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Autore Discussione: Massimo MUCCHETTI. -  (Letto 11746 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Dicembre 24, 2012, 06:32:06 pm »

L'intervento sul capitale e l'intesa da rinegoziare con Air France

Alitalia, piano ad Alta Velocità

Un polo con Fs per evitare il crac

Colaninno ai soci: Moretti è interessato. Le condizioni e gli alleati


Alitalia è ormai prossima al capolinea, ma non sarà la Cassa depositi e prestiti a salvarla, come ha chiarito l'amministratore delegato della medesima, Giovanni Gorno Tempini, nella conferenza stampa di fine anno. Il 13 dicembre, il consiglio di amministrazione di Alitalia ha preso atto del preconsuntivo 2012. Secondo le indiscrezioni, causa le perdite, i mezzi propri calano attorno ai 200 milioni e ancora caleranno nel 2013 con altri 100 milioni di perdite. Sempre che la Guardia di Finanza, da qualche giorno presente in forze negli uffici della compagnia, non ci aggiunga dell'altro. Il problema, a questo punto, è come evitare un nuovo crac. Qualche settimana di tempo ancora c'è, grazie a un pò di liquidità residua, circa 200 milioni. Ma non è su queste basi che Alitalia può continuare. Lo ha ammesso anche l'amministratore delegato Andrea Ragnetti in un'intervista a «Repubblica». Quello che Ragnetti non ha detto è come si può risolvere il problema.

Dal 12 gennaio prossimo, i 20 industriali italiani, che nel 2008 avevano risposto all'appello «patriottico» di Silvio Berlusconi per non vendere ad Air France, potranno finalmente cedere le loro azioni Alitalia. Il periodo di lock up sta per finire. Ma nessun compratore si profila all'orizzonte. Nemmeno Air France, oggi detentrice del 20% della compagnia, si è ancora fatta viva. Forse le bastano gli accordi commerciali già sottoscritti. Un cospicuo aumento di capitale è urgente, ma nel consiglio del 13 dicembre l'idea è stata accantonata perché, prim'ancora della ricapitalizzazione, serve una nuova idea di futuro. Se c'è.
A questo proposito ha destato curiosità la battuta del presidente, Roberto Colaninno: «Escludo che l'ingegner Moretti non sia interessato al destino di Alitalia». Colaninno non ha aggiunto altro. Ma l'ingegner Mauro Moretti è l'amministratore delegato delle Fs che, con il Frecciarossa, hanno eroso buona parte dei ricavi, e ancor più dei margini operativi, di un'Alitalia che ancora basava il suo bilancio sulla rotta Roma-Milano. La compagnia aerea è stata certo tradita dalla recessione e dal prezzo dei combustibili. Come tutte le sue concorrenti. Ma poi ha commesso un errore specifico. Ha sottovalutato l'impatto dell'alta velocità ferroviaria sul trasporto aereo nazionale. L'eccesso di ottimismo aveva contagiato sia i 20 industriali "patrioti" sia il banchiere Corrado Passera, allora capo di Intesa Sanpaolo, banca di casa dell'Alitalia berlusconiana e pure di Italo, il treno di Della Valle e Montezemolo che cerca di fare concorrenza al Frecciarossa.

Nei mesi scorsi, prevedendo esattamente dove sarebbe arrivata Alitalia, Moretti non nascondeva il suo pensiero: la compagnia può sopravvivere a condizione di cambiare radicalmente il modello industriale; la finanza viene dopo. Dove c'è l'alta velocità, Alitalia si ritira. Anche dalla Roma-Milano. Le altre rotte, se interessanti, vanno affidate in gestione a vettori low cost trattenendo in capo alla compagnia le funzioni commerciali e strategiche. La flotta di Alitalia va quindi riallocata sul medio raggio tra grandi poli metropolitani, per esempio Napoli-Parigi, e soprattutto sul lungo raggio verso il Medio e l'Estremo Oriente, le aree del mondo a maggior sviluppo. L'intera catena logistica va quindi ridisegnata, sviluppando le stazioni ferroviarie e gli aeroporti intercontinentali con collegamenti assai più rapidi e comodi di quelli attuali. Si tratta di investimenti che Fs può trovare convenienti avendo una forte partecipazione e adeguate funzioni d'indirizzo e controllo nella compagnia aerea, mentre oggi c'è un'Alitalia zoppicante che cerca accordi con la fragile Ntv, partecipata dalle ferrovie statali francesi che fanno ostruzione ai progetti di sviluppo delle ferrovie statali italiane in Francia. Tra i soci di Alitalia, che fin d'ora appoggerebbero con entusiasmo la «carta Moretti», in prima fila figurano i Benetton, azionisti di Fiumicino e, con Fs, di Grandi Stazioni.
Nella logica morettiana, un intervento in Alitalia sarebbe subordinato a tre condizioni. La prima è la possibilità di ridisegnare il gruppo Fs, isolando in una specifica Spa la parte di Trenitalia che lavora a prezzi di mercato e che potrebbe essere deputata anche a seguire il nuovo business. Si tratta di un segmento del gruppo Fs capace di 1,7 miliardi di ricavi con un margine operativo prima degli ammortamenti di 570 milioni e un margine netto di 230. La seconda condizione è un'intesa industriale con Air France, trattata dalle Fs in un quadro globale da Paese a Paese. In questo quadro, la vigilanza dell'Antitrust dovrebbe assumere un respiro europeo e non provinciale, come spesso è finora accaduto. La terza condizione è la presa d'atto da parte degli attuali soci di Alitalia che non un euro verrà loro dato da Fs. Vogliono partecipare alla ricapitalizzazione? Porte aperte. Non se la sentono? Amen, si diluiranno.

Se questo disegno andasse in porto, l'Italia avrebbe una nuova società del trasporto aereo e ferroviario, con possibilità di integrazioni a parte nel ramo strategico della logistica. L'ingresso di investitori finanziari in vista del collocamento in Borsa - banche o Fondo strategico della Cdp, poco importa - non sarebbe un'eresia ove si pensi al supporto che aveva avuto quattro anni fa l'improbabile salvataggio voluto da Berlusconi.

Massimo Mucchetti

23 dicembre 2012 | 13:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_dicembre_23/alitalia-piano-alta-velocita_0adebd0a-4cdd-11e2-83d8-cd3029dc7d61.shtml
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« Risposta #16 inserito:: Gennaio 06, 2013, 06:37:07 pm »

La lettera

Mucchetti: perché ho scelto di saltare il fosso

«Ho cercato di associare le soluzioni alla denuncia. Passare dallo scrivere al fare è uno sviluppo non un tradimento»


Caro direttore,
l'altro ieri, nell'inserire una mia dichiarazione nel servizio sulla giornata politica, il Tg1 mi ha presentato come vicedirettore del Corriere. Per evitare l'equivoco che la mia fosse ancora una voce del giornale, pochi istanti dopo ti ho mandato una mail nella quale chiarivo di aver già cessato di scrivere, una volta annunciata la mia candidatura come indipendente nelle liste del Pd. E tu hai titolato: «Mucchetti lascia il Corriere». Oggi, dunque, sono un ex vicedirettore ad personam. Ma quel testo, forse, era troppo conciso. Molti lettori, infatti, mi hanno scritto per chiedere maggiori lumi su questa scelta, del tutto personale, dopo 9 anni in via Solferino. Dalla grande maggioranza ho ricevuto parole di incoraggiamento, e li ringrazio: ne ho bisogno. Altri hanno manifestato riserve, ed è a loro che ti chiedo la cortesia di potermi rivolgere in libertà, com'è costume dalle nostre parti (mi perdonerai se uso ancora l'aggettivo nostre: è l'affetto).

Ma come, si chiedono alcuni lettori, lei, Mucchetti, si rende conto che, adesso, rinuncia alla sua indipendenza? Risposta: non rinuncio alla mia indipendenza di uomo che, cercando di ragionare con la propria testa, collaborerà, se eletto, con i nuovi colleghi e non avrà timore della solitudine, ove il suo contributo non venisse apprezzato. Credo di averne già dato prova in qualche frangente anche al Corriere, dove venni assunto da Stefano Folli, e gliene sono ancora grato, e dove ho infine trovato un ampio spazio con te, Ferruccio de Bortoli, e ti ringrazio di cuore. Certo, il Parlamento non è una redazione, ma l'area del centrosinistra è oggi quella a maggior tasso di democrazia reale.

Il centralismo dell'antico Pci non caratterizza più da anni il regime interno del Pd, crogiuolo di diverse culture politiche. Mi pare invece di ritrovarlo, spesso in forma caricaturale, in altri partiti dove il leader pensa per tutti.

Lei però, incalzano altri lettori, cessa di fare informazione e farà politica. Sarà fatalmente di parte. Non è un tradimento del Corriere? Risposta: è vero, cesso di dare notizie, analisi e opinioni sul più grande quotidiano d'informazione italiano. Ho saltato il fosso perché, maturando sul piano professionale, ho via via cercato di associare e discutere le possibili soluzioni alla pura denuncia di quel che non va. Passare dallo scrivere al fare potrebbe essere uno sviluppo positivo - almeno me lo auguro - e non un tradimento.

Un esempio illustre. Luigi Einaudi, prima firma di economia del Corriere fino al Fascismo e poi corrispondente dell' Economist , assimilava il giornalismo al sacerdozio. E tuttavia fu senatore del Regno e poi governatore della Banca d'Italia, ministro liberale e presidente della Repubblica. Non per questo si sentì uno spretato. Negli anni 90, collaboratori illustri come Lucio Colletti, Piero Melograni e Saverio Vertone si candidarono per Forza Italia. Non ricordo scandali. E lo stesso Mario Monti ha costruito la sua reputazione, che l'ha portato prima a Bruxelles e poi a palazzo Chigi, in buona parte scrivendo articoli di fondo sul Corriere. I grandi giornali - al pari delle università, delle imprese, dei sindacati e dei partiti politici in senso più stretto - possono fornire persone alle istituzioni. Dovrebbe essere sentito come un onore e un dovere. La politica democratica è un insieme di parti che, nelle convergenze e nelle divergenze, servono l'interesse generale. Se fatta bene e onestamente, è la più alta delle attività umane.

Terza e ultima osservazione avanzata da (pochissimi) lettori: alla luce del suo ingresso in politica che cosa dobbiamo pensare dei suoi articoli? Si preparava forse un seggio parlamentare? Risposta: contro l'insinuazione di principio, alzo le mani; e se vuole, il sospettoso potrà sempre estendere i sospetti alle grandi firme che ho appena citato e a tante altre che, provenendo da questo e da altri giornali, hanno svolto un temporaneo servizio alla Camera, al Senato o al governo. Ma insinuazioni del genere provano troppo e dunque non provano nulla. Un caso per tutti: una simile logica dovrebbe indurci a dire che Silvio Berlusconi costruì Mediaset per fare il premier, mentre è vero l'inverso. L'ex premier scese in campo non solo per un suo progetto politico ma anche perché temeva che gli fossero tolte le tv. Quanto poi fosse fondato quel timore è un altro discorso, naturalmente...

Sono sicuro che il Corriere non mi farà sconti. E di questo lo ringrazio fin d'ora.
Un abbraccio

Massimo Mucchetti


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Caro Massimo, grazie.
Il tuo lavoro è stato straordinario e il tuo contributo ci mancherà.
Con sincerità e franchezza devo però dirti che stai commettendo un grosso errore. Auguri
(f. de b.)

Massimo Mucchetti

6 gennaio 2013 | 9:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_06/lalettera-mucchetti_15378ca6-57d6-11e2-9a31-1eca72c52858.shtml
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« Risposta #17 inserito:: Ottobre 15, 2013, 04:58:48 pm »


Pietro Salvatori pietro.salvatori@huffingtonpost.it
 
Alitalia, Massimo Mucchetti (Pd): "Il governo parla di discontinuità, temo siano solo parole"

Pubblicato: 14/10/2013 18:56 CEST  |  Aggiornato: 14/10/2013 21:03 CEST

Il caso Alitalia divide la maggioranza. Sul piano di salvataggio promosso dal tandem Letta-Lupi piovono gli strali di Scelta Civica: “Siamo in presenza di un’incoerente operazione patriottica fatta con i soldi pubblici – spiega Linda Lanzillotta - Ferrovie dello stato aveva messo in campo idee per un risanamento strutturale, è preoccupante che per questo sia stata accantonata”. E, nonostante per Renato Brunetta “la soluzione trovata con Poste sia utile per arrivare a trattare su un vettore europeo non in condizioni di debolezza”, una parte del Pdl è scettica sulla bontà del piano. “Non capisco l’operazione Poste, penso che si sarebbe dovuto dare spazio a chi è più bravo sul mercato – osserva Deborah Bergamini, azzurra in commissione Trasporti alla Camera – Non credo che questo intervento renda l’operazione più potabile per Air France”.

Ma anche nel Partito democratico le perplessità non mancano. “La discesa in campo di Poste è ancora avvolta, e forse non per colpa della società, da una fitta nebbia”, dice Massimo Mucchetti, ex vicedirettore del Corriere della sera, oggi a Palazzo Madama. “Sarebbe stato meglio chiudere senza se e senza ma con la vecchia gestione. Il governo parla di discontinuità, ma c'è la discontinuità reale e quella verbale. Temo siamo alla seconda”.

Era necessario l'intervento del governo per salvare Alitalia? Non si tratta di un aiuto di Stato come denuncia British Airways?

Sul piano formale, British Airways ha torto marcio. La disciplina europea qualifica come aiuto di Stato il versamento di denaro pubblico laddove nessun privato investirebbe. Questo aiuto non è da escludere a priori, ma è sottoposto a una regolazione settore per settore, affinché non se ne abusi. nel caso di Alitalia, l'aumento di capitale dovrebbe essere sottoscritto da azionisti pubblici, le Poste, e da azionisti privati, le banche e i "patrioti" residui. Sul piano politico, la disciplina europea in materia andrebbe rivista in radice per eccesso di discrezionalità. Gli aiuti arcimiliardari alle banche inglesi vanno bene? E qual è l'azionista privato di riferimento, che investe o non investe: un fondo di private equity, un cassettista brianzolo, un fondo avvoltoio, una banca universale, una marchant bank, una finanziaria, un fondo sovrano, un imprenditore? Ciascuno ha un'idea diversa dell'investimento. Ma l'attacco di British Airways non ci deve indurre all'arrocco. L'operazione attuale è legittima, ma Alitalia non è salva. Ha solo rinviato di qualche mese la presa d'atto del fallimento. Per guadagnare questo lasso di tempo, nel quale trattare l'integrazione con un vettore estero, il governo ha promesso 75 milioni da parte di Poste Spa. Se nei prossimi due mesi, si varerà un piano industriale decente e una partnership internazionale, la società per azioni Alitalia potrà dirsi salva. Ma bisognerà vedere quale compagnia il piano industriale in fieri darà all'Italia. Sotto quest'ultimo profilo, temo assai.

L'opzione Poste era la migliore possibile?

Diamo a Massimo Sarmi il tempo di calare le sue briscole sul tavolo. Certo è che la discesa in campo di Poste è ancora avvolta, e forse non per colpa della società, da una fitta nebbia. Quando si parla di aumenti di capitale, non è secondario sapere se esista e quale sia il valore residuo dell'emittente, ossia di Alitalia. Quando si parla di piano industriale, bisogna partire da uno stato patrimoniale e poi avere idee e uomini per le operations. Qual è lo stato patrimoniale di Alitalia da cui muovono il Governo e le Poste? Tante dichiarazioni roboanti, ma tanto silenzio sui numeri.

Il Financial Times dice che per Letta è stato un passo falso, è d'accordo?

Il Financial Times merita una risposta articolata. Chi non ha la pazienza necessaria per leggersela, passi alla domanda successiva. Il quotidiano britannico pone questioni serie, ma lo fa in modo superficiale. Forse è inevitabile quando si guarda un Paese da lontano, e con un po' di sufficienza. Capita anche ai giornalisti italiani quando scrivono di Usa o Uk. Il Financial Times teme una nuova ondata di protezionismo in Italia, e cita tre casi: il take over di Telefonica su Telecom Italia, l'ingresso di Cassa depositi e prestiti in Ansaldo Energia e il salvataggio di Alitalia. Aspetto di leggere una lex column sul debito di Telefonica una volta consolidata Telco e Telecm Italia e sulla sua capacità di investire nei mercati maturi. Siccome i colleghi - li chiamerei ancora così - della lex sanno far di conto, spareranno a palle incatenate contro Alierta. Ma forse lo salveranno dicendo che, per Telefonica, Telecom Italia viene via con soli 850 milioni di spesa ampiamente recuperabii con lo sconto che potranno avere sullo spezzatino di Tim Brasil... Ogni giorno ha la sua pena. Quanto ad Ansaldo, se la Cassa ora aprirà a partner esteri, magari ancora alla stessa coreana Doosan, le cose torneranno a posto. Questo è stato promesso. Il Financial Times ha diritto di non crederci adesso. Ma avrebbe anche il dovere di dare il dovuto riconoscimento se ciò avverrà. Quanto ad Alitalia, il Financial Times avrebbe dato un'informazione più completa se avesse ricordato che quella del 2008 non era un'offerta di Air-France Klm per un'Alitalia fallita, ma un accordo tra due compagnie che si ritenevano entrambe in bonis, promosso dal governo Prodi. Giusta la critica alla decisione di Berlusconi di affossare quell'intesa, ma ora tutto è cambiato. Il Financial Times dovrebbe dire che qui non c'è alcun investimento estero, ma il tentativo legittimissimo di Air France di portarsi a casa Alitalia senza sborsare nulla (ed è giusto perché la società si è mangiata il capitale) e anzi chiedendo di svalutare del 70% i crediti (e anche questo è comprensibile). Dovrebbe anche aggiungere che Air France vuole ridurre Alitalia al mero federaggio su Parigi Charles de Gaulle e Amsterdam Schipol. E concludere che a suo parere un paese disprezzabile come l'Italia questo deve accettare perché di meglio non saprebbe fare. Da italiano mi permetto di dissentire. Temo che su Alitalia i miei ex colleghi inglesi possano aver ragione, ma fino all'ultimo mi impegnerei affinché possano e debbano ricredersi. Quanto alla sincerità del premier Letta nell'aprire il Paese agli investimenti esteri, non la contesterei tanto su queste tre partite quanto sulle chiusure e sulle burocrazie con le quali l'Italia tende a bloccare gli investimenti esteri reali, come le piattaforme per l'estrazione del gas off shore o per costruire rigassificatori. Di questi investimenti, che allargano la base produttiva, l'Italia ha certamente bisogno. Di investimenti virtuali che hanno l'effetto reale di impoverire la base industriale del Paese, nessun Paese serio ha bisogno.

Palazzo Chigi risponde che il suo "non è protezionismo", al contrario. È d'accordo o l'affermazione è discutibile?

Trovo stucchevoli simili querelle, tutte di carta. Andiamo al sodo. La vera questione è se la soluzione che si delinea riesce a dare collegamenti intercontinentali diretti e numerosi all'Italia oppure no.

Davvero l'ingresso di Poste permetterà di negoziare da posizioni di forza con i francesi

Piuttosto di niente, meglio piuttosto. Ma il piuttosto delle Poste temo sia insufficiente alla bisogna. Sarebbe stato meglio chiudere senza se e senza ma con la vecchia gestione. Il governo parla di discontinuità, ma c'è la discontinuità reale e quella verbale. Temo siamo alla seconda.

Bonanni dice che occorre un alleato, ma non può essere Air France, che versa in condizioni non certo rosee. Si deve guardare all'estero seguendo altre strade?

Bonanni dice oggi una cosa giusta, avendone fatta una sbagliata 5 anni fa. Air France andava bene nel 2008 con l'accordo paritario raggiunto dal governo Prodi. Un accordo che la Cisl e poi anche la Cgil osteggiarono aprendo la strada ai patrioti di Berlusconi. Ora Air France non va più bene perché è cambiato il mondo ed è cambiata anche la compagnia franco-olandese. Ma per andare oltre bisogna rimuovere il diritto di veto dei francesi sul quale, se non ricordo male, i sindacati non si sono opposti per tempo. E allora i sindacati dovrebbero forse prendere una posizione di merito, sulla applicazione della legge Marzano ad Alitalia.

Perché secondo lei il governo ha scartato l'ipotesi Ferrovie?

Perché il capo di Fs, Mauro Moretti, ha posto come precondizione l'applicazione della legge Marzano ad Alitalia. L'uomo che ha riportato in nero i conti delle Fs non intende caricarsi 2,4 miliardi di debiti sulle spalle e prendere per buona una società che si è ampiamente bruciata il capitale. Ma questa linea di chiarezza cozza contro l'esigenza di salvare la capra (evitare che l'avventura dei patrioti berlusconiani fallisca in modo formale) e i cavoli (evitare il fiasco totale a Intesa Sanpaolo). Auguri.

Cosa accade se i francesi non partecipano all'aumento di capitale?

Verrebbero a mancare 75 milioni. Li metteranno le banche? Non lo so. Li metterà lo Stato? In queste condizioni, spererei di no.

Non siamo in presenza di un accanimento terapeutico per un'azienda che è da anni in difficoltà sul mercato?

Forse sì. Ripeto. L'accordo del 2008 con Air France Klm era ottimo. L'Italia lo ha affossato. Adesso rischieremmo una minestra riscaldata. Ma da allora altre compagnie internazionali stanno facendo piani di sviluppo. Alitalia in sé non è nulla, ma il Paese dal quale può attingere traffico è ancora qualcosa. D'altra parte, ogni Paese ha i suoi accanimenti terapeutici. Vogliamo parlare degli Usa e della Chrysler fallita tre volte in vent'anni? Eppure, insistendo, può capitare un Marchionne.

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/10/14/alitalia-massimo-mucchetti-governo-parla-discontinuita-temo-siano-solo-parole_n_4097739.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 21, 2014, 05:00:21 pm »

La lettera
"Matteo Renzi, attento alle nomine"
Entro metà aprile il governo dovrà presentare le liste per i consigli di Eni, Enel, Finmeccanica, Terna e Poste. E' il primo grande banco di prova per il nuovo premier. Come spiega in questa lettera aperta il senatore Pd

di Massimo Mucchetti
   
Caro direttore,

entro metà aprile il governo deve presentare le liste per i consigli di Eni, Enel, Finmeccanica, Terna e Poste. Sarà il primo, serio banco di prova per Matteo Renzi sul fronte del potere. Eni ed Enel hanno capi suggeriti dai power broker Gianni Letta e Luigi Bisignani e nominati da Silvio Berlusconi nel quadro di operazioni discusse come la cessione di Wind e gli investimenti in Russia.  Chi nel centro-sinistra usasse i soli occhiali della politica politicante non avrebbe bisogno di altro per opporre il pollice verso alle auto candidature di Paolo Scaroni e Fulvio Conti per un quarto mandato all’Eni e all’Enel.

Ma sarebbe un errore. La selezione dei vertici di queste imprese esige un metodo nuovo, liberato sia dallo spoil system, inadatto nelle società quotate, sia dalle lobby affaristico-manageriali. Ricorrere ai cacciatori di teste può aiutare, ma non libera l’azionista dalla responsabilità della scelta delle persone. Che presuppone un’idea di quel che si vuole dalle imprese.

Negli anni Novanta, il centrosinistra chiese alle aziende pubbliche di creare valore per gli azionisti e abbandonò la politica industriale; credeva bastasse liberalizzare i mercati. Con Berlusconi, la teoria è rimasta tale e quale. Certo, avremmo molto da ridire sulla pratica della concorrenza all’italiana e sul suo contrappunto di mance corporative, non di rado bipartigiane. Ma tant’è. Ora, in un Paese normale, il governo dovrebbe misurare le prestazioni dei capi azienda uscenti in relazione al mandato ricevuto e stabilire i nuovi mandati ai quali ispirare le liste.

Che cosa vuol dire misurare? La risposta è meno scontata di quanto si pensi. Anzitutto, andrebbe verificato il ritorno per i soci (dividendi più variazione delle quotazioni del titolo) in relazione non solo alle imprese comparabili, ma anche e soprattutto alle gestioni precedenti tenendo conto del contesto regolatorio e dei prezzi delle materie prime.

Ma i dividendi dipendono dall’utile, e c’è utile e utile. Se l’utile deriva in misura sensibile dalla cessione di partecipazioni, la qualità delle prestazioni è meno buona di quella apparente.  Vanno poi confrontati i perimetri d’attività dei gruppi all’inizio e alla fine dei mandati e va soppesato lo stato patrimoniale di ciascuno quanto agli avviamenti pagati, non sempre giustificabili, e ai debiti che li hanno finanziati, non sempre assennati. Molti, in questi anni, sono stati gli affari: alcuni buoni, altri pessimi, tutti da capire. Radicali novità hanno modificato gli equilibri globali, specialmente nell’energia e nella difesa. I nostri campioni parastatali li hanno capiti per tempo? Hanno reagito bene? Chi si occupa di nomine dovrebbe coltivare il dubbio metodico e la memoria se vuole costruire il futuro. E curarsi di tre dettagli.

Primo dettaglio, le spese per le relazioni esterne, attraverso le quali i gerenti possono procurarsi il consenso. L’azionista Stato sa quel che dovrebbe? Temo di no. Secondo, i compensi. L’azionista Stato si è fatto un’idea sua paragonandoli ai risultati e, poniamo, agli esempi francesi?  Di nuovo, temo di no.

Terzo dettaglio, i conflitti d’interesse. Dopo aver visto tanti sepolcri imbiancati piangere sugli incarichi del dottor Mastrapasqua, senza fare due conti sull’Inps di ieri e di oggi, mi chiedo se il ministero dell’Economia abbia mai autorizzato il capo dell’Eni a sedere nel consiglio delle Generali, presiedendone il comitato remunerazioni, e il capo dell’Enel a sedere nel consiglio di Rcs Mediagroup che pubblica il “Corriere”, entrambi designati da Mediobanca, fornitrice di finanza a entrambe le aziende pubbliche.  Temo che il ministro non sia stato nemmeno informato.

20 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/02/20/news/matteo-renzi-attento-alle-nomine-1.154106
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