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Autore Discussione: SERGIO ROMANO.  (Letto 96245 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Luglio 19, 2008, 07:27:23 pm »

POLITICA E GIUSTIZIA

Il vero rimedio del conflitto


di Sergio Romano


Se può essere di consolazione a qualche lettore, la guerra fra politica e giustizia non è un fenomeno esclusivamente italiano. Esiste sin dagli inizi degli anni Novanta, anche se in forme diverse, in quasi tutte le maggiori democrazie occidentali, dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Spagna alla Germania. I magistrati lamentano «l’arrogante brama di potere di molti governanti che pretendono di sottomettere la giustizia alle lunghe maglie del loro controllo» (sono le parole di un giudice spagnolo, Baltasar Garzón, tratte da un libro pubblicato nel 2005 da Baldini Castoldi Dalai). La classe politica deplora l’invadenza della magistratura e il suo tentativo di esercitare una sorta di supervisione su funzioni che sono state tradizionale appannaggio del potere esecutivo e del potere legislativo. La magistratura rivendica la propria indipendenza e si proclama «bocca del diritto». La classe politica invoca il mandato popolare e rivendica la propria legittimità democratica. Chiedete ad Aznar, Chirac, Kohl, Bush, Kissinger, Olmert o, se fosse in grado di rispondervi, Sharon, che cosa pensino dei loro magistrati o di quelli che cercano d’incriminarli di fronte al tribunale di un altro Paese. Vi daranno privatamente risposte non troppo diverse dalle parole con cui Silvio Berlusconi ha polemizzato in questi anni con la magistratura italiana.

Questa guerra della giustizia contro la politica, o viceversa, ha parecchie cause. Con la fine della guerra fredda e la disgregazione degli Stati comunisti è cominciata la stagione delle guerre civili, delle pulizie etniche, della criminalità senza frontiere, ma anche dei diritti umani, degli interventi umanitari, dei tribunali per i crimini di guerra: occasioni che molti magistrati hanno colto per annunciare il «regno della legalità» e promuovere se stessi al ruolo di sacerdoti di una nuova fede. Ma gli attacchi terroristici, soprattutto dopo l’11 settembre, hanno fornito ai governi l’occasione per rafforzare i tradizionali poteri dell’esecutivo, dal fermo di polizia all’abolizione di alcune garanzie conquistate negli anni precedenti. All’ondata pangiudiziaria degli anni Novanta (un’epoca in cui molti magistrati pensavano che tutto potesse venire risolto in un’aula di tribunale) è seguita un’ondata di riflusso durante la quale i governi hanno riconquistato una parte del terreno perduto. In queste lotte fra poteri è probabile che i magistrati, soprattutto in alcuni Paesi, siano stati avvantaggiati dalla crescente insoddisfazione della società per la «casta » che governa. La democrazia resta la meno peggiore di tutte le forme di governo possibili, ma non gode di buona salute né da questa né dall’altra parte dell’Atlantico.

Queste sono riflessioni che conviene tuttavia lasciare ai sociologi e ai filosofi della politica. Ciò che maggiormente ci concerne è la constatazione che la guerra è molto più grave e politicamente cruenta in Italia di quanto non sia in altri Paesi comparabili al nostro. Ne conosciamo le ragioni. I politici hanno delegato ai giudici la lotta contro tre minacce— terrorismo, mafia, corruzione — che hanno insidiato la vita repubblicana degli ultimi trent’anni, e li hanno così implicitamente incoraggiati a uscire dal loro ruolo tradizionale. La piaga della corruzione ha infettato buona parte della società nazionale.

Berlusconi ha portato con sé, entrando in politica, un conflitto di interessi che lo ha reso particolarmente criticabile, sospettabile e vulnerabile. E la sinistra, fino a poco tempo fa, ha lasciato spazio ai magistrati nella speranza che la sbarazzassero di qualche scomodo avversario. È questo il fattore che ha maggiormente complicato la situazione italiana. In altre democrazie la politica sta riprendendo nelle sue mani il controllo della situazione e sta cercando di adottare norme in cui legalità e legittimità democratica possano trovare un nuovo punto di equilibrio. Il caso più interessante è quello della Spagna dove socialisti e popolari, dopo essersi paralizzati a vicenda, si stanno accordando per una riforma che riaffermerà le prerogative del Parlamento nei suoi rapporti con le maggiori istituzioni giudiziarie. Da noi invece la destra cerca d’imporre la propria riforma e la sinistra, incapace di accordarsi su proposte alternative o complementari, si limita a deplorare e condannare.

Gli umori del Paese nel frattempo stanno cambiando. Dopo una fase in cui la filosofia pangiudiziaria dei magistrati trovava molti consensi, la società sembra divisa fra coloro per cui i procuratori hanno sempre ragione e quelli per cui la magistratura è una corporazione ambiziosa e autoreferenziale che sta rendendo un cattivo servizio al Paese. Siamo giunti al punto in cui le azioni giudiziarie, le intercettazioni, gli avvisi di reato e le detenzioni cautelari raggiungono il paradossale risultato di screditare contemporaneamente, anche se in campi opposti della società, sia il partito della legalità sia quello della legittimità democratica. A questa situazione esiste un solo rimedio: una riforma della giustizia realizzata, come in Spagna, dalla maggioranza e da quella parte dell’opposizione che non vuole ereditare, quando verrà il suo turno, un Paese in cui gli italiani non crederanno più né ai magistrati né ai politici.

19 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Luglio 21, 2008, 07:21:32 pm »

CASO TELECOM E INFORMAZIONE


Il teorema smontato


di Sergio Romano


Siamo abituati agli atti d'accusa che coinvolgono numerose persone e alle sentenze, soprattutto in Appello e in Cassazione, che riducono considerevolmente il numero e le responsabilità degli imputati. Nel procedimento che concerne dal 2005 Telecom, Pirelli e il responsabile dei loro servizi di sicurezza, Giuliano Tavaroli, sembra che stia accadendo esattamente l'opposto. Durante lo «scandalo dei dossieraggi» (un gigantesco mercato di controlli telefonici e spionaggio informatico che coinvolse, come vittime e clienti, parecchie migliaia di persone) avemmo tutti l'impressione che le indagini avrebbero inevitabilmente trascinato sul banco degli accusati il presidente e l'amministratore delegato dell'azienda, rappresentati come registi dell'intera operazione. Ebbene, no. Dopo tre anni di indagini, la Procura della Repubblica di Milano starebbe per incriminare una trentina di persone, fra cui Tavaroli, e per rinviare a giudizio le società Telecom e Pirelli, ma avrebbe implicitamente scagionato Marco Tronchetti Provera e Carlo Buora. Il «teorema», come direbbe Berlusconi, è stato smontato. Ma questo non è accaduto alla fine di un sofferto tragitto giudiziario, costellato di sentenze e di appelli.

È accaduto grazie a una Procura che, occorre riconoscerlo, non ha fatto nulla, nella fase calda dello scandalo, per alimentare sospetti e supposizioni. Forse è giunto il momento di chiedersi come e perché l'Italia sia particolarmente vulnerabile a questo tipo di vicende. Quando esplodono, gli scandali italiani cadono su un terreno pronto ad accoglierli. Una parte importante della pubblica opinione è convinta che la sua classe dirigente (politici, imprenditori, finanzieri) sia avida, corrotta, profondamente immorale, instancabilmente indaffarata ad arricchire se stessa e a derubare i suoi connazionali. La battuta di Giulio Andreotti («a pensare male s'indovina») è diventata un motto nazionale. In molti Paesi la possibilità che una truffa o un complotto siano stati orditi da personalità eminenti suscita generalmente sorpresa, sconcerto, incredulità. Da noi suscita una specie di trionfale compiacimento e ribadisce convinzioni diffuse. Le assoluzioni, quando arrivano, dimostrano soltanto che anche la giustizia, in ultima analisi, è al servizio dei potenti. Il sospetto che diventa una patologia nazionale crea un ingranaggio inarrestabile, un ciclo continuo, difficile da interrompere. Non è necessario costruire teoremi. Esistono già, depositati nel profondo della diffidenza e della sospettosità nazionali. Attenzione, non vorrei essere frainteso. In un Paese afflitto da corruzione, conflitto d'interessi, spirito mafioso e criminalità organizzata, gli scandali, purtroppo, sono spesso reali. Ma se è sciocco negarne l'esistenza, è altrettanto sciocco pensare che tutti gli amministratori pubblici siano ladri e tutti gli imprenditori sospettabili delle peggiori nefandezze. Il Paese, nonostante tutto, è molto meglio di quanto pensino i suoi cittadini.

Esiste naturalmente una responsabilità dei mezzi d'informazione. La stampa, nel senso più largo della parola, è lo specchio che riflette i sentimenti, gli umori e le idiosincrasie della società. Ma quella italiana non si limita a registrare gli umori del Paese. In molti casi li amplifica e li rilancia. Le ragioni sono in parte antiche e in parte nuove. Là dove non esiste una netta distinzione tra stampa d'informazione e stampa popolare, il giornale è spesso condannato a essere contemporaneamente l'uno e l'altro per cercare di raggiungere il maggior numero possibile di lettori. Questa ambivalenza tende a diventare ancora più evidente in una fase in cui i giornali sono insidiati da nuovi mezzi d'informazione, moderni, aggressivi e destinati a conquistare una parte crescente della società. Esiste la concorrenza, beninteso, ma vi sono circostanze in cui costringe i concorrenti a rincorrersi verso il basso piuttosto che verso l'alto. Temo che nella vicenda dei dossier illeciti l'informazione abbia avuto, quasi senza eccezioni, le sue responsabilità. Per «servire» il lettore e non restare indietro rispetto alla concorrenza, ha finito per somministrargli ogni giorno una dose crescente di sospetti. E ha dimenticato che certe vicende, anche quando sono destinate a ridimensionarsi, possono avere conseguenze micidiali per la sorte dei protagonisti dello scandalo. Nel Sole 24Ore di ieri Franco Debenedetti ha intravisto una relazione tra lo scandalo dei dossier e le sorti di Telecom nei mesi successivi. Per Debenedetti in questa vicenda vi sarebbe anche lo zampino della politica. Può darsi. Ma vi è certamente una responsabilità della informazione di cui noi tutti dobbiamo essere consapevoli.

21 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Agosto 05, 2008, 10:26:44 am »

LA SPESA PUBBLICA E I TAGLI

Le virtù delle forbici


di Sergio Romano


Il ministro della Economia è riuscito ad anticipare i tempi della Legge finanziaria e ad abolire buona parte dell'indecoroso mercato con cui il Parlamento stravolgeva le grandi linee della politica governativa. Ma non è riuscito a impedire il logorante bisticcio con i colleghi, quasi tutti impegnati a difendere il loro portafoglio ministeriale dalla scure del Tesoro. Nulla di nuovo. Il denaro è potere. Non vi è sistema politico in cui il ministro possa accettare la decurtazione del bilancio senza rinunciare a una parte delle sue ambizioni. Un ministro che cede senza strillare e non riesce a contrattare la riduzione del danno corre il rischio di perdere autorità agli occhi dei suoi funzionari e della piccola corte di clienti che fanno parte della sua personale tribù politica.

Eppure la scure di Tremonti, in questo caso, è perfettamente giustificata da almeno due ragioni. In primo luogo non si vede come l'Italia possa ridurre il disavanzo e il debito pubblico senza lavorare di forbice sul fabbisogno delle pubbliche amministrazioni. La crescita del Pil è modesta, quasi insignificante, e la pressione fiscale è una delle più alte in Europa. Non si può invocare pubblicamente, come unico rimedio possibile, la riduzione della spesa pubblica (un obiettivo su cui l'accordo sembra essere pressoché generale) e permettere che l'operazione vada e insabbiarsi nella palude degli egoismi ministeriali.

La seconda ragione è ancora più importante. Le grida di rabbia dei ministri colpiti sono fondate sulla presunzione che l'organizzazione dei loro ministeri e il modo in cui usano le risorse fornite dallo Stato siano intangibili. Ma non vi è ministero o pubblica amministrazione in cui non vi siano stati negli ultimi decenni un progressivo aumento delle spese e una crescente diminuzione dei controlli. Chi scrive ricorda ancora amministrazioni dello Stato in cui l'Economo (un personaggio indispensabile della buona amministrazione) controllava l'uso della cancelleria, sorvegliava i conti telefonici, lanciava ammonimenti. L'aumento della spesa pubblica in Italia è il risultato di una somma di fattori apparentemente modesti, ma complessivamente rilevanti: sprechi, controlli negligenti sul lavoro dei singoli dipendenti, quieto vivere del capufficio, complicità sindacali, sciatteria nell'uso dei beni pubblici e beninteso contratti di consulenza che hanno creato col passare del tempo un'affollata funzione pubblica parallela, composta da personale privato (gli americani, in Iraq, li chiamano contractors) al servizio dei singoli uomini pubblici. Come Margaret Thatcher negli anni Ottanta, Giulio Tremonti ha capito che le cose cambieranno soltanto quando i ministri, messi con la spalle al muro, saranno costretti a occuparsi personalmente dei conti dei loro ministeri e a fare un migliore uso delle risorse di cui dispongono. La necessità acuisce l'ingegno. Ridurre il bilancio di un'amministrazione può essere, paradossalmente, il miglior modo per renderla più efficiente. Anziché fare la politica del bastian contrario, l'opposizione dovrebbe assecondare questa linea e pretendere che sia accompagnata da controlli di qualità e produttività.

Questo non significa che ogni ministero e ogni capitolo di spesa possano essere trattati con gli stessi criteri. La politica del ministro dell'Economia sarà tanto più credibile quanto più i tagli saranno accompagnati da maggiori stanziamenti per alcuni settori indispensabili al futuro del Paese. Come ha suggerito un lettore del Corriere qualche giorno fa, esistono spese del ministero della Difesa che possono essere considerevolmente ridotte. Ma non è possibile fare affidamento sulle forze armate per la proiezione dell'Italia all'estero e privarle contemporaneamente dei due fattori — addestramento e materiali — da cui dipende la loro funzionalità. Non è possibile lesinare sulle infrastrutture senza pregiudicare il futuro. E non è possibile, infine, continuare a trascurare l'innovazione e la ricerca. Dopo essersi proposto la creazione dell'equivalente italiano del Massachusetts Institute of Technology (a proposito: ci piacerebbe essere informati sullo stato dei lavori), Giulio Tremonti non può ignorare che l'avarizia dello Stato in questo settore ha avuto in questi ultimi decenni due conseguenze negative: ha spinto molti giovani d'ingegno ad abbandonare il loro Paese e ha reso l'Italia, nel grande mercato delle innovazioni e dei brevetti, un Paese debitore. I soldi che non diamo ai nostri ricercatori finiamo per darli, con gli interessi, agli inventori stranieri.


05 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Agosto 13, 2008, 10:57:43 am »

IL CONFLITTO IN GEORGIA


Ma stavolta l'Europa c'è


di Sergio Romano


Ciò che sta accadendo in questi giorni fra Mosca, Tbilisi e Parigi potrebbe essere ricordato come una bella pagina di politica estera europea. Le circostanze sono state favorevoli all’Unione. Dopo avere dato alla Georgia un sostegno inopportuno e velleitario, gli Stati Uniti non potevano essere i mediatori della crisi. Occorreva qualcuno che non fosse né pregiudizialmente anti- russo né insensibile al problema dell’indipendenza georgiana. La Francia è presidente di turno dell’Ue, ha un capo dello Stato ambizioso e un ministro degli Esteri con un rispettabile pedigree umanitario.

Nicolas Sarkozy e Bernard Kouchner si sono distribuiti i compiti abilmente. Il viaggio del ministro in Georgia ha dimostrato che l’Europa è pronta a sostenere la sua indipendenza. Il viaggio del presidente a Mosca e gli argomenti di cui si è verosimilmente servito nel corso dei suoi colloqui, hanno dimostrato a Medvedev che l’Europa non intende fare un processo alla Russia e ne comprende le esigenze. Questo non significa, naturalmente, che i 27 membri dell’Ue abbiano tutti, in questa vicenda, le stesse opinioni. Un altro presidente, soprattutto se proveniente dall’Europa centro-orientale, avrebbe preso iniziative diverse o si sarebbe allineato sulle posizioni degli Stati Uniti. Ma la Francia, in questo momento, può contare sull’appoggio dell’Italia, della Germania, della Spagna, forse anche della Gran Bretagna.

Vi sono state circostanze in cui Sarkozy ci è sembrato troppo motivato dal desiderio di agire e di apparire, anche in momenti in cui sarebbe stato meglio attendere e riflettere. In questo caso la prontezza è stata un necessario ingrediente dell’operazione. Esisterà quindi d’ora in poi una politica estera dell’Europa? Temo che vi saranno ancora occasioni in cui i 27 si riuniranno per sottoscrivere documenti vaghi, somma algebrica delle loro divergenti posizioni. Ma sarebbe un errore dimenticare che vi sono state altre circostanze in cui l’Europa è riuscita a incidere sulla situazione internazionale. Accadde per esempio a Venezia il 13 giugno 1980, quando i leader della Comunità europea (allora eravamo nove) sottoscrissero una dichiarazione sulla soluzione del conflitto arabo- israeliano e sostennero la necessità di associare ai negoziati l’Organizzazione per la liberazione della Palestina.

È accaduto più recentemente, nel 2006, quando Italia e Francia riuscirono a costituire una forza di interposizione prevalentemente europea nel Libano meridionale. So che va di moda, in questi giorni, parlare della sua inutilità e della sua impotenza. Chi si esprime in questi termini dimentica che quell’iniziativa ebbe il merito d’interrompere un conflitto che stava distruggendo il Libano fisicamente e Israele moralmente. Esistono altri precedenti di cui l’Ue può andare orgogliosa. Quando deve occuparsi di politica internazionale, l’Europa è spesso discorde e tentennante. Ma quando il problema all’ordine del giorno è economico o finanziario, e soprattutto quando esistono istituzioni autorizzate ad agire, la voce dell’Europa può essere decisiva. Negli anni in cui Mario Monti fu commissario alla concorrenza alcune sue decisioni (quella sulla fusione tra Honeywell e General Electric, per esempio) dimostrarono che l’Europa aveva una politica economica con cui anche gli Stati Uniti avrebbero dovuto fare i conti. Sono precedenti incoraggianti cui potrebbe aggiungersi nei prossimi giorni la soluzione, grazie all’Europa, della crisi georgiana.

13 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Agosto 20, 2008, 10:32:20 am »

Le paure di uno zar


di Sergio Romano


Nel Corriere di ieri Alberto Ronchey si è chiesto quali siano le motivazioni della politica di Putin. Un disegno geopolitico o «geoenergetico » per la riconquista dello spazio imperiale perduto dopo la disintegrazione dell'Unione Sovietica? Il timore dei due colossi — gli Usa e la Cina — che incombono sulle sue frontiere? La mia interpretazione è personale e potrà sembrare a qualche lettore troppo «filo-russa». Ma non intendo assolvere Putin dai suoi peccati e giustificare le sue intemperanze. Voglio soltanto ricordare che non è possibile trattare con un grande Stato senza cercare di comprenderne le percezioni, le ambizioni e le paure. Putin è uno zar restauratore e modernizzatore. Vuole restituire ai suoi connazionali l'orgoglio perduto. Vuole preparare il suo Paese ad affrontare le sfide del futuro. Vuole instaurare un sistema economico che assicuri la prosperità e la crescita civile della società russa. Per raggiungere questo scopo non poteva permettere che le maggiori risorse naturali della nazione (soprattutto petrolio e gas) restassero nelle mani di oligarchi o di società straniere che hanno conquistato pezzi di ricchezza russa nel momento della sua maggiore prostrazione. Per sbarazzarsi di questi corsari dell'economia ha agito senza scrupoli.

Ma non è stato più spiccio e spregiudicato di quanto siano state le sue vittime negli anni in cui creavano i loro imperi economici. Putin sperava di realizzare questi obiettivi in un clima di cooperazione internazionale con gli Stati Uniti, l'Europa, la Cina e le altre maggiori potenze. Ha manifestato solidarietà a Bush dopo gli attentati dell'11 settembre. Lo ha aiutato a vincere la guerra afghana autorizzando le forze armate americane a utilizzare lo spazio aereo russo e a creare basi in Asia Centrale. Ha stretto buoni rapporti con alcuni leader occidentali: Berlusconi, Chirac, Schröder. E ha colto un primo risultato positivo nel luglio del 2002, a Pratica di Mare, quando i Paesi del Patto Atlantico hanno accettato di creare una nuova organizzazione: il Consiglio Nato- Russia. Molti sperarono (io fra questi) che la vecchia Nato, costituita per contrastare un nemico ormai defunto, si sarebbe trasformata sino a diventare l'organizzazione per la sicurezza collettiva dell'intero continente europeo, dall'Atlantico agli Urali. Negli anni seguenti la tendenza alla cooperazione si è bruscamente invertita. Gli Stati Uniti hanno attaccato l'Iraq. La vecchia Nato, improvvisamente ringiovanita e ringalluzzita, si è allargata verso Est sino a comprendere territori (le tre repubbliche del Baltico) che appartenevano all'Impero zarista e all'Urss. Quando i russi hanno lanciato i primi ammonimenti, gli Stati Uniti hanno rincarato la dose con due iniziative obiettivamente anti-russe.

In primo luogo gli Stati Uniti hanno messo all'ordine del giorno l'ingresso nella Nato della Ucraina e della Georgia. In secondo luogo hanno cominciato a trattare con la Polonia e la Repubblica Ceca l'installazione di basi antimissilistiche che sono teoricamente anti-iraniane e concretamente anti-russe. Quando Mosca ha fatto comprendere che l'indipendenza del Kosovo avrebbe aperto il vaso di Pandora in cui erano finiti tutti i conflitti etnici irrisolti dell'era post-sovietica, gli Stati Uniti e l'Europa hanno ignorato le sue obiezioni. Quando qualcuno a Mosca, dopo lo scoppio della crisi georgiana, ha proposto la convocazione del Consiglio Nato-Russia, la Nato ha risposto con la convocazione di un Consiglio Atlantico che ha accusato Mosca di avere fatto un uso sproporzionato della forza; quasi che non vi fossero state altre circostanze recenti — i 78 giorni durante i quali la Nato ha bombardato la Serbia, i 35 giorni durante i quali Israele ha bombardato il Libano — in cui l'uso della forza poteva essere considerato, da altri punti di vista, «sproporzionato». E più recentemente, infine, gli Stati Uniti, per strappare alla Polonia una base missilistica, le hanno promesso una fornitura di missili Patriot: un'arma che, per la sua gittata, può essere usata soltanto contro missili russi. I polacchi li avevano chiesti perché sapevano che l'esistenza di una base anti-missilistica americana nel loro territorio starebbe stata considerata a Mosca un gesto ostile.

E volevano disporre di armi che avrebbero meglio garantito la sicurezza del loro Paese. Dando i Patriot alla Polonia gli Stati Uniti hanno implicitamente ammesso che il loro «scudo» è anti-russo. Ciò che dovrebbe maggiormente sconcertare gli europei è il fatto che tutto questo avvenga in una situazione in cui Russia e Ue hanno eccellenti ragioni per andare d'accordo. I russi hanno petrolio e gas; noi abbiamo i capitali, le tecnologie e la cultura economica di cui la Russia ha bisogno per recuperare il tempo perduto. Esistono le condizioni per una intesa simile a quella che la Francia propose alla Germania e ad altri Paesi europei dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il problema, allora, era la ricostruzione di un continente distrutto. Per evitare che i sopravvissuti cominciassero a contendersi i due beni di cui avevano maggiormente bisogno, Jean Monnet e Robert Schuman proposero la creazione della «Comunità europea per il carbone e l'acciaio»: una organizzazione che avrebbe reso possibile l'uso congiunto e solidale di due fondamentali risorse. Oggi, dopo la fine della guerra fredda, occorre una «Comunità euro-russa per gli idrocarburi e lo sviluppo». Se imboccheremo questa strada persino gli Stati Uniti (se non questa presidenza, la prossima) scopriranno che vi sono altri modi per vivere con la Russia e, alla fine, ce ne saranno grati.

20 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Settembre 01, 2008, 11:33:47 am »

INTERCETTAZIONI E POLITICA

Il brutto show da cancellare


di Sergio Romano


Puntualmente, alla fine dell’estate, la commedia delle intercettazioni (il più popolare reality show della politica italiana) si arricchisce di un nuovo episodio. La trama è ancora più arruffata e stravagante del solito. Sembra che i procuratori di Bolzano abbiano indagato negli scorsi mesi sulla vendita di un’azienda dell’Iri negli anni in cui l’Istituto era presieduto da Romano Prodi.

La vicenda risale al 1993, ma i magistrati ritengono utile occuparsene e decidono di intercettare le conversazioni telefoniche di una persona che fu braccio destro di Prodi all’Iri ed era, al momento delle indagini, suo consigliere a Palazzo Chigi. Speravano forse che i due interlocutori avrebbero parlato ancora, dopo tanti anni, di quella storia, ma scoprono, ascoltando, che il tema delle conversazioni è diverso (finanziamenti pubblici per un progetto scient i f i c o che i n t e r e s s a un’azienda farmaceutica) e che alcuni dei protagonisti sono legati da vincoli familiari con il presidente del Consiglio. I procuratori non hanno trovato ciò che cercavano, ma avrebbero deciso di inviare le intercettazioni alla Procura di Roma per l’eventualità che il caso meritasse una diversa indagine. E dalla Procura romana le conversazioni finiscono sulle pagine di un settimanale.

Questo, almeno, è quello che sembra comprendere leggendo ciò che è apparso ieri sulla stampa. Di fronte a una storia di questo genere un uomo politico di medio buon senso dovrebbe interrogarsi anzitutto sul funzionamento di un sistema giudiziario in cui i magistrati sono molto impegnati da vicende del secolo scorso. E dovrebbe concludere, subito dopo, che la pubblicazione di intercettazioni segrete è diventata una patologia italiana, un virus che, come quello di un computer, annebbia lo schermo e ingarbuglia, sino a renderlo incomprensibile, il discorso della politica nazionale. Il problema, in questo caso, non è l’eventuale responsabilità di un ex presidente del Consiglio, forse un po’ troppo sensibile agli affetti familiari (sarà accertata, se mai, dalla magistratura).

Il problema è se sia giusto tollerare che uno strumento d’indagine destinato a favorire la ricerca della verità venga usato per seminare dubbi, alimentare chiacchiere e attizzare polemiche. I magistrati avrebbero dovuto preoccuparsene per primi e trovare rimedi anche sul piano organizzativo e amministrativo. Se non lo hanno fatto, tocca alla politica con una legge che, in linea di principio, non è difficile immaginare e scrivere. Ma tutto diventa terribilmente complicato se la classe politica preferisce servirsi di questi incidenti soprattutto per colpire l’avversario o speculare sulle sue intenzioni. La responsabilità in questo caso mi sembra essere soprattutto dell’opposizione. Anziché dirsi pronta a discutere con la maggioranza il tenore della legge, la sinistra ha preferito sospettare in questa «fuga» un’operazione diretta a favorire i disegni del governo.

Lo stesso Prodi, dicendosi indifferente alla pubblicazione delle intercettazioni, ha dato la sensazione di volere svalutare i sentimenti di solidarietà offerti da Berlusconi. Ma questo è un problema nazionale che occorre affrontare con serietà e senza secondi fini. L’opposizione troverà altri temi su cui dissentire dal governo e fare le proprie battaglie. Sul problema delle intercettazioni ha il dovere di lavorare in Parlamento per una legge che spenga le luci accese su questo brutto reality show.

30 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #21 inserito:: Settembre 13, 2008, 11:46:03 pm »

Mosca era pronta a intervenire nel più riottoso dei Paesi satelliti

L'Urss e la paura del contagio

La svolta che «evitò l'inferno»



Credo di conoscere gli argomenti con cui il generale Wojciech Jaruzelski si difenderà dall'accusa di «crimini comunisti» durante il processo iniziato ieri di fronte a un tribunale di Varsavia. Dirà anzitutto che la proclamazione dello «stato di guerra», nella notte fra il 12 e il 13 dicembre 1981, non ebbe, per il suo Paese «conseguenze irreversibili». E dirà in secondo luogo che la decisione del Consiglio di Stato, di cui era presidente, favorì la transizione della Polonia alla democrazia fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. La prima affermazione è difficilmente controvertibile. Le misure adottate nel periodo della legge marziale furono severe: coprifuoco, arresti, repressioni poliziesche, giudizi sommari, i nove minatori di Wujek, in Slesia, colpiti a morte dal fuoco di un reparto anti-sommossa.

Ma non stroncarono i movimenti dell’opposizione e non impedirono a Solidarnosc, l’organizzazione creata da Lech Walesa, di conservare ed estendere la sua influenza sulla società polacca. La seconda affermazione, come ogni esercizio di storia controfattuale («che cosa sarebbe accaduto se») è più discutibile e non riuscirà forse a convincere la corte. Ma Jaruzelski non ha torto quando scrive nella sua autobiografia, apparsa presso Bompiani nel 1992: «Chi può affermare che dopo la reazione a catena che si sarebbe inevitabilmente prodotta in Polonia e in Europa se non avessimo agito come abbiamo agito, sarebbero state possibili la perestrojka e la nostra "Tavola rotonda"? Chi oserebbe negare l’ipotesi che una guerra civile o, peggio, un intervento armato sovietico sicuramente inevitabile, non avrebbero congelato ancora per molti anni un mondo diviso, antagonistico, murato nei suoi patti militari e cristallizzato nei suoi bastioni ideologici? Noi polacchi abbiamo conosciuto il purgatorio. Senza affermare che oggi abbiamo diritto al paradiso, so che abbiamo evitato l’inferno». Mosca era pronta a intervenire. Lo avrebbe fatto anzitutto per una sorta di automatismo storico.

La Russia conosceva la febbre travolgente del nazionalismo polacco. Comunisti o no, i russi non avevano dimenticato né l’insurrezione del novembre 1830, né quella del 1863, né la furia con cui l’esercito del maresciallo Pilsudski, nel 1919, si era lanciato alla riconquista delle terre ucraine e bielorusse che erano state polacche prima delle grandi spartizioni. Dopo l’avvento del comunismo a Varsavia, alla fine della Seconda guerra mondiale, la Polonia era stata il più riottoso e imprevedibile dei satelliti sovietici. Vi erano stati gli scioperi del giugno 1956 e i 53 morti di Poznan.

Vi erano stati imoti operai di Danzica, Gdynia, Szczecin, provocati dall’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari alla fine del 1970, e i disordini del giugno 1976. Vi erano state l’elezione al papato dell’arcivescovo di Cracovia e le entusiastiche accoglienze che Giovanni Paolo II aveva ricevuto durante il pellegrinaggio patriottico del giugno 1979. Vi erano stati altri scioperi nell’estate del 1980. E vi era stata infine l’apparizione di un nuovo protagonista, Solidarnosc, capace di creare un blocco nazionale composto da operai, borghesi, intellettuali. Terrorizzata dal «contagio» polacco la dirigenza sovietica era pronta ad agire.

Jaruzelski giocò d’anticipo e prese su di sé le responsabilità della repressione. Solidarnosc, naturalmente, non ha mai accettato le giustificazioni del generale. Ma dieci anni dopo, quando la Polonia era ormai democratica, una vittima dello «stato di guerra», Adam Michnik rese al generale l’onore delle armi. Disse che il 13 dicembre 1981, se lo avesse avuto di fronte, gli avrebbe sparato. Ma aggiunse: «Reputo però molto importante — ed è in qualche modo una vittoria sua e mia — che oggi possiamo parlare fra di noi di queste cose senza odio, senza ostilità, con rispetto reciproco, restando fedeli ciascuno alla propria biografia. Se esiste una possibilità per la Polonia, e io credo che esista, essa risiede nella capacità dei polacchi di parlarsi senza odio e senza ostilità». Questo sguardo equanime sulle tragedie del passato polacco non appartiene evidentemente allo stile e alla cultura dei gemelli Kaczynski. Nel periodo, dal 2005 al 2007, quando Lech fu presidente della Repubblica (una carica che ancora conserva) e Jaroslaw Primo ministro, fu lanciata un’operazione, definita con parola liturgica lustracja, di cui il processo Jaruzelski è la manifestazione più clamorosa.

Grazie a questa «nuova inquisizione», come la definì Piero Ostellino nel Corriere del 4 aprile 2007, 700 mila polacchi sarebbero stati costretti a dichiarare pubblicamente i loro rapporti organici con il regime comunista. I gemelli avevano deciso di fare per via burocratica la guerra civile che il Paese era riuscito a evitare alla fine degli anni Ottanta. Fra coloro che rifiutarono di piegarsi all’obbligo dell’autocertificazione vi fu Bronislaw Geremek, storico, ex-ministro degli Esteri, parlamentare europeo, scomparso in un incidente automobilistico nel luglio di quest’anno. La morte gli ha impedito di assistere a un processo nel corso del quale i migliori dissidenti rifiuteranno probabilmente di testimoniare contro l’imputato.

Sergio Romano
13 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #22 inserito:: Ottobre 12, 2008, 05:04:34 pm »

IL RUOLO DELL’UNIONE

L’Europa e il vuoto americano


di Sergio Romano


Quando usciremo dal tunnel della crisi del credito e dalla recessione scopriremo che molto denaro avrà cambiato di mano e che le regole del mercato saranno state considerevolmente modificate. Vivremo allora in un mondo economicamente e finanziariamente diverso da quello in cui abbiamo vissuto e lavorato prima del crollo delle Borse e dei fallimenti bancari. Ma non vi saranno soltanto conseguenze economiche e finanziarie. Se occorre mettere in discussione il passato e correggerne gli errori, il processo sarà anche inevitabilmente politico e concernerà in primo luogo gli Stati Uniti, in secondo luogo l’Europa. Dopo la fine della guerra fredda, ma soprattutto dopo l’inizio della presidenza Bush, l’America ha fatto due politiche parallele e solo apparentemente contraddittorie. Sul piano finanziario è stata non interventista. Dall’alto del suo trono alla Federal Reserve, Alan Greenspan ha paternamente lasciato che la finanza inventasse i suoi strumenti e le sue regole. Interrogato al Senato sul più discusso di questi strumenti, ha detto nel 2003 che «i derivati sono stati un veicolo straordinariamente utile per trasferire il rischio da coloro che non vogliono correrlo a quelli che sono pronti ad accettarlo e ne sono capaci ».

Non siamo, quindi, vittima di un «errore umano», come vengono definite le distrazioni di un pilota. Ciò che è accaduto nelle scorse settimane è il risultato di una consapevole strategia finanziaria. Sul piano politico, invece, l’America è stata deliberatamente interventista. Ha vinto una frettolosa guerra in Afghanistan. Ha distrutto in poche settimane lo Stato iracheno. Ha creato nuove installazioni militari in Asia, in Africa, nei Balcani. Ha allargato la Nato sino a scavalcare di prepotenza i confini della vecchia Unione Sovietica. Vuole annettere all’Alleanza la Georgia e l’Ucraina, vale a dire Paesi che sono per Mosca ciò che il Messico e Cuba sono per Washington. Ha concluso accordi per la creazione di basi missilistiche in prossimità dei confini russi. Ha completato con l’indipendenza del Kosovo la ristrutturazione dei Balcani. Per una straordinaria coincidenza storica gli effetti delle due politiche sono diventati evidenti nello stesso momento. Mentre la crisi dei mutui si allargava sino a investire l’intera finanza internazionale, abbiamo assistito alla guerra georgiana e al brusco peggioramento dei rapporti di Washington con Mosca. Abbiamo constatato che non esiste ancora, a dispetto di qualche miglioramento, un nuovo Stato iracheno.

Abbiamo letto le dichiarazioni di un generale britannico e di un ammiraglio americano sulla precarietà della situazione afghana. Abbiamo capito che l’amicizia degli Stati Uniti ha avuto l’effetto di precipitare il Pakistan nella più difficile crisi della sua storia. Abbiamo preso nota del fatto che Washington incoraggia i topi a ruggire (è il caso della Georgia), ma non è in grado di liberarli dalla trappola in cui si sono cacciati. Non mi azzardo a prevedere le conseguenze di queste politiche fallite. Ma non è difficile immaginare con quali sentimenti di preoccupazione o compiacimento questo spettacolo sia visto da Pechino, Mosca, New Delhi, Teheran, Il Cairo, Ankara, Pyongyang, Tokio, Caracas o Brasilia. Non vi è potenza regionale che non s’interroghi sul futuro del mondo e non cerchi di usare, in un modo o nell’altro, il fallimento della leadership americana. Le responsabilità dell’Europa sono numerose. Dopo la clamorosa rottura del fronte europeo all’epoca della guerra irachena, l’Unione è ancora divisa fra quanti hanno deciso di stare con l’America, right or wrong, e coloro che l’assecondano nella speranza di evitare altri errori. Il risultato di queste divergenze, ogniqualvolta occorre decidere, è un minimo comune denominatore irrilevante.

Come presidente dell’Ue, Sarkozy ha fatto un buon lavoro a Mosca, a Tbilisi, a Bruxelles. Ma la somma dei suoi sforzi è alquanto modesta. Prevale ancora la consuetudine delle dichiarazioni personali, spesso ispirate dallo stile e dalla loquacità dei singoli leader, come i consigli agli azionisti del presidente del Consiglio italiano e le sue pubbliche riflessioni sulla chiusura dei mercati. Questo spettacolo dell’impotenza europea è peggio della crisi del credito. È la dimostrazione dell’incapacità di cogliere una straordinaria occasione storica. Il fallimento del non interventismo finanziario degli Stati Uniti offre all’Ue l’occasione di fare altri passi decisivi verso la propria unità creando ad esempio, accanto alla Banca centrale di Francoforte, un regolatore europeo dei mercati finanziari. Il fallimento dell’interventismo politico degli Stati Uniti dovrebbe incitarla a rompere gli indugi che ancora le impediscono di avere una politica estera e della sicurezza comuni: con tutti i membri dell’Ue, se possibile, con quelli che ci stanno se necessario. Con i suoi errori l’America ha creato un vuoto che molti altri Paesi, nei prossimi mesi, si affretteranno a riempire. Dopo più di cinquant’anni di sforzi e progressi unitari siamo giunti a un bivio. Possiamo scegliere, pigramente, di essere irrilevanti, o contribuire con le nostre proposte politiche a disegnare un ordine migliore di quello in cui abbiamo vissuto, contrariamente a ogni speranza, dopo la fine della guerra fredda.

12 ottobre 2008

DA corriere.it
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« Risposta #23 inserito:: Ottobre 27, 2008, 12:57:06 am »

POTERE E RESPONSABILITA'

L'obbligo di ascoltare

di Sergio Romano


Interpellati sull'opportunità di una grande manifestazione popolare contro il governo, i leader del Pd hanno risposto ricordando quella organizzata da Berlusconi durante il governo Prodi. Il confronto non mi convince. Dopo la magrissima vittoria delle sinistre nel 2006, la soluzione migliore sarebbe stata una coalizione al centro fra i riformisti dei due campi. Ma non la vollero allora né Romano Prodi né, a dispetto di qualche iniziale apertura, Silvio Berlusconi. Fu quello il momento in cui il leader di Forza Italia decise che il governo non avrebbe retto alle proprie contraddizioni e che occorreva accelerarne la fine. Il ricorso alla piazza non mi piacque, ma rispondeva a una strategia politica.

A quale strategia risponde la grande manifestazione del Circo Massimo? Il centrodestra ha vinto le elezioni e il governo gode di un consenso superiore al 60%. Leggo, qua e là, che la manifestazione sarebbe servita a «fare proposte». Mi chiedo se vi sia davvero qualcuno oggi, a destra come a sinistra, che conosca la ricetta con cui uscire dalla crisi del credito e sappia con buona approssimazione quali problemi dovremo affrontare nei prossimi mesi. La soluzione, quando verrà, sarà europea, se non addirittura atlantica; e il governo italiano, chiunque lo presieda, prenderà decisioni che saranno il risultato di una concertazione collettiva. Sperare che da una grande manifestazione di piazza potesse emergere un programma credibile era quindi, nella migliore delle ipotesi, illusorio. Potevano emergere invece risentimenti, denunce e quel gioco al rialzo verbale che è l'inevitabile ingranaggio di queste occasioni. Non penso che i leader del Pd volessero delegittimare Berlusconi (un esercizio già tentato inutilmente), credo che abbiano corso un rischio inutile e dato un'evidente dimostrazione di forza organizzativa ma di debolezza politica.

Di questa vicenda, tuttavia, sono responsabili anche il governo e soprattutto il suo leader. Berlusconi crede che i consensi del momento e la sua abbondante maggioranza (conquistata peraltro grazie a una particolare legge elettorale) gli permettano di governare per decreti e pubbliche sortite, di trattare l'opposizione come un'entità ingombrante e faziosa, di lamentarsi se i telegiornali e la stampa non raccontano la realtà che gli piacerebbe leggere e vedere, di affermare oggi e smentire domani come se gli italiani non fossero in grado di distinguere una dichiarazione dall'altra. Non comprende che l'esercizio del potere comporta anche obblighi e responsabilità. Ha il diritto di governare e di prendere in ultima analisi le decisioni che gli sembrano più opportune. Ma ha anche l'obbligo di informare, consultare, ascoltare. Per due ragioni. In primo luogo perché l'avversario umiliato e frustrato cede spesso alla tentazione di assumere atteggiamenti sempre più intransigenti e radicali. In secondo luogo perché la grande maggioranza degli italiani è stanca di litigi, insulti e accuse reciproche. Spero che Berlusconi non si illuda. Dietro i sondaggi rassicuranti delle ultime settimane si nasconde una marea crescente di scetticismo, rabbia e sfiducia che rischia d'investire l'intera classe politica. Stiamo andando verso momenti difficili durante i quali occorrerà prendere decisioni impopolari. Non servono né le grandi manifestazioni popolari né lo stile aggressivo del presidente del Consiglio. Servono nel rispetto dei ruoli una visione e un impegno comuni.


26 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Dicembre 04, 2008, 11:29:17 pm »

BERLUSCONI E I GIORNALI

Il tallone del seduttore


di Sergio Romano


Voglio credere che le parole del presidente del Consiglio sui direttori del Corriere e della Stampa («dovrebbero cambiare mestiere ») fossero soltanto una battuta, uno sfogo, ciò che si dice alla fine di una giornata particolarmente lunga e faticosa. Voglio crederlo perché Silvio Berlusconi è spesso un uomo gioviale, bonario, accattivante che si fa in quattro per suscitare ondate di simpatia e manifestazioni di affetto. Queste doti sono certamente una delle ragioni del suo successo. Gli hanno permesso di stringere amicizie influenti, di farsi strada nel mondo difficile degli affari, di attrarre intorno a sé uno stuolo di ammiratori fedeli, di creare un impero della comunicazione (il suo principale know-how), di convertire l'azienda in partito e gli ammiratori in elettori. I suoi critici possono considerare con scetticismo la diplomazia dei rapporti personali, ma è difficile negare che Berlusconi sia riuscito a stabilire eccellenti relazioni con Aznar, Blair, Bush e Putin. In un momento in cui la politica internazionale è diventata un palcoscenico e tutti i leader si comportano come primi attori, Berlusconi ha le qualità necessarie per recitare la parte con un certo successo.

Le stesse doti, tuttavia, possono essere in alcuni casi il suo tallone d'Achille. Abituato a sedurre, Berlusconi ricorda talvolta quei malati immaginari che misurano continuamente la loro temperatura. Il termometro, in questo caso, registra la simpatia e i consensi. Se lo strumento segnala un calo del calore affettivo che alimenta ogni giorno il suo ego, il presidente del Consiglio reagisce come un amante deluso e tradito. Se i suoi interlocutori non sono sensibili alle sue virtù di seduttore, è convinto che abbiano un'ostilità preconcetta nei suoi confronti. Anziché chiedere a se stesso se non abbia commesso un errore, Berlusconi presuppone immediatamente la malizia altrui. E' questo il momento in cui si difende da un nemico immaginario ricorrendo a un linguaggio goliardico e casermesco che non si addice a un uomo di Stato.

Queste sortite potevano essere comprensibili quando Berlusconi era un outsider, snobbato dai professionisti della politica e incalzato da un numero eccezionalmente elevato di inchieste giudiziarie. Vi furono effettivamente momenti in cui poté sentirsi assediato. Ma è difficile giustificare tali sentimenti in un uomo politico che ha vinto tre elezioni, ha costituito tre governi, ha una consistente maggioranza parlamentare e gode di un seguito che ha sempre superato in questi ultimi tempi il 60% dei sondaggi. Anche se molti dei suoi avversari non l'hanno ancora accettato e digerito, Berlusconi è un leader nazionale, rappresenta l'Italia nel mondo, ha il diritto e il dovere di governarla. Ma il suo compito e la maggioranza di cui dispone comportano alcuni obblighi, fra cui quello di evitare che il bipolarismo italiano diventi un conflitto permanente. Non si può essere ottimisti (come Berlusconi ama definirsi) e contribuire all'acido clima di ostilità contrapposte che sta avvelenando la politica italiana. Non si può incoraggiare il Paese a credere nel proprio futuro, soprattutto durante una grave crisi economica, e comportarsi come se l'Italia fosse un campo di battaglia fra chi ama il presidente del Consiglio e chi lo detesta. Non si governa soltanto con leggi e decreti. Si governa anche con lo stile, vale a dire fornendo all'opinione pubblica un modello di serietà, equilibrio, riserbo e, soprattutto, misura verbale.


04 dicembre 2008
da corriere.it
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« Risposta #25 inserito:: Dicembre 25, 2008, 09:46:39 am »

Editoriali           IL RUOLO DEI GIUDICI

Gli arbitri della politica


di Sergio Romano


L’Italia non è il solo Paese in cui la classe politica debba rendere conto alla giustizia delle sue azioni. In Francia un ex presidente della Repubblica e un ex Primo ministro (Jacques Chirac e Dominique de Villepin) sono soggetti a indagini giudiziarie. Negli Stati Uniti il governatore dell’Illinois è accusato di mercimonio politico (avrebbe cercato di vendere un seggio senatoriale al migliore offerente). In Gran Bretagna la polizia ha arrestato un deputato conservatore, membro del governo ombra, sospettato di avere coltivato una talpa negli uffici di un ministero per diffondere alla stampa notizie riservate. E tralascio il caso dei fondi segreti di Helmut Kohl, i traffici africani dei figli di François Mitterrand e Margaret Thatcher, i discussi finanziamenti raccolti da Bill Clinton per la sua fondazione, lo scandalo di Ted Stevens, senatore repubblicano dell’Alaska, estromesso dal Congresso per le sue spregiudicate relazioni con i lobbisti del suo Stato. La corruzione, purtroppo, è la tentazione ricorrente di tutte le democrazie e, a giudicare da certi dati, il morbo endemico di sistemi autoritari o semi- autoritari come quelli della Cina e della Russia. Là dove un uomo politico o un amministratore può decidere, con un timbro o una firma, il valore di un terreno, l’aggiudicazione di un appalto, l’elargizione di un sussidio o i corsi di Borsa di un pacchetto azionario, la carne è debole.

In Italia, tuttavia, il fenomeno presenta almeno tre caratteristiche che lo rendono più minaccioso e inquietante. In primo luogo è presente in molte amministrazioni locali, ma ha dimensioni quasi balcaniche soprattutto là dove il mercato dei voti dipende in parte dal braccio visibile della criminalità organizzata.

In secondo luogo il suo maggiore avversario, la magistratura, contribuisce ad aggravarne la percezione. Grazie all’intraprendenza dei procuratori, le azioni giudiziarie sono frequenti e clamorose, ma il tempo delle indagini, la durata dei processi e il numero delle assoluzioni o prescrizioni rendono la pena incerta e sottopongono la pubblica opinione a una sorta di doccia scozzese. Quando apprendono le prime notizie di uno scandalo, gli italiani si rafforzano nella convinzione che i politici siano «tutti ladri». Quando leggono, dopo una lunghissima attesa, che il numero delle assoluzioni supera di molto quello delle condanne, ne deducono che la politica, ancora una volta, è riuscita a farla franca.

Esiste infine una terza caratteristica, per certi aspetti ancora più grave. I politici sono tutti potenzialmente sul banco degli accusati, ma non resistono quasi mai alla tentazione di utilizzare polemicamente i guai dei loro avversari come una evidente dimostrazione della loro incurabile immoralità. All’epoca di Tangentopoli, la sinistra avrebbe dovuto comprendere che il sistema giudiziario stava uscendo dai confini delle proprie tradizionali competenze per diventare l’arbitro della politica nazionale. Ma ha preferito credere nella propria superiorità morale e, forse, nelle simpatie ideologiche di molti procuratori. Non ha capito che il morbo della corruzione può infettare la sinistra come la destra. Non ha capito che i procuratori, indipendentemente dalle loro preferenze politiche, si sarebbero innamorati del loro ruolo e del loro status sociale.

Anziché ammettere che certe misure, come la divisione delle carriere e qualche correzione all’obbligatorietà dell’azione penale, avrebbero contribuito ad azioni giudiziarie più puntuali e a un migliore clima politico e istituzionale, ha preferito arroccarsi su posizioni conservatrici e continuare a proclamare la propria moralità.

Questa non è certamente la sola ragione per cui il Paese, quindici anni dopo Mani pulite, non ha ancora una giustizia conforme alle proprie esigenze. Anche la destra, con le sue leggi ad personam, scritte per i bisogni di Silvio Berlusconi, ha molte responsabilità. Ma se la sinistra avesse detto pubblicamente ciò che molti suoi esponenti pensavano e che Luciano Violante ha più volte ripetuto negli ultimi tempi, si sarebbe risparmiata le umiliazioni di queste settimane e non dovrebbe piangere sul tempo perduto.

24 dicembre 2008


da corriere.it
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« Risposta #26 inserito:: Gennaio 26, 2009, 10:03:57 am »

BR E MINACCE A ICHINO

La sponda sociale

di Sergio Romano


Dopo gli insulti e le rabbiose dichiarazioni dei nuovi brigatisti e dei loro simpatizzanti durante il processo di Milano, Pietro Ichino ha dichiarato che gli imputati sono «isolatissimi » e ha aggiunto: «Nessuno fa loro da sponda, direi che rappresentano una malattia da curare». Sono le parole generose di un uomo che ha sempre reagito con sobrietà e senso della misura alle minacce di cui è stato vittima.

Ma l’episodio suggerisce riflessioni meno rassicuranti. Gli eredi delle Brigate rosse appartengono a una frangia della società presente in molti Paesi europei e soprattutto in quelli del Mediterraneo settentrionale, dalla Grecia alla Spagna. Sono eversivi, ferocemente violenti, e hanno una cultura anarchico-rivoluzionaria piuttosto che marxista. Sono marginali, minoritari e i loro attentati, nella maggior parte dei casi, sono tragiche manifestazioni d’impotenza, prive di rilevanza politica. Ma vi sono circostanze in cui possono approfittare di un disagio sociale, reclutare compagni di strada ai margini della società e ricattare con le loro denunce i partiti della sinistra istituzionale. È accaduto negli anni Settanta quando la grande espansione economica del dopoguerra creò, insieme a nuovi insediamenti industriali e a forti migrazioni interne, una nuova borghesia e un nuovo proletariato.

È accaduto più recentemente quando la globalizzazione e le nuove tecnologie hanno costretto il sistema economico e assistenziale dei Paesi europei a modernizzarsi. Accade, in forme più episodiche, ogniqualvolta una questione politica—la base americana di Vicenza, la presenza di un uomo politico sgradito, la guerra di Gaza—allargano l’area della protesta. Da soli questi brigatisti possono «soltanto» mettere una bomba o uccidere un «nemico del popolo», soprattutto se isolato e indifeso. Ma se riescono ad approfittare di un più vasto malessere e a nuotare in un mare più grande, questi gruppi possono governare una manifestazione, creare occasioni di scontro, provocare le forze dell’ordine, diventare vittime per meglio giustificare la propria violenza e conquistare una simpatia a cui non hanno diritto.

È successo nel G8 di Genova quando gli errori della polizia hanno finito per regalare ai dimostranti una immeritata e disastrosa vittoria morale. Potrebbe accadere nuovamente se la crisi del credito e la recessione creassero nuove fasce di povertà e precariato. I Paesi a rischio sono quelli in cui la crescita economica, negli ultimi anni, è stata forte, ma squilibrata e accompagnata da scandalosi fenomeni di corruzione e inefficienza amministrativa. Penso agli ex satelliti dell’Urss dove le manifestazioni degli scorsi giorni sono state, in alcuni casi, particolarmente violente. Penso soprattutto ad Atene dove la protesta ha pericolosamente sfiorato la guerriglia urbana e una delegazione italiana è andata a ringraziare i «fratelli greci» per l’appoggio ricevuto a Genova.

La Grecia potrebbe essere il ventre molle d’Europa, il luogo in cui si preparano i quadri per le battaglie di domani. Ichino ha ragione quando sostiene che i neobrigatisti non hanno «sponda», se con questa parola s’intendono i sindacati e i partiti di sinistra. Ma gli amici degli imputati di Milano cercheranno la loro sponda nel clima sociale dei prossimi mesi. Per il ministro degli Interni questo è un problema molto più serio delle manifestazioni islamiche di cui si è occupato in questi giorni.

25 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #27 inserito:: Marzo 18, 2009, 06:28:59 pm »

LA NASCITA DEL PDL

Se le fusioni non bastano


di Sergio Romano


La nascita del Pdl piacerà a tutti coloro che vorrebbero un’Italia bipolare: due grandi forze politiche in gara per il potere e destinate ad alternarsi alla guida del Paese. Credo che abbiano ragione. Dopo la scomparsa delle grandi ideologie messianiche del Novecento e la nascita di grandi spazi politico-economici, i partiti minori rappresentano soltanto passioni identitarie, interessi corporativi o stati d’animo contingenti. Possono essere utili per spronare i grandi partiti e rompere, di tanto in tanto, la grigia rigidità del bipartitismo perfetto, ma in molti Paesi, fra i quali l’Italia e Israele, hanno avuto l’effetto di complicare enormemente il governo della cosa pubblica e la soluzione dei maggiori problemi nazionali.

Se avremo finalmente due grandi partiti lo dovremo paradossalmente ad alcuni leader (Veltroni, Rutelli, Berlusconi, Fini) che, pur combattendosi da posizione opposte, hanno deciso di imitarsi e di avanzare su strade parallele verso uno stesso obiettivo. La durata e la felicità di questi matrimoni, tuttavia, non sono scontate. La nascita del Partito democratico ricorda per molti aspetti l’unificazione socialista nell’ottobre del 1966. Il Psi di Nenni e il Psdi di Saragat si fusero, ma conservarono le loro rispettive strutture, i loro apparati burocratici e persino i centralini telefonici delle due direzioni. Bastarono i risultati elettorali della primavera del 1968, quando il partito unificato conquistò il 15,5% alla Camera contro il 13,8% al Psi e il 6,1% al Psdi nelle elezioni precedenti, perché i due partiti rimproverassero all’unificazione le loro sventure e decidessero di divorziare.

Ciò che è accaduto al Partito democratico dopo le elezioni politiche dell’anno scorso dimostra che i matrimoni, soprattutto nella loro prima fase, sono fragili e possono sciogliersi bruscamente da un momento all’altro. I malumori visibili nel partito di Gianfranco Fini alla vigilia del Congresso che deve proclamare la fine di Alleanza Nazionale e la sua fusione con Forza Italia, suggeriscono le stesse riflessioni. Se confrontato al Pd, il Pdl ha certamente un vantaggio: la leadership di Silvio Berlusconi e la sua popolarità nel Paese. Ma una forza politica così strettamente legata al ruolo di una persona può maggiormente subire, soprattutto nella sua fase iniziale, i contraccolpi della cattiva fortuna. Siamo dunque condannati a un bipartitismo precario e provvisorio? Per rispondere a questa domanda conviene ricordare che il bipolarismo imperfetto costruito in Italia negli ultimi quindici anni è in buona parte il risultato delle due leggi elettorali con cui il Paese è andato alle urne dopo la riforma del 1993.

Vi sono stati due blocchi contrapposti perché i partiti hanno dovuto coalizzarsi per sopravvivere. Ma nei Paesi dove le famiglie politiche sono tradizionalmente numerose e la cultura rimane tenacemente proporzionalista, le leggi elettorali, come abbiamo constatato nel corso di questi anni, non bastano da sole a garantire l’unità delle coalizioni per la durata dell’intera legislatura. L’esempio francese può servirci a comprendere il problema italiano. In Francia il bipartitismo è il risultato di due fattori complementari: il doppio turno con un’alta soglia di sbarramento e l’elezione popolare del presidente della Repubblica. Ogni qualvolta la scena politica tende nuovamente a frammentarsi l’elezione presidenziale costringe i partiti a unirsi dietro un candidato con buone possibilità di vittoria.

Furono le istituzioni del generale de Gaulle che permisero a François Mitterrand di fare del partito socialista e di se stesso, negli anni Settanta, il partner maggiore della coalizione social-comunista. I comunisti sapevano che il loro candidato non poteva vincere e dovettero votare per lui. Non è tutto. Una volta superata la soglia del palazzo presidenziale, il capo della V Repubblica mantiene, grazie ai suoi poteri, l’unità del suo partito e costringe i suoi oppositori a fare altrettanto. La Francia continua ad avere una pluralità di forze politiche. Ma l’elezione del presidente semplifica il quadro elettorale, garantisce la stabilità dell’esecutivo e assicura una migliore governabilità. Questo non significa che le istituzioni francesi siano necessariamente adatte all’Italia.

Il bipartitismo e la governabilità possono essere ottenute con formule costituzionali che tengano maggiormente conto delle nostre consuetudini e delle nostre idiosincrasie. Ma è meglio ricordare che le fusioni non bastano. Occorre un quadro istituzionale che tenda alla creazione di due leader contrapposti. E occorre che questi leader abbiano i poteri necessari per mantenere uniti i loro rispettivi partiti. Fino a quando non avremo riformato quelle parti della Costituzione che concernono il premier, il governo e il Parlamento, le unificazioni rischiano di essere fragili e provvisorie.

18 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #28 inserito:: Marzo 27, 2009, 11:32:05 am »

LA FONDAZIONE DEL PDL

La doppia identità


di Sergio Romano


Silvio Berlusconi dirà oggi agli italiani quali siano la linea politica, la collocazione internazionale e le ambizioni del nuovo partito sorto dalla fusione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale. Sarà il discorso di un uomo orgoglioso e soddisfatto. Ne ha il diritto. La creazione del Pdl ripete il «prodigio» di Fi e dimostra che Berlusconi possiede una dote non comune: quella di annunciare un progetto e di realizzarlo nel giro di qualche mese. Fra il video trasmesso nel gennaio del 1994 e il discorso del predellino nel novembre 2007 esiste un punto comune. In ambedue i casi Berlusconi parla al Paese, assume un impegno pubblicamente, si mette al lavoro e mantiene la promessa.
Anziché giudicare il «Cavaliere» con i metri datati della loro cultura politica, i suoi oppositori farebbero bene a interrogarsi sulle novità del fenomeno Berlusconi e sul modo in cui ha modificato lo stile della politica nazionale.

Neppure Berlusconi, tuttavia, potrà dirci oggi se la fusione sia destinata a creare una formazione solida, omogenea, capace di affrontare senza spezzarsi gli inevitabili ostacoli che sorgeranno sulla sua strada. Non potrà dircelo perché quella che si compie oggi non è la solita fusione fra due partiti che, pur avendo percorso strade diverse, appartengono a una stessa specie. Fi e An sono animali diversi. Il primo è un partito padronale in cui il cemento ideologico è sostituito dalla personalità del fondatore. Non è più il partito-azienda che Berlusconi ha creato nel 1994, ma è pur sempre un partito del leader, dominato dallo stile delle sue grandi iniziative imprenditoriali. Non è più il prolungamento politico di un’azienda, ma non può essere il «partito delle tessere» e delle correnti, come i partiti italiani degli ultimi 65 anni. An invece è un classico partito del Novecento. Ha un’ideologia che si è progressivamente appannata grazie alla strategia di Gianfranco Fini, ma sopravvive come sentimento nostalgico di un passato inutilizzabile e tuttavia ancora presente nelle viscere degli aderenti. Ha tesserati, militanti, sezioni, correnti, liturgie, «colonnelli».

In una storia che comincia nell’immediato dopoguerra, ha avuto molti leader — Almirante, Michelini, ancora Almirante, Fini, Rauti, ancora Fini — e ha dimostrato di potere sopravvivere alle scosse che generalmente accompagnano i cambiamenti del vertice. Anche le sue scissioni dimostrano paradossalmente che esiste nel partito, comunque si chiami, un’ortodossia che può essere rivendicata da chi non si riconosce nel suo segretario. Ha cambiato pelle sotto la spinta degli avvenimenti e ha dimostrato di potere essere una forza di governo. Ha un leader, Fini, di cui il Paese riconosce le qualità. Ma è per molti aspetti l’opposto di Fi. Rinuncerà a se stesso per identificarsi con il partito nuovo? Molto dipende dalle verifiche elettorali. Nulla convince quanto il successo. Ma se le elezioni non dessero un risultato superiore alla somma dei risultati raggiunti dai due partiti quando erano separati, la crisi sarebbe probabilmente inevitabile. Esiste poi il fattore Berlusconi.

Nei regimi presidenziali o semi-presidenziali il partito ha un leader naturale rappresentato dal vincitore delle elezioni. In un Paese che vive da quasi vent’anni in una specie di limbo costituzionale, la sorte del leader è la sorte del partito. Se Berlusconi vuole che la sua creatura sopravviva, dovrà dedicarsi d’ora in poi a qualcosa che probabilmente non gli è congeniale: l’avvento del successore.

27 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #29 inserito:: Aprile 09, 2009, 11:14:20 am »

Oltre l'emergenza


di Sergio Romano


Proviamo a parlare del terremoto abruzzese, anche se è difficile farlo in questo momento, con la freddezza e il distacco con cui giudicheremmo l’avvenimento osservandolo da un Paese straniero. L’Italia non è molto diversa da quella delle inondazioni e dei sismi degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Il Paese ha una pessima conformazione geografica, un traballante sistema orografico e fluviale, un’alta densità demografica, ed è esposto, più di altre regioni europee, al rischio di grandi calamità naturali.

Non possiamo evitarle, ma possiamo ridurne il pericolo e mitigarne gli effetti. Basterebbe, per raggiungere lo scopo, evitare di costruire nelle zone a rischio e applicare diligentemente le precauzioni rese possibili dall’edilizia moderna. La California e il Giappone sanno che verranno colpiti da un grande terremoto nel corso dei prossimi trent’anni, ma hanno fatto il possibile per ridurne le conseguenze. Anche noi sappiamo che la terra continua a tremare sotto di noi, che il Vesuvio non è spento, che i torrenti dell’Appennino possono diventare spaventose macchine da guerra, che i nostri boschi sono male custoditi e governati, che Venezia è esposta a rischi mortali.

Ma l’arte del pensare sui tempi lunghi sembra essere estranea alla nostra natura. Le leggi esistono, ma vengono sistematicamente sconfitte da una potente coalizione di interessi elettorali, fatalismo individuale, imperizia amministrativa, affarismo spregiudicato, instabilità governativa e una somma di cavilli giuridici che metterebbe in ginocchio il più illuminato dei riformatori. Fra la preveggenza e il tornaconto, politico o individuale, vince quasi sempre il tornaconto. Ma il Paese imprevidente può essere al tempo stesso, nel momento del pericolo, generoso ed efficiente.

Nella tragedia abruzzese le istituzioni hanno reagito con rapidità e le organizzazioni del volontariato hanno risposto all’appello con una prontezza di cui altri Paesi, più inclini alla programmazione, non sarebbero capaci. Dopo gli show e le sortite goliardiche della settimana scorsa il presidente del Consiglio ha dimostrato che dentro l’impresario teatrale vi è l’imprenditore, capace di organizzare e di gestire. La Protezione civile può avere commesso qualche errore di supponenza, ma il suo direttore ha provato con i fatti che era pronta ad affrontare l’emergenza.

I partiti, sui due lati dello schieramento politico, hanno capito che il gioco delle reciproche accuse sarebbe stato in questo momento irresponsabile. Di fronte all’Italia peggiore è apparsa, in altre parole, l’Italia migliore. Ma non possiamo fermarci a questa constatazione. Le virtù dei momenti difficili non possono condonare i vizi dell’altra Italia, quella che vive spensieratamente alla giornata senza pensare al futuro. Non basta ricostruire l’Abruzzo. Occorre pensare sin d’ora alla prossima calamità. E’ il solo modo per evitarla.

09 aprile 2009

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