02:16:15 pm »

Contro il neoliberismo citando Ratzinger

di Piero Ignazi

Un testo fondamentale per capire le ragioni della politica. E quelle della Chiesa

(10 settembre 2010)

Dopo aver volteggiato con ironia flaianesca sui grandi vizi e le piccole virtù del mondo politico e culturale di noi "post-italiani" Edmondo Berselli ci lascia in eredità un saggio ("L'economia giusta", in uscita con Einaudi) di grande profondità su origini e possibili esiti della crisi globale. È un saggio dove Berselli "mette in ordine" le riflessioni sviluppate in più di vent'anni di frequentazione, in varie vesti, delle stanze del Mulino. Oggetto della sua critica tagliente e senza sconti è il neoliberismo. Fin dalle pagine iniziali si fustigano gli entusiastici sostenitori di quel modello economico e sociale ivi compresi gli apologeti convertiti, dal blairismo deteriore al Neue Mitte schroederiano fino al confusionismo mentale della sinistra italiana. Ce ne hanno raccontate di favole, ma ora il re è nudo. A incominciare dall'idea che abbassando le tasse, riducendo i salari reali, tagliando il welfare, deregolando e lasciando briglie sciolte alla finanza a "far soldi con i soldi", ci fosse una bengodi dietro l'angolo. E invece era una colossale presa in giro. Con un finale amarissimo perché mentre qualcuno continua a guadagnarci molti, moltissimi hanno perso posizioni, che non sono più recuperabili. Questo è il nodo: la distribuzione del reddito si è spaventosamente squilibrata, spinta dalla hybris individualista e dallo svaporamento dell'etica e della responsabilità borghese.

"È stata una tensione fortissima nella distribuzione del reddito a provocare la torsione che ha strappato con violenza inusitata norme e abitudini", scrive Berselli. Quando oggi la retribuzione di un dirigente arriva ad essere 400 (quattrocento!) volte il salario medio di un operaio mentre negli anni Settanta era al massimo 30-40 volte superiore, ciò significa che le basi sulle quali si è costruita la prosperità dell'Occidente - l'innalzamento progressivo dei livelli di reddito delle fasce più basse e il sentimento di far parte tutti di una stessa società - sono saltate. Eppure, se si guarda alle radici culturali e alla storia recente dell'Europa si intravede una via d'uscita.

Lungo due sentieri. Diversi ma intrecciati.

Uno ritorna sulle virtù del modello di capitalismo "renano" contrapposto a quello "anglosassone". Riprendendo un celebre saggio di Michel Albert pubblicato dal Mulino nel lontano 1991 - e non a caso commentato da Romano Prodi nello stesso numero della rivista - Berselli ricorda i vantaggi di un'economia pensata sulla produzione e sul lungo periodo e non sulla "nevrosi finanziaria" della realizzazione di profitti a breve termine; una economia di integrazione virtuosa tra mercato e welfare, e di regole certe, a presidio delle quali sta, incontestata e riconosciuta, la potestà statale. Mutatis mutandis sono i pilastri dell'economia sociale di mercato, sui quali tuttora poggia il sistema tedesco. Quindi, conclude Berselli, una alternativa c'è. Ed è vieppiù rafforzata se si imbocca il secondo percorso, tanto più persuasivo in quanto proviene da lidi lontani dal discorso politico-economico contingente: è quello indicato dalle due più recenti encicliche papali sulla "questione sociale", come si sarebbe detto un tempo. La "Centesimus Annus" di Karol Wojtyla e, soprattutto, la "Caritas in veritate" di Joseph Ratzinger rappresentano un atto di accusa incalzante all'economia neoliberista (e, implicitamente, all'afasia socialdemocratica).

Nell'enciclica di Benedetto XVI si legge infatti che "la Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l'importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, (...) Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell'equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare". L'invocazione della dignità umana, della "giusta mercede", della solidarietà e addirittura del "capitale sociale" suonano come una condanna senza scampo della protervia dei tanti Gekko della finanzia ipercreativa e dell'inettitudine dei pallidi dirigenti di una sinistra incapace di articolare un progetto alternativo coerente. Leggendo le pagine così lucide e nette di questo saggio postumo forse qualcuno potrà scuotersi dal torpore intellettuale e politico che lo ha portato prima ad essere succube dell'egemonia neoliberista e neoconservatrice, e ora a balbettare di fronte alla disinvoltura populista. E, magari, si ricorderà delle virtù del modello renano che contempera giustizia sociale e responsabilità collettiva dell'impresa.

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