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Autore Discussione: MICHELE BRAMBILLA  (Letto 62659 volte)
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« inserito:: Aprile 03, 2010, 10:56:37 am »

3/4/2010

Il mix di Bossi dai celti alla Chiesa
   
MICHELE BRAMBILLA


Martedì scorso su Il Fatto Massimo Fini ha rivelato un episodio di alcuni anni fa. Una sera a cena, convinto che il momento fosse propizio per una confessione, fece una domanda a Bossi.

Umberto, dimmi finalmente la verità: ma tu sei più di destra o più di sinistra?». Bossi rispose: «Più di sinistra, ma se lo scrivi ti faccio un culo così». È un aneddoto che può apparire assurdo, in questi giorni in cui ci si chiede se la Lega non sia diventata un partito cattolico, anzi clericale. E in cui altri invece sostengono, come hanno sempre sostenuto, che è un partito xenofobo di estrema destra, quindi del tutto anticristiano. Insomma che cosa è la Lega?

La realtà è molto complessa. Nella battuta di Bossi a Massimo Fini c’è del vero. La Lega ad esempio non è in alcun modo assimilabile al berlusconismo. Chiunque abbia seguito le feste del popolo della libertà e quelle della Lega, o i comizi di Berlusconi e quelli di Bossi, sa bene che fra le due realtà c’è una distanza siderale. Non stiamo parlando tanto di una diversità politica, quanto di una diversità antropologica. L’uomo leghista è diverso da quello berlusconiano nei valori di fondo, negli obiettivi di vita, nei modelli da seguire, nel modo di vestire e perfino di mangiare. Certamente è un tipo umano molto più «popolare». Allo stesso modo il militante leghista è lontano anni luce dal mondo che viene dall’ex Msi: l’antifascismo tante volte proclamato da Bossi non è una dichiarazione di facciata.

Basta questo per dire che la Lega è «di sinistra»? Certo che no. Tuttavia non c’è dubbio che la Lega abbia attinto, oltre che dal serbatoio di voti dell’ex Dc, anche da quello dell’ex Pci: cioè da due partiti profondamente radicati nel popolo. Ovvio che non è, quella di Bossi, la sinistra degli intellettuali, dei giornalisti e dei testimonial del mondo dello spettacolo o della cultura. Ma sicuramente il mondo di Bossi non è quello dei palazzi - della finanza o della cultura che siano - bensì quello degli strati popolari del Paese. Un mondo che è un mix di valori che difficilmente si può etichettare «di destra» o «di sinistra».

Quali sono i valori della Lega? Non c’è dubbio che il primo sia stato la difesa di un interesse. Bossi ha raccolto consensi fra coloro che, a torto o ragione, ritenevano minacciato un proprio interesse. Le prime campagne furono contro i meridionali, poi rimpiazzati dagli immigrati. La paura che qualcuno che «viene da fuori» possa togliere qualcosa è stato il primo carburante. Ed ha finito con l’alimentare categorie diverse: dal mondo delle piccole e medie imprese che si sente tartassato dal fisco a quello degli operai che si sentono abbandonati da ciò che resta del vecchio Pci.

La battaglia contro i nemici esterni - il fisco di Roma e l’immigrato che toglie il posto di lavoro «alla nostra gente», come dice Bossi - ha finito poi per allargarsi a una più generale difesa della propria identità. La paura è diventata insomma anche quella di veder svanire il proprio millenario modo di essere: dal dialetto alla religione. Ed è qui che è nata la Lega «cattolica».

Bisogna intendersi bene. La Lega all’inizio era tutt’altro che filocattolica. Uno dei suoi primi slogan, «via da Roma», non è che la traduzione del motto di Lutero «los von Rom»: e più volte Bossi aveva minacciato, anni fa, una nuova Riforma, la nascita di una Chiesa del Nord. Poi c’è stata la fase pagana, con i riti sul Po e i matrimoni celtici. Solo da qualche anno la Lega ha fatto suo il cattolicesimo come fattore di difesa della propria tradizione. Da qui l’accusa di un cristianesimo senza Dio, utilizzato come religione civile: quanto di peggio, dal punto di vista di un credente.

Anche perché - parallelamente alla difesa del crocefisso e della vita dal concepimento alla sua fine naturale - la Lega ha proseguito in una politica sull’immigrazione che le ha provocato non poche tensioni con la Chiesa. Anche su questo punto comunque vanno evitate le banalizzazioni. Nei giorni scorsi la stessa Rosy Bindi ha riconosciuto che sul tema degli immigrati la Lega razzola assai meglio di quanto predichi: ne sono prova le politiche di molte amministrazioni leghiste. Però, osservava ancora la presidente Pd, un certo linguaggio e certe provocazioni contribuiscono lo stesso a diffondere un seme cattivo.

Certo è difficile identificare il militante padano con il cattolico volontario dei centri aiuti alla vita: sono anche quelli due mondi diversi. Tuttavia la Lega sul fronte pro life è sempre stata compatta forse anche perché sente che è una battaglia in sintonia con buona parte di un suo mondo popolare e tradizionale, non necessariamente cattolico. Alcuni commentatori hanno scritto che è solo una manovra per tenersi buona la Chiesa sul tema dell’immigrazione. Può darsi. Ma la Lega ha logiche e motivazioni che spesso ci sfuggono. Noi giornalisti per molti anni abbiamo preso abbagli colossali, sulla Lega: e forse continuiamo a non capirla del tutto.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 23, 2010, 11:51:00 am »

23/4/2010

La scomoda questione del Nord

MICHELE BRAMBILLA

Fra le tante questioni che Fini ha ricordato (o meglio ha rinfacciato) a Berlusconi c’è quella del Nord. Lassù, ha detto il presidente della Camera, a destra l’egemonia non è più nostra, ma della Lega; ci hanno portato via un sacco di voti e ormai comandano loro.

La replica di Berlusconi è stata fulminea e velenosa: caro Gianfranco, non venire a farmi la morale su questo perché la colpa è proprio tua. I leghisti non hanno fatto altro che impadronirsi delle battaglie che un tempo faceva Alleanza Nazionale, e che tu hai abbandonato, anzi rinnegato; quindi i voti che abbiamo perso in favore di Bossi li ha persi tu, non io.

Apparentemente, uno a zero e palla al centro per Berlusconi. E’ vero o non è vero che An ha costruito parte della sua iniziale fortuna sul tema della sicurezza, includendo nella sicurezza pure la lotta ai clandestini? Ed è vero o non è vero che da qualche tempo Fini, quando parla di immigrazione, riceve più applausi dalla sinistra che dalla destra? Ed è vero o non è vero che di questo cambiamento di posizioni - o di questo voltafaccia, secondo i nemici di Fini - la Lega ha tratto profitto? Certo che è vero. E’ tutto vero. Come diceva Montanelli, Bossi è un maestro non nella semina, ma nel raccolto: «Lui sta lì, con una gerla, pronta a raccogliere le olive quando stanno per cadere». Così ha raccolto la delusione di molti ex missini ed ex An, i quali sulla sicurezza si sono sentiti traditi da Fini. Soprattutto in Veneto, il travaso di voti dal Pdl alla Lega è principalmente un travaso da An alla Lega.

Tuttavia sarebbe un grave errore liquidare la questione così, come se la battuta di Berlusconi avesse davvero messo a tacere Fini per sempre. La questione del centrodestra al Nord, infatti, è molto più complessa. Non basta il pentimento di Fini sugli immigrati per spiegare l’egemonia che la Lega si sta conquistando dall’Emilia in su. Ieri - ne siamo certi - i berlusconiani del Nord nel momento stesso in cui hanno applaudito il capo hanno anche pensato, dentro di sé, che le parole di Fini non erano campate per aria.

Non è solo una faccenda di numeri, cioè di voti. E’ anche una questione di un potere contrattuale ormai evidentemente sbilanciato. La Lega ha preteso e ottenuto due Regioni, il Veneto e il Piemonte. Ha vinto in tutte e due, e sono due vittorie pesantissime. In Veneto Zaia ha scalzato un uomo del Pdl; in Piemonte Cota ha portato al centro destra una regione che era del centro sinistra, e che pareva molto difficilmente espugnabile. Resta la Lombardia, dove ha vinto come al solito Formigoni. E Formigoni è del Pdl. Ma può essere definito un uomo di Berlusconi? Onestamente no. Formigoni ha una storia politica e culturale che affonda in altre radici, precedenti alla «discesa in campo» del Cavaliere. Ha tutto un mondo suo. Certo non vincerebbe se corresse da solo, ma insomma: nel profondo è qualcosa di «altro» rispetto al Pdl. Ecco perché la Lega dopo il voto si sente molto più forte di quanto dicano le semplici percentuali.

Certo in politica tutto può cambiare. Ma adesso la sensazione è che, al Nord, il futuro del centro destra sia tinto soprattutto di verde, non di azzurro. La Lega è più strutturata come partito, ha più contatto con il popolo, parla un linguaggio più diretto. Soprattutto ha un progetto politico per il Nord che va oltre il carisma del suo leader, e che quindi è destinato a sopravvivergli: cosa che non si può dire del Pdl.

Ecco perché la questione posta da Fini è reale. Ed ecco perché nel Pdl del Nord - sotto sotto - non sono solo i finiani a essere preoccupati.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Agosto 13, 2010, 03:57:08 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 13, 2010, 10:08:29 am »

13/7/2010

C'è bisogno della forza di indignarsi
   
MICHELE BRAMBILLA

Sarebbe interessante un sondaggio sull’ultimo «scandalo» che vede il ritorno dei vecchi coscritti della P2 e il coinvolgimento, fra gli altri, di uno dei coordinatori del Pdl, Denis Verdini. È probabile, anzi quasi certo, che la stragrande maggioranza degli interpellati dichiarerebbe di non saperne nulla. Chiunque di noi può sincerarsene organizzando un mini-sondaggio fai da te. Provate a parlarne a tavola o al bar con un gruppo di conoscenti: persone di buona istruzione, anche lettori abituali di giornali, vi guarderebbero sbarrando gli occhi come per chiedervi «Verdini chi?».

È che ormai nessuno scandalo fa più veramente scandalo. Bisognerebbe modificare la stessa definizione del termine che ne dà il vocabolario: da «evento o incidente che provoca una vivace reazione nell’opinione pubblica» a «fatto ordinario registrato dai media come le previsioni del tempo e serenamente accettato dai lettori».

A beneficio di questa stragrande maggioranza di connazionali che comprensibilmente non sa neppure di che cosa stiamo parlando, proviamo a fornire una sintesi dei fatti. A Roma c’è un’inchiesta della magistratura su una presunta associazione segreta che avrebbe cercato di condizionare le istituzioni.

Ad esempio, influenzando la nomina di importanti giudici e quindi tutta una serie di sentenze; e promuovendo o stroncando, a seconda dei casi, le carriere di uomini politici. Secondo l’accusa ci sarebbero state, a casa di Denis Verdini, alcune cene durante le quali un gruppo di persone avrebbe ad esempio: 1) cercato (senza riuscirci) di influire sui giudici della Corte Costituzionale per far passare il lodo Alfano, cioè la sospensione dei processi penali per le alte cariche dello Stato; 2) deciso (riuscendovi) il nome del nuovo presidente della Corte d’appello di Milano; 3) attivato una strategia per screditare il candidato del Pdl alla presidenza della Regione Campania Stefano Caldoro, facendolo passare per un frequentatore di transessuali, e così rendendo un servigio a un altro esponente del Pdl, Nicola Cosentino, impresentabile alle elezioni in quanto accusato di rapporti con la camorra; 4) fatto pressioni sulla Corte di Cassazione affinché accogliesse il ricorso dello stesso Cosentino contro la richiesta di arresto della Procura di Napoli.

In questa inchiesta sono indagati appunto Verdini, Cosentino e il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. Altre persone sono addirittura state arrestate e tra costoro c’è un nome che è sicuramente sconosciuto ai più giovani, ma che è in grado di far sobbalzare sulla sedia i meno giovani con un meravigliato «ma come, è ancora vivo?». Si tratta di Flavio Carboni, che nelle cronache dei primi Anni Ottanta veniva presentato come «il faccendiere Carboni», e che era una delle anime nere della loggia massonica P2 di Licio Gelli (tra un po’, vedrete, rispunterà fuori anche lui: l’Italia è il Paese dei «rieccoli»).

È ovvio che siamo ancora ai preliminari e che nessun giudizio può essere azzardato. Tuttavia alcuni fatti sono innegabili. Intanto, Carboni ha nel cursus honorum una condanna a otto anni per la bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano, un crac che rovinò decine di migliaia di famiglie: eppure è ancora in giro, fa riunioni con il coordinatore del partito di maggioranza e si occupa, come ha detto lui stesso, «di affari di Stato, di operazioni che riguardano lo Stato». Secondo, nella storia del trappolone a Caldoro qualche cosa di vero ci deve essere, visto che l’assessore regionale campano Ernesto Sica, indicato come uno degli attori del complotto, l’altro ieri si è dimesso. Eppure Nicola Cosentino, nonostante questa vicenda, e nonostante la precedente inchiesta per camorra, resta tranquillamente sottosegretario all’economia e coordinatore del Pdl campano. Non si è dimesso, come non si è dimesso Verdini e come non si è dimesso da senatore Marcello Dell’Utri, recentemente condannato in appello a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Come non si dimette quasi nessuno.

E questo accade proprio perché, come dicevamo all’inizio, tutto ormai scivola via, viene ingoiato nella normalità. Seguiamo poco, ci disinteressiamo. Un po’ per assuefazione, per noia. Ma un po’ anche perché, purtroppo, è cambiato - e molto - il comune senso della morale. Proviamo a immaginare che cosa sarebbe successo se un importante uomo politico, trenta o quaranta anni fa, fosse stato condannato per mafia e anche avesse solo partecipato a equivoci festini. Forse allora eravamo bacchettoni e ipocriti, ma l’ipocrisia è anche l’omaggio che il vizio rende alla virtù: nascondevamo le nostre malefatte perché sapevamo che c’era di che vergognarsi. Era l’Italia in cui finire sul bollettino dei protesti o più semplicemente andare in rosso in banca era un disonore: oggi, un rinvio a giudizio è una medaglia al valore. Ai politici perdoniamo molto perché molto abbiamo da farci perdonare.

Non stiamo facendo un elogio del professionista dell’indignazione: spesso l’indignato è colui che si indigna solo per i peccati altrui. Ma oggi il rischio è l’indifferenza, quando non la complice acquiescenza. Ed è questo che ci spaventa.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7585&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 13, 2010, 03:57:40 pm »

13/8/2010

C'è peccato e peccato
   
MICHELE BRAMBILLA

Che ne è dell’inchiesta su Verdini? E di quella sulla P3? E Cosentino, l’ex sottosegretario sul quale pende un mandato d’arresto, e che continua a guidare il Pdl in Campania?

E che fine ha fatto Brancher, nominato ministro per cercare di sfuggire, grazie al legittimo impedimento, a un processo nel quale è poi stato condannato? E il ministero lasciato libero dal dimissionario, o meglio dimissionato Scajola, e ancora vacante? E il senatore Dell’Utri, condannato in appello a sette anni per concorso in associazione mafiosa e ancora ben ancorato al suo seggio in Senato?

Erano questi i temi che fino a pochi giorni fa occupavano le prime pagine dei giornali. Tutto svanito, tutto evaporato, tutto cancellato dall’inchiesta sulla casa di Montecarlo lasciata in eredità ad An e finita in affitto al fratello della compagna di Fini. Sembra che l’intera «questione morale» ora sia ridotta solo a questo, solo alla casa di Montecarlo e alle presunte responsabilità di Fini.

Intendiamoci bene. Non è in discussione l’importanza della vicenda Fini-Tulliani. Anzi. «Il Giornale», sollevandola, ha dato una notizia; di più, ha fatto uno scoop, e quindi tanto di cappello. Quanto a Fini, ha davvero il dovere di chiarire fino in fondo ciò che non è stato ancora chiarito: anche prendendo per buona la sua autodifesa, resta da accertare chi ci sia dietro la misteriosa finanziaria che ha acquistato l’immobile. Il punto è un altro. È che c’è da chiedersi che razza di clima sia un clima in cui la politica vien fatta ormai esclusivamente a colpi di dossier sui peccati altrui; e un clima - quel che è peggio - in cui chiodo scaccia chiodo, e quindi ha dignità di attenzione soltanto l’ultimo, in ordine cronologico, degli scandali sollevati. Nei giorni scorsi Giuliano Ferrara ha scritto una riflessione interessante su dove ci sta conducendo questa politica del fango nel ventilatore. Ci permettiamo di aggiungerne qualche parola.

Il primo degli effetti perversi di questa politica (e di questa informazione) fatta di accuse e controaccuse, è appunto che sbandierando uno scandalo si ottiene l’effetto di cancellare i precedenti. Ma il secondo, forse finora sottovalutato, riguarda l’ancor più perverso risultato di attribuire a ciascuna vicenda un valore equivalente a tutte le altre. Così, a chi contesta una condanna in appello per mafia, o un procedimento per camorra, o pressioni per condizionare gli incarichi di magistrati, si risponde che un altro ha forse favorito un cognato nell’acquisto di una casa, e tutto si azzera. E a chi ad esempio parla di una casa editrice che ha cambiato proprietà perché alcuni giudici sono stati corrotti (c’è una sentenza passata in giudicato che lo stabilisce) si replica di tacere perché il cognato di Fini gira con una Ferrari e ha uno polo griffata Ralph Lauren. Ripetiamo: non stiamo prendendo le difese di Fini, ma la domanda posta l’altro giorno da alcuni suoi uomini («Se deve dimettersi Fini, che peraltro non è ancora formalmente inquisito, perché non dovrebbe dimettersi Berlusconi con tutti i procedimenti che ha avuto e che ha tuttora?») non è priva di logica.

A uno scandalo si risponde contrapponendo un altro scandalo, vero o presunto. Dell’avversario non si risparmia alcun aspetto della vita, quella privata compresa. Coloro che, al tempo della questione Noemi-D’Addario, dicevano che non si mette il naso sotto le lenzuola altrui, sono gli stessi che hanno invocato e ottenuto le dimissioni di Marrazzo e del sindaco di Bologna Delbono, finiti nell’occhio del ciclone essi pure per storie di sesso; e hanno mandato all’ergastolo civile l’ex direttore di «Avvenire» Dino Boffo per un patteggiamento per molestie telefoniche. Che cosa c’entrasse poi Boffo nello scontro politico attuale, ogni persona dotata di un mimino di onestà intellettuale lo sa: zero.

«Moralista» è l’aggettivo-scomunica con cui si riduce al silenzio chiunque osi sollevare una questione morale. Il principio è che siamo tutti peccatori (c’è sempre qualche commentatore col turibolo che cerca di dare dignità cristiana a questo giochetto) e quindi nessuno può impartire lezioni, né chiedere chiarimenti, a chicchessia. Ora, non c’è dubbio che siamo tutti bisognosi di essere perdonati per qualcosa, non esistendo per alcuno l’impeccabilità. Ma l’imbroglio è appunto quello di equiparare ogni «peccato», di silenziare chi ti contesta una corruzione ricordandogli la sua multa per sosta vietata.

Questa battaglia contro i «moralisti» ha lo scopo neanche troppo recondito di cercare un’autoassoluzione, di portare a un «tutti colpevoli quindi tutti (anzi, noi) innocenti», di mettere ogni cosa sullo stesso piano, di confondere le pagliuzze con le travi. E il guaio è che molti italiani ormai si sono assuefatti, e a simili incantatori hanno finito per credere.

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« Risposta #4 inserito:: Agosto 24, 2010, 11:11:10 am »

24/8/2010

Ma prima va rispettata la legge
   
MICHELE BRAMBILLA

Quando si comincia a parlare di espulsioni di rom, come ha fatto il nostro ministro degli Interni e come stanno facendo in Francia, è inevitabile che tornino subito in mente immagini fra le più sinistre di quel macabro film che per certi versi è stato il Novecento. Viene in mente persino quella celebre poesia di Bertolt Brecht: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti. E io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».

Anche se erano altri tempi e altri regimi, non c’è dubbio che già il termine «espulsioni» suoni macabro. In Italia si discute ormai da anni se siamo un popolo razzista oppure no, ed è una discussione destinata a finire in un vicolo cieco perché essa pure viziata da quella specie di bipolarismo culturale per cui la risposta esatta deve per forza e immancabilmente essere o tutta da una parte oppure tutta dall’altra, mentre invece non sempre è così, anzi quasi mai è così. E quindi anche per la domanda ricorrente «siamo razzisti oppure no?» l’unica vera risposta esatta è che non si può generalizzare né in un senso né nell’altro: esiste in Italia un solidarismo che ha radici culturali e religiose profonde, ma esiste anche una mai superata paura dell’altro, sia esso straniero o anche soltanto cittadino del comune accanto.

La xenofobia c’è, insomma: inutile negarlo. C’è, e non solo nei confronti degli zingari. Sottovalutare questo aspetto è un errore, così come è un errore non capire che la storia dell’umanità è fatta di migrazioni e di meticciati, e che la «contaminazione» s’è sempre rivelata alla fine un arricchimento e non una perdita.

Ma, detto tutto questo, sarebbe un errore speculare e non meno dannoso pensare che quel che sta accadendo in Francia - e che Maroni vorrebbe replicare in Italia - sia solo il frutto di un’anacronistica «difesa dell’identità» o peggio di vecchi pregiudizi contro gli zingari. C’è anche e innanzitutto, invece, un problema di legalità. Perché «innanzitutto»? Perché all’origine di tante fiaccolate anti-rom, all’origine di tanta paura e spesso di tanta avversione c’è innanzitutto la percezione di una minaccia alla propria sicurezza. Certo che non tutti i rom «rubacchiano», per usare le parole di Brecht: ma spesso succede che i loro campi abusivi tolgano la tranquillità a interi quartieri. E attenzione: si tratta di quartieri popolari, spesso di povera gente. Si fa in fretta a dirsi tolleranti quando si abita nelle isole pedonali.

Ma non è solo un problema di paura di essere derubati. C’è anche - ripetiamo: soprattutto in chi abita nelle periferie - la sensazione di essere addirittura, come dire, più poveri dei nuovi poveri. La Commissione europea ha fatto benissimo a richiamare Italia e Francia. Tuttavia la stessa Commissione ricorda che il cittadino comunitario immigrato - qual è un rom - deve avere mezzi di sostentamento propri, non deve pesare sul sistema di sicurezza sociale, deve avere un’assicurazione sanitaria e non deve costituire un pericolo per la pubblica sicurezza. Sono i quattro criteri-cardine: ma se questi criteri non vengono rispettati, di fatto non c’è possibilità di espulsione. È anche questa contraddizione che fa percepire a molti italiani una sorta di disparità di trattamento.

Se insomma è vero che il razzismo e la xenofobia esistono, è anche vero che a volte prima di gridare al razzismo e alla xenofobia bisognerebbe pensare che sono sensazioni più banali e materiali a motivare tante paure. A partire da comportamenti minimi: a New York oggi, dopo le leggi sulla «tolleranza zero», è impensabile immaginare che ci sia chi blocca il traffico per cercare di lavare i vetri e abbia atteggiamenti minacciosi con chi non paga a sufficienza; e gli Stati Uniti sono un Paese che ha una tradizione di accoglienza antica e radicata. L’Italia è invece uno strano luogo, dove si vorrebbe usare il pugno di ferro con le espulsioni ma non si riesce a garantire neppure la legalità nella vita ordinaria. Di questo il primo responsabile è ovviamente chi ha attualmente la responsabilità dell’ordine pubblico: il centrodestra ha fatto della sicurezza una delle sue bandiere in campagna elettorale e ora non può pretendere che sia Bruxelles a garantire la sicurezza nelle città. Ma non meno responsabile è chi ha fatto e continua a fare demagogia, urlando al razzismo anche quando il razzismo non c’entra nulla, e agitando il fantasma di Hitler quando basterebbe agitare l’immagine, ad esempio, di uno Zapatero, tanto celebrato a sinistra ma tutt’altro che più morbido, in materia di immigrazione e sicurezza, di un Maroni.

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« Risposta #5 inserito:: Settembre 07, 2010, 12:31:16 pm »

7/9/2010

Quei "pezzi" che perde il Cavaliere
   
MICHELE BRAMBILLA

È azzardato cercare qualche punto in comune fra il botto che ha provocato Gianfranco Fini e quello che ha ottenuto il nuovo tg di Enrico Mentana? Forse no. E vediamo di capire perché.

Fino a qualche tempo fa i due appartenevano in qualche modo all’universo berlusconiano. Il primo, dopo una vita passata in quell’angolo in cui era relegato il neofascismo italiano, fu sdoganato nel 1993 con una battuta che è il vero esordio politico di Berlusconi («Se fossi un cittadino romano voterei Fini sindaco»). Dopo di che, per sedici anni Fini è stato per il Cavaliere un alleato fedele: per certi versi ancora più fedele di Bossi, visto che mai si è presentato alle politiche da solo (a differenza della Lega); e visto che meno di tre anni fa ha accettato di sciogliere il suo partito, An, per fondersi con Forza Italia.

Il secondo, Mentana, dei giornalisti delle aziende di famiglia non è mai stato uno dei più zelanti adulatori del capo: ma neppure si può dire che sia stato frondista, o men che meno infedele. Dal nulla, ha fatto del Tg5 un grande tg, regalando alla macchina mediatica di Berlusconi un formidabile strumento.

Adesso tutti e due se ne sono andati. Un po’ se ne sono andati e un po’ sono stati cacciati, mettetela come volete. In ogni caso, sono due «pezzi» importanti che il Cavaliere ha perso. Come è potuto succedere?

I berlusconiani più fedeli non hanno dubbi. Per loro la spiegazione è semplice: Fini è un ingrato e un traditore che se n’è andato in cerca di gloria personale; e Mentana è sempre stato, in realtà, «uno di sinistra».

Naturalmente ogni opinione è lecita. Ma come non riflettere su quanti «pezzi» ha ormai già perso il Cavaliere? Nessuno dimentica quella vecchia foto in cui sul palco della Casa delle Libertà Berlusconi era a fianco di Fini e Casini; ora è rimasto solo. Fini e Casini se ne sono andati, così come anni prima se n’era andato Montanelli prima ancora di cominciare, e così come poi se ne sono andati i professori arruolati per dare spessore e programma a Forza Italia, e così come appunto se n’è andato Mentana. Anche Giuliano Ferrara e forse Gianni Letta sono meno ascoltati di un tempo. Contemporaneamente sembrano essere andate via via ingrossandosi le file di consiglieri, collaboratori e parlamentari, insomma di tutta una schiera di fedelissimi che senza offesa non paiono dotati né di autonomia, né di grande acume, quasi a conferma di quel sempre ricorrente vizio che a un certo punto prende molti uomini di successo: il vizio di circondarsi di figure nelle quali l’accondiscendenza conta più del talento. In parallelo, sono diventati più schierati e soprattutto più aggressivi i media che in qualche misura sono riconducibili al premier.

Dire che chi se n’è andato è un traditore, sedotto dalla sinistra, è una risposta ricorrente nel mondo berlusconiano. Ma a parte il fatto che se così fosse si tratterebbe di un singolare caso di salita sul carro degli sconfitti, non è mai diventato di sinistra Montanelli, non lo sono diventati i «professori», non s’è alleato con la sinistra Casini. E nonostante certe battute, con la sinistra non passa Fini, che anzi a Mirabello ha rispolverato icone e citazioni da vecchio Msi. E non fa certo un tg di sinistra, a La7, Enrico Mentana.

Tanti abbandoni sono piuttosto il sintomo, forse, della delusione di tutto un mondo moderato che comincia a considerare non mantenuta quella promessa di «rivoluzione liberale» (meno tasse, Stato più leggero eccetera) e che comincia a essere stufo di un’informazione e una politica fondate più sullo scontro e sulle contumelie che sui contenuti. Sarebbe un grave errore pensare che quelli di Fini e di Mentana siano solo casi di una personale revanche. Il successo che i due stanno ottenendo in questi giorni (nonostante certe battute su «percentuali da prefisso telefonico», i sondaggi danno Futuro e Libertà attorno al sei per cento; e Mentana ha portato il Tg di La7 dal 2,5 al 10 per cento di ascolti) ci dicono invece che c’è un popolo che non ci sta più al gioco dell’«o di qua o di là», e che vorrebbe qualcosa di nuovo dalla politica e dall’informazione. Ci dicono, insomma, che forse qualcosa sta cambiando davvero.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7793&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 20, 2010, 09:40:43 am »

20/9/2010

Le maschere della crisi
   
MICHELE BRAMBILLA

È probabile che «l’inconfutabile dato» sull’aumento dei furti nei supermercati sarà già da questa mattina oggetto del dibattito politico. Ciascuno sosterrà che siamo di fronte a una prova evidente dell’impoverimento degli italiani. Ma quanto alla ricerca della causa ci sarà un serrato ed elevato confronto: i tremontiani diranno che tutto dipende dalla recessione globale.

I brunettiani dalla mancata riduzione delle tasse, l’opposizione dirà che è una vergogna che non sia ancora stato sostituito il ministro delle attività produttive e che comunque è sempre e solo colpa di Berlusconi (ma Veltroni dirà che anche Bersani ci ha messo del suo), i leghisti se la prenderanno con Roma ladrona e qualcun altro con la coppia Fini-Tulliani. Quel che nessuno metterà in discussione è il dato di partenza: e cioè che i furti nei supermercati sono aumentati perché c’è la crisi e siamo tutti più poveri. Così il Barnum mediatico ha infatti immediatamente presentato la notizia. Al primo lancio d’agenzia già alla seconda riga si dava per scontato che siamo diventati mariuoli per necessità, ladri di biciclette come negli anni del neorealismo. Leggo testualmente: «Il furto costa caro ai supermercati italiani, ancor di più in tempo di crisi economica… A pesare sull’aumento dei furti è stata la recessione». Ma come no: d’altra parte l’indagine è stata fatta da alcuni «retailer» e c’è anche il parere di un «chairman marketing» che ci ha spiegato l’importanza della «loss prevention».

Andando a caccia di qualche residuo vocabolo italiano leggo tuttavia nelle ultime righe, buttato lì come ininfluente dettaglio, che gli articoli andati più a ruba (in senso letterale) sono «capi di abbigliamento, soprattutto firmati e accessori, e cosmetici». Un’altra agenzia parla di «soprattutto profumi, bottiglie di liquore, parmigiano e salumi vari, ma anche materiale elettronico». Prodotti non propriamente indispensabili per il sostentamento. Fanno eccezione il parmigiamo e i salumi ma, visto l’andazzo, non è da escludere che siano stati razziati per l’happy hour. Resisto alla tentazione di essere altrettanto facilone di chi sostiene l’equazione «aumento dei furti uguale crisi e povertà» sostenendo che, viceversa, questi dati testimoniano ancora una volta la cialtronaggine di noi italiani. Mi permetto invece di chiedere quale sia l’attendibilità delle indagini che ci vengono proposte ogni giorno. Solo ieri, ad esempio, abbiamo scoperto che esiste un «Barometro mondiale dei furti»; ed è singolare che a un’ora dall’annuncio del suo studio se ne sia materializzato sul computer un altro identico, eseguito dal mitico «Osservatorio di Milano».

Qualche giorno fa uno studio ci ha documentato come noi italiani, in tempo di crisi, ci siamo rimboccati le maniche e siamo tornati a fare i lavori più umili, togliendoli agli immigrati; ora parrebbe invece che neanche in crisi rinunciamo alla polo griffata e alla crema antirughe. Chi ha ragione? Chissà. Del resto anche istituti grandi e seri si contraddicono spesso, spiegandoci un giorno che siamo fuori dal tunnel e il giorno dopo che siamo alla canna del gas. Ci vorrebbe insomma una bella indagine sull’inaffidabilità delle indagini. Che magari arriverebbe alla conclusione che tanta confusione è, in fondo, colpa della recessione.

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« Risposta #7 inserito:: Settembre 23, 2010, 05:01:04 pm »

23/9/2010

Il governo è salvo l'Italia no
   
MICHELE BRAMBILLA

A prima vista la notizia del «no» all’utilizzo delle intercettazioni telefoniche che riguardano l’ex sottosegretario Cosentino sembra una buona notizia. Se fosse passato il «sì» il governo sarebbe entrato in agonia, per tirare le cuoia da qui ad - al massimo - un mese. Sarebbero stati ben pochi a rallegrarsene davvero. Sicuramente la Lega e Di Pietro, che alle urne ne avrebbero tratto profitto: ma proprio quel profitto avrebbe reso il Paese ancora più ingovernabile di quanto non sia già. Chiunque abbia a cuore non il proprio interesse particolare, ma quello generale, sa che mai come ora, malmessi come siamo, abbiamo bisogno di un governo. Anche il presidente Napolitano, una delle poche figure davvero di garanzia, s’è augurato che l’esecutivo tenga, perché il momento non è tale da poter permettere salti nel buio.

No sarà eccezionale, questo governo: ma come diceva Caterina II di Russia è meglio uno Stato con cattive leggi applicate che uno con buone leggi non applicate. Tuttavia lo spettacolo offerto ieri alla Camera è stato talmente desolante, anzi mortificante, da far svanire in un battibaleno il sospiro di sollievo provato per la «tenuta» del governo.

Primo. La maggioranza ha esultato perché è rimasta maggioranza anche senza i finiani. La soddisfazione è comprensibile. Ma su quale fondamentale tema è rimasta maggioranza? Su una riforma del fisco? Su un provvedimento per far ripartire le imprese? Su un intervento contro la disoccupazione? Niente di tutto questo (che poi è quello che servirebbe al Paese): la Camera ha detto, a maggioranza, che la magistratura non può utilizzare le intercettazioni che riguardano un parlamentare sul quale pende un mandato di arresto per camorra.

E’ perfino superfluo precisare che il parlamentare in questione, Nicola Cosentino, può benissimo essere innocente: anzi lo è finché non si dimostri il contrario. Ma per dimostrarlo occorrerebbero delle indagini, e la politica ieri ha detto che su un politico non si può indagare. Rinverdendo una tradizione che ci eravamo illusi fosse ormai sepolta, la nostra classe politica ha deciso di autogiudicarsi e, naturalmente, di autoassolversi. Si esulti pure, insomma, ma si abbia il buon gusto di farlo di nascosto.

Secondo. L’altro spettacolo mortificante di ieri riguarda il tormentone dell’ormai celeberrima casa di Montecarlo. Sui giornali è finita una lettera nella quale un ministro dell’isola di Santa Lucia, un paradiso fiscale delle Antille, dice al suo premier che il vero proprietario dell’immobile è proprio Giancarlo Tulliani, il cognato di Fini. In sintesi: se fosse vera, la lettera sarebbe la prova che la casa – lasciata in eredità ad An – è stata venduta a un prezzo stracciato a un familiare di Fini.

Questi ha reagito dicendo che quel documento è «un falso, talmente fatto bene da pensare che dietro ci siano i servizi». I suoi fedelissimi hanno rincarato la dose. Carmelo Briguglio ha formalmente chiesto che «il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica assuma una decisa iniziativa in relazione alla pubblicazione di atti di dubbia autenticità, se non addirittura falsi». I finiani parlano di «vergognoso dossieraggio contro la terza carica dello Stato». E perlomeno complice del dossieraggio sarebbe «il quotidiano di famiglia del presidente del Consiglio», cioè il Giornale, impegnato in una «incessante campagna scandalistica ai danni del presidente di un ramo del Parlamento».

E’ chiaro che i casi sono due. O l’Italia è un Paese in cui il premier usa i servizi segreti per far fuori il presidente della Camera; oppure è un Paese in cui il presidente della Camera lancia accuse gravissime senza dimostrarne la fondatezza. Nel primo caso sarebbe un letamaio; nel secondo un manicomio. Anche perché il dubbio non sembra difficile da sciogliere: basterebbe chiedere al governo di Santa Lucia se quel documento è autentico oppure no. E magari non sarebbe male neppure se Fini e suo cognato ci dicessero finalmente a chi hanno venduto quella benedetta, anzi maledetta casa. Insomma dopo la giornata di ieri il governo è salvo, e il Parlamento pure. Ma che ci sia davvero di che rallegrarsene, beh, questa è una domanda che viene spontanea. Com’è spontaneo chiedersi in che mani siamo.

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« Risposta #8 inserito:: Settembre 28, 2010, 12:02:22 pm »

28/9/2010

La Lega sente aria di elezioni

MICHELE BRAMBILLA

La battutaccia di ieri di Umberto Bossi sui «romani porci» non stupisce più di tanto: si inserisce in un’ormai più che consolidata tradizione di linguaggio da caserma, anzi da lupanare. Del resto il leader della Lega (che tra le altre cose è anche un ministro della Repubblica) già in passato ci aveva spiegato che cosa si puliva con il tricolore, aveva già urlato a Casini dove glielo aveva messo Berlusconi (aprile 2008), aveva già mostrato il dito medio, fatto pernacchie, e via con questi tocchi di classe. Nella sua ormai lunga carriera non ha risparmiato nessuno: nemmeno Berlusconi, al quale ha dato del «Goebbels» (24 gennaio 1995) e del «mafioso» (15 settembre 1995), tanto che il Cavaliere in più di un’occasione si era sentito in dovere di reagire: «Bossi quando parla sembra un ubriaco al bar»; «Bossi è un disastro, una mente contorta e dissociata, un incidente della democrazia italiana, uno sfasciacarrozze con il quale non mi siederò mai più allo stesso tavolo». Perfino il professor Gianfranco Miglio, al quale oggi un sindaco leghista ha intitolato una scuola, aveva espresso un giudizio non esattamente lusinghiero.

Si era espresso così: «Bossi è un incolto, buffone, arrogante, isterico, arabo levantino mentitore, se mi si ripresenta lo caccio a pedate nel sedere» (18 maggio 1994).

Il lettore ci perdoni tante squallide citazioni, ma questo è il livello, ormai da troppi anni, del dibattito politico in Italia. Vogliamo dire che da un certo punto di vista le esternazioni di Bossi a Lazzate, in Brianza, rientrano in una desolante routine. Chi ha occasione di seguire i suoi comizi - e soprattutto i suoi dopo-comizi - sa bene che Bossi è così: quando è con «la sua gente» non rinuncia al cabaret, e neppure al trivio e qualche volta alla dichiarazione di guerra. Tutto viene ammorbidito da un clima da strapaese, e quindi minimizzato, infine lasciato perdere nelle cronache da noi giornalisti, che quasi sempre ci limitiamo a riportare le dichiarazioni che ci paiono di spessore politico, nella convinzione che dobbiamo attenerci alla realtà ufficiale, mentre forse sarebbe più istruttivo per i lettori descrivere la realtà per quella che è, tutta intera, cabaret compreso.

Passa l’idea che tutto vada ricondotto al folclore leghista. E anche allo spirito giocherellone di Bossi, il quale soprattutto dopo la malattia è diventato meno aspro e più spiritoso, può apparire anche simpatico quando ad esempio dice che a Roma al massimo si può far la corsa delle bighe, e non delle automobili. Diciamola tutta, altrimenti è ipocrisia: molti dicono pure che Bossi è un po’ «andato».

Ma non è così. Da dopo la malattia, Bossi è sicuramente blindato da un gruppo di fedelissimi che lo tengono sotto scorta, che cercano di evitargli strapazzi ma anche esternazioni fuori controllo (da quanto tempo Bossi non rilascia più un’intervista?), insomma è particolarmente accudito e protetto. Ma è tutt’altro che «andato». La sua intelligenza politica, o se preferite la sua astuzia, è intatta: e quando Bossi dice qualcosa destinata a far rumore è perché vuole che si faccia rumore, e che quel rumore produca un risultato.

Senza voler far dietrologia, crediamo sia perlomeno lecito avanzare il sospetto che il «sono porci questi romani» di ieri non sia dovuto a qualche bicchiere di troppo, come hanno ipotizzato per minimizzare alcuni del centrodestra, ma sia piuttosto un sasso in piccionaia per agitare gli animi dei suoi. Dotato di fiuto come pochi altri, Bossi ha capito che nel centrodestra non c’è tregua che tenga, e che le elezioni anticipate sono inevitabili. E così ha cominciato a scaldare i motori, o meglio il suo elettorato, sapendo bene che per scaldarlo non c’è niente di meglio che riesumare il nemico di sempre: Roma. Contro Roma ladrona aveva cominciato la sua battaglia, contro Roma la riprende sempre ogni qual volta si avvicinano le urne. Intanto a Roma è al governo e gestisce ministeri chiave. E non si astiene né quando c’è da votare per Roma capitale, né ci sono da salvare Caliendo e Cosentino dalla giustizia.

È solo un’ipotesi, e forse qualcuno dirà che il bicchiere di troppo lo abbiamo bevuto noi. Ma snobbare le sparate di Bossi, ridurle a espressione di ignoranza e maleducazione, è un atteggiamento che per troppo tempo ha portato a una sottovalutazione delle mosse della Lega e dei loro effetti politici.

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« Risposta #9 inserito:: Ottobre 02, 2010, 05:23:57 pm »

2/10/2010

Le nuove radici dell'odio

MICHELE BRAMBILLA


E’ naturale che l’agguato a Belpietro susciti – oltre che solidarietà incondizionata per la vittima – una domanda: stiamo vivendo tempi simili a quelli che prepararono i maledetti Anni Settanta?

Molti osservano che le modalità del fallito attentato sono talmente (e fortunatamente) maldestre da marcare una netta diversità con la tragica efficienza delle Brigate Rosse. E’ un’osservazione che porterebbe a tranquillizzarci e a minimizzare l’allarme.

Ma è un’osservazione sbagliata. Anche i primi brigatisti erano goffi artigiani del terrore. Cominciarono a incendiare qualche auto nei garage, poi disseppellirono vecchi fucili dei partigiani, quindi passarono a qualche sequestro “dimostrativo” che si concludeva, dopo qualche ora, con il rilascio dell’ostaggio. Poi però ci fu il salto di qualità. E quando si cominciò a uccidere, si cominciò a farlo senza la “geometrica potenza” (terribile espressione) dispiegata in via Fani. Chi sottolinea l’imperizia dimostrata dall’oscuro attentatore del direttore di Libero forse non sa, oppure dimentica, che all’inizio degli Anni Settanta ci fu un episodio del tutto simile: un estremista di Lotta Continua (che pure era cosa ben diversa dalle Brigate Rosse) venne bloccato con un revolver in mano sulle scale del condominio in cui abitava il deputato missino Franco Servello.

I motivi di preoccupazione quindi ci sono tutti, anche perché l’episodio dell’altra sera segue ad altri fatti gravi. Il fumogeno lanciato contro Bonanni e la statuetta scagliata in faccia al presidente del Consiglio, tanto per dire i primi due che vengono in mente: fatti che avrebbero potuto anche avere conseguenze peggiori. Ma poi: per convincersi che non c’è dubbio che si stia vivendo un brutto clima, basterebbe riflettere sul fatto che i direttori di giornali (e non solo quelli di destra) sono costretti a girare con la scorta. In quale altro Paese europeo, in questo momento, i direttori di giornali debbono guardarsi le spalle quando portano a scuola i figli?

Tutte queste considerazioni inducono quindi a pensare che il rischio di un ritorno agli Anni Settanta c’è. La storia però non si ripete mai uguale, e quindi vanno sottolineate almeno due differenze fondamentali. La prima è che i cosiddetti anni di piombo appartenevano a un’epoca in cui lo scontro ideologico era fortissimo e non solo in Italia. Il mondo figlio del dopoguerra era spaccato in due: da una parte il blocco occidentale, dall’altro quello comunista. Il comunismo è stato all’inizio del Novecento il sogno e la speranza per milioni di persone: ma quel sogno, laddove si era realizzato, si era trasformato in una dittatura. Una parte dell’umanità il comunismo lo subiva, e avrebbe fatto di tutto per liberarsene; ma un’altra parte l’avrebbe voluto importare dove c’era la democrazia. Qualcuno per via elettorale; ma qualcun altro per via rivoluzionaria. Stiamo parlando di un «qualcun altro» che era fortunatamente una minoranza: ma una minoranza agguerrita che - è scomodo ricordarlo, ma è così - poté godere per molti anni di un sotterraneo consenso nelle fabbriche e soprattutto della vile compiacenza di tanto milieu intellettuale.

Così nacque il terrorismo di estrema sinistra degli Anni Settanta: per inseguire il folle progetto di una rivoluzione proletaria armata. Il terrorismo di estrema destra nacque per reazione al «pericolo rosso»: quello delle Br, ma prima ancora anche quello di una vittoria per via elettorale. Questo terrorismo «nero» si nutrì di una varia umanità: esaltati neonazisti, nostalgici fascisti, generali golpisti, uomini dei servizi segreti in combutta con i bombaroli. Il risultato fu la guerra che ahimè ricordiamo ancora.

Tutto questo è uno scenario oggi riproponibile? Lo escluderemmo. Le ideologie che divisero così duramente il mondo sono per fortuna morte e sepolte.

L’altra differenza è che negli Anni Settanta i toni accesi, le cronache mistificatorie e le campagne di odio venivano scatenate principalmente da una sola parte dei media, e cioè da quelli di estrema sinistra e da quei molti «borghesi» che a un simile andazzo si accodarono nella meschina speranza di potersi appuntare sul petto - a rivoluzione proletaria compiuta - qualche medaglia da militante antemarcia. Oggi l’insulto, la delegittimazione dell’avversario, la scelta sistematica di un «nemico» da offrire in pasto ai lettori, insomma il killeraggio mediatico è purtroppo ampiamente trasversale. Si dimentica, o si finge di dimenticare, che il quinto comandamento («Non uccidere») include pure la calunnia, perché si uccide anche con le menzogne, magari sulla vita privata o sulle personali inclinazioni sessuali.

Insomma ecco in che cosa è simile, il nostro tempo, agli Anni Settanta: nel rischio reale che qualche testa calda traduca in piombo il veleno. Ed ecco in che cosa è invece profondamente diverso: nel fatto che certi toni un tempo riservati ai fogli estremistici ormai sono i toni consueti del dibattito politico e giornalistico. Passate le grandi ideologie, le nuove radici dell’odio stanno in una guerra tra interessi di parte combattuta senza più un minimo di rispetto né per la verità né per le persone. Così l’Italia è ripiombata in un clima che gli altri Paesi occidentali hanno consegnato da un pezzo alla storia.

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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 29, 2010, 11:32:35 am »

29/10/2010

La spazzatura della classe dirigente

MICHELE BRAMBILLA

Quando uno dei suoi giornalisti si accingeva a scrivere un editoriale, Montanelli lo istruiva così: «Se il tuo soggetto è una persona, scrivi che è un incapace; se è un Paese, scrivi che è un Paese allo sbando. Parlare male è sempre più efficace che parlare bene».
Tornasse in vita - e magari ci tornasse: avrebbe di che divertirsi, e di far divertire noi - il grande Indro non avrebbe bisogno di ripetere quei suggerimenti, tanto la realtà ha superato, e da un pezzo, ogni più tragicomica immaginazione.

Non occorre neppure far ricorso alla satira per mettere alla berlina la nostra classe dirigente: basta ahimè la cronaca.
Proviamo a sfogliare a ritroso le raccolte dei giornali, e ricordiamo quali sono stati i grandi temi di dibattito in questo ultimo anno e mezzo. Alla fine di aprile del 2009 è scoppiato il «caso Noemi», preceduto dal «caso Veronica», che della vicenda della minorenne di Casoria è stato in qualche modo anticipatore. Poi il «caso D’Addario»: diverso dai precedenti solo per il soggetto, non per il tema, trattandosi sempre di pecoreccio.

Passata l’estate, il dibattito politico s’è incentrato tutto sul «caso Boffo», cioè sulla crocifissione dell’incolpevole direttore di «Avvenire», considerato reo di aver fatto del moralismo sul presidente del Consiglio, e accusato di essere «attenzionato» dalla polizia come «noto omosessuale» in base a un documento risultato poi falso. Boffo è stato tardivamente riabilitato, quando ormai le coltellate lo avevano ferito per sempre. Nel frattempo la maggioranza di governo, che appariva granitica dopo il risultato elettorale, ha cominciato a diventare fragile per i dissensi fra Berlusconi e Fini. Questi, colpevole di dissentire su alcune questioni (o di fare la fronda per interessi personali, a seconda dei punti di vista) è stato di fatto buttato fuori dal partito. Dopo di che è cominciato il tormentone sulla casa di Montecarlo che avrebbe fatto comperare al cognato a prezzo di favore.

Ora - ammesso che non abbiamo dimenticato nulla, il che è probabile - è scoppiato il «caso Ruby», una diciassettenne marocchina la quale ha raccontato una storia che, se fosse vera anche solo per la metà, basterebbe per far saltare sulla seggiola tutti gli italiani.
A parte i presunti festini ad Arcore, pare certo che questa ragazzina, fermata per furto dalla polizia, sia stata rilasciata su pressioni di Palazzo Chigi. L’ex questore di Milano, intervistato dal nostro Paolo Colonnello, ha confermato l’episodio. Silvio Berlusconi ieri ha evitato l’argomento ma ha buttato lì una battuta che pare anch’essa una conferma: «Sono una persona di cuore, mi muovo per aiutare le persone che hanno bisogno». Probabilmente oggi il premier smentirà, dirà che non si riferiva al rilascio della ragazza, ma avrebbe fatto meglio a chiarirlo ieri perché, così com’è è stata sentita, la sua frase è stata percepita come una conferma. E se davvero Palazzo Chigi ha fatto pressioni per far rilasciare una persona arrestata per furto, beh: in qualunque Paese normale sarebbe sufficiente per far cadere il governo.

Chiariamo: della miserevole storia del «bunga bunga», dei gioielli regalati a una minorenne e delle donnine facili scortate ad Arcore dai carabinieri, non sappiamo quanto ci sia di vero, e ci auguriamo che di vero non ci sia niente. Vogliamo solo dire che è un fatto che ancora una volta si sia costretti a parlare di vicende per cui noi italiani ci stiamo facendo ridere dietro da mezzo mondo, mentre il Paese avrebbe problemi ben più seri di cui occuparsi: solo per fare un esempio, ieri il governatore della Banca d’Italia ha lanciato l’allarme disoccupazione, dicendo che i senza lavoro sono l’undici per cento; e il ministro Tremonti ha confermato.

A questo punto uno potrebbe dire che è colpa dei giornali: sono loro che danno tanto spazio a gossip, dossier, killeraggi. Berlusconi ha detto ieri che tutto ciò è «spazzatura», e non c’è dubbio che lo sia. Ma resta da vedere se è spazzatura mediatica, o spazzatura prodotta da una classe dirigente che non ha altri spunti di discussione da offrire ai giornali. Siamo noi giornalisti che perdiamo tempo appresso a stupidaggini, o è una certa classe dirigente a essere responsabile di un degrado da basso impero? Non ci convince neppure chi dice che «certe questioni riguardano la sfera privata, al massimo la morale, ma non la politica». A parte il fatto che gli uomini con responsabilità pubblica hanno diritto alla privacy solo fino a un certo punto, saremmo curiosi di sapere se gli elettori sono davvero disinteressati di ciò che gli eletti fanno nel tempo libero.

E poi non è che nella sfera pubblica si dia prova di occuparsi di problemi più seri.

Il partito di maggioranza è ormai logorato da una crisi che nemmeno un Bondi può più nascondere: l’esodo dal Pdl verso Futuro e Libertà sta assumendo numeri impensabili fino a poco tempo fa. Quanto ai lavori parlamentari, sono paralizzati - tanto per cambiare - dalla questione giustizia, cioè da come evitare che il presidente del Consiglio venga perseguito dalla magistratura. E così il Paese è fermo, mentre i problemi corrono. Ecco, Montanelli avrebbe detto che non c’era nulla da inventare, né da colorire.

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« Risposta #11 inserito:: Novembre 12, 2010, 04:42:13 pm »

12/11/2010

Basso impero   

MICHELE BRAMBILLA

Non è detto, non è affatto detto che l’impero di Silvio Berlusconi sia arrivato al capolinea: l’uomo ha più di sette vite e lo ha già dimostrato tante volte.

Magari rivincerà le elezioni e non farà prigionieri. Ma in questi giorni il clima è un clima da fine impero, e quando finisce un impero si scatenano gli istinti più bassi, la ribalta è degli ex fedelissimi che tradiscono e dei nemici che infieriscono, e questa è una delle cose peggiori perché non c’è niente di più vile che infierire su chi cade.

Sono giorni già tante volte vissuti in questo Paese, i giorni del «mai stato fascista, io» e del «mai stato craxiano, io». Pare si attenda da un momento all’altro un’immancabile apocalisse, forse anche una catarsi, crescono da una parte la voglia anzi la necessità di riciclarsi e dall’altra quella del regolamento di conti. Per un po’ sarà il caos, come dopo il 25 aprile: si starà alla finestra, un po’ di qua e un po’ di là in attesa di capire come va a finire. Un vecchio collega raccontava di quel che accadde al suo paese, in Veneto, dove l’ex podestà, diventato primo sindaco provvisorio dopo la Liberazione, stava - con un fazzoletto rosso al collo - nella piazza principale a fianco del parroco: un cittadino si presentò davanti ai due sollevando contemporaneamente entrambe le braccia, la destra per il saluto romano e la sinistra per il pugno chiuso, esclamando: «Sia lodato Gesù Cristo».

Ogni fine impero è però preceduto dal basso impero, il cui tratto distintivo è lo scadimento della corte. Successo dopo successo, il re si convince di essere invincibile e soprattutto infallibile, così da non avere bisogno di consiglieri saggi ma di chi gli dà sempre ragione. Mussolini cominciò con Giovanni Gentile e Alfredo Rocco e finì con Achille Starace. A chi lo metteva in guardia dicendogli «Duce, Starace è un cretino», lui rispondeva: «Lo so, ma è un cretino obbediente».

Lungi da noi fare paragoni di persone e di sistemi politici - l’equiparazione tra berlusconismo e fascismo è una via di mezzo tra una barzelletta e una bestemmia storica - ma è innegabile lo sconcerto provato, anche fra tanti elettori di centrodestra, nel vedere quale sia il livello del materiale umano che pare il più vicino a Berlusconi in questi ultimi tempi. Lo sconcerto ad esempio nell’aver visto i filmati - messi in rete dal settimanale «Oggi» - che documentano il trasporto delle ragazze di Lele Mora a casa Berlusconi. «Mi piacciono le donne», ha detto Berlusconi, ma ci si chiede se abbia bisogno di andare a una festa a Casoria, di frequentare Gianpaolo Tarantini e Patrizia D’Addario, di spacciare una disinvolta minorenne per la nipote del Presidente egiziano per tirarla fuori da una camera di sicurezza.

Quello che sta venendo fuori sulla corte di Berlusconi è difficilmente difendibile anche dai berlusconiani antemarcia. Lele Mora ed Emilio Fede sono indagati per favoreggiamento della prostituzione, e con loro Nicole Minetti, una ragazza di 25 anni che il presidente del Consiglio ha conosciuto come igienista dentale quando è stato ricoverato per la statuetta del Duomo tiratagli in faccia, e che poi è stata catapultata alla Regione Lombardia nel listino bloccato: eletta consigliere, cioè amministratrice dei lombardi, senza neanche passare per l’incognita del voto. Per quali meriti? Leggiamo poi che una tale Perla Genovesi, già assistente di un senatore di Forza Italia e arrestata nel luglio scorso con l’accusa di traffico di droga, tra il 2003 e il 2007 ha avuto 48 contatti telefonici con la residenza privata di Berlusconi ad Arcore; leggiamo che sempre questa Perla ha avuto 500 contatti con una sim intestata a Sandro Bondi e che un non precisato «assistente di Formigoni» l’aveva avvisata di avere il telefono sotto controllo. Poi c’è un’altra presunta escort (adesso si chiamano così perché il politicamente corretto ha ribattezzato perfino il meretricio) che risponde al nome di Nadia Macrì e che sostiene di avere avuto rapporti «con il presidente Berlusconi tramite Lele Mora per cui lavoravo» e anche con il ministro Brunetta, che ha smentito.

Leggiamo tutto questo e ci chiediamo: è davvero così la corte dell’ultimo Berlusconi? Ieri Fabrizio Corona ha detto che dei festini ad Arcore ci sono pure le foto. E Fabrizio Corona, di cui Lele Mora ha assicurato essere stato l’amante, è già stato condannato: eppure in questa Italia è un idolo di tante ragazze e sulle reti Mediaset è andato spesso a fare il maître à penser.

Forse tra vent’anni diremo: ma com’è stato possibile tutto questo? Alcuni tra i vecchi amici e consiglieri di Berlusconi sotto voce spiegano: «Ha voluto sostituire Gianni Letta con Daniela Santanchè e Fedele Confalonieri con Lele Mora». Vero o falso? Ferdinando Adornato, in un intervento alla Camera, ha rimproverato a Berlusconi di aver cambiato gli «intellettuali di riferimento» passando «da Lucio Colletti» (e si potrebbero aggiungere Marcello Pera, Paolo Del Debbio, Piero Melograni, Giuliano Ferrara) a giornalisti che parlano alla pancia della destra più becera e usano la tastiera come un manganello.

Ieri con un’intervista a Luca Telese del «Fatto» anche Vittorio Feltri ha preso le distanze. Ha detto che «tanta gente di destra si è rotta le balle di tutte le veline di Berlusconi», che il caso Ruby non gli è piaciuto, che Berlusconi «non doveva andare a Casoria», che «è stanco, confuso, non ha fatto tante cose che doveva fare»; ha distinto la posizione del direttore del «Giornale» Alessandro Sallusti, che è per fare quadrato attorno al Cavaliere, dalla sua, che è per la libertà di critica. Ha fatto capire, forse addirittura annunciato, che se ne andrà dal «Giornale» per fondare un altro quotidiano. Anche Maurizio Belpietro di «Libero», uno dei più agguerriti, nei giorni scorsi ha dedicato al premier un editoriale intitolato «È dura aiutarlo se non inizia ad aiutarsi da sé».

Segnali che l’impero è davvero al crepuscolo? Nelle aziende del Cavaliere, Mediaset e Mondadori in testa, la preoccupazione si tocca con mano. Perché ci si chiede: come sarà il dopo? Lasceranno in pace il Berlusconi non più premier? O ci sarà la vendetta? Di sicuro, se vendetta sarà, avrà il contorno di tante tricoteuses, tra cui molti adulatori dei tempi beati. Perché questa è l’Italia. Non c’è nulla di male nel cambiare idea, anzi. Ma va distinto chi se ne va quando il capo è ancora potente da chi se ne va quando la barca affonda. Come cantava Francesco Guccini: bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà.

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« Risposta #12 inserito:: Novembre 21, 2010, 11:50:42 am »

19/11/2010

Stragi italiane, l'ignoranza dei negazionisti
   
MICHELE BRAMBILLA

L’altra sera alla Camera l’onorevole Viviana Beccalossi, ex missina oggi pidiellina, ha commentato a modo suo (e purtroppo non solo suo, come vedremo) la sentenza con cui martedì la Corte d’Assise di Brescia ha assolto gli ultimi imputati per la strage di piazza della Loggia. «Non condivido - ha detto - chi definisce quella strage come una strage di destra. Le indagini sono state indirizzate solo verso la destra estrema, ma questa direzione si è rivelata sbagliata».

Naturalmente non è mancata, nel discorso, la parola chiave con cui si usa delegittimare il lavoro degli inquirenti: teorema. La convinzione che quella strage fu opera di estremisti neri, secondo la Beccalossi, è frutto di «un teorema». Lo stesso concetto lo abbiamo letto su alcuni giornali, per i quali a furia di indagare su una parte sola, che sarebbe poi stata la parte sbagliata, i veri colpevoli l’hanno fatta franca.

Simili portavoce di questo negazionismo diciamo «di destra» forse non si rendono conto di mettersi sullo stesso piano di altri negazionisti che tanti danni hanno prodotto nel Paese: quelli «di sinistra», che nei primi anni Settanta gabellavano i brigatisti rossi per fascisti o poliziotti travestiti; e che ancora oggi, quando parlano degli assassini di Moro, di Bachelet, di Alessandrini, di Rossa e di tanti altri, concludono sospirando: «Ah, chissà chi c’era, dietro di loro».

Va detto che se i negazionisti di sinistra non hanno altri argomenti che il proprio pregiudizio ideologico, quelli di destra possono farsi forti di tutta una serie di sentenze che negli anni hanno mandato assolti i neofascisti imputati di strage. Ma il loro difetto - se non sono in malafede - è l’ignoranza, per ignoranza intendendo la mancata conoscenza di quanto avvenuto nei processi per le stragi. Ad esempio, forse non sanno che in quei processi ci sono state, accanto alle assoluzioni, condanne per depistaggio di dirigenti dei servizi segreti: Maletti e Labruna per piazza Fontana; Pazienza, Musumeci e Belmonte (oltre a Gelli) per la stazione di Bologna. Se tanti colpevoli «l’hanno fatta franca» è perché settori deviati dello Stato li hanno protetti: e la certezza di queste avvenute coperture è una conferma, non una smentita, che le piste seguite erano quelle giuste. Lo sa Viviana Beccalossi - che pure è bresciana e dovrebbe essersi informata - che al controspionaggio di Padova c’erano informative scritte che annunciavano la strage di Brescia, e che ne attribuivano la preparazione a ordinovisti veneti? E lo sa che queste informative non furono trasmesse ai giudici? Se lo sa, si è mai chiesta perché?

Delle sentenze, poi, non si può prendere per buono solo il dispositivo, cioè lo stringato comunicato con cui si annunciano le assoluzioni o le condanne. Vanno lette anche e soprattutto le motivazioni. Lo sanno questi nuovi negazionisti che nelle motivazioni dell’ultima sentenza su piazza Fontana è scritto che, con gli elementi oggi a disposizione, Freda e Ventura sarebbero stati condannati? E che ormai non erano più condannabili solo perché già giudicati in un precedente processo?

La sentenza ultima di Brescia assolve per insufficienza di prove. Leggeremo le motivazioni. Ma è evidente che per i giudici l’impianto accusatorio non era campato per aria. Semplicemente non erano dimostrabili le responsabilità individuali, e siccome la responsabilità penale è personale, e non di gruppo, bene ha fatto la Corte a non condannare. Ma da qui a dire che la sentenza ha dimostrato che la pista non era quella dell’estrema destra, c’è di mezzo più che il mare.

Forse non sanno neppure, i negazionisti, che ai processi gli stessi estremisti di destra non hanno mai nascosto che nel loro ambiente c’era gente che metteva le bombe. Certo ci si chiede quale interesse avrebbero avuto nel metterle. Dopo ogni strage, la destra - tutta la destra, anche quella non violenta - invece di progredire finiva sempre più chiusa in un ghetto. Chi non capisce il «cui prodest?», insomma, non difetta di ragionevolezza. Ma erano i bombaroli, a difettarne. Anche i brigatisti rossi sapevano che sparando non aiutavano la sinistra: eppure sparavano.

Inutile tentare di entrare nella testa dei terroristi: i loro ragionamenti non appartengono al mondo della ragione. E poi come diceva Alexis Carrell, premio Nobel per la Medicina, «poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità». Basta osservare la realtà, e magari leggere qualche carta, per capire che ogni negazionismo su quegli anni è, oltre che assurdo, un oltraggio alla nostra storia.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8106&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #13 inserito:: Dicembre 16, 2010, 03:52:53 pm »

16/12/2010

Complotto il vecchio vizio della sinistra

MICHELE BRAMBILLA

C’erano infiltrati tra i ragazzi che l’altro ieri hanno manifestato per le vie di Roma, con i risultati che sappiamo?

Tutto è possibile, per carità.

Per affermarlo occorrerebbero però, se non delle prove, perlomeno degli indizi seri. Invece ieri, sulla base di alcune foto fatte girare su Internet - e rivelatesi poi in alcuni casi tutt’altro che chiare, e in altri delle autentiche patacche - è partito il tragicomico déjà vu di accuse alla polizia cattiva e complottista al servizio della Reazione.

Tutto è cominciato perché in alcune immagini scattate durante la guerriglia si vede un ragazzo con un giubbotto beige e il volto coperto da una sciarpa bianca che impugna un manganello e tiene, nell’altra mano, un paio di manette. E chi può avere un paio di manette, se non un questurino? Altre foto, poi, evidenziano che alcuni teppisti calzano scarponi identici a quelli in dotazione alla polizia. Tanto è bastato per dare il via al tam tam: ecco le prove, i violenti sono in realtà poliziotti travestiti e manovrati da un governo che ha interesse a dare, di chi protesta pacificamente, l’immagine degli estremisti pericolosi.

Se tutto questo veleno fosse stato messo in circolo da, che so, esponenti di alcuni centri sociali, o comunque dal cosiddetto «mondo antagonista», non meriterebbe neppure di essere commentato. Purtroppo i sospetti, le illazioni, la consueta patologica caccia a registi occulti sono venuti da pulpiti che godono di grande autorevolezza. Giornalisti e politici dell’opposizione hanno chiesto spiegazioni al ministro degli Interni e perfino una persona solitamente assennata come il capogruppo del Pd al Senato, Anna Finocchiaro, ha detto: «Vogliamo sapere chi erano questi che evidentemente erano infiltrati, chi li ha mandati, chi li paga e che cosa devono provocare».

Siccome anche gli avverbi a volte sono pietre, quell’«evidentemente» uscito dalla bocca della Finocchiaro è una cosa che fa male. «Evidentemente», e quindi senza dubbi. Sarebbe bastato che la senatrice, e con lei molti altri (l’ex ministro della Giustizia Diliberto, ad esempio) avessero fatto ricorso alla prima delle virtù cardinali, che è la prudenza. O almeno alla pazienza: avessero aspettato un paio d’ore, avrebbero visto altri filmati, ad esempio quello in cui si vede che il misterioso «infiltrato» viene poi fermato dalla polizia, e che mentre implora clemenza ripetendo più volte «sono minorenne» non si cura della telecamera che lo riprende. Fosse stato uno sbirro in missione segreta, avrebbe permesso (e avrebbero permesso i suoi «colleghi» poliziotti) quelle riprese? Con un po’ di pazienza, poi, i sostenitori del complotto avrebbero appurato che le fotografie in cui si vedono manifestanti con gli stessi scarponi dei poliziotti non sono state scattate a Roma martedì, ma a Toronto quattro mesi fa. Infine, un po’ di paziente attesa avrebbe permesso la lettura del comunicato con il quale la questura ha fatto sapere che ieri sera ha identificato e arrestato il ragazzo, che è un estremista di sinistra, e non un brigadiere.

Purtroppo questo ricorso al complottismo e al vittimismo è un vizio antico della nostra sinistra. Già negli Anni Settanta si cercò goffamente, e per anni, di negare la vera matrice delle Brigate Rosse; e anche allora, negli scontri di piazza, secondo una certa vulgata c’erano da una parte i giovanotti inermi, e dall’altra la polizia assassina. È un vizio che forse ha origine nella pretesa di una immacolata concezione, per cui è impossibile che «qualcuno dei nostri» possa anche comportarsi male; e nella tentazione di cercare sempre un alibi ai propri insuccessi, per cui se non si vince è perché qualcuno rema contro in modo sporco.

E invece uno dei - non il solo: ma uno dei - motivi per cui la sinistra italiana non ha vinto è anche questo suo ahimè ricorrente atteggiamento, che l’ha resa agli occhi di molti poco simpatica e ancor meno credibile. Ne ha sicuramente, la sinistra, di argomenti per fare opposizione. Lasci perdere i complotti della polizia.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8204&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #14 inserito:: Gennaio 05, 2011, 03:42:34 pm »

5/1/2011

Disunità d'Italia

MICHELE BRAMBILLA

La grande mobilitazione popolare per chiedere l’estradizione di Cesare Battisti s’è risolta con circa cinquecento persone in piazza a Roma, una cinquantina a Milano e addirittura cinque a Firenze. Pochi e non senza sbavature. A Roma si sono visti saluti romani che non si capisce che cosa c’entrassero; a Milano lo slogan più gettonato rivolto al console brasiliano è stato: «A noi Battisti, a voi i travestiti». Che tristezza.

Ma il mesto spettacolo offerto dalla piazza riesce comunque a vincere il confronto con quello offerto dalla classe politica. Se i cittadini indignati erano pochi, i politici sono stati pocos, locos y mal unidos, secondo la definizione con cui gli spagnoli liquidarono i rivoltosi sardi al tempo di Carlo V. Soprattutto mal unidos, dal momento che neppure sulla necessità di assicurare alla giustizia un assassino pluricondannato destra e sinistra hanno saputo trovare coesione. In piazza Navona ci sono andati sia gli uni che gli altri: ma curandosi bene di andarci in orari diversi per non correre il rischio di brutti incontri. E questo è un primo elemento di sconforto. Nella tanto bistrattata prima Repubblica democristiani e comunisti - che pure erano ideologicamente ben più divisi di quanto lo siano adesso i due cosiddetti «poli» - sul terrorismo seppero trovare un’unità di intenti che fu alla base della vittoria della democrazia sui kalashnikov dei brigatisti.

Il secondo motivo di sconforto sta nelle motivazioni che paiono aver indotto destra e sinistra a scendere in piazza. Il governo protesta energicamente, ma non senza preoccuparsi - ogni due per tre - di ribadire che l’amicizia con il Brasile non è minimamente in discussione. E soprattutto tanta energia viene profusa adesso, a babbo morto, e non quando forse si potevano ancora evitare la beffa della mancata estradizione e l’oltraggio delle sue motivazioni. Quanto all’opposizione, il caso Battisti sembra più che altro un pretesto per accusare il governo di insipienza, impotenza, scarso prestigio internazionale. Insomma, l’impressione è che la maggioranza abbia preso ora ad agitarsi tanto per tenere buoni i propri elettori, e la minoranza per colpire, più che Battisti, il nemico di sempre: Berlusconi.

In una simile situazione, naturalmente, tutti accusano «gli altri» di essere i soli responsabili dello scempio, dimenticando che la vicenda Battisti è in realtà molto più complessa di quanto si creda. Non c’è dubbio, come abbiamo scritto nei giorni scorsi, che tutto sia partito da una campagna di disinformazione finalizzata a far credere che l’indegno omonimo sia stato vittima di una giustizia punitiva; e che questa campagna di disinformazione sia stata prontamente recepita dai soliti intellos francesi sempre pronti a bersi qualsiasi balla sulla repressione degli scrittori (perché uno dei risvolti tragicomici di questa vicenda è che Battisti sia stato considerato uno scrittore, e non un assassino).

Non c’è dubbio, dicevamo. Ma non c’è dubbio anche - e questo è un po’ più difficile da spiegare - che tale campagna abbia poi condizionato un governo di centrodestra qual era quello, con Sarkozy ministro degli Interni, che consentì a Battisti di scappare in Brasile con un passaporto falso. Chi sostiene che Sarkozy abbia agito sotto l’influenza della moglie, forse non sa che all’epoca il futuro presidente e Carla Bruni non si conoscevano neppure. Né si può accusare, come ha fatto il nostro ministro degli Esteri, la famosa «dottrina Mitterrand»: la Corte francese che concesse l’estradizione si appellò proprio a quella dottrina, in base alla quale l’asilo in Francia era escluso ai responsabili di omicidio.

Ci sono tante parole in libertà, insomma, in questi giorni. L’unica - e modesta - consolazione è che per una volta la nostra politica non è stata peggiore di quella degli altri Paesi coinvolti. Infatti è la politica, ovunque, la responsabile del ghigno beffardo con cui Battisti saluta le nostre patrie galere. La magistratura ha fatto il proprio dovere dappertutto: in Italia condannando; in Francia e in Brasile concedendo l’estradizione. Se Battisti non rientra in Italia è perché la politica italiana non si è fatta valere, quella francese l’ha fatto scappare e il presidente del Brasile ha smentito i propri giudici.

All’imputato Battisti bisognerebbe purtroppo dire non «alzatevi», come si usava durante i processi, ma «sedetevi»: non è lui il soggetto delle preoccupazioni e delle contese di questi giorni. Né tantomeno, ovviamente, lo sono i poveri morti da lui ammazzati.

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