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Autore Discussione: ALESSANDRO BARBERO. Cittadini-villani, diversi alle urne  (Letto 2058 volte)
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« inserito:: Marzo 31, 2010, 02:56:54 pm »

31/3/2010 -

UNA STORIA ANTICA SPIEGA LE SCELTE OPPOSTE DI CITTÀ E PERIFERIE

Cittadini-villani, diversi alle urne

ALESSANDRO BARBERO

Che la città e il suo territorio, dal punto di vista politico, siano luoghi profondamente diversi e addirittura opposti è un dato che accompagna da sempre la civiltà occidentale. La stessa parola «politica» deriva dalla polis, la città-stato greca e mediterranea: Atene, Cartagine, Roma erano i luoghi dove si faceva politica, in campagna si lavorava e basta. Nelle moderne lingue europee la parola che indica chi gode dei diritti politici è ancora la stessa che designa l'abitante della città, il «cittadino»: come se nel nostro cervello, inconsciamente, chi non vive in città quei diritti continuasse a non averli.

In Italia, però, la contrapposizione è più radicata che altrove; e le cause, stavolta, non sono più da ricercare nell’Antichità, ma nel Medioevo. Nei secoli intorno al Mille, gli uomini si ritrovarono dappertutto soggetti al potere di principi e signori che li proteggevano, sì, ma in cambio limitavano pesantemente la loro libertà. In larghe zone d’Europa le città erano poche, isolate e deboli; anche i loro abitanti dovettero assoggettarsi ai signori, negoziando con loro limitati spazi di autonomia. Ma in Italia le città erano molte e ricche, e i loro abitanti non caddero mai sotto il dominio signorile. Continuarono a pensarsi come cittadini, non come servi, si presero non soltanto l’autonomia, ma la libertà, e in nome della «libertà d’Italia» sconfissero l’imperatore che voleva riportarli nei ranghi.

Ma quella libertà, nessuno voleva darla a tutti. Nei nuovi piccoli stati creati dai comuni cittadini la campagna restava subalterna e sottomessa. La distinzione fra i cittadini, che erano i soli a gestire la cosa pubblica, e i villani, condannati a lavorare come bestie e pagare le tasse senza avere diritto di voto, divenne addirittura più profonda di prima nell’epoca della grande civiltà comunale e poi nei secoli del Rinascimento. Il risentimento del mezzadro contro il padrone cittadino, che si prende metà dei raccolti e non ci paga nemmeno le tasse, perché è lui che sta in consiglio comunale e decide la ripartizione del carico fiscale, è pari solo al disprezzo del cittadino per il villano ladro, sporco e ignorante, incapace di qualunque pensiero elevato.

Non che i villani non facessero politica: là dove le comunità contadine erano rimaste nonostante tutto abbastanza forti, come in parte della Pianura Padana, la loro massima aspirazione era d’essere sottratte al dominio cittadino, non dover più pagare le tasse decise dalla gente di città, avere un proprio podestà a cui chiedere giustizia, non dover più fare il viaggio fino al capoluogo per qualunque necessità. Dominazioni come quelle dei Savoia o degli Sforza si sono costruite anche sulla capacità di soddisfare queste richieste del territorio, di smontare i «contadi» costruiti dai comuni cittadini, di concedere autonomia alle campagne. Poi i tempi sono cambiati, sono venute le riforme illuministiche, le rivoluzioni e lo Stato centralista, tutte idee, beninteso, nate e discusse in città; ma qualche traccia di quell’antica contrapposizione sembra ancora guidare ogni tanto i comportamenti politici degli italiani.

da lastampa.it
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