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Autore Discussione: MICHELE BRAMBILLA  (Letto 66690 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Gennaio 11, 2012, 11:39:30 am »

11/1/2012

Il doppio volto della Lega garantista a giorni alterni

MICHELE BRAMBILLA

La giornata di ieri ci ha regalato un meraviglioso spaccato di come è intesa nel nostro Paese la questione morale.

Dunque: in nome appunto della questione morale, la Lega Nord ha votato a favore dell’arresto del deputato del Pdl Nicola Cosentino, che la Lega stessa aveva fino a pochi mesi fa più volte salvato dall’arresto medesimo in nome della battaglia contro il moralismo giustizialista.

Sempre ieri, nella Lega che votava a favore dell’arresto di Cosentino si discuteva dell’un po’ imbarazzante caso del suo segretario amministrativo Francesco Belsito. Costui è un signore di cui fino all’altro giorno si sapevano solo due cose: che portava le focacce liguri alle riunioni di via Bellerio e che aveva millantato due lauree mai conseguite. Niente di male, nemmeno i falsi titoli di studio, visto che Belsito milita in un partito guidato da un ex finto medico, quindi tutto torna.

Ora però si è scoperto che Belsito ha preso svariati milioni di euro dalle casse del partito e li ha investiti non in Padania, bensì in Tanzania, a Cipro e in Norvegia. Passi per la Norvegia e forse anche per Cipro: ma la Tanzania i militanti proprio non la mandano giù. E così nel partito è scoppiata una rivolta.

Tuttavia non è neppure l’investimento all’estero a colpire. Colpisce piuttosto l’atteggiamento dei vertici leghisti. Nello stesso giorno - ripetiamo - in cui la Lega vota per l’arresto di Cosentino, i suoi dirigenti tacciono o fanno spallucce per il caso-Belsito. Intervistato dalla Rai, Roberto Castelli (che è stato ministro della Giustizia) ha risposto testualmente così: «Sono problemi interni al partito, non capisco che cosa ve ne debba fregare a voi». Ora, a parte la sintassi padana, andrebbe sottolineato che i soldi investiti in Tanzania vengono dai rimborsi elettorali (che la Lega ha incassato per 140 milioni solo negli ultimi dieci anni, ringraziando Roma ladrona) e quindi sono denaro pubblico; così come un personaggio pubblico è Belsito, sottosegretario di un ministero fino a due mesi fa.

Al di là dei casi specifici, quel che emerge è il ripetersi di un vecchio vizio: la questione morale viene agitata solo quando e se fa comodo. La Lega delle origini applaudiva le inchieste di Di Pietro perché le spianavano la strada. Poi s’è alleata a Berlusconi e allora guai a dar retta a quei giacobini dei magistrati: era pronta perfino a difendere i parlamentari del Sud accusati di mafia o camorra. Adesso è tornata all’opposizione e vuole riapparire limpida e pura ai propri elettori, così dice di sì all’arresto di Cosentino; però della Tanzania non si capisce bene che cosa ce ne debba fregare a noi.

La grande assente non è solo la coerenza: è anche la buona fede. Non è - sia chiaro - solo la Lega a comportarsi così. Parliamo della Lega perché alla Lega si riferiscono le vicende di ieri: ma sono in molti a prendere posizione sulle inchieste e sugli scandali solo in funzione di un calcolo di parte. Infatti è caduta anche qualsiasi oggettività nella valutazione dei fatti, e ogni cosa è grave o lieve a seconda di quel che conviene: nei giorni scorsi gli stessi che hanno difeso i milionari nullatenenti di Cortina si sono scandalizzati per un cotechino a Palazzo Chigi, per giunta pagato dalla sciura Elsa.

Insomma siamo un Paese di garantisti o giustizialisti a corrente alternata, a seconda di come butta.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9635
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« Risposta #61 inserito:: Gennaio 22, 2012, 10:23:24 am »

Cronache

22/01/2012 - LIBERALIZZAZIONI LE PROTESTE

Nella Palermo dei "forconi" in coda per fare benzina

Lunghissima attesa Code di chilometri per fare il pieno di benzina: così i siciliani si preparano a un’ulteriore settimana di disagi nonostante il movimento abbia deciso di spostare la protesta a Roma

La città bloccata dalla rivolta e dalla crisi, nei negozi scarseggiano latte e altri alimentari

MICHELE BRAMBILLA
inviato a Palermo

Arrivato a Palermo per descrivere in diretta il caos, la rivolta, i blocchi stradali e gli assalti ai supermercati, ho avuto il sospetto di avere sbagliato aereo e di essere atterrato a Lugano: poco traffico, niente chiasso, direi quasi un po’ d'ordine. Se non proprio la Svizzera, ieri Palermo sembrava l’area C della Milano di Pisapia.

Naturalmente le apparenze ingannano. La quiete segue una tempesta, riassumibile per sommi capi così. Una settimana fa è scattata in tutta l’isola una rivolta che vede fianco a fianco gli autotrasportatori, gli agricoltori e i pescatori. I primi lamentano il prezzo del carburante, che spesso in Sicilia è più alto. I secondi dicono: noi vendiamo la nostra merce a pochi centesimi e la ritroviamo sugli scaffali dei supermercati maggiorata dieci volte. Per mostrare che non ne possono più, sia i primi che i secondi si sono organizzati con blocchi stradali che hanno impedito ai Tir di distribuire carburante e generi alimentari. Così, leggiamo sui giornali e sentiamo in tv da qualche giorno, «i siciliani sono allo stremo». Vengono raccontate scene da tempo di guerra. Se non se ne parla più di tanto è solo perché il peggior nemico dei rivoltosi si è rivelato il comandante Schettino, che ha spostato l’attenzione.

I rivoltosi si sono autobattezzati «movimento dei forconi», un nome che vuol dare e dà l’idea dei braccianti incavolati; ma siccome in Italia non c’è movimento o gruppo spontaneo che non abbia come i partiti le sue brave correnti, anche qui ne è sorta una che si chiama «forza d’urto» e che sarebbe l’unica un po’ politicizzata, facendo capo a elementi di Forza Nuova. In ogni caso il movimento tiene a sottolineare la propria natura spontanea, anche se molti sospettano che la mafia sia riuscita a prenderne la guida. Ivan Lo Bello, il presidente della Confindustria siciliana, l’ha detto chiaramente. Di certo c’è qualche episodio più che sospetto: ad esempio a Gela, Lentini, Augusta e Priolo i negozianti che non volevano partecipare alla serrata si sono visti le vetrine fattea pezzi.

Di fronte a tutto questo la forza pubblica - che di solito interviene per molto meno - non è intervenuta. I politici si sono limitati a qualche timido incontro con una delegazione dei forconi. La situazione è talmente grottesca che ieri il «Giornale di Sicilia» in prima pagina doveva prendere atto che «gli organizzatori della protesta hanno comunicato l’intenzione di andare avanti ancora per una settimana» e «dalle autorità è stata concessa questa proroga». Nel Paese delle proroghe si possono prorogare anche i blocchi stradali.

E dunque perché, con tutto questo macello in corso, ieri mattina Palermo sembrava una città perfino più gradevole del solito? Ma è semplice. Perché dopo sei giorni di blocchi i palermitani non avevano più la benzina per circolare. E poi a Palermo si risente della crisi più che altrove, quindi lo shopping è un lusso per pochi. La sensazione svizzera di ieri nascondeva dunque una specie di coprifuoco a luce diurna.

Ieri ho girato per Palermo e il racconto che segue non ha certo la pretesa di spiegare la Sicilia e la sua crisi: è solo la testimonianza del forestiero che si imbatte in una città descritta dai media più o meno come la Parigi assediata ai tempi della Comune, quando i parigini per sopravvivere inventarono il ragoût (da «ratti al gusto», cioè topi cucinati con il pomodoro). In realtà a Palermo la situazione alimentare è molto meno drammatica di quanto viene raccontato. I prodotti che scarseggiano sono alcuni tipi di pesce, carni rosse, latte, scatolame, qualche detersivo: ma non è che manchino del tutto, solo vengono messi sugli scaffali un po’ per volta per evitare le razzie.

Quel che è mancata davvero per tanto tempo è la benzina. Comincio il giro mattutino in via Crispi e vedo almeno 500 metri di auto in coda a un benzinaio: dalla mezzanotte di venerdì hanno infatti allentato i blocchi e le pompe sono state rifornite. Proseguo: Brancaccio, Sette Cannoli, Ponte dell'Ammiraglio, Stazione centrale, mercato ortofrutticolo in via Monte Pellegrino, via Libertà. Ovunque pochissimo traffico e code chilometriche (ne segnalano una di sei chilometri fino all’ospedale Cervello). Non so quanto possa crederci il lettore nordista: ma sono code ordinate. «Mai vista una Palermo così civile: nessuno che si lamenta, nessuno che tenta di superare gli altri», dice Gigi Mangia, ristoratore e presidente dei pubblici esercizi di Palermo. Ha fatto tre ore di coda in via Notarbartolo e ce l’ha fatta in extremis: gli ultimi 50 euro nella pompa li ha presi lui. Nel primo pomeriggio cominciano a spuntare cartelli di questo tipo: la benzina è finita, ci scusiamo per il disagio, ma domani saremo aperti.

Semmai ci sono episodi di sciacallaggio. «Abbiamo segnalazioni di benzina venduta, nei giorni scorsi, a 3-4 euro al litro», dice Tony Siino, 35 anni, che ha un blog molto seguito (Rosalio.it) sul quale i giovani palermitani commentano la rivolta («quasi sempre criticandola per gli effetti negativi sui cittadini», dice Tony) ma soprattutto dando informazioni di servizio: ecco dove trovare cosa.

Rivolta strumentalizzata dalla mafia? Può darsi, «ma il disagio è reale», dice Lia Vicari, direttrice della Libreria Feltrinelli di via Cavour, che è ormai molto più di una libreria ma un luogo di aggregazione: aperta nel 1985 su 150 metri, oggi è su 1500. «Ci sarà chi specula sulla protesta - dice ma la crisi c’è. In centro stanno chiudendo molti negozi storici». Come uscirne? «Credo sia arrivato il momento in cui ciascuno di noi debba chiedersi che cosa può fare per la città, e smetterla di aspettare che altri risolvano i nostri problemi». Una ricetta kennediana. Quanto mai attuale anche perché dai politici non pare ci si possa aspettare molto: a maggio si vota per il sindaco e nessuno si vuole candidare, né a destra né a sinistra. Palermo è una grana in cui è meglio non infilarsi.

DA - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/439272/
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« Risposta #62 inserito:: Febbraio 01, 2012, 09:58:57 am »

1/2/2012

Ma i politici non lo sanno

MICHELE BRAMBILLA

L’ altra sera abbiamo acceso la radio e sentito che i nostri deputati si erano finalmente - dopo tante promesse - tagliati lo stipendio.

Uno di loro è intervenuto quasi commosso al microfono: «Abbiamo rinunciato a settecento euro netti al mese».

Un comunicato ufficiale di Montecitorio esprimeva tutto il possibile autocompiacimento.

Il giorno dopo, cioè ieri, la stragrande maggioranza dei giornali italiani titolava così: i parlamentari si sono ridotti lo stipendio di 1.300 euro lordi. Siamo un popolo di pigri e spesso ci fermiamo ai titoli. Chi si è preso la briga di leggere anche gli articoli ha scoperto una realtà diversa. E cioè: nelle scorse settimane lo stipendio dei parlamentari, dopo la fine del ricco vitalizio e il passaggio al sistema contributivo già in vigore per noi mortali, era schizzato in su di milletrecento euro lordi: ai quali i parlamentari, in un rigurgito di responsabilità, hanno ora rinunciato. Quindi nessun taglio, tutto resta come prima: l’indennità mensile inchiodata a sobri 11.200 euro.

Giriamo pagina. Alla Rai - che in questi giorni ha gentilmente chiesto il pagamento del canone (a proposito: diffondere i dati su quanti pagano e quanti no sarebbe un interessante omaggio alla trasparenza) - sono stati nominati il direttore del Tg1 e quello dei Tg regionali. Infuria la polemica perché le poltrone sono finite la prima a un uomo in quota Pdl, la seconda a un uomo in quota Lega. Il tutto con una votazione 5 a 4, con voto determinante di un tale Antonio Verro il quale, oltre a essere consigliere della Rai, è anche deputato Pdl.

Passiamo a un’altra storia di doppi incarichi. Solo l’altro giorno il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha rinunciato alla presidenza del Consiglio nazionale delle ricerche e il ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha lasciato il Parco scientifico di Trieste. L’hanno fatto oltre due mesi dopo la loro nomina a ministri, nonostante una norma vieti ai titolari di incarichi di governo di «ricoprire cariche o uffici in enti di diritto pubblico». E l’hanno fatto obtorto collo, dopo settimane di polemiche e a poche ore da una decisione dell’Antitrust che si annunciava negativa per tutti e due.

Che cosa tiene insieme queste tre storie? Provo a sintetizzare: una preoccupante incomprensione di quanto sta vivendo e provando il popolo italiano.

Cominciamo dalla prima storia. In un momento in cui si dà (giustamente) la caccia allo scontrino fiscale e si chiedono (inevitabilmente) ulteriori sacrifici a chi già pagava le tasse, ci si aspettava che i parlamentari dessero il buon esempio: invece niente. Ma la cosa più grave è che hanno sbandierato un penoso barbatrucco per far credere che si erano ridotti lo stipendio. Evidentemente pensano che gli italiani, oltre che pigri, siano anche fessi.

Allo stesso modo, della vicenda Rai non scandalizzano tanto le nomine partitiche (che ci sono sempre state) quanto il fatto che si continuino a farle in un momento in cui i partiti avevano dichiarato di fare un passo indietro; e per giunta comportandosi come se in Parlamento ci fosse ancora la vecchia maggioranza. Per di più, si forza la mano con il voto determinante di un uomo che ricopre due incarichi - consigliere Rai e parlamentare - palesemente incompatibili fra loro.

Infine, Profumo e Clini. Non è in discussione la moralità (nessuno dei due ha mai percepito il doppio stipendio) ma la sensibilità: con l’aria che tira, un ministro che ha pronto un incarico per il «dopo» non può chiedere agli italiani di accettare - ad esempio - la precarietà.

E a proposito di sensibilità. Il 17 febbraio sono giusto vent’anni dall’inizio di Mani Pulite, un’inchiesta che spazzò via un’intera classe dirigente. Per almeno due mesi, di fronte al clamore per le indagini i politici guardavano noi cronisti giudiziari con un sorrisetto di compatimento: non capite niente, dicevano, presto Di Pietro finirà a Gallarate a fare il vigile urbano. Invece erano loro a non capire nulla, chiusi com’erano in un mondo virtuale. Non capivano che il vento stava cambiando davvero. L’avrebbero capito solo al momento delle elezioni, travolti dal voto popolare, e ormai era troppo tardi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9718
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« Risposta #63 inserito:: Febbraio 10, 2012, 11:20:21 am »

10/2/2012

Il moralismo trasversale

MICHELE BRAMBILLA

Da qualche giorno, prima sul Web e poi sui giornali, i figli dei ministri del governo Monti sono diventati oggetto di una forsennata caccia allo scandalo.

Si spulcia in buste paga, lettere di assunzione, eventuali concorsi, lauree diplomi pagelle delle elementari e lavoretti dell’asilo nel tentativo di trovare qualche macchia.

La prima a finire nel mirino è stata Silvia Deaglio, figlia del ministro del Welfare Elsa Fornero. La sua colpa? Essere una professoressa universitaria come mamma e papà. Non importa se lei è a Medicina e i genitori a Economia; così come non importano le sue pubblicazioni, i concorsi vinti, i meriti scientifici (si occupa di genetica e tumori) riconosciuti in Italia e all’estero: il fatto è che ha un posto fisso. Dopo Silvia Deaglio, l’esercito della salvezza si è stracciato le vesti perché il figlio del ministro Cancellieri (42 anni) fa il manager; e quello di Monti addirittura passerebbe, leggiamo testualmente in un blog, «da una banca all’altra». Insomma lo scandalo è che costoro non sono disoccupati.

Chiariamo subito. Trasparenza e rettitudine sono un dovere non solo per chi ricopre incarichi di governo, ma anche per i loro familiari: era così già per la moglie di Cesare. Ed è sicuramente provvidenziale l’esistenza di sentinelle sempre pronte a scoprire e denunciare.

Ma la maxi indagine scattata in questi giorni sui «figli del governo» ci pare giunta a conclusioni demenziali. Non avendo trovato alcunché di illegale o di immorale, si è arrivati a contestare a Silvia Deaglio di essere brava perché, essendo figlia di accademici, ha respirato in casa l’arte della docenza universitaria. È una colpa? Guido Carli, che fu governatore della Banca d’Italia, un giorno rispose così a chi accusava suo figlio di aver fatto carriera grazie alla famiglia che l’aveva fatto studiare: «Non tutti hanno la fortuna di nascere trovatelli».

Occorre tutto il moralismo di questo periodo per non vedere la differenza tra chi si fa avanti nella vita per raccomandazioni, spintarelle, intrallazzi e imbrogli e chi invece ha magari un nome importante ma non ha rubato niente a nessuno. È un moralismo direi trasversale. Nasce infatti a sinistra, come giacobinismo invasato che pretende da ogni singolo essere umano una sorta di immacolata concezione. Dimenticando che non esiste e non potrà mai esistere alcun uomo o alcuna donna che non abbia qualcosa da farsi perdonare, questo giacobinismo finisce sempre con il trovare un peccato da sbattere in faccia a chiunque eserciti una pubblica funzione. È il moralismo degli indignati in servizio effettivo e permanente: sempre pronti, naturalmente, a indignarsi solo per i vizi altrui.

Ma un moralismo speculare e opposto è arrivato anche a destra, dove non par vero, oggi, di poter rendere pan per focaccia agli accusatori di ieri. Dicono: voi ci avete contestato reati processi e scandali sessuali, e noi vi sbattiamo in faccia il cotechino di capodanno a Palazzo Chigi. Chi fino a ieri diceva embè che cosa c’è di male se un deputato è indagato per mafia, oggi trova immorale che la figlia di un ministro faccia l’oncologa. La parola d’ordine è «così fan tutti», e non si distingue fra travi e pagliuzze.

I due moralismi hanno tuttavia lo stesso obiettivo: la paralisi dell’avversario. Visto da sinistra, il governo non può riformare l’articolo 18 perché qualcuno dei figli dei ministri ha un lavoro a tempo indeterminato. Visto da destra, il governo tecnico la smetta di dare la caccia agli evasori fiscali perché Monti si è fatto tagliare i capelli di domenica quando il barbiere avrebbe dovuto restare chiuso (giuro che un parlamentare di destra l’ha detto).

Iddio ci scampi, quindi, dagli opposti estremismi del moralismo. Anche perché sappiamo dove portano. Quelli che vorrebbero tutti innocenti, di solito finiscono con il ghigliottinarsi fra loro. E quelli che vorrebbero tutti colpevoli, finiscono con l’autoassoluzione e l’impunità collettiva.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9757
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« Risposta #64 inserito:: Febbraio 21, 2012, 12:20:50 pm »

20/2/2012

Dove sbaglia Adriano

MICHELE BRAMBILLA

Se è vero che il Festival di Sanremo è una spia degli umori degli italiani, proviamo a vedere se il «caso Celentano» ha qualcosa da dirci.

Come mai l’ex ragazzo della via Gluck è stato tanto criticato? Non solo dai giornali, ma anche dal pubblico: non si era mai vista all’Ariston una contestazione in diretta come quella dell’altra sera: e chi continua a pensare che si sia trattato di una gazzarra organizzata, non ha capito o peggio non vuol capire (torneremo tra poco sul punto). Dicevamo: come mai tante reazioni negative?

Nei contenuti Celentano ha preso un paio di stecche anche pesanti - gli insulti ad Aldo Grasso e l’invocata chiusura di due giornali ma ha anche lanciato spunti tutt’altro che trascurabili. Quando dice che oggi, nella predicazione del clero, sono quasi scomparsi quelli che una volta si chiamavano «i Novissimi» (morte, giudizio, inferno e paradiso) Celentano ha perfettamente ragione: chiunque abbia frequentazione domenicale con la messa lo sa benissimo; chi legge le prolusioni della Cei ahimè lo sa ancor meglio. Quando poi dice che dobbiamo essere felici di essere nati perché abbiamo un destino di vita eterna, ci dice l’unica cosa di cui in fondo ciascuno di noi ha davvero bisogno, e che è l’essenza di quel Vangelo (che significa: «buona notizia») che i cristiani annunciano da duemila anni.

Celentano avrebbe dovuto dunque appassionare, commuovere, o almeno incuriosire. E invece, ha diviso, urtato, irritato. Non è scaturito, dalle sue parole, un dibattito sul mistero della vita e della morte, sul dilemma tra speranza e disperazione: ma molto più miseramente un polpettone sugli equilibri interni della Rai. Perché?

Perché Celentano ha dimostrato di essere legato a uno schema vecchio, quello secondo cui per proporre bisogna opporre; per parlare di una cosa buona, bisogna mostrarne una cattiva che tende a soverchiare, a soffocare. La sua è la retorica della denuncia, dell’indignazione, dei buoni contro i cattivi, del potere che è sempre marcio. Così si è subito creato un nemico da attaccare. Torno a quanto dicevo prima sulla contestazione: non credo che fosse organizzata, perché quando Celentano è comparso sul palco nessuno lo ha fischiato; poi ha cantato ed è stato applaudito; poi si è messo a parlare della vita eterna e tutti ascoltavano in un (è il caso di dirlo) religioso silenzio. È stato quando ha ri-tirato in ballo Avvenire e Famiglia Cristiana che dal pubblico è partito un collettivo «baaaasta!» che non poteva certo essere preparato. Basta, non ne possiamo più di queste polemiche.

Posso fare un esempio concreto? Quando Roberto Benigni ha portato in tv - anche all’interno di spettacoli «leggeri» - la Divina Commedia, e quindi gli stessi temi del paradiso e dell’eternità, ha infiammato, emozionato, coinvolto anche persone che ostentano agnosticismo se non ateismo. La differenza è che Benigni ha portato in televisione la Bellezza, Celentano la solita logora logica della rissa e della polemica.

Celentano farebbe bene a riflettere sul risultato che ha ottenuto, e che è l’opposto di quello che si prefiggeva. Sbaglia se dà la colpa alla «corporazione dei giornalisti». Ma lui ragiona così, vede un mondo che è governato solo (sottolineiamo il «solo», altrimenti non ci capiamo) da corporazioni, poteri forti, mercanti della guerra, inquinatori, speculazioni edilizie, corruzioni e così via. Non è che tutto questo non ci sia, anzi: c’è eccome. Ma l’Italia e probabilmente il mondo intero oggi - arrivati al fondo di una crisi che non è solo economica, ma è soprattutto morale - hanno bisogno di non piangersi più addosso; hanno bisogno di girare pagina, di trovare motivi di speranza, di qualcuno che indichi non solo il lordume ma anche la pulizia.

Perché c’è anche quella, la pulizia: e non è un caso se l’Ariston e credo tutti gli spettatori in tv hanno applaudito Geppi Cucciari quando ha indicato tra le donne da seguire come esempio quella nostra connazionale che fa la volontaria fra gli ultimi del mondo. E forse non è un caso neppure se a vincere il festival sia stata una canzone che ci dice che sì, c’è la crisi, ma questo non è l’inferno e non bisogna morire ma guardare avanti.

Abbiamo passato di tutto negli ultimi vent’anni: inchieste contro la corruzione, scandali, una politica dell’odio e tante altre schifezze. Abbiamo fatto marce pro e campagne contro. Ma adesso siamo in un momento in cui dobbiamo rialzarci. E con la sola denuncia di quello che non va non ci si rialza, si resta paralizzati.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9792
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« Risposta #65 inserito:: Marzo 11, 2012, 11:02:15 am »

11/3/2012

Pdl-Lega, un invito e una minaccia

MICHELE BRAMBILLA


A meno di due mesi dalle elezioni amministrative, il centrodestra ha improvvisamente scoperto il grande pericolo: perdere il Nord.

Che ne sarà infatti del Nord se Pdl e Lega correranno ciascuno per conto proprio?
L’allarme lanciato ieri dal segretario del Pdl Angelino Alfano è figlio dell’incubo che il centrodestra sta vivendo in questi giorni. Solo una settimana fa Alfano aveva detto, anzi annunciato in forma ufficiale, che il suo partito non si sarebbe mai più alleato con la Lega. Dall’altra parte i leghisti erano stati ancora più tranchant. Maroni da mesi ripete che «la Lega correrà da sola», e Bossi è quasi tornato al linguaggio dei bei tempi del «mafioso di Arcore»: lunedì scorso ha detto che il governo Monti è una rapina, nella quale il premier fa la parte del rapinatore e Berlusconi quella del palo.

Proprio il governo Monti è all’origine della spaccatura. Berlusconi ha deciso di appoggiarlo, insieme a centristi e Pd: un po’ per senso di responsabilità, un po’ per interesse personale. Bossi ha invece deciso di osteggiarlo: un po’ per convinzione, un po’ - anche qui - per interesse personale, nel senso che un periodo all’opposizione potrebbe essere rigenerante per la Lega, soprattutto agli occhi dei suoi elettori.

Ciascuno aveva dunque il proprio tornaconto: il Pdl nell’appoggiare Monti in una maggioranza bipartisan, la Lega nello starne alla larga. Ma adesso che si avvicinano le elezioni, sia il Pdl sia la Lega si trovano a sbattere il muso contro una realtà per entrambi sgradevole. E la realtà è che, con Pdl e Lega separati, anche il Nord - da tempo grande roccaforte del centrodestra - rischia di passare con il centrosinistra.

Per questo Alfano, a una sola settimana dal proclama «mai più con la Lega», ieri ha lanciato un appello-invito agli ex alleati, chiedendo loro di non fare in modo che il Nord venga consegnato alla sinistra. Perché lo ha fatto? Certamente nella settimana intercorsa fra il primo e il secondo annuncio sono accaduti fatti importanti. Alfano si è molto irritato per il vertice Severino-Bersani-Casini su Rai e giustizia: non solo si è sentito tagliato fuori, ma ha avuto l’impressione che quell’incontro fosse solo un capitolo di una trappola a lungo termine. Alfano ha pensato che avesse ragione Berlusconi quando sosteneva che con Casini non si va da nessuna parte, e che in fondo il leader dell’Udc punta a un logoramento del Pdl per prendere la guida di un nuovo centrodestra. Questi ragionamenti, uniti ai calcoli sulle prossime elezioni del 6 maggio, lo hanno indotto a tentare un recupero con la Lega.

Ma attenzione. Le parole che Alfano ha rivolto ieri alla Lega («Non consegniamo il Nord alla sinistra») sono al tempo stesso un invito (a ritornare insieme) e una minaccia. La sera del 7 maggio, infatti, per capire chi ha vinto e chi ha perso non conteranno le percentuali prese dai partiti: quelle saranno in gran parte falsate dalla presenza delle varie liste civiche. Ciò che conterà saranno solo le cosiddette «bandierine»: quanti Comuni al centrodestra e quanti al centrosinistra. Il 6 maggio in tutta Italia si vota in ventisette Comuni capoluoghi di provincia. Cinque anni fa, in diciotto di questi ventisette Comuni aveva vinto il centrodestra.

Al Nord erano stati conquistati dall’alleanza Pdl-Lega Alessandria, Asti, Como, Monza, Belluno, Verona, Gorizia e Parma. Il centrosinistra aveva vinto a Cuneo, Piacenza, Genova e La Spezia. Insomma al Nord otto bandierine a quattro per il centrodestra. Adesso, con Lega e Pdl che corrono separati, il risultato potrebbe essere invertito. In teoria, potrebbe finire anche dodici a zero, o qualcosa di simile, per il centrosinistra.

Ecco perché le parole di Alfano alla Lega sono al tempo stesso un invito e una minaccia. Un invito a ripensare la scelta di correre da soli. E una minaccia in questo senso: cari leghisti, sappiate che se perdiamo la battaglia delle bandierine la colpa sarà vostra, e sarete voi - non noi - a doverne rendere conto agli elettori. Nella Lega però pensano l’esatto opposto: che sia stato il Pdl, appoggiando Monti, a rompere l’alleanza. E se ciascuno rimarrà sulle proprie posizioni, ne verrà miracolato un centrosinistra talmente malmesso che può vincere solo su autorete.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9873
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« Risposta #66 inserito:: Marzo 15, 2012, 12:31:29 pm »

15/3/2012 - PATTO DI NON AGGRESSIONE

Gli scandali e la tregua fra i partiti

MICHELE BRAMBILLA

Il politico che è andato a mangiarsi un piatto di spaghetti al caviale da 180 euro e ha pagato con la carta di credito del partito (cioè con i soldi dei rimborsi elettorali, cioè con denaro pubblico) diventerà forse il simbolo della nuova, ennesima stagione di decadenza che stiamo vivendo.

Da Nord a Sud, dal Pdl al Pd alla Lega, sembra non salvarsi nessuno.

In Lombardia - governata dal centrodestra sono sotto inchiesta quattro componenti su cinque dell’ufficio di presidenza della Regione e diciotto consiglieri; l’ex Margherita è sconvolta dalla gestione delle casse del partito; a Bari sono stati arrestati imprenditori legati al Pd per una storia di tangenti in Comune. Insomma. I sette milioni di lire avvolti nella carta di giornale che misero fine alle fortune politiche di Mario Chiesa - e inizio a quelle di Di Pietro - sembrano un peccato veniale al confronto dei milioni di euro che girano oggi. Anche le discoteche di De Michelis fanno quasi tenerezza, quando leggiamo dei 218.000 euro sottratti nel solo 2011 dalle casse del partito per finanziare viaggi e vacanze del tesoriere e della sua gentile signora.

Eppure sta succedendo qualcosa di strano e di nuovo. Nessun politico cavalca le disgrazie dei rivali. La sinistra sfrutta forse l’imbarazzo in cui si è venuto a trovare Formigoni? Non più di tanto: qualche mozione di sfiducia a livello locale. E la destra maramaldeggia su Emiliano, sindaco di Bari, o sulla storia di Luigi Lusi? Poche battute, lievi stoccatine. Anche la prescrizione a Berlusconi sul caso Mills e l’annullamento della condanna a Dell’Utri non hanno certamente indotto Bersani e i suoi a stracciarsi le vesti.

A quanto pare c’è una sorta di patto di non aggressione che fa un certo effetto, se ci si ricorda che solo fino a cinque-sei mesi fa ai partiti per scannarsi bastava molto meno. Come mai? Che cosa è successo?

La prima risposta che viene in mente è anche la più semplicistica: tutti tacciono perché tutti sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. C’è del vero, ma è una risposta un po’ grossolana.

Cercando di andare un po’ più in profondità, ci sono altre riflessioni da fare. Una di queste riguarda il finanziamento dei partiti. Perché poi tutto ruota intorno a quello: è vero che c’è pure chi si fa gli spaghetti al caviale e magari la villa, ma il nodo centrale è il costo della politica. Le tangenti si prendono anche e soprattutto per pagarsi le campagne elettorali; e il denaro pubblico che i tesorieri gestiscono viene in gran parte, appunto, dai cosiddetti rimborsi elettorali.

Ora, a vent’anni da Mani Pulite e dall’autodenuncia di Craxi in Parlamento, il problema del finanziamento dei partiti non è stato ancora risolto. E non è stato ancora risolto perché i partiti non hanno voluto risolverlo: hanno continuato a mantenere, come sempre hanno avuto in Italia, uno status di associazioni di fatto che godono di una sorta di extraterritorialità. In nome della libertà e dell’autonomia, hanno preteso di non essere sottoposti a regole e controlli. Così, ci sono norme su come ottenere il denaro, ma non su come utilizzarlo. Che cosa è configurabile come spesa per la politica e che cosa no? Non si sa, non è scritto. Lusi avrebbe messo tredici milioni della Margherita in una cassaforte privata; il tesoriere della Lega ha fatto investimenti in Tanzania; altri con i soldi del partito hanno comperato appartamenti. È in questo vuoto normativo che può succedere di tutto. I partiti lo sanno, e qualcuno comincia a pensare che sarebbe meglio chiedere quei controlli che si son sempre voluti evitare.

Anche perché - e questo è il motivo principale della reciproca non aggressione - sanno che mai come adesso sono esposti al vento dell’antipolitica. È un vento non sempre portatore di pulizia. Porta anche pregiudizi e generalizzazioni: solo i fanatici possono pensare che tutti gli amministratori pubblici siano corrotti. Ma è un vento che ha purtroppo ampie ragioni per soffiare, e che in questo momento non spinge né a destra né a sinistra. Tutti i partiti sentono il crollo di fiducia nei loro confronti, e sanno che a differenza di vent’anni fa il malcontento non si manifesterà con le fiaccolate, ma con qualcosa di molto più pericoloso per loro: l’astensione. E con il crescere di una convinzione sempre più diffusa: piuttosto che affidarsi ai politici, è meglio continuare con i tecnici.

È per questo che sugli scandali politici dei nostri ultimi tempi i partiti hanno scelto la tregua. Sanno che quando qualche procura alza il velo su qualche malefatta, non devono chiedersi per chi suona la campana.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9886
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« Risposta #67 inserito:: Marzo 23, 2012, 11:18:33 pm »

23/3/2012

Diliberto, Grillo e i cattivi esempi

MICHELE BRAMBILLA

Beppe Grillo, che una volta faceva ridere, ieri ha messo sulla home page del suo sito una foto di Mario Monti all'interno di una cassa da morto con scritto «articolo 18». Forse per mandare un altro segnale subliminale, la bara ha la forma di un'automobile. A scanso di equivoci, comunque, il presidente del Consiglio viene chiamato Rigor Montis.

Vedere trasformato chi la pensa diversamente in un cadavere fa parte ahimè di una consolidata tradizione di un nostro manicomio tutto italiano. Negli anni Settanta si gridava «carabiniere basco nero il tuo posto è al cimitero», oggi girano t-shirts che al cimitero vorrebbero mandare il ministro Elsa Fornero, e qualcuno pensa che siano divertenti perché c'è anche la rima.

Tra costoro c'è evidentemente Oliviero Diliberto, segretario nazionale dei Comunisti italiani, che l'altro giorno si è fatto fotografare, appunto, abbracciato a una democratica signora che indossava la maglietta nera con la scritta «Fornero al cimitero». Non è chiaro se sia più grave quell'abbraccio o la grottesca giustificazione («Non mi ero accorto della scritta») che Diliberto ha balbettato quando ha visto la foto sui giornali: ieri è stato diffuso un video che lo sbugiarda, per ben 5 minuti e 49 secondi il segretario dei Comunisti ha la scritta davanti agli occhi.

Ma forse la cosa più grave è ancora un'altra. È il fatto che simili inviti a scomparire vengano rivolti ai rivali politici non più, come quarant'anni fa, dagli estremisti in piazza: ma da uno che si sta presentando alle elezioni con le sue cinque stelle in nome della moralità, e da un altro che è stato perfino ministro di Grazia e Giustizia. Così come era stato ministro Bossi, che pochi giorni fa aveva anticipato Grillo annunciando il funerale di Monti. Davvero non c'è un altro linguaggio possibile, in Italia, per fare opposizione?

Ci eravamo appena rallegrati per la fine del clima da rissa tra i partiti, e ora ci ritroviamo a rivivere le parole di piombo degli anni formidabili.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9914
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« Risposta #68 inserito:: Marzo 29, 2012, 05:16:53 pm »

29/3/2012

Il rischio della caccia alle streghe

MICHELE BRAMBILLA

Ieri nel Bolognese un piccolo imprenditore s’è dato fuoco davanti all’Agenzia delle entrate. L’elenco dei suoi colleghi che negli ultimi mesi si sono tolti la vita perché si sentivano oppressi, oltre che dalla crisi, anche dal fisco, è tragicamente lungo. Molti altri hanno protestato in modi più o meno urbani con Equitalia.

È gente che vive autentici drammi non solo economici o professionali, ma anche umani. Però diciamo la verità: è anche gente che non incontra un granché di solidarietà.
Non si vedono manifestazioni di piazza in favore dei piccoli imprenditori. E perché? Anche qua, diciamo la verità: perché i piccoli imprenditori vengono identificati in massa come evasori fiscali. E oggi l’evasione fiscale è la nuova peste, e chi non è lavoratore dipendente è il nuovo turpe monatto.

Sia chiaro: che l’evasione fiscale sia una piaga, e che gli evasori siano tra i principali responsabili del nostro debito pubblico, non c’è dubbio. Così come non ci deve essere dubbio sul fatto che su questo fronte sono benedette tutte le azioni repressive e preventive possibili: compresi i tanto contestati blitz a Cortina o a Courmayeur.

Ma siamo sicuri che il piccolo imprenditore che ha un contenzioso aperto con Equitalia sia sempre un evasore fiscale? O meglio: siamo sicuri che oggi il sistema fiscale, per un piccolo imprenditore, sia davvero equo? E che siano equi gli accertamenti a suo carico?

È certamente impopolare, oggi, porsi queste domande. La vergogna dell’evasione fiscale ha provocato una sacrosanta richiesta collettiva di giustizia. Ma attenzione al giustizialismo, che è cosa diversa dalla giustizia. Il giustizialismo è un fondamentalismo, e come tale vede il mondo e la vita tutto bianco o tutto nero. Così, oggi si sente dire che in Italia le tasse le pagano solo gli onesti, identificati con i lavoratori dipendenti; mentre tutti gli altri rientrano nel calderone dei disonesti.

Questo lo schema. Ma la realtà è diversa. I lavoratori dipendenti (chi scrive appartiene a questa categoria) non pagano tutte le tasse perché sono «onesti», ma perché sono obbligati a farlo da un sistema fiscale imperfetto. È imperfetto appunto perché una parte degli italiani non può evadere mentre un’altra sì: ma non solo per questo.

È imperfetto anche perché grava la piccola e media impresa di un’infinità di tasse alle quali non corrisponde un servizio adeguato. Il piccolo imprenditore è molto spesso un uomo solo. Investe i propri capitali per guadagnare (e ci mancherebbe) ma anche per creare posti di lavoro: rischia di suo, e quando gli affari vanno male nessun articolo 18 lo garantisce.
La giustizia civile non lo tutela se i clienti non pagano. I governi non lo convocano quando si incontrano con le cosiddette parti sociali, come se i piccoli imprenditori non fossero
anch’essi una parte sociale. Da quando è scoppiata la crisi mondiale, o almeno da quando ci siamo accorti della crisi mondiale, abbiamo dichiarato guerra allo spread, prestato attenzione alle banche, messo mano alla riforma delle pensioni e pensato a licenziamenti e buonuscite. Ma per i piccoli imprenditori, niente.

Problemi forse risaputi, ma mai veramente presi in considerazione. Problemi, poi, ai quali va ora aggiunto quanto sta accadendo in questi tempi di (sacrosanta, ripetiamo) caccia
all’evasore. Giusto fare azioni coercitive per riscuotere le tasse. Ma capita che lo Stato esiga tasse anche su redditi non ancora conseguiti. Capita perfino - ce lo riferiscono molti piccoli imprenditori che le richieda su redditi mai accertati ma solo ipotizzati. In giudizio è il cittadino a dover dimostrare di non aver preso denaro in nero, e in questo modo si sta stravolgendo il basilare principio giuridico secondo il quale l’onere della prova spetta all’accusa, non alla difesa.

Fatti e riflessioni di cui occorre tener conto, se non si vuole che la caccia all’evasore si trasformi in una caccia alle streghe.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9935
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« Risposta #69 inserito:: Aprile 06, 2012, 03:17:34 pm »

6/4/2012

Bossi, la resa che chiude un'era

MICHELE BRAMBILLA

Non è un caso che l’addio di Umberto Bossi sia arrivato appena cinque mesi dopo quello di Silvio Berlusconi. Per quanto diversi per censo e perfino per tratti antropologici, i due erano legati fra loro assai più di quanto non siano legati due semplici alleati politici. La loro avventura era evidentemente destinata ad avere un inizio e una fine comuni, e come certi vedovi inconsolabili, l’uno non poteva sopravvivere alla fine dell’altro.

Così in soli cinque mesi la loro uscita di scena cambia di colpo, e probabilmente per sempre, il profilo della destra italiana e l’intero scenario politico nazionale. Finisce un’era: quella dei «fondatori», dei partiti personali, del leaderismo e del culto del capo, dei finti congressi e delle acclamazioni. Finisce anche, si spera, la stagione delle forti contrapposizioni e delle chiamate alle armi.

Pure nell’addio i due vecchi capipopolo risultano così simili da apparire inseparabili. Per tutti e due, non s’è trattato di dimissioni: s’è trattato di una resa. Non lasciano perché ritengono sia giunta l’era del buen retiro, ma perché travolti dagli avvenimenti. Non lasciano da vincitori, ma da sconfitti. Eppure, sono sconfitti cui va riconosciuto l’onore delle armi.

Se è vero infatti che sarà la storia a separare per entrambi il grano dal loglio, già oggi si può dire che sia Berlusconi sia Bossi sembrano migliori da vinti che da vincitori. Uomo destinato (e non solo per colpa sua) a dividere, Berlusconi ha lasciato unendo: se oggi l’Italia tenta faticosamente di uscire dalla crisi con un governo di solidarietà nazionale, è anche perché il Cavaliere ha saputo, all’ultimo, tenere a freno i suoi falchi. Magari l’avrà fatto anche per interesse personale, ma l’ha fatto.

Allo stesso modo, Bossi mostra più nobiltà nel lasciare di quanta ne abbia mostrata restando - non si sa quanto consapevolmente - attaccato a un trono che era diventato la vacca da mungere da parte di una losca compagnia di giro. La vicenda umana di Bossi è segnata, come molte, da quelle leggi implacabili che si chiamano del contrappasso e dell’eterogenesi dei fini. Lui che tante volte ha urlato di voler usare come carta igienica la bandiera italiana, è stato di fatto il porta vessillo della versione più meschina della bandiera italiana: quella che, come diceva Longanesi, al centro ha la scritta «ho famiglia». Lui che organizzò due finte feste di laurea, e che fece credere alla sua prima moglie di essere medico, cade per essersi scelto un tesoriere che comprava lauree e diplomi; e per dare un futuro a un figlio che qualcuno gli faceva credere già quasi laureato.

Miserie, fragilità, debolezze. Da guardare però con misericordia nel giorno in cui il misero, il fragile e il debole cade. Per quante responsabilità possa avere avuto, suscita pietà il vecchio capo che con orgoglio parla a un collega del figlio che - crede lui - ha fatto da interprete a Berlusconi e Hillary Clinton; e che poi apprende con sgomento che il libretto universitario del suo erede non ha dei trenta ma degli spazi bianchi. Proprio perché noi non ci vergogniamo a essere italiani nel bene e nel male, non ci accodiamo a chi infierisce su un padre che va in crisi per un figlio.

Così è strana la vita: il politico del «celodurismo» cade per essere stato troppo debole in famiglia; e l’uomo che dal niente aveva messo in piedi un impero, cade per mano di mediocri cortigiani. Bossi «muore» politicamente meglio di quanto abbia vissuto anche e soprattutto perché non fugge di fronte alle proprie responsabilità, anzi se ne fa carico e arriva a pronunciare parole inaudite nel mondo della politica: «Chi sbaglia paga, qualunque cognome porti».

Altre, e ben più gravi, sono le sue colpe. Prima ancora che per i colpi della malattia e del cosiddetto cerchio magico, Bossi deve lasciare la scena per un fallimento politico. È stato grande nel trasformare l’aria del Nord in un partito da dieci per cento. Ma altrettanto grande nello sfasciare tutto: prima mettendo in un angolo le intelligenze che avrebbe potuto arruolare (la migliore, Miglio, fu messa alla porta con la sprezzante etichetta di «una scoreggia nello spazio»), poi dissipando anni e anni di governo senza mai realizzare una sola delle riforme annunciate. Se la Lega non gli sopravviverà, non sarà perché non vi può essere un altro leader dopo di lui, ma per i vent’anni di promesse non mantenute.

Anche qui, sarà la storia a rispondere. Per ora possiamo leggere gli avvenimenti solo con lo sguardo della cronaca, che ci fa immaginare per le elezioni del 2013 una destra e un quadro politico generali completamente diversi - e speriamo migliori - rispetto agli ultimi vent’anni.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9968
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« Risposta #70 inserito:: Aprile 13, 2012, 10:42:34 pm »

13/4/2012

Pulizia e giochi di potere

MICHELE BRAMBILLA


La giustizia sommaria ha questo di bello: che ti porta a parteggiare per il condannato. Ieri ad esempio ci ha costretti a simpatizzare per Rosi Mauro, alla quale avevamo chiesto, non più tardi di qualche giorno fa, di lasciare la vicepresidenza del Senato.

Restiamo dell’idea che la signora avrebbe dovuto lasciarla, quella vicepresidenza: quanto era emerso dall’inchiesta sull’utilizzo dei rimborsi elettorali della Lega la metteva in grave imbarazzo, e chi è vicario della seconda carica dello Stato non può permettersi neanche un’ombra di sospetto. Ma il modo in cui la Lega, ieri, l’ha mandata sul rogo come una strega, ci costringe a solidarizzare con lei.

Espulsa dal partito in cui militava da una vita, partendo dai ruoli più umili (c’è chi sostiene che abbia cominciato facendo la portinaia della prima sede milanese, quella di via Arbe). Espulsa dal partito nel quale fino a poche settimane fa aveva un posto di primissimo piano. Cancellata. Indicata al pubblico disprezzo di quei militanti che la osannavano ogni volta che, dal palco di Pontida o da quello di Venezia, lei annunciava i successi del sindacato padano, i vantaggi degli «contratti territoriali»... La osannavano, quando gridava che il «governo centralista» (lo diceva anche quando al governo c’era pure la Lega) favoriva gli immigrati a scapito della «nostra gente». L’altra sera a Bergamo gli stessi militanti, aizzati dai nuovi dirigenti, le hanno dato della battona.

Perché in pochi giorni Rosi Mauro è passata dagli applausi all’espulsione? Il partito si è improvvisamente accorto della sua indegnità? Del suo presunto amante bodyguard? Dei suoi maneggi e intrallazzi con Belsito e con il cerchio magico? Si vuol far credere che, se ha sbagliato, lo ha fatto senza che nessun altro sapesse? Ma mi faccia il piacere, diceva Totò.

Da quando i giornalisti hanno cominciato a scrivere che attorno a un Bossi stanco e malato si era formato un «cerchio magico» che lo teneva in ostaggio, tutti - ripetiamo: tutti - i dirigenti della Lega urlavano, in pubblico, che si trattava di volgari menzogne dei soliti pennivendoli. Adesso tutti questi dirigenti parlano del «cerchio magico» come di una realtà acclarata da tempo, e fanno pulizia a colpi di scopa.

Ma è una pulizia suggerita dall’esigenza di nuovi equilibri di potere interni, non da un amor di trasparenza e onestà. Provate a guardare foto e filmati di Bossi degli ultimi otto anni: non c’è fotogramma in cui il vecchio capo non sia tenuto a braccetto da Rosi Mauro. È per questo che nella Lega tanti odiano questa donna. Nessuno poteva avvicinarsi a lui senza il consenso di lei. I giornalisti men che meno: Bossi non rilascia interviste vere da prima della malattia. Rosi «la badante», come la chiamavano i più gentili nella Lega (gli altri la chiamavano «mamma Ebe») era dunque riuscita nell’impresa di accudire Bossi per controllarlo, diventando insieme a pochi altri (il famoso cerchio magico) la vera segreteria politica della Lega.

Dicono i suoi nemici interni che questo ruolo lo abbia svolto con cinismo e senza pietà, facendo tabula rasa di oppositori e concorrenti. È probabile che sia vero. Ma si abbia il coraggio di dire che è per questo motivo che ora questa donna - neppure indagata, almeno per adesso - è stata espulsa. Si abbia il coraggio di dire che è una purga staliniana per giochi di potere interno, senza tirare in ballo l’uso del denaro del partito. Di verginelle, riguardo all’uso di quei soldi, ce ne sono poche.

Fa pena sentire, ora, che è stata espulsa perché ha disobbedito a Bossi, il quale le aveva chiesto di lasciare lo scranno al Senato: lo sanno anche i sassi che Bossi era stato costretto, dai nuovi vincitori interni, a chiederle quel passo indietro. La Lega è un partito lacerato da odi interni inimmaginabili, e le rese dei conti sono solo all’inizio.

Così spesso arrogante - con noi giornalisti e con tanti militanti -, Rosi Mauro non era simpatica. Adesso lo è un po’ di più, forte di quella compassione sempre generata da ogni capro espiatorio.

da - lastampa.it
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« Risposta #71 inserito:: Aprile 15, 2012, 10:46:25 pm »

13/4/2012

Pulizia e giochi di potere

MICHELE BRAMBILLA


La giustizia sommaria ha questo di bello: che ti porta a parteggiare per il condannato. Ieri ad esempio ci ha costretti a simpatizzare per Rosi Mauro, alla quale avevamo chiesto, non più tardi di qualche giorno fa, di lasciare la vicepresidenza del Senato.

Restiamo dell’idea che la signora avrebbe dovuto lasciarla, quella vicepresidenza: quanto era emerso dall’inchiesta sull’utilizzo dei rimborsi elettorali della Lega la metteva in grave imbarazzo, e chi è vicario della seconda carica dello Stato non può permettersi neanche un’ombra di sospetto. Ma il modo in cui la Lega, ieri, l’ha mandata sul rogo come una strega, ci costringe a solidarizzare con lei.

Espulsa dal partito in cui militava da una vita, partendo dai ruoli più umili (c’è chi sostiene che abbia cominciato facendo la portinaia della prima sede milanese, quella di via Arbe). Espulsa dal partito nel quale fino a poche settimane fa aveva un posto di primissimo piano. Cancellata. Indicata al pubblico disprezzo di quei militanti che la osannavano ogni volta che, dal palco di Pontida o da quello di Venezia, lei annunciava i successi del sindacato padano, i vantaggi degli «contratti territoriali»... La osannavano, quando gridava che il «governo centralista» (lo diceva anche quando al governo c’era pure la Lega) favoriva gli immigrati a scapito della «nostra gente». L’altra sera a Bergamo gli stessi militanti, aizzati dai nuovi dirigenti, le hanno dato della battona.

Perché in pochi giorni Rosi Mauro è passata dagli applausi all’espulsione? Il partito si è improvvisamente accorto della sua indegnità? Del suo presunto amante bodyguard? Dei suoi maneggi e intrallazzi con Belsito e con il cerchio magico? Si vuol far credere che, se ha sbagliato, lo ha fatto senza che nessun altro sapesse? Ma mi faccia il piacere, diceva Totò.

Da quando i giornalisti hanno cominciato a scrivere che attorno a un Bossi stanco e malato si era formato un «cerchio magico» che lo teneva in ostaggio, tutti - ripetiamo: tutti - i dirigenti della Lega urlavano, in pubblico, che si trattava di volgari menzogne dei soliti pennivendoli. Adesso tutti questi dirigenti parlano del «cerchio magico» come di una realtà acclarata da tempo, e fanno pulizia a colpi di scopa.

Ma è una pulizia suggerita dall’esigenza di nuovi equilibri di potere interni, non da un amor di trasparenza e onestà. Provate a guardare foto e filmati di Bossi degli ultimi otto anni: non c’è fotogramma in cui il vecchio capo non sia tenuto a braccetto da Rosi Mauro. È per questo che nella Lega tanti odiano questa donna. Nessuno poteva avvicinarsi a lui senza il consenso di lei. I giornalisti men che meno: Bossi non rilascia interviste vere da prima della malattia. Rosi «la badante», come la chiamavano i più gentili nella Lega (gli altri la chiamavano «mamma Ebe») era dunque riuscita nell’impresa di accudire Bossi per controllarlo, diventando insieme a pochi altri (il famoso cerchio magico) la vera segreteria politica della Lega.

Dicono i suoi nemici interni che questo ruolo lo abbia svolto con cinismo e senza pietà, facendo tabula rasa di oppositori e concorrenti. È probabile che sia vero. Ma si abbia il coraggio di dire che è per questo motivo che ora questa donna - neppure indagata, almeno per adesso - è stata espulsa. Si abbia il coraggio di dire che è una purga staliniana per giochi di potere interno, senza tirare in ballo l’uso del denaro del partito. Di verginelle, riguardo all’uso di quei soldi, ce ne sono poche.

Fa pena sentire, ora, che è stata espulsa perché ha disobbedito a Bossi, il quale le aveva chiesto di lasciare lo scranno al Senato: lo sanno anche i sassi che Bossi era stato costretto, dai nuovi vincitori interni, a chiederle quel passo indietro. La Lega è un partito lacerato da odi interni inimmaginabili, e le rese dei conti sono solo all’inizio.

Così spesso arrogante - con noi giornalisti e con tanti militanti -, Rosi Mauro non era simpatica. Adesso lo è un po’ di più, forte di quella compassione sempre generata da ogni capro espiatorio.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9990
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« Risposta #72 inserito:: Aprile 16, 2012, 11:46:31 am »

16/4/2012

Quando noi, sciur Brambilla, eravamo Milano

Come cambia l'anagrafe dei cognomi: si consolida il sorpasso dei mister Hu

MICHELE BRAMBILLA

Per dare la mazzata finale a una Lega già in difficoltà il sindaco Pisapia - che è un comunista di origini meridionali - ha fatto diffondere i dati dell’Anagrafe e così si è scoperto che a Milano i Brambilla sono ormai solo 1536 (9° posto tra i cognomi) e quegli immigrati dei cinesi Hu sono in 3694, secondi dietro a Rossi.

Sono cresciuto con il complesso di portare un cognome un po’ da macchietta: quando arrivavamo al mare c’era sempre il bambino di Bologna che sfotteva: sulla vecchia Balilla s’avanza la famiglia Brambilla in vacanza; poi arrivarono i Giganti, me ciami Brambilla e fu l’uperari, lavori la ghisa per pochi denari. Ma tutto era ampiamente compensato dall’orgoglio che Brambilla voleva dire Milano. Ora l’avanzata degli Hu mi deprime. Una volta per identificare un milanese si diceva «Uhè Brambilla», non riesco a immaginare un improbabile «Uhè Hu». Nel film «Tre uomini e una gamba» il terrone Aldo, per far credere a Giovanni e Giacomo di essere milanese, dice di chiamarsi «Brambilla Fumagalli»: ma ormai pure Fumagalli è in via di estinzione, scivolato al trentesimo posto.

In fondo anche noi Brambilla veniamo da fuori: arrivammo dalla Bergamasca nel 1443 e forse furono nostri antenati muratori a tirar su la Grande Muraglia. Comunque io sto lavorando al controsorpasso, avendo già fatto cinque figli. Dai Brambilla, sotto anche voi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9999
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« Risposta #73 inserito:: Aprile 17, 2012, 12:06:17 pm »

Cultura

01/11/2011 - INTERVISTA

D'Avenia e il padre che svanisce

«E' scomparsa la figura simbolica che rappresenta l'autorità, quella che dice  ai figli cosa devono fare».

L'autore parla del suo nuovo romanzo

Michele Brambilla

Milano

Domani arriva in libreria Cose che nessuno sa (Mondadori, 332 pagine, 19 euro), il secondo romanzo di Alessandro D'Avenia. Il primo, Bianca come il latte rossa come il sangue, uscito nel gennaio del 2010, è stato un successo strepitoso: quattrocentomila copie vendute in Italia, venti traduzioni all'estero, un film che uscirà l'anno prossimo. Parlava di quell'età meravigliosa e difficile che è l'adolescenza, ed era riuscito nel miracolo di farsi leggere sia dai ragazzi, sia dai genitori. Cose che nessuno sa va ancora più nel profondo, e scava in una delle grandi colpe rimosse del nostro tempo: l'assenza del padre, o la sua sciatta presenza, che è quasi la stessa cosa.

Trentaquattro anni, insegnante di lettere in un liceo di Milano, Alessandro D'Avenia ci racconta di una mail che dice molto dell'attesa che s'è creata su questo suo secondo romanzo: «Una ragazza mi ha scritto che non vede l'ora di leggerlo perché ha un padre che torna a casa dal lavoro tardi, è sempre stanco, non parla, e appena trova un po' di tempo va a curare un campo dove ha piantato degli olivi. Così lei si chiede se è meno importante di un pezzetto di terreno».

Quanti ragazzi si possono ritrovare in una mail come questa?
«A volte mi chiedo perché non vedo mai i padri ai colloqui a scuola. Vengono sempre le mamme. Perché? Perché gli uomini sono al lavoro? Ma no, questo valeva una volta, non adesso che lavorano anche le donne. Credo che i padri non si rendano conto di quanto i ragazzi abbiano questo desiderio, questo bisogno. Dovreste vederli, in classe, come sono orgogliosi quelle rare volte che i papà vengono ai colloqui. Glielo leggi in faccia che pensano: per mio padre oggi sono stato più importante io del suo lavoro».

Chi, fra noi padri, non si sente chiamato in causa? Forse siamo la prima generazione che ha abdicato al compito di educare la successiva: educare nel senso etimologico, cioè «condurre, trarre fuori» dai figli le potenzialità, il tesoro che hanno dentro, per aiutarli ad affrontare la vita. «In questo momento - ci dice D'Avenia - la nostalgia della società intera è quella dell'assenza di un padre, con la minuscola e con la maiuscola. Non parlo solo dei padri biologici. Anche nel mondo del lavoro soffriamo e paghiamo l'assenza di padri, intesi come maestri. Perché il mio primo libro ha avuto così tanto successo? Perché uno dei protagonisti, il professore, è uno che vuole fare il padre, che si fa carico dei ragazzi che gli sono stati affidati.

«Oggi i due profili dell'adolescente sono: o Narciso, o la totale disistima di sé. Sono due poli che dipendono entrambi dall'assenza di un padre. Se io oggi credo in me, non è perché sono presuntuoso, ma perché sono stato amato moltissimo. Innanzitutto dai miei genitori, e poi da altri che si sono presi cura di me. Penso a due miei professori del liceo di Palermo: uno era quello di lettere, l'altro era padre Puglisi. Tutti e due hanno dato la vita per i loro ragazzi, padre Puglisi addirittura fino a farsi ammazzare.

«Oggi non è solo un problema di assenza fisica. è scomparsa la figura simbolica del padre, quello che rappresenta l'autorità, che dice ai figli che cosa devono fare senza aprire una trattativa. Il padre è quello che quando ti insegna ad andare in bicicletta, sta a qualche metro di distanza e ti dice "se hai bisogno, io sono qua, ma tu vai da solo". Molti uomini oggi fanno cose che un tempo i padri non facevano, cambiano i pannolini e fanno i bagnetti, e se devono insegnare al figlio ad andare in bicicletta, lo tengono per un braccio perché hanno paura che cada: ma così non si fa il padre, si fa la mamma-bis».

Poi c'è il dramma delle assenze più, come dire, carnali. La protagonista di Cose che nessuno sa è una ragazza di quattordici anni, Margherita, che decide di andare alla ricerca del padre fuggito da casa. Affascinata dal suo professore che gli presenta l'Odissea come se fosse proprio la sua storia, come Telemaco Margherita va alla ricerca del genitore, e alla fine sarà lei, non il padre, a portare la ferita di Ulisse.

«Quando entri in classe» racconta D'Avenia, e qui a parlare è più il professore che lo scrittore, «vedi subito la differenza tra gli occhi di chi ha i genitori separati e quelli di chi una famiglia ce l'ha: magari tribolata, ma ce l'ha». Ed è qui che Cose che nessuno sa passa inevitabilmente dal tema del padre a quello dell'amore: se tanti padri scappano come il papà di Margherita, è perché abbiamo smarrito la percezione della bellezza del «per sempre». «Oggi i ragazzi danno per scontato che un amore sia necessariamente "a tempo". E io dico loro: scusate, ma voi quando fate una dichiarazione d'amore che cosa dite, voglio stare con te fino al 2013? Tutti mi rispondono "Nooo, sarebbe bruttissimo!". E allora io dico: visto che lo intuite anche voi? Il bello dell'amore è la durata, è il resistere».

è il punto di vista di un credente? «In un libro a me molto caro, Lettera a D., André Gorz, ateo, arrivato alla fine dei suoi anni, scrive alla compagna della sua esistenza che "se per assurdo avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme". è partendo dall'umano, e non da un Dio, che si percepisce quanto, come diceva Nietzsche, l'amore voglia profonda eternità». Ma non pensate che il romanzo di D'Avenia sia un sermone sui doveri del padre e sulla fedeltà. Al contrario, alla fine quel che prevale è uno sguardo di misericordia sull'uomo, alle prese con l'incompiutezza di un mondo che non si può definire in uno schema perché ci sono troppe «cose che nessuno sa». Misericordia, e un grande amore per la vita nonostante le sue ombre.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/427542/
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« Risposta #74 inserito:: Maggio 06, 2012, 10:35:55 am »

5/5/2012

Lo Stato del buon senso

MICHELE BRAMBILLA

Abituati come siamo a ragionare più con la pancia che con la testa, anche sulla questione delle tasse stiamo passando rapidamente da un estremo all’altro. Fino a pochi mesi fa, la categoria dei piccoli imprenditori era vista in blocco come un’associazione per delinquere finalizzata all’evasione fiscale. Quando si diceva «piccolo imprenditore», l’esemplare tipo che veniva alla mente era un personaggio del cabaret, il Marco Ranzani di Cantù che parcheggia il Cayenne in seconda fila e denuncia nel 730 poche centinaia di euro di reddito. Fabbrichetta era sinonimo di furbetto. Non parliamo poi dei commercianti: la Guardia di Finanza non ha mai goduto tanta popolarità come nei giorni dei blitz a Cortina, Courmayeur, Capri e così via. Ma non appena sui media ha cominciato ad avere un po’ più di spazio l’epidemia di suicidi, siamo passati dall’indignazione alla commozione. L’associazione per delinquere è diventata di colpo quella Spectre statale Agenzia delle entrate, Equitalia eccetera - che accerta, contesta, esige.

E i piccoli imprenditori, le partite Iva e così via si sono trasformati immediatamente da ladri in «tartassati», secondo la definizione di un celeberrimo film di Totò. Possibile che in Italia sia sempre tutto bianco o tutto nero? Possibile che non si possano cogliere le sfumature, e capire che la vita non è un film con i buoni e i cattivi? Bastava un minimo di buon senso, prima, per capire ad esempio che i piccoli imprenditori non sono dei farabutti, ma una delle categorie effettivamente meno tutelate dal «sistema». Il piccolo imprenditore è uno che rischia i propri capitali, che non ha alcun paracadute quando gli affari vanno male, che non può contare su una giustizia civile che assicuri velocemente la riscossione dei crediti, che spesso viene pagato con mesi o anni di ritardo dalla pubblica amministrazione e che sicuramente è gravato da un peso fiscale eccessivo, a volte paralizzante.

Ma basterebbe un minimo di buon senso, ora, anche per distinguere chi è davvero in difficoltà per la crisi da chi pretende di continuare a beneficiare del Bengodi e dell’impunità dei tempi d’oro. Spiace dirlo, ma fra i protagonisti delle clamorose proteste di questi giorni c’è anche chi fabbricava fatture false e chi non pagava tasse chieste a tutti gli italiani (e non solo ai piccoli imprenditori) come il banalissimo canone della Rai. Ed è francamente inquietante che ieri un ex ministro abbia fatto visita in carcere, assicurandogli a nome della Lega la piena assistenza legale, a un uomo che ha tenuto in ostaggio, armi in pugno, persone inermi in un ufficio pubblico. Non è facendo un martire dell’imprenditore bergamasco Martinelli che si serve la causa della piccola impresa.

Sempre ieri a Bologna, alla manifestazione organizzata dalle vedove degli imprenditori suicidi, circolavano t-shirts con la scritta «Le tasse sono un furto». Sono il segno di un modo di pensare molto diffuso, che in Italia ha prosperato a lungo ed è fra i responsabili principali della crisi attuale. Se oggi lo Stato si sta facendo gendarme - e se tanti arrivano al suicidio - è anche perché per troppi anni c’è chi ha lasciato che a pagare le tasse fossero sempre gli altri.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10064
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