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Autore Discussione: Massimo MUCCHETTI. -  (Letto 11767 volte)
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« inserito:: Aprile 03, 2010, 11:02:53 am »

Le colpe di banche e manager


Il nuovo amministratore delegato di Borsa Italiana, Raffaele Jerusalmi, un manager peraltro di valore, non farà parte del consiglio di amministrazione del London Stock Exchange come, invece, era concesso al suo precedessore, Massimo Capuano. Sembra una notizia trascurabile, ma non lo è. Questo cambio della guardia tra tecnici fa capire, anche a chi tre anni fa era duro d’orecchi, quanto la fusione tra la Borsa di Milano e quella di Londra sia stata in realtà la dispersione, per certi aspetti umiliante, di un patrimonio di Milano e del Paese a tutto vantaggio degli spregiudicati signori della City.
In un tempo che sembra privo di memoria, ricapitolare i fatti finisce con l’essere il più concreto dei commenti. La storia inizia nel 1998, quando, in base alla legge Draghi, il mercato di piazza degli Affari, fino ad allora gestito dalla società mutualistica degli agenti di cambio, viene affidato a Borsa Italiana Spa. Le azioni di questa società erano state cedute dal Tesoro alle banche e ad altre società quotate per la miseria di 25 milioni di euro. Dieci anni dopo, in occasione dell’operazione con gli inglesi, Borsa Italiana è valutata 1,63 miliardi di euro. Considerando i dividendi e l’emissione azionaria fatta per l'acquisizione di Montetitoli, un’altra piccola azienda del settore, Borsa Italiana rende 62 volte il capitale investito dai soci. Una prestazione straordinaria che deriva da due cause principali: a) l’espansione delle transazioni finanziarie favorita dalla globalizzazione e dall’economia del debito; b) le privatizzazioni che, con i collocamenti di Telecom Italia, Enel, Eni, banche, Autostrade, moltiplicano il numero delle compravendite e dei soggetti attivi nell’investimento azionario. Borsa Italiana, insomma, non inventa nulla, non è una Google o una Microsoft e nemmeno una Geox, ma s’inserisce in una tendenza mondiale e si giova di una decisione del governo che le crea il mercato.
Quando nel 2007 arriva l’offerta londinese, la società e i suoi azionisti (Unicredit, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi soprattutto) avrebbe anche altre opportunità d’inserimento: il circuito Euronext- Nyse, articolato tra Parigi e New York, e la Deutsche Bourse di Francoforte. Ma potrebbe anche stare da sola: nel momento in cui i mercati finanziari sono fatti di computer interconnessi in tempo reale e la circolazione dei capitali non incontra più barriere giuridiche, il gigantismo della singola piazza sembra corrispondere alle ambizioni napoleoniche dei manager e all’ansia di speculazione su titoli di gran moda come quelli delle società di gestione delle Borse più che a una necessità operativa e, ancor meno, alle urgenze di finanziamento delle imprese italiane in carne e ossa, allora come oggi poco interessate alla Borsa.
A Londra, d’altra parte, hanno i loro problemi. Come fa notare l’ufficio studi di Mediobanca, il London Stock Exchange Group ha un patrimonio netto negativo per oltre 300 milioni di sterline.
Un dividendo straordinario e altri prelievi dalle casse sociali a favore degli azionisti e del management hanno prosciugato il capitale. La società risulta assai indebitata con le banche, specialmente con la Royal Bank of Scotland (che di lì a poco dovrà essere nazionalizzata per evitarne il fallimento) e con la Barclays (che invece reggerà la crisi).
Come direbbero gli inglesi, la situazione è borderline; come direbbero gli italiani, che hanno un altro codice, la situazione sarebbe già oltre i limiti e richiederebbe un sollecito aumento di capitale. Ma Clara Furse, il top manager del London Stock Exchange, non fa una piega. Per ripagare il debito bancario, questa signora dai tratti thatcheriani emette obbligazioni con rating Baa2; in altre parole, rifila ai mercati obbligazioni spazzatura che, come spiegano i suoi stessi bilanci, non avrebbe mai accettato sui propri libri.
Per il portavoce della Borsa inglese, quel debito serve a tenere a distanza un azionista australiano sgradito, a ottimizzare la struttura del capitale e a rafforzare la politica della società. In realtà, la fusione con Milano consente a Londra di far emergere un avviamento abbastanza grande da rimettere in sesto lo stato patrimoniale. E qui comincia la parte triste della storia.
Ai soci di Borsa Italiana va il 29 per cento del nuovo raggruppamento borsistico. Se riunissero le loro partecipazioni in una holding, come consiglia Piero Gnudi, questa sarebbe il maggior azionista singolo e potrebbe esercitare una grande influenza, se non proprio issare il tricolore sulle rive del Tamigi. Ma la Clara di ferro si mette di traverso per preservare, dice, la natura di public company di London Stock Exchange. E' un'evidente forzatura. Nel capitale della Borsa di Londra figurano già grandi azionisti: il Nasdaq, che è il mercato newyorkese dei titoli tecnologici, sgradito come gli australiani e in uscita, il Qatar e il Dubai con quote tra il 15 e il 20%, ma proni ai gerenti. È evidente che Furse vuole soltanto salvare il potere suo e dell'establishment londinese.
Tra gli argomenti per ridurre gli italiani all’impotenza, benché se ne utilizzi il pronto soccorso, spicca la presenza delle fondazioni nelle banche italiane. Troppo politici, insomma, questi italians. Il fatto che negli emirati arabi tutto dipenda dal sovrano, invece, va bene. È un dettaglio? Sì, lo è, ma spiega meglio di tanti discorsi quale sia nell' anno di grazia 2007 l'arroganza della City, che due anni dopo implorerà l'aiuto del Tesoro di Sua Maestà, e quale la sudditanza culturale delle banche italiane che nemmeno si offendono davanti a tali considerazioni, salvo poi trovare nelle fondazioni l'ancora di salvezza durante la crisi. Evidentemente, l'ansia delle banche di realizzare un bel guadagno e l'illusione di un manager, Massimo Capuano, di poter ereditare un giorno la poltrona di Clara Furse hanno consigliato di accettare il diktat di un soggetto che si era mangiato il capitale.
Al dunque, però, il posto di Clara Furse è andato a un francese, Xavier Rolet, che non ne sa più di Capuano; piazza degli Affari si è ridotta a essere una mera filiale di Londra; la grande fusione dei mercati è già messa in mora dai circuiti alternativi, che tolgono affari alle Borse tradizionali qualunque sia la loro dimensione e le inducono a ridimensionare l'impegno costoso alla trasparenza e all’informazione per privilegiare l'impegno commerciale, la conquista del cliente impresa e la diffusione di ogni genere di nuovo titolo.
Il che, sia detto di passata, spiega la scelta del successore dell'ancor troppo istituzionale Capuano, e la sua esclusione dalla stanza dei bottoni.

Massimo Mucchetti

03 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
« Ultima modifica: Settembre 13, 2011, 11:01:57 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 16, 2010, 05:21:13 pm »

LE NUOVE VIE DELLA CORRUZIONE

Il mercato più oscuro


Le cronache giudiziarie stanno ridisegnando l’Italia come una piramide di comitati d’affari, con vetta a Roma ma poi estesa ovunque, in una specie di federalismo dell’arte di arrangiarsi. La cosiddetta P3 ne è l’ultima immagine, dove riemerge perfino Flavio Carboni, vecchio piduista che ebbe il suo momento ai tempi dell’assassinio del banchiere Roberto Calvi, trent’anni fa. Ma l’elenco è lungo: la cricca di Anemone e gli appalti del G8; gli impuniti della ricostruzione dell’Aquila; le speculazioni ospedaliere in Lombardia dove pure la spesa sanitaria rispetto al Pil è la metà di quella della Campania bassoliniana. Proseguire sarebbe stucchevole. Meglio chiedersi come mai ritorni la corruzione, ingigantita e non di rado bipartisan, mentre l’opinione pubblica sembra indignarsi sempre meno.

La corruzione è ancora legata alla spesa pubblica: alle commesse opache, al mercato del diritto, agli incentivi furbeschi, che ora esplodono nell’eolico, domani chissà, ai pagamenti a piè di lista, per cui si operano i pazienti anche quando non serve. Ma rispetto agli anni pre-Mani Pulite c’è un cambiamento. Allora, l’industria parastatale e la pubblica amministrazione erano piegate al finanziamento dei partiti e dei loro dirigenti, spesso associati all’industria privata. Oggi, sono i faccendieri e le lobby che, materialmente o culturalmente, comprano i governanti, asservendoli. È l’inversione di una storia antica che ha nell’indebolirsi della politica la sua radice. Negli Anni 90, i partiti della Seconda Repubblica si gettarono alle spalle tessere, correnti, congressi e con essi l’idea che la leadership fosse da riconquistare ogni giorno, collegio per collegio. Le privatizzazioni furono sentite come l’alba della meritocrazia, dopo la corruzione. Con il tempo si è visto un nuovo tramonto: Parmalat, Popolare di Lodi, Telecom, Fastweb, Unipol, Rai, i traffici sul gas russo, i veleni su Finmeccanica. Un altro elenco lungo e stucchevole. Del quale, tuttavia, non si può tacere il finale: il crac del capitalismo finanziario anglosassone, fonte di ispirazione del riformismo italiano, su entrambi i lati dello schieramento politico. L’idea che la mera privatizzazione dell’economia potesse restituirci un’etica pubblica si è consumata nel falò delle vanità dei fondi che speculano senza costrutto e dei soliti noti che tosano le grandi imprese, nelle paghe smodate dei top manager, banchieri e non, mentre le disuguaglianze aumentano e l’ascensore sociale si ferma. Rimane la privatizzazione della politica. Che va oltre i conflitti d’interesse e contagia il sistema dei partiti dove i leader, o chi ha le chiavi della cassa, sono i padroni. Padroni blindati dalla legge elettorale che costringe i cittadini a votare i loro prescelti, sulla base di un’adesione ideologica in tempi senza ideologie. Come stupirsi se i prescelti, anonimi e miracolati a Roma quanto in provincia, subiscano la tentazione di mettersi al servizio di chi prometta la mancia? P.S. Che cosa aspettano il sottosegretario Nicola Cosentino e il coordinatore del Pdl, Denis Verdini, a dare le dimissioni o Silvio Berlusconi a pretenderle? O il Pdl a farsi sentire?

Massimo Mucchetti

14 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_14/il-mercato-piu-oscuro-massimo-mucchetti_4b4420c6-8f05-11df-9bdb-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 12, 2011, 04:40:31 pm »

Il commento

L'Ue litiga sulla speculazione

Il giallo dei titoli in mano Pechino

Prime incertezze sul debito di Paesi solidi come Francia, Olanda e Austria. Il nodo delle regole comuni


MILANO - Il voto di sfiducia, che a dicembre Silvio Berlusconi era riuscito in qualche modo a scansare in Parlamento, viene ora riproposto dai mercati finanziari, in vista degli «stress test» sulle banche europee e dell'asta di oggi dei Bot (6,7 miliardi) e di giovedì dei Btp (3-5 miliardi). Da ieri il tasso d'interesse sui Btp a 10 anni costa il 3,05 per cento in più rispetto ai Bund tedeschi di ugual durata. Mai nell'età dell'euro il differenziale con l'economia più solida d'Europa era stato così alto. Se il dato si consolida, il costo medio del debito pubblico italiano aumenterà sensibilmente, la manovra volta al pareggio del bilancio dello Stato nel 2014 si rivelerà insufficiente e i conti delle banche dovranno registrare pesanti minusvalenze sui vecchi titoli in portafoglio che si troverebbero a pagare interessi più bassi: abbastanza per vanificare le operazioni di rafforzamento patrimoniale fatte negli ultimi due anni e per indebolire la disponibilità di credito all'economia reale.


IMPERATIVO GRECIA - Simili esiti non sono ancora scontati, ma quel che emerge con chiarezza è che arruolare nella maggioranza tre deputati ex finiani non è un argomento che accrediti il governo presso quanti all'estero detengono, secondo le statistiche del Fondo monetario internazionale, il 44% dei titoli di Stato italiani. Anzi, certe furbizie rischiano di aggravare la crisi di credibilità di un Paese che pure, a fronte dei 1.900 miliardi di debito pubblico, per l'83% statale, può vantare una ricchezza privata in immobili e strumenti finanziari pari a circa 8.000 miliardi. La gestione delle aste delle obbligazioni del Tesoro, fatta con grande professionalità dal ministero, e lo stesso rigore contabile del titolare dell'Economia, Giulio Tremonti, non bastano a coprire il vuoto politico di un esecutivo che invoca i global legal standard , sventola la bandiera del patriottismo economico e poi, di fronte a delle scelte concrete, si defila. L'imperativo categorico è far capire al mondo che la Grecia verrà salvata e nessun Paese dell'euro sarà abbandonato. Ma, ammesso che si vada d'accordo su come distribuire gli oneri, resta da definire una direzione efficace e tempestiva del Fondo salva Stati. Diversamente, l'Eurozona patirà un handicap grave rispetto ai concorrenti con una moneta e un governo. E le prime incertezze sul debito di Paesi solidi come Francia, Olanda e Austria suonano un altro campanello d'allarme.

LEGITTIMI TIMORI E SUDDITANZE - Più in generale, ci si chiede se, guardando oltre l'emergenza, abbia ancora senso lasciare immutato il mercato finanziario costruito negli anni Novanta seguendo la cultura che ha portato al disastro. In Europa, i deputati popolari, socialisti e verdi vorrebbero proibire la speculazione sui credit default swaps sui titoli di Stato, che moltiplicano i rischi anziché assicurarli come dovrebbero in teoria fare. I governi di Francia e Germania vorrebbero confermare questo orientamento, ma i governi inglese, spagnolo, svedese e altri non ci stanno. La presidenza polacca sembra filoinglese.
Ma fin dove arriva la legittima preoccupazione per la liquidità dei mercati, che già una volta era venuta meno nonostante la deregulation , e da dove inizia la sudditanza di alcuni governi e alcune economie all'industria finanziaria? In questo contrasto tra Parlamento europeo e governi nazionali l'Italia da che parte sta? Che cosa pensiamo della Tobin tax e degli altri strumenti buoni per raffreddare la pericolosa frenesia della finanza? Al governo basta l'informativa sulle posizioni corte allo scoperto, imposta ieri dalla Consob, buona ultima rispetto alle consorelle europee e tuttavia esempio di attivismo rispetto all'esecutivo? Silenzio. Si riparla della norma salva-Fininvest per rilanciare le imprese.

I FATTI E LE ANALISI - Ma le insufficienze non sono solo italiane. Tolto ogni vincolo alla libera circolazione dei capitali, gli Stati sanno quanto del loro debito sta fuori dai confini, ma non quanto sia detenuto da residenti e quanto da non residenti nell'Eurozona, quanto da investitori stabili e quanto da hedge fund e affini. Da Pechino si dice che la Cina detenga il 13-14% del debito pubblico italiano, ma il Tesoro non ha gli strumenti per sapere se si tratta dell'intero debito pubblico o dei soli Btp. Detto questo, c'è qualcuno che parla con i cinesi per vedere se si può fare qualcosa?
Certo, si potrà anche osservare che l'economia reale non ha più problemi di sei mesi fa. E magari citare il Fiscal Monitor del Fondo monetario di aprile, secondo il quale l'Italia è uno dei Paesi che ha meno bisogno di interventi sulla finanza pubblica per stabilizzare il proprio debito nel lungo termine. Ma i fatti pesano più delle analisi. E i fatti dicono che negli ultimi giorni a vendere sono stati investitori che i titoli di Stato li possedevano. Un segno pesante, che va al di là delle classiche vendite allo scoperto delle banche che si preparano alle aste di Bot e Btp. Il Belpaese non è il Giappone, dove la bassa crescita non ha inciso sui tassi del più grande debito pubblico del mondo, perché è quasi tutto detenuto da giapponesi. Ma governo e sistema finanziario devono fare quadrato.

Massimo Mucchetti

12 luglio 2011 08:30© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_12/mucchetti-speculazioni-titolo_bf0a4796-ac47-11e0-96a7-7cc3952b9d04.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 13, 2011, 10:58:05 am »

EUROPA, SALARI, POLITICHE PUBBLICHE

L'emergenza che non vediamo

L' Economist dedica la copertina alla ricerca del lavoro che non c'è in tutto l'Occidente. Nei 34 Paesi dell'Ocse, i più avanzati del mondo, i disoccupati sono 44 milioni, più o meno gli abitanti della Spagna. Ma per calcolare quanti posti mancano davvero andrebbero considerati anche i lavoratori part-time che vogliono il tempo pieno (un posto ogni due tempi parziali), i dipendenti sottoposti a sospensioni lunghe dall'attività (un posto ogni 1.800 ore di integrazione salariale) e infine gli scoraggiati (coloro i quali non hanno più cercato lavoro negli ultimi tempi). I posti che mancano nell'area Ocse diventerebbero così 100 milioni.
Il diavolo che minaccia l'Occidente è dunque peggiore di quello dipinto dal settimanale britannico. E tuttavia, al di là dei numeri, colpisce l'enfasi dell'antica testata liberale sulla questione del lavoro mentre i governi europei e la Bce combattono il deficit dei bilanci pubblici senza troppo curarsi degli effetti collaterali che deprimono l'economia, e dunque l'occupazione. Certo, da tempo la Banca d'Italia invoca politiche per la crescita basate su riforme a costo zero come quella, peraltro inderogabile, della giustizia civile e quella, tutta da approfondire, del mercato del lavoro. Ma oggi tra la durezza della crisi e il riformismo in stile anni Novanta emerge la stessa distanza che separa i fatti dalle parole: vanno male anche i maestri di quella stagione. E allora torniamo a chiederci se ci possa essere una ripresa duratura senza invertire la ridistribuzione sempre più ineguale della ricchezza, quando sappiamo che il disastro è cominciato dall'insolvenza dei poveri fatti indebitare per farli consumare senza aumentare loro le paghe. E poi crediamo davvero che l'Italia possa basarsi soltanto sull'estero quando le imprese esportatrici, peraltro ottime, importano sempre più componenti? E l'Eurozona potrà mai riprendersi se i suoi 450 milioni di cittadini non torneranno a spendere?
Forse non è un caso se George Magnus, l'economista principe di Ubs che aveva capito la crisi dei mutui «subprime » prima della Casa Bianca, ora scrive su Bloomberg : «Date a Marx una chance di salvare l'economia mondiale». La sua è una provocazione. Ma resta il fatto che il balzo della produttività è avvenuto attraverso il taglio dei costi, il trasferimento delle produzioni nei Paesi emergenti, gli arbitraggi fiscali e regolatori tra legislazioni e non solo attraverso il progresso tecnologico. Un processo che ha congelato i salari reali e aumentato la disoccupazione a tutto vantaggio dei profitti. Un'impresa riceverà applausi, se batte questa strada. Un Paese pure, se avrà l'accortezza di non costringere poi i clienti alla recessione, come invece sta facendo la Germania in Europa. Ma se lo fanno tutti? Se lo fanno tutti, ironizza Magnus, si entra nel paradosso marxiano della sovrapproduzione: il sistema ha fatto investimenti per sfornare una quantità di merci superiore alla sua capacità di consumo. E qualcuno deve pagare il conto.
Se non vogliono resuscitare il rivoluzionario di Treviri o, più probabilmente, esporre a tumulti nordafricani democrazie che ai giovani derubati della speranza sembreranno inutili, i governi dovrebbero porre in cima all'agenda il lavoro, non il deficit dei conti pubblici. E il lavoro si crea attivando la domanda interna. Anche a costo di un po' di inflazione.
Sul Financial Times , sir Samuel Brittan critica i flirt marxisteggianti. Ma non censura i rischi della stagnazione salariale né gli auspici d'inflazione. Del resto, la Bank of England e la Federal Reserve continuano a stampare moneta, sia pur virtuale. E pur avendo conti peggiori dell'Eurozona, i debiti pubblici di Regno Unito e Usa galleggiano. La Bce non lo fa perché non ha alle spalle un governo che glielo chieda. E l'euro trema.
In queste condizioni, l'Italia non può lasciar correre il deficit né disimpegnarsi sulla riduzione del debito. Ma rischia anche la recessione se non riesce a riorientare il risparmio privato dai deludenti impieghi finanziari verso gli investimenti nell'economia reale attraverso la leva della politica industriale (che non vuol dire un'altra Finsider ma, per esempio, no ai contributi esagerati per le fonti rinnovabili e sì al risparmio energetico). E la domanda interna non parte se, in attesa di poter alzare i salari, non si usa con coraggio la leva fiscale. È possibile, a parità di gettito, trasferire almeno in parte l'Irap alle retribuzioni e al tempo stesso aumentare l'Irpef? Far pagare la sanità a tutti i cittadini secondo aliquote progressive anziché alle imprese e ai dipendenti sarebbe anche un atto di giustizia. E se si vuole fare un po' di inflazione, a sollievo del debito pubblico, l'Italia dovrebbe convincere l'Eurozona ad aumentare l'Iva, così da spostare un po' di peso anche sulle importazioni, avendo cura di salvaguardare i redditi bassi con ritocchi dell'Irpef. Insomma, possiamo rialzarci. Ma ci vorrebbe un governo. Capace di politica interna e di politica estera.

Massimo Mucchetti

13 settembre 2011 08:52© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_13/mucchetti-economist-salari_f6d866f8-ddca-11e0-aa0f-d391be7b57bb.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 28, 2011, 06:51:53 pm »

Bilancio

Il Governo Studia un Fondo taglia-debiti

Allo studio del Tesoro la proposta per abbattere 150 miliardi l'esposizione

E il debito pubblico? Il ministero dell'Economia, di cui ha l'interim il primo ministro Mario Monti, sta studiando come abbattere di 100-150 miliardi il debito del Tesoro valorizzando il meglio del patrimonio pubblico. Sono stati ascoltati gli sherpa di Mediobanca, Deutsche Bank e Bnp Paribas. Non siamo ancora agli incontri al vertice come quelli di vent'anni fa tra il ministro del Tesoro, Piero Barucci, e il banchiere Enrico Cuccia per studiare la fusione Eni-Iri o alle presentazioni ufficiali delle privatizzazioni, come quella avvenuta nel 1992 sul panfilo reale Britannia. Del tema, in verità, aveva già cominciato ad occuparsi il ministro Giulio Tremonti, ma la crisi del governo Berlusconi l'aveva fermato. D'altra parte, dal seminario del 5 ottobre gli ottimisti avevano estratto stime del patrimonio pubblico pari a 1.800 miliardi, fuori dalla realtà commerciale.


Poi, per qualche settimana, l'Italia ha pensato di domare il proprio enorme debito pubblico tornando agli anni 90, quando il bilancio statale chiudeva con un avanzo di qualche punto percentuale prima degli interessi sul debito e il Tesoro privatizzava società e partecipazioni in quantità senza precedenti in Occidente. In particolare, la politica si è cullata nell'illusione che la crescita dell'economia avrebbe ridotto di per sé il peso del debito sul Pil. E poiché nella crisi dei titoli degli Stati più deboli dell'eurozona c'è lo zampino della speculazione globale, molto ci si attendeva dalla Banca centrale europea (Bce) e dall'Unione Europea.


Con il governo Monti, l'Italia ha avuto il rigore, non ancora la crescita. Anzi, è in arrivo la recessione. È lecito sperare qualcosa dalle riforme, se si faranno. Sarebbe imprudente, dato anche il quadro internazionale, aspettarsi troppo. Sul piano europeo, la Bce ha prestato quasi mezzo trilione di euro all'1% alle banche, scontandone gli attivi. Ma da questa operazione si pretende tutto e il contrario di tutto: troppo.

Si dice, per esempio, che tali denari debbano andare alle imprese per contrastare la recessione. Bene. E le banche questo promettono, a partire da Unicredit le cui fondazioni hanno infine deliberato l'adesione all'aumento di capitale. Ma, con le assicurazioni, le banche sono anche e da sempre le massime acquirenti di titoli del debito pubblico. E così si insinua che, senza strombazzarlo, le banche faranno pure il loro secondo lavoro, magari per approfittare della forbice dei tassi. Con astuzia machiavellica, insomma, Mario Draghi si avvierebbe al quantitative easing dei titoli pubblici per interposte banche private. Da un punto di vista pubblico, sarebbe più logico che a sottoscrivere le nuove emissioni fosse la Bce. Ma le regole europee fanno questo regalo alle banche. Eppure...


Fino a ieri, i titoli pubblici dell'eurozona erano considerati risk free , privi di rischio. Di più: erano raccomandati dalle autorità monetarie internazionali per costituire in ogni banca i cuscinetti di liquidità indispensabili a fronteggiare le emergenze. Ebbene, come possono le banche continuare nel loro secondo lavoro se ciò che era risk free non lo è più per decisione della European Banking Authority (Eba) e del Consiglio europeo, nel silenzio della Bce e se comprando titoli pubblici rischiano nuove svalutazioni e nuovi aumenti di capitale?
L'Eba e il Consiglio europeo hanno gridato al mondo che il re è nudo, dimenticando che la civiltà si regge anche su qualche tabù. È possibile che, per continuare a vivere, il re debba rapidamente ricoprirsi, è possibile cioè che il debito pubblico dell'eurozona torni a essere considerato senza rischio nei bilanci bancari. Ma quel che è detto è detto. Non a caso il rendimento dei Btp a 10 anni è tornato a un preoccupante 7%.


Nessuno sa interpretare davvero i mercati, entità irrazionali. Perché i tassi sui Btp erano bassi quando l'Italia perdeva il 7% del Pil e sono esplosi nel 2011, anno scarso, ma non terribile come il 2009? Il fatto è che adesso si è acceso il faro sui debiti pubblici. E allora anche la quantità è entrata nel computo dei rischi. Come, del resto, accade in tutte le aziende. Accanto ai provvedimenti per la crescita, serve dunque una mazzata al debito per riportarne il costo a livelli più sostenibili.
Sulla carta le idee sono due, non necessariamente alternative: a) un consistente prelievo una tantum sulla ricchezza delle famiglie da una certa soglia in su; b) una realistica valorizzazione delle attività pubbliche in tempi stretti. La prima idea, sostenuta soprattutto dai sindacati, non è stata adottata dal governo Monti. Che si è limitato a una somma di imposte patrimoniali (lusso, bolli, Ici) che vale quasi l'1% del Pil. Più o meno quanto chiedeva Confindustria. L'idea del prelievo straordinario potrà essere ripresa, magari con parziali compensazioni sulle dichiarazioni dei redditi future come consigliava sul Corriere il banchiere Pietro Modiano? Al momento nessuno può dirlo, anche perché nel Pdl e nello stesso Pd si nutrono molte riserve sul prelievo pesante.


La seconda idea può avere attuazioni diverse, purché immediate e senza dimenticare che non siamo più negli anni 90, con le Borse al rialzo e tutta l'argenteria ancora da vendere. Qui siamo al cesello, per incassare subito e non svendere. Per smobilizzare gli edifici delle pubbliche amministrazioni centrali e locali, Deutsche Bank suggerisce di importare dagli Usa il modello dei Real estate investment trust , grandi fondi immobiliari con benefici fiscali ai sottoscrittori. Tra i tecnici ministeriali non si esclude di usare questa formula, che può coinvolgere i cittadini, anche per le partecipazioni (Eni, Enel, eccetera). Un fondo da 2-300 miliardi potrebbe indebitarsi per la metà dando tutti gli attivi in garanzia e ricomprare titoli di Stato approfittando delle basse quotazioni.
Mediobanca propende per la costituzione di una società, anche pubblica, alla quale Tesoro ed enti locali dovrebbero cedere partecipazioni e immobili appetibili per 100 miliardi. Questa società pagherebbe emettendo obbligazioni a un tasso assai più basso dei Btp perché garantite non solo dallo Stato ma anche dagli attivi. Queste obbligazioni verrebbero riservate a banche e assicurazioni in cambio dei loro Btp. Che il Tesoro potrebbe poi cancellare.


In ogni caso, ci vorrà sapienza politica per convincere gli enti locali a conferire case ed ex municipalizzate e, ancor più, per avere il consenso dell'Unione Europea a far uscire i nuovi debiti dal perimetro del debito pubblico. Come fa la Germania con la KfW. E ci vorrà pure il placet della Bce se saranno coinvolte le banche. Ma in ogni caso, è da queste manovre che l'Italia potrebbe emanciparsi in tutto o in parte dai colossali e pericolosi rinnovi di titoli di Stato nel biennio di ferro 2012-13. Con prevedibili e non trascurabili risparmi sui tassi.

Massimo Mucchetti

28 dicembre 2011 | 7:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_dicembre_28/governo-fondo-salva-debiti-mucchetti_a74cadf2-311b-11e1-b43c-7e9ccdb19a32.shtml
« Ultima modifica: Dicembre 29, 2011, 11:46:26 am da Admin » Registrato
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« Risposta #5 inserito:: Febbraio 18, 2012, 10:02:47 am »

NON È SOLO QUESTIONE DI OFFERTA

Chi crea (forse) un po’ di lavoro

Il mercato è il luogo dove s’incontrano la domanda e l’offerta di merci e servizi. Tra le merci il lavoro è la più importante e la meno dominabile perché, diversamente da un abbonamento telefonico, un iPad o un titolo finanziario, è viva, legata al cervello e al cuore delle persone. In questi giorni, il governo Monti e le rappresentanze sociali affrontano la riforma del mercato del lavoro. È un passaggio necessario per migliorare l’efficienza del sistema. Ma l’Italia soffre di una clamorosa amnesia. Dimentica la domanda di lavoro.

Parliamo di riforma del mercato del lavoro, ma in realtà ce ne stiamo occupando soltanto dal lato della riorganizzazione dell’offerta. Come se bastasse cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori (che riguarda le persone e non la loro prestazione, la merce lavoro) per avere imprenditori capaci di assumere su larga scala. O investitori esteri pronti a costruire nuove aziende e centri di ricerca nel Bel Paese (e non solo a comprarsi quel che c’è), quando perfino un candidato alla presidenza della Confindustria come Giorgio Squinzi riconosce che non è l’articolo 18 la causa di un tale disinteresse. Il fatto è che la caduta della domanda di lavoro riguarda tutto l’Occidente. Sfuggire a questo nodo indebolisce le ragioni e gli effetti della riforma dell’offerta di lavoro.

La finanza e la tecnologia marciano con un altro passo. Il collocamento di Facebook a Wall Street avviene sulla base di una valutazione del più famoso social network del mondo tra i 75 e i 100 miliardi di dollari. Il punto interessante è che Facebook, con 3,7 miliardi di fatturato e uno di utile, dà lavoro a 3.200 persone. The Economist ricorda che il prezzo di Facebook è superiore a quello della Boeing. Ma lo è anche il valore? Boeing capitalizza soltanto 56 miliardi di dollari, ma dichiara un utile netto di 4 miliardi, ne investe uno in nuovi impianti e ne spende 4 in ricerca e sviluppo. E soprattutto dà lavoro a 160 mila persone, delle quali 35 mila laureate. Mark Zuckerberg è un genio che ha costruito un gioiello in 8 anni. La Boeing festeggerà il secolo dal primo volo nel 2015. La finanza fa le sue scommesse. Ma la Borsa non esaurisce un Paese. E allora chi genera più ricchezza e più conoscenza tra questi due campioni della modernità, l’uno con qualche centinaio di ragazzi neomilionari grazie alle stock option e l’altro, pure non privo di simili premi, con il 36% dei dipendenti, non tutti matusalemme, iscritti al sindacato?

Il fenomeno, ha osservato Massimo Sideri, non è limitato a Facebook. Google ha 30 mila persone e vale 160 miliardi di dollari: quanto Telecom Italia e Telefonica messe assieme, con i loro 280 mila addetti. Apple occupa 43 mila persone negli States e dà lavoro ad altre 700 mila oltre frontiera. Ma anche le multinazionali tascabili italiane, tornate a esportare bene nel 2011, hanno spostato altre fasi del processo produttivo all’estero. E ora covano — loro e i grandi gruppi — sacche di disoccupazione strutturale.

In una società progredita, coesistono tutti i modelli di impresa. Nel ridisegnare l’offerta del lavoro, dovremo tenere presente come cambia la domanda di questa merce speciale nel mondo e nell’Italia a due velocità: con la pubblica amministrazione pletorica, un commercio spesso furbesco e il sistema industriale che ha ristrutturato.

Massimo Mucchetti

16 febbraio 2012 | 8:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_16/mucchetti-chi-crea-un-po-di-lavoro_5168ee52-5865-11e1-9269-1668ca0418d4.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 17, 2012, 11:45:07 am »

DOMANI L'INCONTRO CON MONTI

Paese cambiato, mercato difficile

La solitudine della famiglia Agnelli

Il Premier avrà di fronte l'erede di Giovanni Agnelli, un giovane uomo assai diverso dal nonno. E, soprattutto, molto più solo


Domani John Elkann e Sergio Marchionne incontrano il premier Mario Monti a Palazzo Chigi per parlare del futuro della Fiat.
Benché in programma da tempo, il colloquio sconta l'intervista dell'amministratore delegato al Corriere e il suo drammatico avvertimento: se non riuscirà a esportare abbastanza negli Usa, la Fiat chiuderà due dei cinque stabilimenti italiani, dove peraltro migliaia di persone sono già in cassa integrazione da tempo. Nonostante le rassicurazioni sulla capacità di vincere la scommessa, sono in pochi a credere che dall'Italia sia possibile esportare oltre Atlantico 400 mila vetture l'anno. Ma esiste un'alternativa? E il governo crede valga la pena di costruirla?


A Marchionne il premier potrà chiedere conto del progetto Fabbrica Italia che prometteva di produrre qui 1,4 milioni di auto entro il 2014, quasi il triplo del 2011, in un'Europa appesantita da troppe fabbriche. Ma a Elkann, presidente e primo azionista della Fiat, che cosa si può chiedere? Monti avrà di fronte l'erede di Giovanni Agnelli, un giovane uomo assai diverso dal nonno. E, soprattutto, molto più solo.
Il senatore Agnelli fu un grande protagonista della vita nazionale. Un Re senza corona che si stupiva se un Quandt, padrone della Bmw, lo veniva a trovare prendendo un volo di linea anziché l 'avion privé . E trovava normale avere in Fiat una foresteria degna di un grand hotel, anziché il servizio corretto e spartano di oggi. Ma soprattutto Agnelli poteva contare su quattro fattori ormai venuti meno: a) un patrimonio aziendale enorme; b) un house bank , Mediobanca, che dava tutela in cambio di rispetto e, talvolta, di relativa sottomissione come testimonia l'ampio potere attribuito a Cesare Romiti per vent'anni; c) un rapporto sindacale profondo, che poteva comportare tanto l'assedio di Mirafiori quanto l'accordo sul punto unico di contingenza Lama-Agnelli e la concertazione fino ai tre anni fa; d) l'appoggio concreto dei governi: finanziamenti agevolati e a fondo perduto, acquisizione delle aziende deboli del gruppo come Teksid, negazione dell'Alfa alla Ford, una politica dei trasporti pro gomma e anti ferrovia. Con Giovanni Agnelli, e prima di lui con Vittorio Valletta, la Fiat era l'Italia e l'Italia la Fiat.


Elkann, invece, è un soggetto del tutto privato. Laureato in ingegneria, nessuno lo chiama l'Ingegnere, a differenza del nonno che era per tutti l'Avvocato pur non avendo mai avuto sostenuto una causa. Il patrimonio aziendale si è molto ridotto. Tra il 1998 e il 2010 la Fiat Auto ha perso circa nove miliardi, una voragine colmata con emissioni azionarie della holding, cessione di partecipazioni e anche con il premio che General Motors pagò pur di non doversi prendere le quattro ruote di Torino. Negli ultimi undici anni i soci della Fiat hanno avuto 5 volte il dividendo, e non sempre rotondo, e 6 volte no, anche se debbono riconoscere a Marchionne una cospicua rivalutazione dei titoli. Ora, se la Fiat avesse bisogno di altri soldi, l'Exor, la holding degli Agnelli, ne avrebbe pochi da mettere e dovrebbe rinunciare alla diversificazione del portafoglio. Non a caso Marchionne ha promesso che mai più un euro di capitale verrà rischiato sull'auto.


La Fiat del 2012 non può più contare su Mediobanca che, d'altra parte, ha perso la centralità di un tempo. E il sistema finanziario le fa pagare normalmente il denaro. Per decenni alla Real Casa di Torino i prestiti costavano meno che alle altre imprese. Si parlò a lungo di tasso Fiat. Adesso la Fiat paga il denaro più delle multinazionali tascabili nostrane. E non parliamo della Chrysler, che viaggia sull'8%.
Il sindacato è diviso e sconfitto come ai tempi di Valletta. Non rappresenta più un problema: lo riconosce lo stesso Marchionne. Ma, aggiungiamo noi, non è nemmeno quel vincolo positivo che è stato storicamente nel Novecento costringendo le imprese a migliorare per recuperare gli aumenti salariali e come continua a essere alla Volkswagen per esplicito riconoscimento di Martin Winterkorn.


Al governo del Paese d'origine la multinazionale Fiat non ha più niente da chiedere: non vuole nulla, se non una non meglio specificata politica industriale, forse perché pensa che il governo non abbia nulla da dare. E dunque gli Agnelli di oggi, guidati da Elkann, possono rivendicare il diritto di decidere dell'eredità dell'Avvocato senza più i vecchi vincoli dell'Avvocato. Come se l'industria dell'auto basata in Italia non fosse più adatta a loro e loro all'auto. Ma il premier potrà limitarsi a registrare, come fosse un notaio, la svolta della Fiat, che Marchionne ha reso ufficiale con l'intervista al Corriere ma che era già leggibile nel momento in cui rinviava di anno in anno l'investimento nei nuovi modelli mentre la concorrenza dava il meglio di sè?
In altri Paesi, i colleghi di Monti avrebbero davanti tre, quattro, cinque produttori, nazionali ed esteri. In Italia non è così. Ormai tutti hanno capito quale errore sia stato aver concentrata l'intera produzione automobilistica in una sola mano. Chissà se il governo si è preparato all'incontro verificando in proprio se, decaduta Fabbrica Italia, esistano case internazionali interessate ai marchi e ai siti produttivi italiani. A cominciare dalla Volkswagen che da tempo fa intendere una passione per l'Alfa come, attraverso l'Audi, l'ha appena apertamente manifestata per la Ducati.

Massimo Mucchetti

15 marzo 2012 | 16:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_marzo_15/mucchetti-paese-cambiato-mercato-difficile_21aca70a-6e66-11e1-850b-8beb09a51954.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 05, 2012, 12:01:41 pm »

LE TANTE AZIENDE NAZIONALI «A SCONTO»

Il Paese è ricco di buone occasioni

La Deutsche Bank ha un'opzione d'acquisto sul 5% di Unicredit che il fondo speculativo Pamplona ha rastrellato a prezzo vile con soldi presi a prestito proprio dalla banca di Francoforte. E poi si scopre che questa detiene anche l'1% in diretta proprietà. L'Allianz, compagnia assicurativa di Monaco di Baviera, conserva il suo storico 2%. Il capitale tedesco, che nel 2005 aveva una rilevante partecipazione in Unicredit all'indomani dell'acquisizione della Hypo und Vereinsbank, si era defilato, soprattutto di fronte alle nuove emissioni azionarie, pur indispensabili per salvare la banca transeuropea costruita da Alessandro Profumo. Adesso, mentre il premier Mario Monti tratta con la cancelliera Angela Merkel le condizioni dell'European Redemption Fund a presidio dei debiti pubblici, la Deutsche Bank si mette nelle condizioni di contendere al fondo sovrano di Abu Dhabi il ruolo di primo azionista della principale banca italiana, il cui attivo è pari al 60% del Prodotto interno lordo del Paese.

Il colosso tedesco era stato il primo, nel luglio 2011, a tagliare i titoli di Stato italiani e a darne notizia ai mercati. Il governo Berlusconi sottovalutò quel campanello d'allarme. Monti e la Banca d'Italia hanno potere ed esperienza per farsi sentire in questa nuova partita.

Deutsche Bank deve chiarire le condizioni del prestito e dell'opzione e, soprattutto, i suoi progetti. Magari spiegherà che si tratta di un trading più sofisticato di altri. Tireremo un sospiro di sollievo. Ma se così non fosse, nemmeno la banca presieduta da Paul Achleitner potrebbe essere accolta a scatola chiusa. Sarebbe interessante, per esempio, riclassificarne lo stato patrimoniale secondo la declinazione italiana dei principi contabili internazionali. Che è più seria - sì, leggete bene: più seria - di quella tedesca. E poi, rifatti per bene i conti, la Vigilanza dirà quel che deve nel rispetto delle leggi.

Il crollo della Borsa mostra un'Italia a sconto. Pesa la recessione, ma anche, e molto, la percezione di un rischio Paese più alto di quanto non dicano i numeri base dell'economia. In queste condizioni, l'Italia corre il duplice pericolo di farsi sfilare i gioielli del settore privato - uno per tutti: le Generali - attraverso manovre finanziarie, magari opache, e di trovarsi costretta a mettere all'incanto le grandi aziende a partecipazione statale - Eni, Enel, Finmeccanica - quale pegno di risanamento della finanza pubblica. Non sarebbe un bel giorno. Meglio evitarlo.

Il caso Unicredit ha valore preventivo e segnaletico. L'Italia non è un Paese chiuso. Ma vuol conservare il potere di decidere sulle partite strategiche. Quando l'Audi compra la Ducati, spiace constatare che non si sia ripetuta la storia della Piaggio, dove un italiano, Roberto Colaninno, seppe prendere in mano la situazione. E tuttavia l'Audi va salutata con fiducia perché entra in trasparenza, chiedendo permesso anche ai sindacati (tutti) e garantendo sviluppo a Bologna. Il governo dei flussi finanziari è più delicato. Non possiamo dimenticare che la Banca d'Italia ha sudato le sette camicie per recuperare la sovranità di Unicredit sulla liquidità del gruppo che la Bafin, la Vigilanza tedesca, aveva segregato in Germania. Insomma, banche, assicurazioni e industrie non vivono trincerandosi. Si può cambiare. Anche molto. Ma mettendo prima tutte le carte sul tavolo. Con spirito paritario ed europeo.

Massimo Mucchetti

28 giugno 2012 (modifica il 29 giugno 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_28/il-paese-e-ricco-di-buone-occasioni-massimo-mucchetti_3184a39c-c0de-11e1-a4a5-279d925cad5b.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 17, 2012, 05:18:33 pm »

DUE INCOGNITE SULLE CESSIONI

La necessità e il coraggio

Il nuovo ministro del Tesoro, Vittorio Grilli, apre uno spiraglio alla manovra per ridurre il debito pubblico. Il governo intende così ridurre il rischio implicito nei titoli di Stato, e dunque il loro costo: 85 miliardi l'anno, il 40% dei quali va all'estero, un salasso alla lunga disastroso.

Questo rischio dipende in primis dall'andamento dell'economia. Quanto più cresce il Prodotto interno lordo (Pil), tanto minore è il pericolo che le entrate fiscali non bastino a onorare gli impegni. Ma pesa molto anche l'ammontare del debito. Se troppo elevato, può esporre il Tesoro a gravi difficoltà nel rimborsare le obbligazioni in scadenza con nuove emissioni. Ora, nella sua intervista al Corriere , Grilli impegna il governo a cedere beni patrimoniali dello Stato e degli enti locali per 15-20 miliardi l'anno per 5 anni e prospetta una crescita annuale del Pil del 3% nominale, e cioè al lordo dell'inflazione come al lordo dell'inflazione si registra il debito. Con i conti pubblici in pari, nel 2017 l'incidenza del debito delle amministrazioni centrali e locali sul Pil scenderebbe dal 123% a poco più del 100%, che rappresenta la media corrente del rapporto debito/Pil nei Paesi dell'Ocse. Fosse vero, l'Italia sarebbe avvicinata pure da parecchi sedicenti virtuosi. Molti Paesi stanno infatti accumulando ingenti deficit annuali per salvare banche e imprese. Ne deriverà un'impennata del loro debito pubblico molto più forte rispetto a quella in atto da noi.

La prospettiva di Grilli, tuttavia, ha due incognite. Una è la crescita. Nel 2012, il Pil nazionale è fermo a prezzi correnti e scende del 2%, se togliamo l'inflazione. Il Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, prevede la ripresa al 2013 a patto che si diano condizioni adatte, non tutte in potere del governo. L'altra incognita riguarda proprio la manovra taglia debito. Ministero dell'Economia e Banca d'Italia escludono prestiti forzosi garantiti da attività pubbliche come i pacchetti azionari Eni o Enel: gli interessi risparmiati su tali obbligazioni sarebbero compensati in negativo dai maggiori interessi sul debito residuo, deprivato delle sue migliori garanzie. Forme più incisive di tassazione dei patrimoni non sono alle viste. La strada maestra, al momento, resta quella delle cessioni. Grilli ne ipotizza per 75-100 miliardi. La cifra è sensata, ma spalmata in un quinquennio perde incisività. Serve più coraggio. Magari non tanto negli annunci, possibile fonte di illusioni, quanto nella prassi.

Certo, il mattone darà quel che potrà, idem le ex municipalizzate quotate, e le altre andranno prima aggiustate e aggregate, altrimenti ne verrà poco. Ma Eni, Enel, Finmeccanica, Anas, Fs, Rai possono essere valorizzate in un anno, massimo due. Laddove non si ritenga conveniente la privatizzazione, si può usare la Cassa depositi e prestiti (Cdp). Già è accaduto con la cessione di Fintecna e Sace. A questo punto, il vincolo non è il fantasma dell'Iri, che aleggerebbe sulla Cdp. Grilli fa bene a toglierlo dal tavolo. Deve semmai preoccupare l'equilibrio patrimoniale della Cdp, che usa risparmio privato, non fondi di dotazione, e dunque non si deve accollare aziende in crisi, il Monte dei Paschi per esempio. E tuttavia, se ricapitalizzata da soggetti diversi dal Tesoro e dotata di buona governance , la Cdp può ancora muoversi. Oltre i 25 miliardi ottenuti in Bce, buoni per fare prestiti.

Massimo Mucchetti

16 luglio 2012 | 7:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_16/necessita-coraggio-mucchetti_9447ba9a-cf03-11e1-8c66-2d335d06386b.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 09, 2012, 05:49:05 pm »

È possibile farlo senza ricorrere a patrimoniali straordinarie?

Cessioni, rientro di capitali e Btp più lunghi

Sei ipotesi per tagliare il debito pubblico

La proposta Amato-Bassanini: un mix di interventi per ridurlo di 200 miliardi in 8 anni

La «conversione» dell'ex presidente del Consiglio rispetto all'idea della patrimoniale

È possibile tentare qualcosa di più di quanto abbia promesso Vittorio Grilli per aggredire il debito pubblico italiano senza cadere nelle promesse mirabolanti ma di dubbia realizzazione come quelle appena fatte da Angelino Alfano? Ed è possibile riuscirci senza ricorrere a massicce imposizioni patrimoniali straordinarie? La risposta che viene dall'ex premier Giuliano Amato e dal presidente della Cassa depositi e prestiti, Franco Bassanini, è positiva. Una terza via è praticabile, e potrebbe dare 150-200 miliardi entro il 2017 e altri 150 nel quinquennio successivo se si insisterà con coerenza sulle misure adottate. Ma ci vuole coesione nazionale al di là delle mutevoli maggioranze di governo e una certa centralizzazione delle decisioni rispetto alla babele delle periferie. Perché non esiste una sola mossa vincente, ma un mix di interventi di diverso genere.

Per inquadrare la nuova proposta, che è stata inviata al premier Mario Monti e al ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, vanno ricordate le due linee in campo al momento. La prima è quella dello stesso Grilli, che aveva prospettato, nell'intervista al Corriere , una serie di cessioni di immobili e partecipazioni dello Stato e degli enti locali per 15-20 miliardi l'anno per 5 anni. Il debito verrebbe così abbattuto, a regime, per 75-100 miliardi e la sua incidenza sul Prodotto interno lordo attuale diminuirebbe di 5-7 punti percentuali. Se a partire dal 2014 l'economia riprendesse a crescere, l'incidenza del debito sul Pil calerebbe ancora un po'. Grilli è attendibile ma potrebbe essere un po' troppo prudente.

L'altra linea è quella del segretario del Pdl, che vorrebbe un clamoroso colpo secco: un taglio da 400 miliardi in 5 anni per riportare l'incidenza del debito pubblico sotto il 100% del Pil. L'idea principale è quella di costituire un fondo al quale verrebbero conferiti nel quinquennio beni pubblici da «pagare» con il ricavato di speciali emissioni obbligazionarie con il rating massimo perché garantite da quei medesimi beni. Con l'incasso così ottenuto, Stato ed enti locali cancellerebbero un'equivalente porzione del debito. Ma come ciò possa concretamente avvenire non è ancora chiaro. Senza mettere in campo l'oro della Banca d'Italia, infatti, è difficile che le agenzie di rating concedano la tripla A alle obbligazioni del fondo di Alfano. Di questi tempi, il rischio Paese prevale su tutto: basti pensare che la Cassa depositi e prestiti non va oltre il rating della Repubblica italiana pur avendo un core tier 1 del 28%, assai più alto di quello delle consorella tedesca KfW che tuttavia gode della tripla A proprio perché tedesca. Le riserve auree, poi, sono una materia troppo delicata per essere trattate in modo estemporaneo: una materia troppo legata alla Banca centrale europea e ancor più al suo destino: se la Bce diventerà, come tanti si augurano anche in Italia, prestatrice di ultima istanza e stampatrice senza limiti prefissati di moneta, forse un po' d'altro oro le potrà essere utile per non gettare sul mercato carta pura e semplice. Non a caso sul tema adesso si tace.

In conferenza stampa, Alfano ha speso molte parole per polemizzare contro il Pd che, secondo lui, vorrebbe aggredire il debito pubblico soltanto attraverso un'imposta patrimoniale di ampia portata. In realtà, il Pd non sta coltivando alcun progetto di «patrimoniale» pesante una tantum , ma per bocca del responsabile economico, Stefano Fassina, ha proposto a suo tempo un prelievo annuale leggero sui grandi patrimoni analogo a quello da anni attuato in Francia (dove, peraltro, non ha risolto granché). Meglio sarebbe stato rispondere alle due obiezioni che l'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, muove a tutte le proposte che prevedono il conferimento di beni pubblici a società-veicolo che si finanziano emettendo obbligazioni a tassi ridotti perché garantite da quei beni.

La prima obiezione si compendia nella domanda che l'antico agente di cambio milanese, Aldo Ravelli, poneva a chi gli prospettava vendite grandiose: « Chi l'è el rilavatari? ». La seconda è più articolata: se i beni pubblici costituiscono la garanzia del debito pubblico, un conto è vendere e cancellare una quota di debito, un conto ben diverso è togliere garanzie dal grosso del debito pubblico per porle al servizio di emissioni privilegiate. Queste ultime, infatti, spunterebbero forse tassi migliori in quanto debito senior , ma poi il grosso del debito diventerebbe junior e subirebbe un contraccolpo negativo sui propri tassi. È tutto da dimostrare che il saldo finale tra tassi che si riducono e tassi che si alzano sia conveniente.
Ora la proposta Amato-Bassanini, che è firmata anche da Giuseppe Bivona, Davide Ciferri, Paolo Guerrieri, Giorgio Macciotta, Rainer Masera, Marcello Messori, Stefano Micossi, Edoardo Reviglio e Maria Teresa Salvemini sotto l'egida del centro studi Astrid, reimposta l'intera questione sulla base di un realismo ambizioso, ma senza nuove tasse, nemmeno nella versione light di Fassina.

Sul piano politico, l'elemento interessante è il ripensamento di Amato, che fu tra i primi a proporre l'abbattimento del debito pubblico attraverso un prelievo fiscale straordinario di 30 mila euro a carico degli italiani abbienti. Gli undici convengono sui pericoli recessivi di una imposta patrimoniale. Sul piano culturale, va notata la convergenza tra giuristi di cultura socialista come lo stesso Amato e Bassanini ed economisti di scuola liberale come Masera, che ha un importante passato di banchiere, e Micossi, brillante segretario dell'Assonime, l'associazione delle società per azioni.

Nel merito, gli undici dell'Astrid propongono un intervento articolato in sei mosse che entro il 2017 dovrebbe dare un gettito ipotizzato in 178 miliardi: a) cessione di immobili per circa 72 miliardi (di cui: 30 dalla cessione agli inquilini dell'edilizia residenziale pubblica; 16 dalla dismissione di immobili di enti previdenziali; 15 da immobili di Regioni ed enti locali; 6 da caserme e sedi delle Province da smantellare; 5 dal cosiddetto federalismo demaniale); b) 30 miliardi potrebbero venire dalla capitalizzazione delle concessioni (le sole lotterie danno 1,6 miliardi l'anno); c) 40 miliardi valgono le partecipazioni (Eni, Enel, Finmeccanica, St Microelectronics ed ex municipalizzate quotate); d) 15 miliardi potrebbero venire imponendo agli enti previdenziali degli ordini professionali di aumentare la quota dei loro investimenti in titoli di Stato di lungo periodo, oggi ferma al 10% del portafoglio (considerando i maneggi sugli immobili, ne avrebbero giovamento i pensionati futuri); e) 16-17 miliardi potrebbe essere il flusso nel quinquennio proveniente dalla tassazione dei capitali clandestinamente costituiti da italiani in Svizzera, previo accordo con il governo di Berna; f) 5 miliardi potrebbero venire da incentivi e disincentivi fiscali volti all'allungamento delle scadenze e alla riduzione del costo medio del debito pubblico.

Astrid si inserisce nel solco dell'azione del governo che ha affidato alla Cassa depositi e prestiti la costituzione di due grandi fondi immobiliari da 10 miliardi l'uno. Diversamente dalla proposta Alfano (almeno per quanto se ne è capito), l'Astrid punta molto sui soggetti esistenti. Invece del super fondo di cui non si conosce el rilevatari di ravelliana memoria, gli undici vorrebbero fosse messa in campo la Cassa depositi e prestiti che già raccoglie 300 miliardi di risparmio privato. Pur non essendo una banca, la Cassa già sconta in Bce i suoi effetti creditizi per 25 miliardi, destinati a finanziare per metà lo Stato e per metà l'economia. Ma qui dovrebbe fare da pivot della valorizzazione delle partecipazioni, oggi del Tesoro, in società quotate e non quotate come le Poste, nelle ex municipalizzate quotate e nelle 5.500 aziende municipali non quote, 2.800 delle quali attive nei servizi pubblici locali, che sono da aggregare e ristrutturare per poter poi essere cedute in tutto o in parte. Insistendo, si potrà arrivare anche alla cifra di Alfano. Ma in 8 anni, non in 5. Altrimenti bisogna ipotizzare, come fa il segretario del Pdl, che l'accordo fiscale con la Svizzera dia il triplo di quanto stima Astrid. Come se gli italiani, che avevano esportato capitali in Svizzera, li lasciassero tutti, ma proprio tutti, a disposizione del fisco anziché spostarne una parte in altri paradisi.

Massimo Mucchetti

8 agosto 2012 | 8:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_agosto_08/cessioni-rientro-di-capitali-e-btp-piu-lunghi-le-sei-mosse-per-tagliare-il-debito-pubblico-massimo-mucchetti_fccef4e6-e11b-11e1-9040-4b74873c03cd.shtml
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« Risposta #10 inserito:: Settembre 16, 2012, 04:35:37 pm »

Quello di cui discutere

Il futuro sostenibile (o no) dell'auto

Il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, invoca chiarezza sui destini della Fiat dopo la revoca del piano Fabbrica Italia.
Il ministro del Welfare, Elsa Fornero, è pronta a incontrare l'amministratore delegato Sergio Marchionne per capire dove l'azienda andrà a parare. Questa ripresa di attenzione del governo sulla principale impresa industriale italiana può spingere l'azione politica e imprenditoriale oltre la polemica innescata l'altro ieri da Diego Della Valle contro Marchionne e John Elkann e la loro scelta di ridurre la presenza della Fiat nel Paese. Al di là delle «baruffe del capitale» c'è, se si è capaci di farla, la politica industriale.
Le parole di Passera e Fornero, dunque, possono rivelarsi positive. Purché alla fine non vada com'è andata con l'incontro che si svolse a palazzo Chigi dopo l'intervista di Marchionne al Corriere nella quale già si prospettava con chiarezza quanto è stato ora reso ufficiale. Al termine di quella riunione il premier Mario Monti ribadì il diritto della Fiat ad allocare come e dove credeva i propri investimenti. Ora il punto non è quello di limitare il diritto dell'azienda e dei suoi azionisti principali di condursi come meglio ritengono nel rispetto della legge (dettaglio che nella storia del capitalismo italiano non è scontato). Tranne qualche estremista, nessuno pretende limitazioni siffatte. Il punto è se il governo ritiene una priorità, al di là del caso Fiat, la salvaguardia e lo sviluppo della base industriale del Paese e se, all'interno di questa priorità, l'industria automobilistica abbia ancora un ruolo o se l'abbia perduto. Questo doppio punto non è scontato nella cultura del professor Monti e di una buona parte dell'intellighentzia montiana.
Certo, fuori dal governo, fa cadere le braccia ascoltare i politici di destra e di centro che scoprono il caso Fiat essenzialmente dopo le dichiarazioni di Della Valle. Se il signor Tod's non avesse fatto quelle affermazioni dal tono eccessivo, avrebbero continuato a dire che i problemi della Fiat nascevano dalla Fiom e che il transatlantico Marchionne era il campione indiscutibile della modernità? Di una modernità presa così, vuoto per pieno, con marinettiana fiducia. Marchionne ha salvato la Chrysler. Per questo è stato giustamente lodato. L'ha fatto con i soldi del governo Usa che, oltre ai prestiti, si è accollato circa 2 miliardi di dollari di perdite nella liquidazione della vecchia Chrysler. Iniziativa privata e soldi pubblici, dunque. Ottimo. Ma in Italia non si mangia con i successi di Detroit. Passera ha ricordato l'esistenza degli azionisti della Fiat. Giusto. Ma più dei dividendi conta l'impatto del lavoro Fiat nell'economia e nelle competenze del Paese.
La nota ufficiale su Fabbrica Italia precipita in un profondo imbarazzo i sindacati moderati - Cisl, Uil e Fismic - che avevano scommesso al buio sull'azienda e sul governo Berlusconi, che la sosteneva, pensando di lucrare vantaggi nella concorrenza con il sindacato «rosso», dove certo non si capisce mai bene se il no sia sempre e comunque l'inevitabile manifestazione di un'opposizione rivoluzionaria o se sia trattabile a seconda delle situazioni di potere locale o ancora se sia talvolta dettato da analisi più serie di altre, pronto a diventare un sì alla correzione del quadro. Neanche il Pd, che pure non lesina accenti critici da tempo, può chiamarsi fuori. Ha mai approfondito seriamente la questione? Seriamente vuol dire con i bilanci vivisezionati in una mano e con il verbo delle relazioni sindacali alla tedesca nell'altra. Stretto tra il riformismo superficiale di tanti suoi liberal, che trovano nel rottamatore Matteo Renzi l'ultimo seguace marchionnesco, e il timore di farsi nemici a sinistra, anche il Pd è rimasto al di qua del minimo necessario a prendere per le corna il toro della Fiat.
La politica industriale non si fa con i volantini o con le battute nei talk show televisivi. Richiede studio, indipendenza di giudizio, competenze e fantasia. Fabbrica Italia è partita con il ministero dello Sviluppo economico affidato a interim a Silvio Berlusconi e poi assegnato a Paolo Romani. Distrazione e incompetenza. Ora abbiamo un ex banchiere che ha anche guidato grandi imprese. Da Corrado Passera il Paese non si attende miracoli, ma verità e tentativi professionali di sbrogliare la matassa. Nel caso specifico, non avrebbe senso finanziare la Fiat a fondo perduto con altri denari pubblici. Questi soldi non ci sono e, se ci fossero, non andrebbero usati come ha fatto l'America di Obama con la Chrysler fallita che scontava 10 anni di ritardo sulle tecnologie. Non ha senso nemmeno fare troppi incontri e aprire tavoli di trattativa se non si hanno idee su cui far convergere le parti. L'Italia e la Fiat non hanno bisogno di riti e di parole. E tuttavia questo Paese rappresenta pur sempre un mercato e un giacimento di know how motoristico. E come dimostra il successo del Quarto Capitalismo, quello delle multinazionali tascabili, la voglia di lavorare non manca se le leadership sono credibili.
Prima dell'estate, tramite la banca Lazard, la Volkswagen aveva fatto sapere discretamente a Torino di essere pronta a trattare il marchio Alfa Romeo, che da vent'anni la Fiat non riesce a valorizzare, e uno dei grandi stabilimenti italiani del gruppo. E' curioso: in un paese che invoca sempre gli investimenti esteri, la notizia non ha destato interesse. Nemmeno nei sindacati. Eppure, converrebbe al Paese avere due produttori invece di uno. La Fiat, legittimamente, può respingere l'offerta. E magari riservarsi di vendere quel marchio o altri, se e quando lo ritenga utile senza il badwill (avviamento negativo) di stabilimenti in aggiunta, perché, a quel punto, gli stabilimenti sarebbero già stati chiusi. Ma il governo, dopo aver accertato la sussistenza dell'interesse tedesco, potrebbe creare le condizioni che rendano positivo per tutti un simile scambio. La politica industriale moderna è anche questo. Se poi Ferdinand Piech ritirasse le sue disponibilità perché girano troppe mazzette o c'è troppo estremismo sindacale, il governo lo potrà sempre riferire al Parlamento per spronarlo ad approvare la legge anticorruzione e ad attuare gli articoli 39 e 40 della Costituzione sulla regolamentazione dei sindacati e del diritto di sciopero.

Massimo Mucchetti

16 settembre 2012 | 10:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_settembre_16/futuro-sostenibile-auto-fiat_6cb4b4a2-ffc7-11e1-8b0a-fcb4af5c52c7.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Settembre 19, 2012, 04:52:36 pm »

SCENARI PER UNA SOLUZIONE DELLA CRISI

Il Lingotto e la carta tedesca

Tanto tuonò che piovve. Incalzato da Diego Della Valle e da Cesare Romiti, l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha rilasciato un'intervista a la Repubblica che ha titolato su 5 delle 6 colonne della prima pagina: «La Fiat resterà in Italia». Lo strillo promette, ma possiamo dirci tranquillizzati? La risposta è: no. Ecco perché.

L'esternazione del top manager era stata preparata, il giorno prima, da un lungo elogio dell'economista Alessandro Penati. Perché, si era chiesto Penati riecheggiando l'ex direttore
dell' Economist , Bill Emmott, negli Usa si osanna Marchionne e in Italia lo si critica in modo così aspro? Perché questo Paese è conservatore e consociativo, refrattario all'economia di mercato, è stata la risposta: identica a quella del giornalista britannico. Musica per la Torino del Lingotto. Una beffa per la Torino operaia, anzi per l'Italia operaia. Un rebus per la classe imprenditoriale divisa tra chi crede ancora nelle virtù taumaturgiche di Marchionne e chi ormai manifesta scetticismo, anche senza ricorrere ai toni sgarbiani del signor Tod's, che possono sì fissare un concetto nell'immaginario collettivo ma di sicuro non aiutano a risolvere i problemi. Certo, né a Penati né a Emmott viene il dubbio che gli osanna americani dipendano dal fatto che a Detroit si lavora a pieno regime, mentre a Mirafiori si riesce a farlo solo 3 giorni al mese; che negli Usa l'industria automobilistica è stata salvata dai miliardi della Casa Bianca, mentre in Italia il governo - Berlusconi o Monti, in questo caso cambia poco - non può o forse anche non vuole fare alcunché. E tuttavia, nonostante l'assist, il leader della Fiat non ha dissipato nessuno dei timori sul ridimensionamento degli investimenti Fiat in Italia.

Marchionne ha speso due argomenti, peraltro non nuovi: a) la Fiat non ha progettato altri modelli per l'Europa e i mercati evoluti perché, se l'avesse fatto, avrebbe perso miliardi data la crisi epocale della domanda di automobili; b) il buon momento della Chrysler serve a salvare la Fiat in Italia.

Sul primo argomento è inutile ripeterci troppo. Gli altri produttori di automobili non hanno interrotto i cicli di rinnovo dei modelli, la Fiat ha saltato gli ultimi due. Tutti ciechi, gli altri? Marchionne, con la benedizione del suo azionariato, ha scelto di concentrare le munizioni sul fronte più promettente in questo momento: gli Usa. Ma ci andrei piano con i miti globali. Globali sono la Toyota, la Volkswagen, la Ford, la Gm, la Mercedes, la Bmw e la Renault-Nissan. Vista in prospettiva, la Fiat non appare molto più globale di com'è stata altre volte in passato. Ci fu un'epoca in cui la Fiat possedeva la Seat in Spagna (ceduta a Volkswagen), la Simca in Francia (finita alla Chrysler), la Zastava in Jugoslavia. La Fiat aveva già la grande unità produttiva polacca. A Belo Horizonte ha aperto negli anni Settanta: il Brasile l'hanno scoperto gli arzilli vecchietti. In Unione Sovietica, Agnelli e Valletta erano andati ancor prima. Non aveva gli Usa, la Fiat. È vero. Ma di questo passo si sta giocando l'Europa. E l'Europa non è solo un mercato ancora grande, ma anche e soprattutto è il cuore e la testa dell'automobile. Molto più degli Usa, dove si fabbricano principalmente dei baracconi. Alla fine, quale sarà il saldo?

Sul secondo argomento, servono ancor meno parole. Marchionne avverte: «Se la Fiat vuole essere partner di Chrysler, deve essere affidabile». Ma non ci era stato detto che era stata la Fiat a comprare la Chrysler? E Steven Rattner, l'obamiano zar dell'auto, non aveva bocciato l'autosalvataggio della casa di Auburn Hills perché era indietro di 10 anni? Adesso scopriamo che la legge la dettano dall'altra parte dell'Atlantico. Non perché siano capaci di fare macchine migliori, ma perché di là si guadagna, dopo aver perso a rotta di collo. E si guadagna perché il governo ha pagato con i denari dei contribuenti la chiusura di decine di stabilimenti e ha dunque tagliato i costi fissi di Detroit. Esauriti i due argomenti, eccoci ai silenzi.

Nel pur lungo colloquio, il capo del gruppo Chrysler-Fiat non ha affrontato i tre nodi reali sui quali la Fiat Spa è chiamata a fare i conti. Il primo è la sovraccapacità produttiva in Europa. La recessione l'ha accentuata, ma c'era anche prima e rendeva fin da subito poco credibile il raddoppio della produzione previsto da Fabbrica Italia. In sede Acea, l'associazione europea dei produttori di auto, Marchionne ha sostenuto l'idea di coordinare le chiusure delle fabbriche di troppo e di assegnare alle società incentivi pubblici alla bisogna. Com'era avvenuto per l'acciaio. Ma per i tedeschi solo le case non abbastanza brave hanno fabbriche in eccesso. Dunque, chiudano loro, e senza aiuti di Stato. Marchionne ha attaccato i tedeschi.
È stato respinto. Che cosa conta di fare, adesso? Torino ha già lasciato Termini Imerese. La francese Psa dice che, forse, taglierà 8 mila posti. La Opel, probabilmente, smantellerà qualcosa. Ma non basta. Anche perché la Fiat va peggio della concorrenza ed è dipendente da un mercato, quello italiano, che soffre più di tutti. Promettere che la Fiat resterà in Italia significa poco se non si spiega con quanti stabilimenti, con quante persone, con quali risorse e per fare che cosa. Sostiene Marchionne: «Mi impegno, ma non posso farlo da solo. Ci vuole un impegno dell'Italia». La storia dei suoi investimenti - tutti sussidiati dai Paesi dove li ha fatti: Usa, Brasile, Serbia - fa sospettare che Marchionne stia per bussare a quattrini con il governo. Se così non è, restiamo in attesa di capire in che cosa consista il «contributo dell'Italia».

Il secondo nodo su cui continua il silenzio è la disponibilità della Volkswagen ad acquistare il marchio Alfa Romeo, assieme a uno stabilimento italiano che, altrimenti, verrebbe chiuso.
Il Corriere sta dando informazioni in materia. Abbiamo anche indicato il nome della banca - la Lazard - che ha presentato l'idea sia a Marchionne sia ad Elkann. Oggi aggiungiamo che esperti tedeschi hanno visitato tutti e quattro gli stabilimenti in teoria papabili: Mirafiori, Cassino, Melfi e Pomigliano. Hanno pure stilato un rating . Queste visite fanno pensare che qualcosa possa accadere. Che magari entri nel pacchetto anche un po' di tecnologia. Stupisce il disinteresse di Cisl e Uil e dei sindacati minori davanti alla possibilità che un investimento estero, fatto dalla casa automobilistica più forte d'Europa, venga a risolvere una parte dei problemi aperti dal declino della Fiat in Italia e a portare un po' di concorrenza. E stupisce anche il silenzio dei tanti aedi della concorrenza. Temono di disturbare i manovratori? In ogni caso, questa è anche materia del governo che parla tanto di attrarre i capitali esteri e forse farebbe bene a intervenire prima che le situazioni degenerino come a Termini Imerese o, per altre produzioni, a Portovesme.

Il terzo punto sul quale Marchionne tace è quello finanziario: del debito e della moneta. Il debito Fiat è ancora considerato spazzatura, le sue obbligazioni junk bond . Pesa certamente il rischio Italia, ma ancor più pesa il rischio Fiat-Chrysler (nonostante i primi profitti americani). Basta confrontare i differenziali tra i Btp e i Bund e quelli tra le obbligazioni Fiat e le obbligazioni Volkswagen per accertare come da anni i primi siano inferiori ai secondi. Che cosa ha in animo di fare la Fiat per risalire la china che la svantaggia nella competizione con case che già investono di più e in aggiunta si finanziano a tassi inferiori? Che senso ha benedire Monti e non porgli il problema dei tedeschi che finanziano le vendite ai clienti a tasso zero o quasi grazie al fatto che entrambi, noi e loro, stiamo nell'euro, ma loro sopra e noi sotto?

Prima che sia troppo tardi, e cioè prima che la politica del carciofo adottata da Marchionne abbia consumato anche l'ultima foglia, è forse il caso di affrontare la questione Fiat come una grande questione industriale del Paese, nel rispetto dei ruoli di ciascuno, ma andando tutti - azionisti, management, sindacati, banche e governo - oltre le chiacchiere vaghe e il duello infantile tra paure e desideri per cominciare ciascuno, da adulto, a prendersi le proprie responsabilità.

Massimo Mucchetti

19 settembre 2012 | 8:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_19/Il-lingotto-la-carta-tedesca-mucchetti_70e9fc24-021c-11e2-9f2e-6124d1c3f844.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Settembre 23, 2012, 05:00:08 pm »

L'analisi - I silenzi sul progetto Volkswagen per l'Alfa Romeo e le cifre sui fondi già spesi

La nuova scommessa di Marchionne e la tentazione dei sussidi

La deroga alla Cig potrebbe non essere compatibile con gli interventi in materia del ministro del Welfare.

Il nodo degli interventi dopo la riforma Fornero


L'incontro di ieri tra la Fiat e il governo ha avuto un pregio: è durato a lungo. Vuol dire che ciascuno ha detto e spiegato la sua. La seconda nota positiva è l'impegno a costituire un gruppo di lavoro misto presso il ministero per lo Sviluppo economico per rafforzare le strategie di esportazione nel settore dell'automotive. Le indiscrezioni dicono che il mercato di sbocco salvifico dovrebbe essere l'America dove la capacità produttiva della Chrysler sarebbe quasi saturata. Ma qui si fermano le note positive. Che all'orecchio degli oltre ventimila dipendenti della Fiat Auto in Italia e degli 80 mila dell'indotto suonano ancor più generiche e vaghe dei discorsi dei partiti politici sulle riforma elettorale.

Il comunicato congiunto governo-Fiat, che in questi casi è ciò che vale perché impegna i firmatari, non prende alcun impegno. Il progetto Fabbrica Italia non viene più menzionato. Nemmeno per celebrarne le esequie, visto che era stato annunciato in pompa magna nell'aprile del 2010 proprio a palazzo Chigi, con Silvio Berlusconi in sella. Ma nell'era di Facebook, dove ogni informazione si consuma in una chiacchiera in diretta, la memoria è un lusso per pochi o un approccio troppo pedante al reale. La nota non spiega se ci sarà una deroga alle norme sulla cassa integrazione così da poter offrire copertura ai dipendenti se il lavoro continuerà a mancare come ormai appare, purtroppo, molto probabile. Ma se ci fosse, bisognerebbe poi spiegare all'Italia come si giustifichi la deroga rispetto alla riforma del mercato del lavoro firmata dal ministro Fornero. Certo, l'idea di due Italie, una protetta da eventuali accordi Fiat e un'altra allo sbaraglio, non andrebbe bene. Ma sarebbe un problema della gente Fiat o farebbe emergere un limite della riforma?

In ogni caso, la nota congiunta prende atto dell'orientamento dell'azienda a investire in Italia al momento idoneo. Il che può essere un'ovvietà (quando mai si investe nel momento sbagliato) oppure un avvertimento (adesso non si investe altrimenti sarebbero tutti felici di dire che il momento idoneo è questo). L'azienda dichiara anche una cifra, 5 miliardi, per quantificare gli investimenti fatti nel nostro Paese negli ultimi tre anni. Certi numeri ricordano i 20 miliardi di Fabbrica Italia che non si sono mai visti.

Ora, le Fiat sono due: la Fiat Industrial, che fa camion e trattori, e la Fiat Spa, che fa le automobili. Quei 5 miliardi come si suddividono tra le due? Quanto è investimento vero, quanti sono costi capitalizzati e quanto è spesa per ricerca e sviluppo? Ma se anche fosse, 5 miliardi in tre anni equivalgono a 8 e mezzo in cinque anni. Non avevamo detto che erano 20 nel quinquennio? Non facciamo questi conteggi per spirito polemico. Ma perché dobbiamo tutti essere credibili in momenti come questi. I numeroni possono essere spacciati nei talk show televisivi, ma troppo spesso la realtà è un'altra. Ed è dolorosa.
Con il governo di che cosa si parla? La Fiat ha escluso che esista un'offerta Volkswagen per l'Alfa Romeo e uno stabilimento. Questo filtra. Ma è la Fiat, parte in causa, che deve dirlo o è il governo che, con i suoi strumenti, deve accertare alla fonte come stanno le cose? Non bisogna essere dei germanisti per capire che a Wolfsburg si attendono un approccio che tenga conto di che cosa sono oggi la Volkswagen, la Fiat e l'Alfa. In altre parole, per Marchionne non è come quando trattava, con coraggio e intelligenza, la Chrysler con Obama.

Il caso Fiat sta mettendo a dura prova la premiership di Monti. Il contrasto sullo spread va bene, i licenziamenti a macchia di leopardo fanno soffrire, ma si vedono poco. La Fiat, invece, fa rumore. Sia perché la Fiat era stata presentata come l'alfiere della modernità quando invece è un gruppo in crisi e gli alfieri della modernità sono le multinazionali tascabili del Quarto Capitalismo, sia perché a rischio è ormai un intero, storico settore industriale come quello dell'auto.

La risposta dell'amministratore delegato, Sergio Marchionne, al ministro Corrado Passera deve far pensare. Se la Fiat va bene in Brasile perché là riceve cospicui aiuti di Stato e non può andar bene in Italia e in Europa perché questi aiuti sono proibiti dalle regole antitrust, dovremmo tutti aprire una riflessione.
Marchionne è un realista. Probabilmente lo è troppo. E, come tutti quelli che peccano di eccesso di realismo, rischia di risparmiare qualcosa oggi e di perdere molto domani. O forse sta duramente trattando, da quel grande scommettitore che è, una nuova tornata di sussidi da parte del governo. Certo è che si fatica a capire come possa essere possibile esportare 3-400 mila auto negli Usa per salvare le nostre fabbriche quando l'Italia è già oggi importatrice netta di marchi Fiat.
Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti

23 settembre 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_settembre_23/fiat-la-scommessa-di-marchionne-tentazione-dei-sussidi_616fe56e-0547-11e2-b23b-e7550ace117d.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 27, 2012, 05:39:27 pm »

È ora di decidere


L'arresto dell'ex dirigente di Finmeccanica, Paolo Pozzessere, richiama il governo alle sue responsabilità di azionista e, al tempo stesso, di regista della politica industriale del Paese. L'inchiesta della magistratura si allarga all'ex ministro Scajola. Il presidente Giuseppe Orsi è sulla graticola. L'azienda, disorientata. Finmeccanica lavora su commesse pluriennali che si prendono solo attraverso investimenti e ricerca a lungo termine. I dirigenti immuni dall'inchiesta non hanno i poteri per garantire l'iniziativa strategica del maggior gruppo italiano delle alte tecnologie.

Gli indagati hanno diritto a difendersi, ma il governo deve fare la sua parte. Il ministero dell'Economia detiene il 30,2% di Finmeccanica. Di fatto è il padrone. Dunque, comandi. Il ministro Vittorio Grilli, d'intesa con i colleghi allo Sviluppo economico e alla Difesa, Corrado Passera e Giampaolo Di Paola, batta un colpo. Il premier Mario Monti si assicuri che venga battuto presto e bene.

Finmeccanica sta affrontando il passaggio più delicato della sua ristrutturazione: la cessione di Ansaldo Energia e di Ansaldo Trasporti. E lo affronta mentre, nel settore d'elezione, la difesa, l'industria europea si va concentrando. Il fatto che la fusione tra il colosso franco-tedesco Eads e quello britannico Bae Systems sia stata per ora fermata dalla Germania non riporta indietro le lancette dell'orologio. Semmai, riapre i giochi che quella fusione avrebbe chiuso. Bae Systems è ormai sul mercato. Le altre grandi imprese francesi della difesa - Thales, Dassault, Safran - già si muovono sotto l'egida dell'Eliseo. Il premier Monti aveva convocato Orsi e il direttore generale Alessandro Pansa a Palazzo Chigi per il 16 ottobre. Poi ha disdetto. Erano venute meno - questa fu la spiegazione - le nozze Eads-Bae, e dunque il pericolo della subitanea emarginazione di Finmeccanica nel mondo. Ma in questo caso il venir meno del pericolo diventa un'opportunità sol che l'azienda italiana sappia muoversi. Un'opportunità che, dato il peso politico del settore, aiuterebbe il Paese a tornare protagonista di una grande storia europea gettando il cuore oltre lo spread . E tuttavia, per sedersi al tavolo, il gruppo deve avere un vertice autorevole. Quello di oggi non lo è. A meno che non si confermi la fiducia in Orsi, nonostante le inchieste. Al governo, defilarsi non è consentito. E questo vale anche per la cessione delle due Ansaldo.

Lo Stato è il socio di controllo di Finmeccanica, soggetto venditore, ma anche della Cassa depositi e prestiti che sta costruendo una proposta d'acquisto alternativa a quella di Siemens per Ansaldo Energia, e pure delle Fs, principale cliente e partner tecnologico di Ansaldo Trasporti, oggetto del desiderio della giapponese Hitachi. Qual è l'interesse del Paese? Lo dovrebbe stabilire la politica industriale. E però se il governo non vuole o non sa dare linee guida al management , allora dovrebbe assumersi la responsabilità di mettere all'asta Finmeccanica. Scelga. Non si lasciano languire così le aziende di cui si è padroni. A beneficio dei padroni prossimi venturi.

Massimo Mucchetti

24 ottobre 2012 | 7:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_24/arresto-dirigente-finmeccanica-pozzerese_287dc258-1d9d-11e2-8b20-1919d504f212.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Dicembre 16, 2012, 11:52:45 am »

Rivelazioni

Il ruolo di Generali nella scalata alla Fonsai

Il lato oscuro dei rapporti tra la Palladio di Vicenza e le Assicurazioni Generali: tra la provincia e l'impero


Si alzano i veli sul lato oscuro dell'affare Fondiaria Sai, che ha messo a rumore l'Italia della finanza lungo tutto il 2012. Esso non riguarda le malefatte dei Ligresti, ormai oggetto di indagini giudiziarie, né i rapporti finanziari tra il gruppo Fonsai e Mediobanca, anch'essi di pubblico dominio. Il lato oscuro riguarda i rapporti tra la Palladio di Vicenza e le Assicurazioni Generali: tra la provincia e l'impero.

Sull'affare Fonsai, la finanziaria veneta di Roberto Meneguzzo si era proposta come il coraggioso Davide che sfida il Golia di Mediobanca. E invece Davide aveva alle spalle un Golia ancora più grande: il colosso triestino, allora guidato con pieni poteri da Giovanni Perissinotto. Ma di questo dettaglio Meneguzzo non ha mai fatto parola né al mercato né all'Antitrust né all'Isvap, l'autorità di vigilanza sulle assicurazioni, nonostante il Corriere della Sera avesse rivelato come nell'azionariato della Palladio figurasse, sorprendentemente, la Hongkong & Shangai Banking Corporation, assai sospettabile di portage per clienti degni del suo rango di prima banca europea e non certo per qualche padroncino delle Tre Venezie.

A sollevare i veli è stato il presidente del comitato per il controllo interno delle Generali, Alessandro Pedersoli, un avvocato ricco d'esperienza indicato dal mondo di Intesa Sanpaolo e non sospettabile di ostilità verso Perissinotto. Nel consiglio di amministrazione del 14 dicembre, Pedersoli ha presentato una dettagliata relazione sulla base dell'inchiesta interna promossa da Mario Greco, il nuovo amministratore delegato.

Greco si era posto, evidentemente, due scopi: poter valutare certe partite ai fini del bilancio 2012 e porre termine a relazioni tra management e soci che distraggono dal lavoro vero. Ma la sua iniziativa assume anche un forte rilievo politico. Sia il salvataggio di Fonsai a opera di Unipol, con l'appoggio di Mediobanca e Unicredit, sia la repentina rimozione di Perissinotto, da sempre ben visto alla Cà de Sass, non erano piaciuti né all'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Enrico Cucchiani, né al presidente Giovanni Bazoli. Questi due episodi avevano rinfocolato sospetti incrociati tra mondi che, invece, l'Italia travolta dalla recessione chiama alla collaborazione. Ma ora le nuove notizie, ottenute da un manager terzo, proveniente dalla Svizzera, possono consentire di rileggere quelle aspre contese in termini diversi. E di considerare meglio il ruolo di Unipol, che taglia la strada a Meneguzzo, non ancora alleato di Matteo Arpe ma già d'accordo in linea di massima con Salvatore Ligresti per rilevare la Premafin e, con essa, la Fonsai senza fare alcuna Opa rivolta al mercato.

Al momento sono almeno tre i fili che legavano la Palladio alle Generali e che ora vengono tagliati. Il primo riguarda il maggior socio industriale della Palladio, la famiglia Amenduni. Si tratta di un filo schermato, ma non abbastanza. Tutto inizia alla fine del 2006 quando la compagnia triestina passa alla famiglia argentina Wertheim una sua scatola lussemburghese, dal nome beneaugurante di All Best. Il primo giugno 2007, la All Best acquista dalla filiale olandese della Valbruna, il gioiello degli acciai speciali costruito dagli Amenduni, il 2,95% dell'Ilva per 180 milioni di euro. Un prezzo generoso, che presuppone un valore totale dell'Ilva di 7 miliardi. A finanziare la All Best è la Banca della Svizzera Italiana, gruppo Generali. Ma i Wertheim rientrano subito emettendo obbligazioni convertibili in azioni Ilva riservate a due società veicolo delle Generali site alle Bahamas, la Gsf e la Wgo. Nel 2009, Perissinotto svaluta le obbligazioni e poi le passa a società lussemburghesi di private equity della compagnia. Un disastro. Dal consiglio filtra l'idea di una svalutazione totale. Ma Amenduni è ormai uno dei principali soci di Ferak, la società veicolo costituita nel 2007 dalla Palladio per entrare nelle Generali.

Il secondo filo legava le Generali alla Finanziaria Internazionale di Enrico Marchi e Andrea De Vido. Basata a Conegliano, la Finint si era segnalata come partner della Banca di Roma geronziana nelle cartolarizzazione delle sofferenze e poi, nel 2004, per la privatizzazione dell'aeroporto di Venezia, fatta d'intesa con Ligresti e le Generali e con l'appoggio della Regione Veneto, allora retta da Giancarlo Galan. Generali è esposta per almeno 148 milioni con le iniziative di Marchi e De Vido. Delicata è la parte obbligazionaria, che risale al 2008: per 48 milioni Generali attende il rimborso alla scadenza, nel gennaio 2014; per altri 41 milioni, spesi per acquistare azioni Generali poi conferite alla Ferak, la compagnia dovrebbe attendere il 2017 sempre che quei titoli siano venduti almeno al prezzo d'acquisto, circa 20 euro; diversamente, se la garanzia personale di 20 milioni prestata dal tandem veneto non sarà sufficiente, la perdita toccherà alle stesse Generali. Una patata bollente.

Il terzo legame è quello più importante. Uno sguardo al grafico aiuterà. La Palladio Finanziaria è controllata da una società vicentina, la PFH 1. Nel luglio 2007, questa PFH 1 emette 64,2 milioni di strumenti finanziari per un controvalore di 200,2 milioni di euro versato dalla Hongkong & Shangai Banking Corporation. Si badi bene: quegli strumenti finanziari sono pari al 49% della PFH 1. Il colosso bancario inglese sta scoprendo Vicenza, patria del geniale architetto cinquecentesco al cui nome di ispira Meneguzzo? Nemmeno per sogno. La Hsbc fa un total return swap con la Gsf e la Wgo, sempre quelle, che pagano subito 160 milioni. Nel 2009, la Hsbc svaluta un po' lo swap, lo chiude e lo trasforma in notes per le società veicolo delle Generali che nell'agosto 2011 chiedono a Hsbc di convertire per metà in azioni PFH 1. La società di Meneguzzo se le riprende. Ma che cosa fanno i due veicoli delle Generali con l'altra metà del pacchetto azionario PFH 1? La piazzano in tre fondi esteri. Due, Ggp e Leo, sono di proprietà Generali, mentre nel terzo, Tenax, il 49% è di Generali e il 51% di quel Massimo Figna, già capo ricerca all'Ubs assai benevolo con il Leone e poi anima di un hedge fund in cui le Generali hanno messo mezzo miliardo perdendo il 2% all'anno per un decennio. Dal consiglio filtra che ora la compagnia intende chiudere il rapporto con Tenax.

Volendo, si possono individuare altri due legami: uno, costituito dai 400 milioni concessi a Veneto Banca, partner storico di Meneguzzo; l'altro, formatosi nel fondo di investimento Veicapital, l'unico di cui si sapeva e nel quale, peraltro, partecipa anche Intesa Sanpaolo. Tanto basta a far emergere dagli ambulacri di Trieste relazioni pericolose perché segrete. Gli incroci azionari, pur discutibili, nei limiti della legge sono legittimi. In questo caso, ci si potrebbe chiedere se un tale complicato reticolo di cointeressenze non configuri una situazione di controllo di fatto del sistema Palladio da parte di Generali. Di certo, configura una relazione speciale tra l'ex capo-azienda e i soci veneti. Che minaccia di costare almeno 250 milioni. Una relazione che introduce quelle con Petr Kellner nell'Est Europa, con la banca russa Vtb su cui Generali perde un terzo dei 300 milioni investiti e con la Ntv-Nuovo Trasporto Viaggiatori di Montezemolo e Della Valle, passata anch'essa attraverso fondi esteri.

La relazione occulta con i veneti appare dunque come l'inizio di un tentativo di costruire una rete di azionisti amici del management, perché finanziati dalla compagnia, da contrapporre all'azionista storico Mediobanca e ai suoi nuovi sodali (De Agostini, Caltagirone, Del Vecchio). Dettaglio curioso, questo tentativo di prendere il potere parte nel 2007 e si sviluppa negli anni seguenti proprio quando Mediobanca & soci duellano con Cesare Geronzi e Vincent Bolloré per fare di Perissinotto il capo delle Generali, esautorando l'allora presidente Bernheim, ma anche misurando la gestione sui risultati.

Massimo Mucchetti

16 dicembre 2012 | 8:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_dicembre_16/generali-fonsai-mucchetti_c0b38adc-474e-11e2-adc8-d4e6244fe619.shtml
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