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Autore Discussione: MICHELE BRAMBILLA  (Letto 66434 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Novembre 20, 2012, 05:07:47 pm »

Editoriali
20/11/2012

Un brutto copione e due domande

Michele Brambilla

Probabilmente non c’è italiano che non sia rimasto interdetto, ieri, nel seguire le notizie sul sequestro lampo ai danni del cassiere di fiducia di Silvio Berlusconi. Quello che si è scoperto, con un mese di ritardo, è un episodio di cronaca nera: ma lo scenario nel quale si sono svolti i fatti, e mossi i suoi interpreti, sembra da commedia, o peggio da farsa. Una via di mezzo tra «Romanzo criminale» e un film di Totò. L’ex premier entra in scena come parte lesa: ma forse il danno più rilevante che subisce non è il tentativo di estorsione, quanto la ricaduta d’immagine che gliene deriva. 

 

Un fido ragioniere venuto alla ribalta per la puntualità con cui versa lo stipendio a ragazze chiamate «Olgettine». Sei balordi, tre italiani e tre albanesi, che vanno a casa sua con la pistola in pugno. Una chiavetta usb che conterrebbe le prove di un complotto del presidente della Camera e dei magistrati ai danni di Berlusconi e che nessuno riesce a collegare a un computer. Una richiesta di 35 milioni di euro; tre cassette di sicurezza, una Ferrari prenotata, una telefonata in cui si parla di otto milioni già in Svizzera e forse non è vero, ma è vero che il tutto viene denunciato con oltre un giorno di ritardo. 

 

E infine un pranzo con il presidente del Consiglio Monti e un convegno europeo del Ppe che vengono rinviati, fatti saltare per stare dietro a tutta questa sporca e grottesca faccenda. 

 

Credo non si sia mai visto un grande imprenditore e leader politico coinvolto in questo modo - sia pure, lo ripetiamo, come vittima - in una tragicommedia di così basso livello. Eppure i fatti e i personaggi sopra descritti fanno parte dell’inquietante mondo dell’ultimo Silvio Berlusconi. C’è ahimè un filo rosso, che poi è una medesima antropologia, che lega attori e comparse del «pasticciaccio brutto del ragionier Spinelli» con gli attori e le comparse di altri fatti di cronaca che hanno contrassegnato gli ultimi tre anni - quelli del declino - del Cavaliere. La festa a Casoria per la diciottenne Noemi; quel Tarantini di Bari e Patrizia D’Addario che a letto fa i filmini con il cellulare; i bunga bunga ad Arcore con Lele Mora e le sue ragazze; il compagno di un’Olgettina pescato con chili di cocaina; l’igienista dentale e la finta nipote di Mubarak; il caso Lavitola. E via di questo livello.

 

C’è chi dice che cattive frequentazioni Berlusconi le abbia sempre avute. Non sappiamo se è vero, e comunque prove in questo senso non ce ne sono. Sicuro è però che le amicizie del Berlusconi degli ultimi anni sono tali da suscitare due domande. La prima è: ma che bisogno ha, un uomo così ricco e potente, di frequentare certa gente per divertirsi? La seconda, decisiva: quale affidabilità può dare un leader politico che senza alcuno scrupolo, anzi con ostentazione, bazzica ambienti simili? Fino al punto da venire ricattato da balordi di quart’ordine?

 

Quando scoppiarono i vari casi Noemi, D’Addario, Ruby eccetera, il Cavaliere (allora premier) venne difeso da tutta una serie di intellettuali e giornalisti che gridarono al «moralismo». La parola d’ordine era: ciascuno a letto fa ciò che vuole, separiamo la politica dalla vita privata. Fu un modo abile e imbroglione per distogliere l’attenzione dal vero problema, che non è la moralità ma l’affidabilità: dell’uomo e soprattutto del politico. Se molti leader mondiali non vollero più avere a che fare con l’Italia, è perché non volevano più rapporti con Berlusconi. Il danno per il nostro Paese è stato quel che sappiamo, non fosse altro per il tempo perso.

Oggi Berlusconi appare come prigioniero di quella rete di rapporti e di interessi che ha intessuto da troppo tempo. Processi, casi Ruby e lodi Mondadori, tentativi di ricatto e tentativi di estorsione. Eppure, dopo un anno di panchina anzi di tribuna, sta meditando se tornare in campo. Non è neanche il caso di immaginare a quale film assisteremmo se dovesse decidere per il «sì». 

da - http://lastampa.it/2012/11/20/cultura/opinioni/editoriali/un-brutto-copione-e-due-domande-93mGi8KoP4qnzwxrtYLz4J/pagina.html
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« Risposta #91 inserito:: Dicembre 03, 2012, 06:43:58 pm »

Politica
03/12/2012 - Centrosinistra, Renzi

L’autocritica del sindaco “Scusate, colpa mia”

“Era giusto provarci”.

E offre il suo aiuto all’ex avversario

Michele Brambilla
inviato a Firenze


Matteo Renzi non ha saputo vincere ma ha dimostrato di saper perdere. Come aveva promesso, ha escluso una coda polemica sulle regole e ha assicurato che darà una mano a Bersani, mettendosi lealmente al servizio del Pd e del centrosinistra. 

 

Ieri sera era commosso. Lui che ha la fama di essere un giovane rampante, e quindi vincente, ha confermato che spesso gli sconfitti sono più interessanti dei vincitori. E che quando si perde - se si accetta la lezione che la vita impone - si può dare il meglio di sé. Quando è arrivato alla Fortezza da Basso - sede del suo comitato elettorale - alle nove e mezza di sera, Renzi ha dato l’impressione di essere dispiaciuto soprattutto per tutti coloro - in gran parte volontari - che hanno lavorato con lui in questi ultimi tre mesi. Cosa rara per un politico, non ha detto «abbiamo perso» ma «ho perso», e ha chiesto scusa.

 

Che tirasse aria di sconfitta, e di sconfitta netta, il sindaco lo aveva capito già pochi minuti dopo la chiusura dei seggi. Su Twitter aveva diffuso un messaggio che era l’implicita ammissione di aver perso: «Era giusto provarci, è stato bello farlo insieme. Grazie di cuore a tutti, ci vediamo dalla Fortezza da Basso alle 21.30». Ed è arrivato puntuale, lui di solito ritardatario; forse per l’impazienza di chiuderla lì; forse per la voglia di abbracciare tutti i compagni di avventura. Infatti quando è salito sul palco, prima di prendere la parola ha voluto che sul maxi schermo scorressero le immagini del suo viaggio in camper. Immagini che ha osservato quasi con devozione. Poi le sue prime parole sono state queste: «Dedichiamo questo filmato ai ragazzi e alle ragazze, volontari, che ci stanno seguendo da tutta Italia».

 

Solo dopo questa dedica da uomo ha parlato da politico: «Ho appena chiamato Pierluigi Bersani per fargli i miei e i vostri complimenti e per dargli l’in bocca al lupo». Ha subito sgomberato il campo da possibili recriminazioni: «La sua vittoria è stata netta. Lui ha vinto e noi no». 

 

Poi l’autocritica. «Vorrei», ha aggiunto, «che fossimo seri con noi stessi. Abbiamo offerto una diversa idea dell’Italia, del partito, del centrosinistra. Io credo a parole d’ordine diverse da quelle di Bersani. Abbiamo espresso i nostri concetti con grande chiarezza e oggi dobbiamo dire che gli italiani che sono andati alle urne sono stati ancora più chiari di noi. Abbiamo perso. Anzi, io ho perso».

 

Non ha cercato di addolcire l’amara medicina che i risultati hanno somministrato a lui e ai suoi: «Certo abbiamo tanti motivi per rallegrarci per quello che abbiamo vissuto. Ma noi non eravamo qui per fare una battaglia di testimonianza. Noi volevamo prendere in mano il governo del Paese e non ce l’abbiamo fatta». Ha ripetuto, come pochi minuti prima, l’esortazione «siamo seri». «Ci abbiamo creduto fino alla fine».

 

Come non buttare via tutto? «Mi piace l’idea che dopo questa battaglia per la nostra generazione sarà più facile provarci; mi piace pensare che altri under quaranta ci proveranno». Solo una frecciata polemica: «Non era l’ambizione di un ragazzetto, come qualcuno ha scritto. Era il dare un senso al nostro coraggio e al nostro orgoglio. Qualcosa abbiamo sbagliato. Io ho sbagliato. E per questo voglio chiedervi scusa».

 

«Noi volevamo sinceramente realizzare il sogno di un Paese diverso. Io non sono riuscito a togliermi di dosso, fuori dalla Toscana, l’immagine del ragazzetto». Un po’ di amarezza: «Me ne sono sentite dire di tutti i colori, compresa quella storia delle Cayman. Ma la colpa è mia. Non sono riuscito a portare ai gazebo un numero sufficiente di italiani. La verità è questa, inutile parlare di regole». Al vincitore, lo sconfitto ha lanciato però un messaggio: «Bersani vada a parlare anche all’Italia che non è andata ai gazebo».

 

L’ultima parte del discorso di Renzi è sembrato un po’ stile-papa Giovanni: «Andando a casa questa sera, siate orgogliosi di quello che siete riusciti a fare. Ai colleghi d’ufficio e ai compagni di classe non mostrate facce tristi. Offrite loro un sorriso, perché questa esperienza è stata bellissima. E se c’è qualche cicatrice, riportate loro questa citazione di Bersani, voglio dire non di Pierluigi, ma di Samuele Bersani: “È sempre bellissima la cicatrice che mi ricorderà di essere stato felice”». E poi: «Rimboccando le coperte dei vostri figli questa sera, dovete pensare che quello che avete fatto non lo avete fatto per voi ma per loro».

 

Ha concluso invitando a non mollare: «Non siamo riusciti a cambiare la politica. Adesso sarà meraviglioso dimostrare che la politica non riuscirà a cambiare noi. Abbiamo dalla nostra parte l’entusiasmo, il tempo e la libertà. Ho ricevuto più di quanto ho dato. Vi ringrazio».

 

Undici minuti di discorso in tutto. Uscendo, ha avuto la forza di scherzare: «Su Twitter qualcuno ha scritto: “Finalmente Renzi ha fatto una cosa di sinistra: ha perso”. È stato il commento più simpatico e forse il più vero». A un certo punto aveva davvero pensato di vincere. Per questo domani, assicura chi lo conosce, per il sindaco sarà un giorno difficile. Ma Renzi, di domani, ne ha di fronte tanti.

DA - http://lastampa.it/2012/12/03/italia/politica/l-autocritica-del-sindaco-scusate-colpa-mia-oY100sjf8IhqtWicnCacGK/pagina.html
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« Risposta #92 inserito:: Dicembre 08, 2012, 04:59:20 pm »

Editoriali
08/12/2012

Politica, ritorno al passato

Michele Brambilla


In una settimana il centro del dibattito politico si è spostato da Matteo Renzi, 37 anni, a Silvio Berlusconi, 76. Il sindaco di Firenze aveva perso le primarie, ma per mesi aveva tenuto l’attenzione di tutti fissa sul cambiamento, sul rinnovamento. Sul futuro. E anche dopo aver dovuto lasciare a Bersani la candidatura a Palazzo Chigi, Renzi continuava a esserci, pur nel suo silenzio, come una presenza che ti impone di voltare pagina, anche per non far regali al fronte dell’antipolitica. Non era solo il quaranta per cento degli elettori del centrosinistra alle primarie - quelli che lo hanno votato - a farci sperare in una novità: lo stesso Bersani, dichiarando di avere il senso della «cosa comune», aveva garantito che avrebbe portato il partito dentro il secondo decennio del Duemila.

 

Pochi giorni, e siamo invece risprofondati nel Novecento. Di Renzi non si parla più. L’agenda politica, ma anche ahimè quella dei mercati e della finanza internazionale, sono dettate da un uomo che si era presentato come il «nuovo» diciotto anni fa, quando peraltro aveva già cinquantotto anni, ventuno più del Renzi di oggi.

Nessuno è così ingenuo da pensare che basti la carta d’identità per garantire un miglioramento della classe dirigente. Anzi, la Bibbia dice che il giovane è stolto e necessita della correzione del bastone. Che l’esperienza porti saggezza, lo abbiamo sperimentato in questi ultimi anni grazie al presidente Napolitano, che in politica ha dato il meglio di sé proprio da ottuagenario. Non avessimo avuto al Quirinale un simile inquilino, chissà dove saremmo finiti.

 

Ma il «vecchio» che sta ritornando da un paio di giorni a questa parte è ben di più di una questione anagrafica. È quel brutto film di cui ci illudevamo di aver visto da un pezzo i titoli di coda. I partiti come questioni personali, la rissa come propaganda politica, gli insulti. Anche chi non ha partecipato alle primarie del centrosinistra non può non ammettere che ben diverso era stato il clima dello «scontro» tra Renzi e Bersani. Avevamo sperato di aver imparato qualcosa dagli Stati Uniti, io mi confronto con te sui programmi e se perdo comunque ti do una mano perché siamo tutti sulla barca. 

 

Come non detto. Torna il clima da guerra civile e quel che è peggio torneremo a discutere di conflitto d’interesse, del ruolo della magistratura (ogni inchiesta o sentenza sarà chiamata, d’ora in poi, «a orologeria»), di pericolo comunista, e così via. Tutte cose di cui l’Italia non ha bisogno. Un anno fa, quando era nato il governo Monti, ci eravamo illusi che questo scenario fosse ormai da consegnare ai libri di storia. Pdl e Pd avevano sospeso le ostilità e tutti eravamo contenti di addormentarci davanti alla televisione quando andava in onda Porta a porta o Ballarò. Sembrava che ciascuno avesse messo da parte i propri interessi e i propri istinti, pur di collaborare con gli ex nemici per il bene del Paese. Pensavamo che il governo Monti, che si reggeva su una tregua fra destra e sinistra, fosse solo il primo momento di una nuova fase che sarebbe continuata dopo la fine della legislatura, con un nuovo esecutivo eletto dal popolo, ma con lo stesso senso di responsabilità.

 

Il perché dello sconsolante ritorno al passato cui stiamo assistendo è forse da ricercare più nei meandri della mente umana che in quelli della politica. L’angoscia per il tempo che se ne va, la paura di veder spegnere accanto a sé le luci della ribalta, la convinzione di essere ancora il migliore anzi l’unico, la sete di rivincita... Chissà. Cose che appartengono al mistero della psiche. Ma forse ancora più misteriosa è la poco virile accondiscendenza di chi permette la messa in azione, all’indietro, di questa pericolosa macchina del tempo. Di chi non capisce che, assecondando e sottomettendosi ancora una volta, non rende un buon servigio né a se stessi, né al Paese, né alla propria parte politica, e ultimamente neppure al proprio capo. 

da - http://lastampa.it/2012/12/08/cultura/opinioni/editoriali/politica-ritorno-al-passato-wz0IYE9wPhQQMM3YinUqsO/pagina.html
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« Risposta #93 inserito:: Dicembre 14, 2012, 07:25:45 pm »

Editoriali
14/12/2012

Monti rischia un appoggio eccessivo

Michele Brambilla

Due cose non s’erano mai viste in una campagna elettorale. Non s’era mai vista una così esplicita ingerenza (chiamiamo le cose con il loro nome) estera sul voto italiano, e non s’era mai visto il leader di un partito che indica come candidato premier il premier che ha appena sfiduciato. 

 

La prima cosa, cioè il fatto che tutta Europa chieda a Monti di ricandidarsi, è indice di quanta stima goda oltre confine il Professore (tantissima) e di quanta ne abbia goduta il suo predecessore (pochissima per non dire zero). La seconda cosa sembra la prova delle difficoltà che Berlusconi sta incontrando dopo aver annunciato, con la solita metafora calcistica, il suo «ritorno in campo». 

 

Tutti e due i fatti, insieme, appaiono poi come il segno che per il Cavaliere non tira una buona aria. L’Europa non lo vuole, e lui si manifesta in stato confusionale. L’altro ieri, durante quella che in teoria avrebbe dovuto essere la presentazione di un libro di Bruno Vespa, in poco più di un’ora ha dato cinque versioni sulla candidatura a premier: 1) se si presenta Monti io faccio un passo indietro; 2) lo faccio anche se Montezemolo assume la guida del centrodestra; 3) Alfano è in pole position per Palazzo Chigi; 4) se la Lega non mi appoggia faccio cadere le giunte in Piemonte e in Veneto; 5) la Lega ha accolto con entusiasmo il mio ritorno e al momento il candidato premier sono io. Ventiquattr’ore più tardi, cioè ieri, è tornato a caldeggiare un Monti-due, segno che a un Berlusconi-quattro non ci crede neppure lui.

 

O siamo di fronte a un genio di cui non siamo in grado di capire le mosse, il che è possibile; oppure Berlusconi è davvero in difficoltà, più di quanto abbia immaginato al momento di decidere il proprio ritorno. Cioè quando sapeva che la partita sarebbe stata difficile (i sondaggi non sono mai stati buoni) ma non prevedeva di sbattere contro le porte che la Lega, il vecchio alleato, gli ha chiuso in faccia. Abituato a trattare con l’amico Bossi - con il quale a un accordo, alla fine, si arrivava sempre - il Cavaliere dev’essere rimasto di sale quando s’è sentito dire da Maroni che l’alleanza Pdl-Lega può anche andar bene, ma a patto che lui si tolga di mezzo.

 

Così stando le cose - con l’Europa contro, con il Pdl sfasciato, con la Lega che lo abbandona - gli ultimi alleati del Cavaliere sembrano rimasti i suoi nemici storici, gli «antiberlusconiani» in servizio effettivo e permanente. Di assist, non mancheranno di offrirgliene. 

 

Il primo sarà l’enfatizzazione del fronte internazionale pro-Monti. Un fronte che ha le sue sacrosante ragioni. Ma anche l’indelicatezza di non capire che basta poco per far rinascere negli italiani, di solito fieramente anti-italiani, l’orgoglio di sentirsi italiani. Se l’ipotesi di un Monti candidato di tutti i moderati Lega compresa svanirà (e svanirà), Berlusconi avrà buon gioco nel gridare alle indebite pressioni, al tentativo di colonizzarci, alle speculazioni dei mercati manovrati dai poteri forti internazionali, che non si sa chi siano ma proprio per questo come «nemico» funzionano sempre. 

 

Il secondo assist glielo stanno già offrendo gli intellettuali, i comici e i giornalisti eccetera che hanno ripreso la battaglia con le armi dei bei tempi che furono, i quali poi furono bei tempi per Berlusconi perché certe campagne finirono per l’ottenere l’effetto opposto. Sono, costoro, in azione sia all’estero che in Patria, e negli ultimi giorni li abbiamo visti confezionare prime pagine con Berlusconi trasformato in mummia o, più gentilmente, che riemerge da un water; li abbiamo letti nei loro articoli sul Cerone di Natale o sul Cainano, li abbiamo sentiti alla Rai mentre invitavano a togliersi dal c. Anche qui, il Cavaliere non faticherà a dimostrare di quanta faziosità sia capace «una certa sinistra»; di quanto odio sia fatto oggetto «la sua persona». E si fregherà le mani.

 

Il primo ad avvertire questo rischio è proprio Bersani, che infatti ieri ha detto che non farà una campagna elettorale ad personam, avendo capito che il Berlusconi di oggi, a perdere, provvede da solo. Perché il Berlusconi di oggi non è più quello del 1994, anche se molti suoi avversari sono rimasti, un po’ pateticamente, quelli di allora. 

da - http://lastampa.it/2012/12/14/cultura/opinioni/editoriali/monti-rischia-un-appoggio-eccessivo-ywnEWdeRiA7jK3hS5mJESI/pagina.html
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« Risposta #94 inserito:: Gennaio 20, 2013, 10:56:56 pm »

Politica
20/01/2013 - l’analisi

Un ruolo a Nord e società civile

Monti: “Noi siamo il vero nuovo”

La sfida del Professore da Bergamo

Michele Brambilla

Mario Monti ha aperto oggi la sua campagna elettorale a Bergamo, al «kilometro rosso» dell’imprenditore Alberto Bombassei, che correrà per un posto in parlamento. L’ha aperta davanti ai suoi candidati: ma il messaggio che ha voluto lanciare è diretto a tutto il Paese. Ed è un messaggio che vuole innanzitutto ricordare quanto di buono ha fatto il suo governo, un governo che oggi - con argomenti diversi ma per motivazioni identiche - sia la destra che la sinistra, che pure l’avevano appoggiato, rinnegano. 

Monti ha voluto ricordare che il Paese davvero era sull’orlo del fallimento, e ha rivendicato con orgoglio i risultati ottenuti. Ma il premier ha voluto soprattutto guardare al futuro. Ha voluto dire che il prossimo governo non dovrà, come il suo, partire da una situazione di allarme rosso, proprio perché il pericolo di un default non c’è più, e quindi «non è per nulla incoerente» che lui oggi parli di una «graduale riduzione delle tasse». Monti ha voluto guardare avanti soprattutto presentando i candidati della sua lista «Scelta civica», dei quali nessuno è mai stato parlamentare. «Noi siamo il vero nuovo», ha insomma voluto dire Monti, perché tutti i candidati vengono davvero dalla società civile. Ma anche e soprattutto perché nuova è l’anima di questa sua formazione, che vuole superare davvero i vecchi schemi di destra e sinistra.

Ha voluto partire dal Nord, il premier. «Dalla mia Lombardia», ha detto. E poi ha parlato della «sua» Varese. Territori che vent’anni fa hanno dato origine ad altre avventure nate dalla società civile o dal popolo, e quindi fuori dalla politica come fuori dalla politica è l’origine di Monti e dei suoi candidati. Forza Italia e la Lega, insomma. Le quali però, ha detto Monti, hanno tradito, portando avanti promesse vuote e illusorie. La sfida partita oggi a Bergamo è proprio questa: ridare un ruolo al Nord e alla società civile con un altro stile, con altri obiettivi e con un’altra politica.

da - http://lastampa.it/2013/01/20/italia/politica/un-ruolo-a-nord-e-societa-civile-monti-noi-siamo-il-vero-nuovo-Jz11idydqrDOcogPcUMzWP/pagina.html
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« Risposta #95 inserito:: Febbraio 01, 2013, 11:58:55 pm »

Editoriali
01/02/2013 - politica e sprechi

“Pulito” e impossibile


Michele Brambilla


C’era una volta nei giornali una rubrica: «L’intervista impossibile». 

 

Si immaginava di conversare con illustri personaggi da tempo trapassati e si mettevano a segno scoop memorabili: l’ultima notte di Marilyn Monroe e per chi voterebbe Mussolini. Oggi per fare un’intervista impossibile non c’è bisogno di scomodare i morti: basta cercare un consigliere regionale della Lombardia non inquisito. 

 

Una semplice ricerca d’archivio mostra come la caccia a un nome sicuramente «pulito» non appartenga alla categoria del giornalismo ma a quella del circo: sempre più difficile. Nella scorsa primavera i quotidiani titolavano: «Degli 80 consiglieri, 14 sono sotto inchiesta». C’erano, per il cronista, sessantasei possibilità, praticamente l’imbarazzo della scelta. Ma poche settimane dopo, un altro titolo informava che «Sono 17 (su 80) i consiglieri lombardi coinvolti dalle inchieste». In fondo erano però percentuali fisiologiche: reati di corruzione, tangenti, voti comperati dalla ’ndrangheta, insomma routine.

 

La ricerca del consigliere integerrimo s’è complicata quando i magistrati si sono messi a ficcare il naso nelle note spese. «Altri 37 consiglieri regionali lombardi - scrive in dicembre un grande quotidiano milanese - indagati per peculato nell’inchiesta sui rimborsi spese facili: ora sotto indagine sono in 62, 35 dei quali appartengono al Pdl e 27 alla Lega». L’altro ieri la stessa inchiesta va a fare le pulci anche all’opposizione: 29 nuovi indagati fra Pd, Idv, Sel e Udc. «In totale», spiega un collega della cronaca giudiziaria, «gli indagati per il solo filone dei rimborsi spese sono ottanta fra maggioranza e opposizione, più tredici per le vecchie inchieste». Il tutto abbraccia però il periodo 2008-2012, quindi due legislature: alcuni di coloro finiti sotto inchiesta non sono più in Regione. «Potrebbero tuttavia esserci altri consiglieri», spiega ancora il collega, «che sono stati iscritti nel registro degli indagati senza aver ricevuto un invito a comparire: in quel caso, i loro nomi sarebbero ancora coperti».

 

Intervistare un consigliere che faccia la predica è dunque rischioso: chi è pulito oggi, potrebbe non esserlo domani. Fino a qualche settimana fa sui giornali pubblicavamo una specie di foto-simbolo dell’ufficio di presidenza della Regione Lombardia sottolineando che dei cinque immortalati solo uno era illibato. Ieri abbiamo appreso che quell’unica pecora bianca, il consigliere del Pd Carlo Spreafico, deve spiegare al magistrato perché ha messo in nota spese 8 euro di fototessere, 3,70 per un biscotto a cinque stelle e acqua frizzante, 8,10 per due coni piccoli e uno medio, 2,70 per la Nutella, 9,4 per un ombrello automatico. Forse - visto che pare abbia messo in nota spese anche la quota associativa all’Ordine dei giornalisti, un centinaio di euro - è stato contagiato dalla nostra categoria, specialista della pratica: ogni redazione ha una vasta aneddotica in materia. 

 

Auguriamo a Spreafico di chiarire tutto. Si tratta comunque di quisquilie, di fronte alle vere grandi ruberie di molti politici. E poi dev’essere un vizio nazionale. Una dozzina di anni fa un brigatista rosso, reduce da uno scontro a fuoco su un treno, venne arrestato perché beccato in possesso, giorni dopo, del biglietto ferroviario che aveva conservato per farselo rimborsare dai compagni: apprendemmo così che in Italia c’è anche una nota spese della rivoluzione.

 

Ma a questo Paese che digerisce tutto, anche la crisi, forse riesce più difficile accettare proprio certe miserie. Se a chiedere il rimborso di un biglietto del tram (è successo) è un consigliere regionale che guadagna novemila euro netti al mese - più indennità di 1.500 euro per il portaborse e altri benefit - vien da chiedersi chi siano, in realtà, i bisognosi d’aiuto.


da - http://lastampa.it/2013/02/01/cultura/opinioni/editoriali/pulito-e-impossibile-pulito-e-impossibile-jqAajoVd3X7KOhgOTkZkHK/pagina.html
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« Risposta #96 inserito:: Febbraio 14, 2013, 05:27:52 pm »

Cronache
14/02/2013 - reportage

“Grazie Santità”

L’emozione dei fedeli più forte della paura


Religiosi e semplici fedeli si sono messi in fila ieri pomeriggio per partecipare all’ultima celebrazione eucaristica di Papa Benedetto XVI a San Pietro

Applausi e cori all’udienza generale nell’Aula Paolo VI

Michele Brambilla

Città Del Vaticano


Sono le nove del mattino di un giorno unico nella storia: tra poco ci sarà il primo incontro con i fedeli di un Papa dimissionario. La gente fa la fila in piazza San Pietro; l’aula Paolo VI, dove si terrà la consueta udienza del mercoledì, si sta riempiendo. Si coglie qualcosa di difficile da tradurre in parole. Mando un sms a un amico: «È strano. C’è un clima di festa. È un altro mondo».

 

Poche parole per descrivere lo stupore del cronista immerso in una dimensione che sembra non avere una spiegazione umana. Il Papa - cosa inaudita - ha lasciato; la Chiesa è senza guida; il gregge è senza pastore; girano voci e sospetti terribili su scandali, complotti, ricatti. Qualsiasi Paese, se il proprio governo fosse caduto in una simile tempesta, sarebbe angosciato; qualsiasi partito politico penserebbe di essere arrivato alla fine. Invece qui si vedono solo volti sorridenti, si sentono canti, si vedono sventolare bandiere. Non sembra incoscienza: tutti sanno quello che è successo. E tutti sanno che quello che è successo è grave: lo dirà, tra un po’, il Papa stesso. Ma c’è come una serenità di fondo, una certezza superiore, una percezione che la realtà è, ultimamente, per il bene. Rimando l’sms di prima a un altro amico, questa volta un prete, per esprimere lo sbigottimento. Mi risponde così: «Questa è davvero la Chiesa».

 

È come se stando qua fosse messa a nudo, impietosamente, tutta la nostra incapacità di capire una realtà che non appartiene alle categorie della politica, dell’economia, della sociologia. Noi - intendendo «noi dei media» - pensiamo che tutto sia determinato, nel bene e nel male, dalle azioni degli uomini. Che ne sarebbe di un’istituzione politica scossa dallo scandalo della pedofilia, dal corvo, da Vatileaks? Ma il popolo che sta arrivando qui, questa mattina, da tutto il mondo, per ascoltare la catechesi di un Papa dimissionario, non crede che l’uomo sia il solo artefice del proprio destino. «Le opere buone non bastano a salvare la Chiesa, e il peccato non basta a farla affondare. C’è qualcosa che sta sopra di noi», mi dice una suora.

 

E i dubbi di fede? Lo sconcerto per un Papa che lascia sotto il peso della vecchiaia e delle divisioni? Non ci avevano detto che era assistito dallo Spirito Santo? Guardando le facce delle migliaia di persone che stanno aspettando l’apparire di un quasi ex Papa non pare proprio di cogliere i segni di simili tormenti. Anzi par quasi di avere in anticipo la serafica visione del sorriso con cui più tardi, in sala stampa, padre Lombardi risponderà sul tema: «Ma perché mai dovrebbero esserci dubbi di fede? Non è scritto da nessuna parte, né nel Vangelo né nel Credo, che un Papa debba morire Papa». 

 

Gli universitari di Cl di Roma srotolano uno striscione: «Nihil amori Christi praeponere. Grazie Santità». Una donna slovacca gira per la sala tenendo alto un quadro della Madonna. Un’improvvisata banda si mette a suonare: sono austriaci, o forse tirolesi. Quante lingue diverse si parlano qui dentro, in questo momento? Dieci, venti, trenta? È però sorprendente come tutti sembrano intendersi in una sorta di Pentecoste. Alle 10.10 danno lettura dei gruppi presenti, si scopre un mondo del tutto ignorato dal mondo: le «Ancelle del Sacro Cuore», quelli de «La Señora de los milagros», i «Servi di» eccetera eccetera. Ogni tanto scoppia un applauso. C’è uno che grida «Viva il Papa». E poi i cori: «Benedetto-Benedetto». Sta arrivando? No, è solo l’impazienza.

 

Ma eccolo. Sono le 10.40. Cammina un po’ curvo, la voce pare tremante quando dà la benedizione in latino. Si siede. Leggono il Vangelo di Luca: Gesù nel deserto tentato da satana per quaranta giorni. Ma perché questo grande Papa si è dimesso? Alle 10.48 pronuncia quel «Cari fratelli e sorelle» cui ci aveva abituati, e che ci mancherà. «Come sapete...», prova ad attaccare così, ma è subito interrotto da un lunghissimo applauso. «... ho deciso di rinunciare al ministero che la Chiesa mi ha affidato il 19 aprile 2005», e aggiunge di essere «ben consapevole della gravità di questo atto». Che cosa starà provando adesso quest’uomo di 86 anni, gravato da una tale responsabilità? «Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il quale non farà mai mancare la sua guida e la sua cura». È una cosa che ha sempre pensato. Quasi trent’anni fa, a Vittorio Messori che gli chiedeva se non era preoccupato per la crisi che già allora attanagliava la cristianità, il cardinal Ratzinger sorrise come oggi non sa e non può sorridere, ma rispose con lo stesso concetto: «E perché dovrei preoccuparmi? La Chiesa la salva Cristo».

 

Gli uomini le donne e i bambini che sono qui ad ascoltare la sua penultima catechesi del mercoledì non hanno i suoi studi ma la medesima certezza: è la fede dei semplici. «Ho sentito quasi fisicamente, in questi giorni per me non facili, la forza della vostra preghiera. Continuate a pregare per il mio successore...». Poi comincia il commento al Vangelo. Il deserto. Le tentazioni. La conversione. «La domanda fondamentale è: che cosa conta veramente nella mia vita?». Adesso sembra sereno. Lo abbracciano con un grande, interminabile applauso. Anche questo è strano: in quell’esile e vecchio uomo vestito di bianco che sembra incarnare una sconfitta, c’è chi scorge una speranza, il segno che la vita ha un senso. L’ultima parola che lui pronuncia, alle 11 e 4 minuti, è: «Grazie». 

da - http://lastampa.it/2013/02/14/italia/cronache/grazie-santita-l-emozione-dei-fedeli-piu-forte-della-paura-TRAKhiDKFrLhbKSDNyxzXK/pagina.html
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« Risposta #97 inserito:: Febbraio 17, 2013, 09:14:53 pm »

Editoriali
16/02/2013

Una scelta sbagliata nei tempi

Michele Brambilla

Inutile perdere tempo in troppi giri di parole: la notizia della nomina del nuovo presidente dello Ior è sconvolgente. Non per la persona scelta, o per il fatto ch’egli provenga da un’azienda che ha costruito navi da guerra. Non è quello il punto che sconvolge. Se anche questo signor Ernst von Freyberg fosse la miglior persona del mondo e quindi la miglior scelta possibile (e ci auguriamo che lo sia), è sconvolgente pensare che la prima cosa che fa la Chiesa dopo le dimissioni (le inaudite dimissioni!) del Vicario di Cristo non è pensare alle anime, in questo momento quantomeno turbate, ma alle proprie casseforti. 

Intendiamoci bene. Lungi da noi - migliaia di anni luce - la tentazione di fare facile demagogia o ancor più facile pauperismo.

La Chiesa è un’istituzione che sta nel mondo e non può vivere di sola preghiera; né si può pensare che la scelta di povertà escluda l’esigenza di possedere una banca. La Chiesa dunque deve avere una sua banca; e questa sua banca deve avere un presidente.

 

Il problema, o meglio lo scandalo, è piuttosto riassumibile in una sola parola, che è «opportunità». O se preferite «sensibilità». È opportuno, con l’intera cristianità sotto choc per aver perduto il proprio più importante pastore, concentrarsi immediatamente sulla nomina del presidente dello Ior?

Ieri il direttore della sala stampa vaticana, padre Lombardi, ha spiegato che era giunto a termine un iter durato otto mesi; che la presidenza dello Ior non è un ruolo di governo della Chiesa e quindi non è fondamentale che sia decisa dal prossimo Papa, al quale anzi s’è pensato in questo modo di togliere almeno un’incombenza, visto che di grattacapi ne avrà già parecchi. Sarà senz’altro tutto vero. Ma è evidente che l’immagine data all’esterno, soprattutto ai fedeli, è pessima.

 

Infatti. Papa Ratzinger non si è dimesso in un momento qualsiasi. Si è dimesso dopo una serie di scandali che lo hanno profondamente addolorato e provato. Scandali che in buona parte hanno avuto origine all’interno dei Sacri Palazzi: dai tentativi di ostacolare la pulizia che il Papa ha voluto fare sul caso dei preti pedofili fino al cosiddetto Vatileaks, una storia di squallore infinito. Non sono chiacchiere giornalistiche o malignità: sono parole che il Papa stesso ha scolpito nella storia durante la cerimonia delle Ceneri, quando ha denunciato le divisioni, le rivalità, i carrierismi, la brama di potere che ottenebra chi dovrebbe servire il Vangelo.

Anche qui: nessuna demagogia. Sappiamo bene che la Chiesa è fatta da uomini e che non esiste uomo senza peccato. Ma ci chiediamo dove sia finita la tradizionale prudenza (virtù cardinale) della Chiesa, se non si capisce che affannarsi in fretta e furia - adesso che il Papa se ne va - a trovare un presidente dello Ior che mancava da otto mesi, vuol dire dare ragione, o quantomeno ottimi argomenti, a chi dipinge la Curia vaticana come un centro di potere che s’interessa solo a vicende terrene, e non alle più nobili.

 

L’altro ieri ho parlato con i preti romani che sono andati all’ultima udienza che Papa Ratzinger ha potuto concedere loro. Sono disorientati. Hanno fede, e credono che il Papa abbia agito nella certezza che questa è la volontà di Dio. Hanno speranza, e sono certi che la Provvidenza stia lavorando per il bene. Ma sono uomini anche loro, scossi anche loro, e mi confidavano di essere in difficoltà nel trovare risposte per i propri parrocchiani. I quali chiedono come sia stato possibile che un Papa abbia detto «non ce la faccio più»; e sentono dire cose terribili sui presunti intrighi di Curia.

 

E mentre tutto questo accade, mentre il Papa sta per andarsene da Roma in elicottero, qual è la prima mossa della Curia romana? Trovare una guida per lo Ior. Magari per evitare che il presidente venga scelto dalla Curia che verrà (questo è solo un sospetto, ma bisognerebbe preservare i fedeli anche dai sospetti).

C’è da chiedersi quale contatto con il popolo, e quindi con la realtà, abbiano certi prelati, che poi si lamentano quando esce un libro di Dan Brown.

da - http://lastampa.it/2013/02/16/cultura/opinioni/editoriali/una-scelta-sbagliata-nei-tempi-LOKRx1roIbEzjBsxRG2PRL/pagina.html
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« Risposta #98 inserito:: Febbraio 26, 2013, 05:21:33 pm »

Elezioni Politiche 2013
26/02/2013 - reportage

Tasse e crisi riconsegnano il Nord al centrodestra

Il Pd non coglie il disagio reale degli imprenditori e i voti persi dal Carroccio vanno a Grillo

Michele Brambilla

Milano


Il Nord resta a Berlusconi. E quella parte che non resta a Berlusconi va con Beppe Grillo il quale, come il Cavaliere, ha saputo capire le istanze profonde di una parte del Paese che nell’ultimo anno s’è sentita segnata da due calamità: le tasse e il crollo dei consumi. 

 

La sinistra questo mondo continua a non capirlo. Una dichiarazione che dice tanto - non tutto, ma tanto - sui motivi della sua sconfitta l’ha fatta a metà pomeriggio Laura Puppato del Pd: «Non capisco», ha detto, «come gli imprenditori veneti non si siano resi conto e abbiano votato ancora Pdl-Lega. Poi c’è stata l’avanzata del Movimento 5 Stelle di Grillo che ha portato via voti a tutti noi e al centrodestra». Laura Puppato non è una qualunque. È stata candidata premier alle primarie della sua coalizione. È veneta. È consigliere regionale e vanta un record di preferenze. Ha fatto il sindaco. È tanto sensibile ai tempi nuovi che Beppe Grillo la premiò, nel 2007, come «primo sindaco a cinque stelle». Insomma è una persona capace e con una grande conoscenza del territorio. Eppure «non capisce» perché gli imprenditori del Veneto, i «suoi» imprenditori, alla fine abbiano votato ancora per Berlusconi e per la Lega. Certo non nella misura di una volta: i voti al Carroccio, in particolare, sono diminuiti di molto. Ma il Veneto è rimasto al centrodestra. Così come la Lombardia. 

 

In questo «non capire» c’è forse un’irriducibile distanza della sinistra da tutto quel mondo delle piccole e medie imprese che costituiscono la spina dorsale del Paese e in particolare del Nord. Il Nord dei capannoni, degli artigiani, delle partite Iva. Questo mondo, ormai da mesi, non parlava che di due argomenti: le tasse e la crisi. Ogni tanto ne intervallava un terzo: la burocrazia. Quanto sono stati sottovalutati questi temi?

Solo nove mesi fa, alle amministrative di primavera, Pdl e Lega erano crollati in gran parte del Nord. In roccaforti storiche del centrodestra come Como, Monza e Cantù, erano stati eletti sindaci di centrosinistra. Il Pdl sembrava allo sbando. Non si trovava mezzo imprenditore, né medio né piccolo, che dichiarasse di fidarsi ancora di Berlusconi. Non parliamo poi di Bossi, del quale non si fidavano più neppure i suoi.

La sinistra vinceva non perché guadagnasse voti. Se si guardano i risultati numerici, e non percentuali, delle elezioni appunto di Monza, Como, Cantù eccetera (ma anche quelli di Milano nel 2011) si vede che i candidati sindaci del centrosinistra - pur vincendo - non hanno preso più voti di quanti ne avevano presi nelle elezioni precedenti, quando avevano perso. Anzi in alcuni casi ne hanno presi di meno. Ma hanno vinto, perché buona parte dell’elettorato di centrodestra non è andata a votare.

Perché non è andata? Perché era delusa da Berlusconi e dalla Lega. Cioè dai due partiti sui quali aveva più volte riposto, a partire dai primi anni Novanta, le sue speranze. Non si fidava più.

 

E allora la sinistra s’è illusa di poter finalmente conquistare quella parte del Paese senza la quale non si vincono le elezioni (o meglio le si possono anche vincere, ma poi non si può governare). Il Veneto non è mai andato alla sinistra, neppure una volta, in tutta la storia della Repubblica; la Lombardia è nettamente di centrodestra dal 1995, anno della prima vittoria di Formigoni. Negli ultimi mesi la sinistra ha cominciato ad accarezzare il sogno di conquistare tutte e due queste regioni. In Veneto, di ottenere la maggioranza al Senato; in Lombardia, anche il consiglio regionale. S’è cominciato a parlare di risultati in bilico. 

 

Ieri il brusco ritorno sulla terra. Come ha fatto il centrodestra a recuperare così tanti suoi elettori? Sicuramente la maestria di Berlusconi nel condurre, praticamente da solo, tutta una campagna elettorale, ha avuto una parte importante. Ma Berlusconi, proprio perché è un maestro nel cogliere gli umori del popolo, ha capito che doveva puntare appunto su quegli argomenti che al Nord da mesi monopolizzano ogni discussione. Le tasse. I soldi che non girano. I consumi fermi.

 

Ci sono stati molti segnali non colti. Come le code degli imprenditori che vanno a far causa contro verbali di accertamento fiscale per redditi ipotizzati e non dimostrati; verbali, per giunta, gravati da interessi anche del due, trecento per cento. Di fronte al grido di dolore di tutto un mondo che, già segnato dalla crisi economica, si lamentava di essere tartassato come mai nella storia, molta sinistra ha pensato si trattasse dei soliti furbastri, dei soliti evasori. Così, in quel mondo s’è tuffato a capofitto Berlusconi. Così, tanta parte del Nord è tornata a fidarsi di lui: magari tappandosi il naso, ma convinta che non c’era di meglio.

 

Quelli invece che si sono persuasi che ci fosse qualcosa di meglio hanno votato per Grillo. Già: i voti che al Nord il Movimento 5 Stelle ha preso alla destra, soprattutto alla Lega, li ha presi proprio battendo su quei tasti delle tasse e della crisi. L’espressione che abbiamo usato prima - «spina dorsale del Paese» riferita ai piccoli e medi imprenditori - Grillo l’ha urlata dal palco di piazza Duomo. E l’abolizione di Equitalia (insieme con la non pignorabilità della prima casa) Grillo è stato il primo a proporla; Berlusconi è venuto a ruota.

È su questi temi che al Nord il centrodestra ha recuperato e Grillo ha sfondato. Temi che la sinistra appunto non ha capito, come ha ammesso Laura Puppato. In verità c’era uno che su questi argomenti s’era speso. Uno che aveva detto che «nella lotta all’evasione fiscale si è stati forti con i deboli e deboli con i forti»; che bisogna liberare le piccole e medie imprese dai lacci della burocrazia. Uno che gran parte degli elettori delusi del centrodestra erano pronti a votare in blocco. Era Matteo Renzi, questo qualcuno. Un nome e un cognome che forse resteranno nella storia della sinistra come la grande occasione perduta.

da - http://lastampa.it/2013/02/26/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/tasse-e-crisi-riconsegnano-il-nord-al-centrodestra-g1cM8e8RFIQKfUyDR7iw4L/pagina.html
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« Risposta #99 inserito:: Febbraio 28, 2013, 11:27:03 am »

Elezioni Politiche 2013
27/02/2013 - reportage

Il fiasco perfetto della sinistra che non seduce la Lombardia

Nonostante scandali, tangenti e indagini il voto del “Nord produttivo” resta a destra

Michele Brambilla

Milano


La sconfitta perfetta si materializza verso le quattro del pomeriggio quando le proiezioni fanno capire che non c’è speranza per Umberto Ambrosoli. Dopo la delusione per la mancata vittoria alle politiche, per il centrosinistra arriva la resa in Lombardia. È la sconfitta perfetta perché non era facile perdere anche qui. D’accordo: la Lombardia è da almeno vent’anni un feudo del centrodestra; e Roberto Maroni è certamente un candidato forte. Ma non era ugualmente facile perdere.

 

Non era facile perdere contro una coalizione che ha quasi dimezzato i voti nel giro di pochi anni (dal 2008 se si guardano le politiche, dal 2010 se si guarda alle regionali). E non era facile perdere dopo che la giunta uscente era stata spazzata via, con ignominia, dalla magistratura, alla fine di una serie di scandali senza precedenti. Scandali che non hanno lasciato praticamente superstiti nella vecchia maggioranza di centrodestra: del numero di inquisiti, ormai da un pezzo, s’è addirittura perso il conto.

 

Quante volte abbiamo visto riconfermata una maggioranza inquisita per tangenti, ’ndrangheta, voto di scambio, allegre note spese? Di solito, la parte politica che raccoglie l’eredità di una giunta così sciagurata, si rassegna a passare il testimone. Così è successo, ad esempio, nel Lazio. Ma in Lombardia no. In Lombardia il centrosinistra non è riuscito a vincere nonostante l’ancora fresca memoria dei tuffi dallo yacht di Daccò. Nonostante il crollo della Lega. Nonostante la forte flessione del Pdl. Per questo è la sconfitta perfetta.

Come per i risultati delle politiche, anche per queste amministrative risalta l’incapacità del centrosinistra di entrare nel cuore del profondo Nord, quello dei capannoni e delle fabbrichette, degli artigiani e delle piccole imprese. Umberto Ambrosoli ha vinto infatti solo in due province, Milano e Mantova, che sono tradizionalmente più di sinistra che di destra. Ha vinto poi in cinque città: oltre alle stesse Milano e Mantova, Pavia Bergamo e Brescia. Ma in queste ultime tre province, così come naturalmente in tutte le rimanenti, il candidato del centrosinistra ha dovuto soccombere. C’è andato, in provincia: nel Varesotto, in Brianza, nelle valli bergamasche. Ma forse troppo poco. Ha incontrato le cosiddette «categorie produttive». Ma non tanto lui, quanto la coalizione che lo sostiene, di quelle «categorie» non parla la stessa lingua.

«Ambrosoli è una bravissima persona, se vincessi io lo vorrei assessore nella mia giunta», aveva detto Gabriele Albertini. Aggiungendo però subito dopo: «Ma la coalizione che lo sostiene è da paura». L’ex sindaco di Milano, che viene dal centrodestra, conosce bene la sua gente e sa che quel termine, «paura», è particolarmente appropriato. In Lombardia un’alleanza con Vendola e con la Cgil è ancora qualcosa che fa paura al mondo della piccola e media impresa.

 

È la sconfitta perfetta di una sinistra che si scopre improvvisamente vecchia, staccata dalla gente, incapace di cogliere i cambiamenti. Questa sinistra si era probabilmente illusa di rivivere una nuova stagione nella primavera del 2011, quando Pisapia aveva conquistato Milano e Nichi Vendola era venuto in piazza Duomo a celebrare la vittoria di un candidato di Sel. Fu la «rivoluzione arancione». Qualcuno pensò appunto a un passo nel futuro. Ma mai come ora si fa forte il sospetto che quella vittoria fu solo l’effetto del tragico momento che stava vivendo il centrodestra, con Berlusconi svillaneggiato in tutto il mondo per il caso Ruby, con il governo di Roma in agonia, con un sindaco uscente che non aveva mai legato con la città. Non si volle guardare con realismo a un dato reale, e cioè al fatto che Pisapia aveva vinto con gli stessi voti con cui cinque anni prima un altro candidato del centrosinistra, Bruno Ferrante, aveva straperso. Non ci si volle insomma rendere conto che la vittoria di Pisapia era arrivata non perché tirava un vento nuovo, ma perché gli elettori di centrodestra, che continuavano a restare la maggioranza, si erano presi un periodo sabbatico.

 

Nel tentativo di conquistare il Pirellone - o Palazzo Lombardia, come si chiama la nuova sede della giunta - il centrosinistra aveva di fatto rinunciato a primarie vere, e candidato un personaggio di valore e di indiscussa moralità. Nessuno, neppure a destra, può parlare male di Umberto Ambrosoli. E nessuno, neppure a destra, può pensare che egli sia un «comunista».

 

Ma come diceva Albertini, è la sua coalizione che non rassicura l’elettorato lombardo. È forse altamente simbolica l’immagine della presentazione del candidato Ambrosoli il 12 gennaio scorso al Teatro Dal Verme di Milano. Lui sul palco attorniato da Lella Costa, Roberto Vecchioni, Umberto Eco, Gad Lerner, Gherardo Colombo. Con tutto il rispetto, icone di una sinistra che probabilmente ha fatto il suo tempo. Quell’immagine del Dal Verme è tanto somigliante a quella di Nanni Moretti salito sul palco accanto a Bersani lo stesso giorno in cui, su un altro palco - in piazza Duomo a Milano - Beppe Grillo portava il suo tsunami. L’accostamento delle due immagini, quella di Moretti e quella di Grillo, è perfino impietosa nel far risaltare ciò che appare nuovo e ciò che appare uscito da un vecchio film.


«Non vorrei», aveva detto Matteo Renzi qualche mese fa, «che il giorno delle elezioni i leader del Pd dovessero ripetere quello che hanno detto a Parma, e cioè “non è che abbiamo perso, è che non abbiamo vinto”». È esattamente quello che s’è sentito ieri.

da - http://lastampa.it/2013/02/27/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/il-fiasco-perfetto-della-sinistra-che-non-seduce-la-lombardia-uUG29cJNGfn4sEGKy72pSO/pagina.html
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« Risposta #100 inserito:: Marzo 04, 2013, 06:17:19 pm »

EDITORIALI
04/03/2013

Il confine tra la risorsa e il disastro

MICHELE BRAMBILLA

In poco tempo e a quanto pare con poche risorse, Beppe Grillo ha fatto un capolavoro. Neanche Berlusconi nel 1994, al suo primo colpo, era arrivato a tanto. Il Movimento Cinque Stelle non si è limitato a vincere le elezioni. Dà anche l’impressione di poter cambiare, e radicalmente, l’andazzo della politica italiana e perfino lo stile di vita di tutti noi: dal modo di comunicare fino a un ripensamento di tante idolatrie dei nostri tempi come il mito della crescita eterna e la sottomissione incondizionata agli onnipotenti Mercati.
 
Quella dei grillini è anche, indubbiamente, una lezione: impartita ad almeno un paio di mondi che improvvisamente si sono scoperti vecchi. 
 
Per primo al nostro mondo dell’informazione. Un mondo lento a capire quello che si agita nel profondo del Paese, e così supponente dal pensare di esorcizzare un problema dandolo per abortito, magari per via di qualche lite interna di provincia (lo stesso errore che fu compiuto nei primi Anni Novanta con la sottovalutazione della Lega). 
 
E poi il mondo della politica, o meglio di quella che Grillo chiama con un vecchio stereotipo «la politica politicante». 
 
Questo è un mondo che davvero vive fuori dal mondo. Provate a rileggere le cronache politiche di neanche un anno fa, dopo il voto alle amministrative. Circa la metà degli italiani aveva dato un chiaro segno di disgusto verso la politica o votando per Grillo, o non andando a votare: eppure a Roma si discuteva di quali sarebbero state le prossime mosse di Casini, del futuro ruolo personale di Veltroni e D’Alema, delle strategie dei finiani con particolare attenzione alla corrente di Briguglio.
 
Insomma Grillo fin qui non ha sbagliato nulla. Fin qui, appunto. Perché adesso anche per lui viene il difficile. Mantenere il successo, come sanno anche gli sportivi, è più difficile che raggiungerlo. Come l’ex comico genovese intenda gestire il successo in questa prima fase, è fin troppo chiaro. Mantenendo lo stile aggressivo della campagna elettorale. Dando a tutti «gli altri» della faccia da c., fosse anche una faccia nuova come quella di Matteo Renzi. Dicendo «no» a priori a qualsiasi possibile alleanza. Schifando tutti i mezzi di informazione italiani per parlare solo con quelli stranieri, magari americani, cioè di un Paese dove notoriamente le Borse non contano nulla. E così via.
 
Ieri i neoparlamentari grillini si sono riuniti in un albergo segreto di Roma e si sono ben guardati dal far sapere di cosa e come hanno discusso. Oggi saranno raggiunti dal Grande Capo e dal suo misterioso spin doctor - quello di cui si sa solo che ha una capigliatura da Toro Seduto e un nome da formaggio - ed è scontato che la riunione verrà investita della stessa sacralità di un conclave, con tanto di scomunica per chi spiffera anche un solo dettaglio all’esterno. Una decisione legittima: ma un po’ stridente con la sbandierata trasparenza di parlamentari che hanno annunciato di sbarcare alle Camere muniti di webcam per mettere in rete i loro colleghi deputati e senatori.
 
Anche rifiutarsi di collaborare con le altre forze politiche è legittimo. A patto però di smettere di criticare, ad esempio, un Berlusconi, al quale si dava del dittatore perché chiedeva il 51 per cento per governare il Paese come si governa un’azienda. Su questo punto Grillo fa di peggio, visto che gli basta il suo 25 per cento per pretendere un governo che approvi solo quello che c’è nel suo programma, e senza variazioni. Grillo dovrebbe ricordarsi che il 75 per cento di chi ha votato, non ha votato per lui.
 
Si dice che tutto questo faccia parte di una strategia: puntare a nuove elezioni fra breve per ottenere la maggioranza assoluta. Beh, se è così, non sappiamo fino a che punto Grillo sia lungimirante. Il suo movimento ha vinto le elezioni soprattutto facendo leva sulla preoccupazione - in alcuni casi sulla disperazione - di tanta gente schiacciata dalla crisi. Questa gente chiede che sia fatto qualcosa adesso, subito. Puntare alle elezioni fra sei mesi o un anno vuol dire puntare prima a far precipitare la situazione. E se si precipita, non è detto che alle urne gli italiani poi si dimentichino che qualcuno non s’è preso le responsabilità che poteva prendersi. Se invece si dimenticheranno e porteranno Grillo in trionfo, non sappiamo quanto sarebbe poi possibile risollevare il Paese da una situazione diventata nel frattempo ancora più critica. A quel punto Grillo finirebbe processato da quelle stesse piazze che l’hanno portato in gloria: in Italia, di giravolte così, ne abbiamo già viste.
Ecco perché Grillo, che porta avanti molte battaglie condivisibili e anche forse salutari, può essere una grande risorsa per il Paese, ma anche un disastro alla Pancho Villa. Dipende da quanto accetta le regole delle democrazia, e da quanto si mette la mano sulla coscienza.

da - http://www.lastampa.it/2013/03/04/cultura/opinioni/editoriali/il-confine-tra-la-risorsa-e-il-disastro-iMsd1AeZH5svZmLLjig9VO/pagina.html
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« Risposta #101 inserito:: Marzo 09, 2013, 11:39:21 pm »

Elezioni Politiche 2013
09/03/2013

Tasse, disoccupati ed Equitalia

Chi aveva capito l’umore del Paese


Dopo le amministrative, il disagio ha allontanato milioni di voti da Pd e Pdl

Michele Brambilla
Milano


«Leghisti e berlusconiani hanno dimezzato i voti» e «ora Grillo sta venendo a prenderseli, quei voti»: era il 23 febbraio, cioè il giorno prima dell’apertura dei seggi elettorali, quando si leggevano su La Stampa queste parole. «Purtroppo devo dire che è così», commentava uno dei pochissimi deputati che non hanno perso l’abitudine di stare in mezzo alla gente, il varesino Daniele Marantelli del Pd. 

 

Era scritto pure che «Grillo, in verità, sta portando via un po’ a tutti», anche alla sinistra; e che aveva un prezioso alleato: «la divisione nelle fila del nemico». È proprio vero, come si dice, che lo tsunami è arrivato improvviso? Che non c’erano segnali? Provate a riguardare le immagini dell’ultimo giorno di campagna elettorale. E a ripensare a due palchi di Roma: quello del teatro Ambra Jovinelli con Nanni Moretti e Pier Luigi Bersani e quello di piazza San Giovanni con Beppe Grillo. Allora, non è per dire: Moretti è di cinque anni più giovane di Grillo. Ma provate a rivedere con l’immaginazione quei due palchi - Moretti in maglione rosso e pantaloni beige di velluto a coste che parla di conflitto d’interesse e Grillo che urla «arrendetevi» e dà i dati sullo streaming - e dite qual è il nuovo e qual è il Sessantotto.

 

Per carità: più che un segnale, questa dei due palchi è una suggestione. Ma anche le suggestioni comunicano qualcosa. La distanza tra i politici e la gente. La distanza tra un milieu intellettuale e la gente. Il Pd era convinto di vincere da quando, nel novembre del 2011, Berlusconi si è dovuto dimettere. Il risultato era in tasca. Sì, c’era da aspettare un anno abbondante, ma anche quel periodo passato ad appoggiare il governo tecnico sarebbe servito a guadagnare consensi, perché la gente avrebbe detto «però, guarda il Pd com’è responsabile».

 

Ma in quest’ultimo anno e quattro mesi la gente ha più che altro dovuto preoccuparsi di come tirare a campare. Licenziamenti, cassa integrazione, aziende che chiudono. E tasse. Tutte preoccupazioni e difficoltà che alla lunga hanno spento l’entusiasmo per il cambiamento, hanno fatto venir meno la gratitudine verso un premier che ci aveva riportato in Europa, insomma hanno eroso il consenso nei confronti del governo tecnico. E, di conseguenza, quello per i due principali partiti che lo sostenevano.

 

In primavera 2012 ci sono state le elezioni amministrative in molti centri importanti. E il Pd si è convinto ancora di più che alle politiche non ci sarebbe stata storia. Aveva vinto in posti impensabili per la sinistra, come Monza e Como, roccaforti del berlusconismo, e Cantù, fortino leghista. Cose mai viste. Qualche numero. A Monza, dove cinque anni prima il centrodestra aveva vinto al primo turno, il candidato del Pd ha battuto quello del Pdl con un 63,40 per cento contro il 36,60. A Como 74,87 a 25,13. Como, la città dove il Pdl in cinque anni è passato dal 43,6 per cento al 13,66.

 

Come non pensare che il vento era cambiato? Eppure si registrava questo fatto: «Il centrosinistra ha certamente motivo per far festa. Ma i numeri dicono anche che, più che una vittoria di Pd e alleati, questa è una Waterloo del centrodestra. Per esempio. Mario Lucini, che ieri è diventato sindaco di Como con il 74,87 per cento, al primo turno ha preso meno voti (14.261) di quanti ne aveva presi cinque anni fa il candidato del suo stesso schieramento, Luca Gaffuri (15.224)», che aveva perso nettamente.

 

Insomma il Pd, in termini di voti, non stava crescendo. E quando le tasse e il crollo dei consumi hanno cominciato a strangolare il Nord, Berlusconi ha iniziato la rimonta in quel mondo che lo aveva abbandonato. «Su dieci imprenditori che si rivolgono a me, nove mi dicono che torneranno a votare Berlusconi», aveva detto il 17 gennaio scorso a La Stampa Wally Bonvicini, la piccola imprenditrice di Parma che è diventata la pasionaria anti-Equitalia. Dice che nelle cartelle delle tasse, aumentate di interessi stratosferici, è ravvisabile il reato di usura, e inonda le procure di denunce su denunce. Giusto o sbagliato? Semplicemente reale. È un fenomeno reale di cui si parla pochissimo, ma che ha influenzato il voto.

 

Grillo, che la pancia della gente la sa capire, se n’è accorto per tempo e contro Equitalia ha scatenato buona parte del suo tsunami. Quello che non ha recuperato Berlusconi, l’ha guadagnato lui. E così è arrivato lo stallo. Sorprendente, anzi choccante, per le segreterie dei partiti, ma non per la gente comune. Il 5 febbraio, in una giornata intera passata in piazza Duomo a Milano, tutti ci dicevano: di quello che dice Grillo si capisce tutto; di quello che dice Berlusconi, quasi tutto; di quello che dice Monti, abbastanza; di quello che dice Bersani, niente. «Grillo, a giudicare da quel che si sente in giro, di voti ne prenderà tanti», era stata la conclusione. Anche di Renzi molti avevano pensato che avrebbe potuto essere il nuovo: ma sappiamo com’è andata a finire.

da - http://lastampa.it/2013/03/09/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/tasse-disoccupati-ed-equitalia-chi-aveva-capito-l-umore-del-paese-GvGZzQB39BhorSlFo5X4LI/pagina.html
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« Risposta #102 inserito:: Marzo 28, 2013, 10:55:31 am »

Editoriali
28/03/2013

Il tramonto degli esterni

Michele Brambilla


Il governatore della Regione Sicilia Rosario Crocetta ieri ha cacciato in un colpo solo due assessori: il cantante Franco Battiato (Turismo) e lo scienziato Antonino Zichichi (Beni culturali). Le colpe del primo erano note a tutta Italia da parecchie ore. 

 

Aveva dato delle «troie» praticamente a tutte le parlamentari e forse anche ai parlamentari. Quelle di Zichichi le ha invece fatte conoscere Crocetta al momento del licenziamento: «Bisognava lavorare sodo e lui parlava di raggi cosmici».

 

Ora, si sa che a Palermo hanno l’esonero facile. Ma se si esclude che il governatore della Sicilia sia stato contagiato dalla sindrome-Zamparini, il doppio benservito di ieri potrebbe essere letto come un segnale da non sottovalutare. E cioè: nel momento in cui anche Bersani, per cercare la benevolenza di Grillo e un po’ di tutto il Paese, insegue nomi ad effetto per alcuni ministeri, magari pescando nel giornalismo d’inchiesta e fra i predicatori, in Sicilia sperimentano che non basta essere persone note - e stimate nelle rispettive professioni - per essere buoni amministratori.

 

Un anno e mezzo fa sembrava che per governare l’Italia bisognasse a tutti i costi essere dei «tecnici». Già Leo Longanesi, mezzo secolo prima, aveva ammonito a non farsi troppe illusioni, definendo così la figura dell’«esperto»: «È un signore che, a pagamento, ti spiega perché ha sbagliato l’analisi precedente». Usciti non troppo soddisfatti dall’esperienza del governo tecnico, adesso magari non cerchiamo più tanto «l’esperto» quanto «l’esterno». Personaggi da copertina, professionisti di successo o magari anche solo semplici cittadini (Grillo non aveva forse detto che se avesse vinto le elezioni avrebbe messo una mamma con tre figli al ministero dell’economia?): tutto va bene purché non si sia mai stati contaminati dal cancro della politica. 

 

Eppure basterebbe un po’ di sforzo della memoria per ricordare che quelli che oggi consideriamo «i soliti politici» vent’anni fa erano l’antipolitica dell’epoca. Forza Italia non era forse l’irrompere della società civile nel Palazzo? E la Lega non era «l’Italia che lavora», anzi che «laüra»? E Di Pietro?

 

Ma ancora prima. La smania dell’«esterno» era già esplosa quasi quarant’anni fa, con Paolo Villaggio che si mise in lista per Democrazia Proletaria dicendo in un’intervista «è impossibile che io risulti eletto e se la cosa accadesse passerei subito il testimone a un altro», inaugurando così la figura del candidato alle dimissioni. E Ilona Staller? Vi ricordate Cicciolina? Ci fu una tristissima trasmissione post-voto in cui lei, eletta, sedeva accanto al povero Valerio Zanone, anziano liberale piemontese bocciato alle urne. «Ci battiamo perché la luce rossa diventi luce del sole», diceva la porno-innovatrice ispirata da Pannella.

 

Abbiamo già dato, verrebbe da dire. Crocetta se n’è accorto in tempo rimandando a cantare (cosa in cui è eccelso) l’«esterno» Battiato, il quale nel frattempo stava già entrando nella parte, visto che ha cercato di smentire il suo discorso sul lupanare dicendo di essere stato frainteso, nel più classico stile del politico professionista.

 

È un peccato, perché di un rinnovamento avremmo un bisogno vitale. Ma forse, da quarant’anni a questa parte, certi «esterni» i politici di professione li scelgono con cura, mettendoli in lista o nei posti di governo, al solo scopo di farsi rimpiangere.

da - http://lastampa.it/2013/03/28/cultura/opinioni/editoriali/il-tramonto-degli-esterni-OlbxYHK1MycWWUaWhJVeVM/pagina.html
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« Risposta #103 inserito:: Maggio 21, 2013, 04:57:21 pm »

Editoriali
21/05/2013

L’autogol che aiuta l’antipolitica

Michele Brambilla


Abbiamo più volte sottolineato - e continueremo a farlo - gli eccessi dell’antipolitica, i suoi qualunquismi e i suoi moralismi, il suo giacobinismo fanatico e il suo furor cieco, la facile demagogia e la tragicomica ossessione del complotto. Ma c’è qualcosa che nonostante tutto continua a dare, a questa antipolitica rabbiosa e urlante, fiato e ragion d’esistere: ed è la politica.

 

La giornata di ieri ne è stata una triste conferma. Grillo e i suoi, fino a una certa ora del pomeriggio, apparivano in difficoltà. Era successo che domenica sera, a Report, Milena Gabanelli, dopo aver parlato del finanziamento dei partiti, aveva posto al Movimento Cinque Stelle due domande: che fine fanno i proventi del blog di Grillo, e quanto guadagna la Casaleggio e Associati dalla pubblicità sul sito. Due domande destinate a restare senza risposta sia durante la trasmissione - Casaleggio, assicura la Gabanelli, ha rifiutato l’intervista - sia dopo. 

 

Scossi dall’essere, per una volta, sul banco degli imputati di un tribunale «amico» come Report, Grillo e i suoi seguaci hanno dato in un certo senso il peggio di sé. Primo: hanno dimostrato di essere, sul tema della trasparenza, piuttosto doppiopesisti: esigono la luce del sole per gli altri, ma non per loro stessi (e verrebbe da dire che non è la prima volta: ricordate le dirette streaming degli incontri con Bersani e Letta e, viceversa, le loro riunioni a porte chiuse?). Secondo: hanno dato un’ennesima prova di incontinenza verbale, visto che Milena Gabanelli, sul blog di Grillo, è stata insultata con tutto il consueto repertorio che si usa in questi casi, in particolare con le donne. Terzo: non hanno saputo spiegare ai propri militanti, e forse neanche a loro stessi, come mai certe incalzanti richieste di glasnost provenissero da una persona che, solo poche settimane fa, era la candidata del Movimento Cinque Stelle al Quirinale.

 

Quarto, Grillo e i suoi ieri stavano offrendo un brutto spettacolo soprattutto perché nel replicare alle critiche hanno fatto ricorso al solito schema che prevede la delegittimazione, per non dire la demonizzazione, dell’«avversario». Come purtroppo quasi sempre accade, chi non è d’accordo con il Movimento non è presentato appunto per quello che dovrebbe essere, cioè per una persona che non è d’accordo: ma come il servo di qualcuno, la longa manus di poteri forti, il solito giornalista prezzolato. Forse ancora più pesanti degli insulti da trivio, infatti, sono le insinuazioni nei confronti di Milena Gabanelli: «È stata richiamata all’ordine dal padrone PD-L»; «Le sue trasmissioni sembrano manovrate da una regìa politica»: «Lei è una asservita al padrone piddino»; «Cara Gabanelli, dicci chi ti ha costretto a fare quel servizio...». Di tutta la violenza verbale dell’antipolitica, questo del voler sempre attribuire loschi mandanti a chi eccepisce è l’aspetto più odioso, il più vile.

 

Ma come dicevamo l’antipolitica non avrebbe di che nutrirsi se non ci fosse la politica. Infatti sempre ieri, proprio mentre Grillo e i suoi si affannavano nella titanica impresa di far apparire Milena Gabanelli come un ventriloquo della Casta, ecco che dai partiti è arrivato l’autogol che ha cambiato la partita. Il Pd ha infatti presentato al Senato un disegno di legge che introduce la «personalità giuridica» dei partiti. Lasciamo agli azzeccagarbugli i dettagli. La sostanza è che, se passasse una legge del genere, il Movimento Cinque Stelle sarebbe costretto o a rinnegare se stesso - diventando un partito - oppure a non presentarsi alle elezioni. E siccome Grillo ha già detto che il suo movimento non diventerà mai un partito, una legge del genere avrebbe l’effetto di tenere i Cinque Stelle fuori dal Parlamento.

 

È bastata la notizia di questo disegno di legge, dunque, a levare i grillini dagli impicci, e a consentire loro di gridare al complotto. E non senza ragioni, stavolta. Il Pd ha già forzato la mano nelle regole delle sue primarie, pochi mesi fa: ora cerca di eliminare Berlusconi dichiarandolo ineleggibile e il Movimento Cinque Stelle costringendolo a cambiare pelle. Si può pensare di risolvere così i propri problemi?

 

No, non si può pensarlo. Ma la cosa più inquietante è che i politici non ci arrivino a capirlo da soli, dimostrando un distacco dal sentire del popolo che è poi la prima e più vitale linfa dell’antipolitica.

 da - http://lastampa.it/2013/05/21/cultura/opinioni/editoriali/l-autogol-che-aiuta-l-antipolitica-se7J4R3UgAPQNJjqhAz3mO/pagina.html
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« Risposta #104 inserito:: Luglio 15, 2013, 06:13:10 pm »

Editoriali
15/07/2013

Parole inconciliabili con il ruolo al Senato

Michele Brambilla


Quello che stupisce non è tanto il fatto che Calderoli abbia dato dell’orango al ministro Kyenge: per quanto l’insulto questa volta sia particolarmente ripugnante, a certe sparate siamo abituati.

Lo stupore è piuttosto per chi conosce Calderoli: una persona diversa dal volgare tribuno che si è esibito a Treviglio e, ahimè, anche in molte altre occasioni. Stesso discorso per Borghezio. Quando li incontri, trovi persone colte, educate, ragionevoli. Ma quando questi stessi dottor Jekyll diventano mister Hyde, capisci il tragico copione che la Lega ha recitato in questi anni per solleticare la pancia più becera del Nord.

Non è un caso, infatti, che persone come Calderoli – che a tanti di noi giornalisti ha parlato con coraggio e sensibilità del travaglio che ha vissuto per la sua malattia – non si sognerebbero mai di dare dell’«orango» al ministro Kyenge in una conversazione privata o in un’intervista; ma non hanno alcuna remora nel farlo se di fronte hanno una platea con la bava alla bocca. Questa è sempre stata la strategia della Lega: due linguaggi, a seconda di chi ascolta. 

Ma ormai Calderoli e i suoi colleghi leghisti dovrebbero avere gli elementi sufficienti per capire che questa tattica ha portato il loro movimento al suicidio. La Lega aveva tanti argomenti seri da portare in politica; difendeva tanti interessi più che legittimi del Nord. Se ha fallito, è anche perché ha scelto di non crescere, ed è rimasta prigioniera del suo primo elettorato, quello che nei primi Anni Ottanta non voleva gli insegnanti meridionali. Quello che vuol sentirsi dire che il ministro Kyenge assomiglia a un orango.

Calderoli non può non rendersi conto che il suo dell’altra sera è l’ultimo di una lunghissima serie di autogol che l’hanno già, e da un pezzo, portato alla sconfitta. E non può non capire che, se ha scelto di continuare a parlare in quel modo, non può restare alla vicepresidenza del Senato. 

da - http://www.lastampa.it/2013/07/15/cultura/opinioni/editoriali/parole-inconciliabili-con-il-ruolo-al-senato-7Yh57Xf0Iq5e1Vz3cyDYtO/pagina.html
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