LA-U dell'OLIVO
Novembre 25, 2024, 10:43:26 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 6 7 [8] 9 10 ... 12
  Stampa  
Autore Discussione: SERGIO ROMANO.  (Letto 96252 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #105 inserito:: Agosto 24, 2011, 10:10:12 am »

LIBIA, UN REGIME MORTO E TROPPI EX AMICI

I veleni in coda a una dittatura

Il regime di Gheddafi è virtualmente morto, ma potrebbe riservarci ancora qualche sorpresa. Non commettiamo l’errore di pensare che il Colonnello sia stato sempre impopolare. Le sortite nazionaliste e anti-occidentali piacevano a una parte della società libica e dell’opinione pubblica africana. I laici e i musulmani moderati approvavano il rigore con cui aveva combattuto e spento i focolai dell’islamismo radicale. Le straordinarie risorse naturali del Paese hanno arricchito il clan familiare del leader e creato una larga cerchia di profittatori, ma hanno anche consentito la nascita di nuovi ceti sociali, soprattutto negli apparati della pubblica amministrazione e dell’economia statale.

Accetteranno, senza opporre resistenza, di rinunciare a ciò che hanno conquistato? Non tutti coloro che hanno combattuto per lui negli scorsi mesi erano mercenari prezzolati o poveri soldati costretti dai loro ufficiali a morire per il capo. La guerra civile ha creato rancori che potrebbero riemergere nei prossimi mesi e minacciare la stabilità del Paese. Le tribù sono entità complesse e imprevedibili su cui abbiamo informazioni insufficienti. Quanto tempo sarà necessario perché la Libia possa considerarsi interamente pacificata? Dov’è, nelle file dei ribelli, la dirigenza che sarà in grado di assicurare la transizione? Fra coloro che andranno al potere dopo il crollo del regime, molti chiederanno giustizia. Il Tribunale penale internazionale, in particolare, sarà felice di affermare la propria competenza e sembra pronto a processare sia Gheddafi, se la sua vita non terminerà in un altro modo, sia i figli e altri membri del suo clan familiare.

Un processo a Gheddafi sarebbe una pietra miliare nella lunga strada verso la giustizia internazionale. Ma qualcuno ricorderà un brillante testo teatrale, pubblicato a Londra durante la Seconda guerra mondiale, in cui un uomo politico laburista, Michael Foot, mascherato sotto lo pseudonimo di Cassius, immaginava un processo a Mussolini dopo la fine del conflitto. Nel brillante pamphlet dell’autore la prima mossa dell’imputato era quella di chiamare sul banco dei testimoni tutti gli uomini politici britannici che lo avevano elogiato e adulato. Quanti uomini politici, soprattutto europei, verrebbero convocati all’Aja per rendere conto dei loro rapporti con il leader libico? La fine del regime di Gheddafi è una buona notizia. Ma se vogliamo che sia utile al futuro della Libia e più generalmente a quello dei Paesi dell’Africa del Nord, nessuna di queste domande può essere ignorata o sottovalutata. Non basta salutare la fine del tiranno, la vittoria del popolo, il trionfo della democrazia.

Occorre aiutare i libici a superare questa fase, a dotarsi di un governo credibile, a impegnarsi il più rapidamente possibile nella ricostruzione politica ed economica del Paese. La Nato ha fatto la guerra e dovrebbe dare un contributo alla pace. Ma dubito che abbia i mezzi e le competenze necessarie per un lavoro estraneo alla sua cultura e alle sue esperienze. Il compito quindi è dell’Europa e in particolare dei Paesi della regione, fra cui, in prima linea, l’Italia e la Francia. Ma saremo tanto più efficaci quanto più eviteremo di perseguire, come in passato, obiettivi e interessi individuali di corto respiro. Dall’unità dell’Europa dipende oggi il futuro della Libia.

Sergio Romano

24 agosto 2011 07:37© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_24/i-veleni-in-coda-a-una-dittatura-sergio-romano_8e40bc74-ce0e-11e0-8a66-993e65ed8a4d.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #106 inserito:: Settembre 21, 2011, 11:45:20 pm »

L'USCITA DI SCENA DEL PREMIER

Una possibile soluzione

Il giudizio di Standard & Poor's sull'Italia fa esplicito riferimento, con motivazioni politiche, alla credibilità internazionale e alla tenuta del governo. Ma, io ritengo, se il presidente del Consiglio fosse costretto a dimettersi domani, le agenzie e i mercati s'interrogherebbero sulla stabilità del sistema politico italiano e sulla sua capacità di fare fronte agli impegni assunti con l'ultima manovra finanziaria. Credo che l'abbassamento del rating dipenda soprattutto dalla constatazione che il Paese non cresce e paga il debito soltanto con imposte sempre più salate: una ricetta che può soltanto garantire un futuro peggiore del presente.

Ma esiste un altro rating , più importante, ed è quello del Paese. Il problema in questo caso è certamente il presidente del Consiglio. Berlusconi è stato per molti italiani una speranza di stabilità politica e dinamismo economico. Oggi quella speranza si è dissolta sotto il peso di una micidiale combinazione di promesse non mantenute, incidenti di percorso, scandali, comportamenti indecorosi e sorprendenti imprudenze. Oggi il maggiore problema italiano è la fine dell'era Berlusconi. Tutti, anche i migliori tra i suoi amici, sanno che l'era è finita e che Berlusconi deve uscire di scena. Ma non vi è ancora un accordo sul modo in cui voltare pagina. Qualcuno spera che la mirabolante e tempestosa storia del cavaliere di Arcore termini in un tribunale alla fine di un processo per corruzione, frode o indegnità morale. Altri sperano in un risolutivo messaggio alle Camere del capo dello Stato. Sono due soluzioni che avrebbero uno stesso effetto: quello di provare l'impotenza della democrazia italiana, la sua incapacità di affrontare il problema con gli strumenti propri di un sistema democratico. Berlusconi deve andarsene, ma in un modo che non faccia violenza alla Costituzione e salvi ciò che della sua fase politica merita di essere conservato.

Penso in particolare al suo partito. Non è interesse di nessuno che una grande forza politica, votata in tre circostanze dalla maggioranza degli elettori, si dissolva. Per evitarlo, per lasciare un segno del suo passaggio terreno, Berlusconi dovrebbe annunciare che non si candiderà più alla guida del governo e che le elezioni avranno luogo nella primavera del 2012. I sette od otto mesi che ci separano dalla prossima scadenza elettorale avrebbero un effetto simile a quello che si è prodotto in Spagna quando Zapatero ha rinunciato al terzo mandato e ha poi anticipato le elezioni al 20 novembre di quest'anno. La sua mossa ha favorito l'intesa con l'opposizione su alcune questioni d'interesse nazionale e ha dato al candidato socialista, il ministro degli Interni Alfredo Pérez Rubalcaba, il tempo necessario per consolidare il suo ruolo al vertice del partito.

I vantaggi per l'Italia sarebbero considerevoli. Daremmo all'Europa e al mondo lo spettacolo di un Paese che è capace di organizzare razionalmente il proprio futuro, magari cambiando (ma non mi faccio grandi illusioni) una pessima legge elettorale. Restituiremmo la parola a un'opinione pubblica che oggi può soltanto manifestare rabbia e insofferenza. Daremmo ai partiti il tempo di prepararsi al confronto elettorale. Confermeremmo a noi stessi che gli italiani possono risolvere i loro problemi con i naturali meccanismi della democrazia. E Berlusconi potrebbe dire, non senza qualche ragione, che il merito di questa transizione è anche suo.

Sergio Romano

21 settembre 2011 07:45© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_21/possibile-soluzione-romano_43fd08b8-e40f-11e0-bb93-5ac6432a1883.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #107 inserito:: Ottobre 03, 2011, 06:20:59 pm »

REGOLE ELETTORALI E PROGRAMMI

Il quadro incerto del dopo Cavaliere

Un referendum sulla legge elettorale, soprattutto se è firmato da più di un milione d'italiani, cambia il quadro politico. Tutti coloro che avrebbero preferito evitarlo (esistono a destra come a sinistra) sanno che non è possibile attendere il responso della Corte di cassazione sulla validità delle firme e quello della Corte costituzionale sulla sostanza del quesito. Le soluzioni alternative vanno preparate subito. Qualcuno sosterrà che è meglio anticipare la fine della legislatura e andare alle urne con l'attuale legge elettorale. Altri penseranno che il modo più giusto e decoroso, per evitare la consultazione referendaria, sia quello di cambiare in Parlamento la legge elettorale. Fermo restando che tutto, anche un voto con questa legge, mi sembra preferibile al prolungamento dell'agonia, credo che lo straordinario successo dell'iniziativa referendaria comporti un obbligo politico e morale: quello di dare una risposta positiva al desiderio di una legge diversa.

La seconda soluzione, quindi, è preferibile. Ma migliorerà il pessimo clima italiano soltanto se questa nuova legge elettorale sarà il risultato di una intesa fra partiti di maggioranza e d'opposizione. Esistono due fronti che attraversano in diagonale il campo dei due schieramenti: i «bipolaristi» a cui preme conservare due grandi forze che si alternino alla guida del Paese, e i «proporzionalisti», ansiosi di tornare a un sistema in cui i negoziati per la formazione del governo cominciano dopo la chiusura delle urne e l'annuncio dei risultati. Se il Pdl, come ha detto il suo segretario, è risolutamente bipolarista, deve ricercare un'intesa con quella parte dell'opposizione che ha le stesse convinzioni.
Naturalmente non basta accordarsi sul nuovo modo di votare. Una nuova legge elettorale avvicinerebbe la data del prossimo voto e dovrebbe costringere i partiti a uscire dal circolo vizioso delle reciproche accuse e dalla vaghezza con cui fanno abitualmente le loro proposte. L'opposizione non potrà limitarsi a sostenere che il governo è stato commissariato dalla Banca centrale europea. Dovrà dirci che cosa pensa delle raccomandazioni di Trichet e Draghi in materia di pensioni, contratti aziendali, riduzione degli stipendi della funzione pubblica. Il Partito democratico dovrà dirci come intende scegliere il candidato alla guida del governo. Proporrà il segretario del partito o sceglierà il metodo delle elezioni primarie? L'opposizione non potrà continuare a compiacersi delle censure pronunciate dal cardinale Bagnasco sui comportamenti del presidente del Consiglio senza dirci contemporaneamente come intende affrontare i problemi bioetici che interessano la Chiesa. L'opposizione dovrà dirci che cosa pensa dei conflitti che coinvolgono le truppe italiane e se le sue posizioni in materia di politica estera saranno condivise dai partiti con cui intende allearsi per vincere le elezioni.

Sinora, per fare politica, bastava criticare l'avversario. D'ora in poi, con una nuova legge elettorale alle porte, occorrerà scendere dal pulpito delle denunce e delle indignazioni per formulare proposte precise e assumere impegni. Le stesse osservazioni, naturalmente, valgono per il governo, troppo incline a trarsi d'imbarazzo accusando l'opposizione di essere solo inutilmente polemica e pregiudizialmente ostile. Se il referendum avrà l'effetto di trasformare la rissa in dialogo e confronto, dovremo ringraziare non soltanto i suoi promotori, ma anche, uno per uno, quelli che lo hanno firmato.

Sergio Romano

02 ottobre 2011 15:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_02/Il-quadro-incerto-del-dopo-cavaliere_64d3fca2-ecc7-11e0-9c5b-49e285760169.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #108 inserito:: Ottobre 12, 2011, 12:08:34 pm »

L'EGITTO E IL SEGUITO DELLA PRIMAVERA

Il nuovo volto di piazza Tahrir


Può sembrare assurdo, a un primo sguardo, che piazza Tahrir, il luogo dove l'Egitto ha riconquistato la libertà, sia divenuta nelle scorse ore l'arena in cui si è combattuta una sorta di guerra civile fra la minoranza cristiana dei copti e l'ala militante dell'Islam radicale. Forse conviene rinunciare all'ottimistico entusiasmo degli scorsi mesi e cercare di comprendere che cosa stia effettivamente accadendo nei Paesi dell'Africa del nord in cui sono scoppiate le rivolte arabe.
Il popolo ha cacciato i nuovi Sultani, ma non i loro sodali e alleati. Ha abbattuto il vecchio regime, ma non è riuscito a creare partiti e movimenti capaci di utilizzare la vittoria per la costruzione di un nuovo sistema politico. Gli sms hanno riempito le piazze, ma non hanno trasmesso programmi e strategie elettorali. Ciò che sta accadendo ricorda per molti aspetti un'altra primavera dei popoli, quella del 1848 in Europa, quando i liberali, dopo le loro entusiasmanti vittorie, dovettero cedere alle forze della restaurazione - i sovrani, i militari, i ceti conservatori della società - molto di ciò che avevano conquistato nei mesi precedenti. In Tunisia il potere è nelle mani dei notabili, in Libia in quelle dei più saggi e accorti fra i collaboratori di Gheddafi, in Egitto in quelle dei militari, vale a dire di coloro che per più di sessant'anni il potere lo hanno già esercitato, anche se in forme e con responsabilità diverse, dietro le spalle di Nasser, Sadat e Mubarak.
Anche per le forze della restaurazione, tuttavia, la strada è irta di ostacoli. I militari sanno che la vecchia complicità con Mubarak ha intaccato la loro autorità. Sono imbarazzati, insicuri e quindi alla ricerca di nuovi alleati che sperano di avere trovato nei battaglioni della Fratellanza musulmana. Non è una cattiva strategia e potrebbe giovare alla creazione di un sistema politico che guarda alla Turchia di Erdogan più di quanto non guardi all'Arabia teocratica dei Saud. Ma nel vuoto creato dal collasso del sistema di Mubarak anche i Fratelli musulmani rischiano di essere scavalcati a destra dall'ala intransigente dell'Islam salafita. I militanti dell'integralismo religioso non si accontentano di ciò che è accaduto nello scorso gennaio e del ruolo maggiore che la Fratellanza avrà nell'Egitto di domani. Vogliono allargare la breccia, conquistare nuove posizioni, creare un regime in cui ogni norma sia nel Corano, o piuttosto nel modo in cui viene interpretato dai loro imam. Non possono scendere in piazza contro il Consiglio militare che governa la transizione; sarebbe troppo pericoloso. Ma possono accendere gli animi, innalzare il livello della tensione e inceppare il passaggio alla democrazia creando un nemico interno da combattere e distruggere. Questo nemico è la grande comunità copta, composta da una maggioranza greco-ortodossa e da una minoranza cattolica, forse dieci milioni di uomini e donne fra cui molti appartengono ai ceti sociali più dinamici e intraprendenti della società: un fattore che li rende maggiormente «detestabili», soprattutto in momenti di grandi strettezze economiche.
Spetta ai militari proteggerli. Se vuole contare sulla collaborazione dell'Occidente, il Consiglio supremo militare deve mettere la Fratellanza musulmana di fronte alle proprie responsabilità e impedire che i copti divengano le vittime del fanatismo islamista. Dimostrerà in questo modo che non intende piegarsi al ricatto dei salafiti e che è ancora in grado di governare la transizione.

Sergio Romano

11 ottobre 2011 07:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_11/romano-piazza-tahrir_f30b46da-f3c8-11e0-8382-87e70525ad6b.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #109 inserito:: Novembre 08, 2011, 09:58:06 am »

TROVARE SUBITO UNA SOLUZIONE

Lunga agonia, costi aggiuntivi

Sul Corriere del 21 settembre avevamo suggerito una via d'uscita che sarebbe stata utile a Silvio Berlusconi, al governo e soprattutto al Paese. Il presidente avrebbe annunciato che non intendeva chiedere un rinnovo del suo mandato e avrebbe proposto di anticipare le elezioni alla primavera dell'anno prossimo.

L'opposizione avrebbe smesso di concentrare tutto il suo fuoco polemico contro la persona di Berlusconi e si sarebbe preparata al voto con un programma su cui vi sarebbero stati confronti e discussioni. L'aria del Paese si sarebbe svelenita, l'Europa e i mercati avrebbero assistito con maggiore pazienza a una fase naturale della politica italiana, destinata a concludersi entro tempi certi, e il Pdl avrebbe avuto il tempo per organizzare il passaggio dei poteri dal suo fondatore all'uomo che ne avrebbe preso la successione.

Più o meno è quello che potrebbe accadere nelle prossime settimane. Ma in un quadro confuso e disordinato, dopo un lungo periodo durante il quale abbiamo trasmesso all'Europa l'immagine di un Paese allo sbando, privo di un progetto credibile, governato da un uomo che sembra ormai ossessionato dal dramma della sua fine e si accanisce al tavolo da gioco con la testardaggine di chi spera ancora di recuperare, con un'ultima carta, il capitale perduto. Se Berlusconi tiene all'immagine che lascerà di sé nella storia politica italiana di questi anni, temo che le sue scelte degli ultimi giorni siano state le peggiori possibili. Se crede che quest'ultima sfida possa giovare alla storia del suo governo, commette un imperdonabile errore. Non giova né al Paese, ingiustamente schernito dai partner europei e punito dai mercati, né a quel partito della destra moderata di cui ogni Paese democratico ha bisogno.

Tocca all'opposizione ora giocare le sue carte. Deve permettere l'approvazione del rendiconto (un atto dovuto che sarebbe assurdo e irresponsabile sabotare), ma può presentare una mozione di sfiducia e cercare di accorciare i tempi di questa lunga agonia. Attenzione, tuttavia. Nel chiedere la sfiducia l'opposizione deve anche dire con chiarezza con quale programma andrà al governo se riuscirà a vincere le prossime elezioni. Non può limitarsi a condannare Berlusconi. Deve anche indicare quale sarà la sua linea in materia di pensioni, mercato del lavoro, privatizzazioni, liberalizzazione degli ordini professionali. Per conquistare il consenso dell'Europa non basta agitare i cartelli e gli slogan degli indignati o di una qualsiasi manifestazione sindacale. Occorre un programma che risponda alle preoccupazioni della Banca centrale europea, della Commissione, dell'Eurogruppo, del Fondo monetario internazionale. In altre parole occorre un programma che assomigli alla lettera indirizzata al governo, qualche settimana fa, dal presidente della Banca centrale europea e dal governatore della Banca d'Italia.

Se l'opposizione si nascondesse dietro programmi generici, scritti con vaghezza per compiacere i suoi potenziali alleati della sinistra populista, gli osservatori stranieri giungerebbero alla conclusione che la fine del governo Berlusconi non significa necessariamente l'avvento di un governo più credibile e affidabile. E gli elettori andranno alle urne, se ci andranno, con gli stessi sentimenti di rabbia e frustrazione con cui hanno giudicato la politica italiana in questi ultimi anni.

Sergio Romano

08 novembre 2011 08:32© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_08/lunga-agonia-costi-aggiuntivi-sergio-romano_c5befd9e-09cf-11e1-8aac-d731b63fbb0f.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #110 inserito:: Novembre 20, 2011, 11:25:01 am »

LA SPAGNA AL VOTO, LA GRECIA E NOI

Tre crisi di governo, una sola lezione


Tra qualche giorno, dopo le elezioni spagnole, potremo guardarci indietro e constatare che tre membri dell'Unione europea - Grecia, Italia e Spagna - hanno cambiato, più o meno contemporaneamente, il loro governo. Le ragioni, in ciascuno dei tre casi, sono le stesse: la sfiducia dei mercati nella loro capacità di affrontare la crisi, le pressioni dei partner, della Commissione di Bruxelles, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale. La strada imboccata per cambiare il governo, invece, è per ciascuno di essi diversa. Un confronto può dirci molto sullo stile politico dei tre Paesi e sul modo in cui ciascuno di essi cerca di uscire dalla crisi.

Cominciamo dalla Spagna. Se il Partito popolare vincerà le elezioni, come è probabile, il governo sarà formato da Mariano Rajoy, un uomo privo di carisma politico, ma dotato di lunga esperienza ministeriale, acquisita durante i governi di José Maria Aznar. Durante la campagna elettorale i socialisti e i popolari si sono battuti con l'abituale durezza e ciascuno di essi ha detto agli elettori che la vittoria dell'altro sarebbe stata un male per la nazione. Ma il clima è stato civile e tale continuerà a esserlo, molto probabilmente, anche dopo l'eventuale passaggio dei poteri. Il merito è del premier uscente. Dal momento in cui il socialista José Luis Rodríguez Zapatero ha anticipato le elezioni e ha annunciato che non si sarebbe candidato, la Spagna ha avuto un calendario politico e la certezza che alla testa del governo vi sarebbe stato un volto nuovo: due fattori che hanno creato nel Paese e nei suoi partner europei il sentimento di una ragionevole attesa. E poiché il gioco interessava tutti i partiti, i socialisti e i popolari hanno giocato insieme perché l'operazione andasse a buon punto.

La situazione in Grecia era molto più complicata. Gli scioperi, le dimostrazioni popolari, le defezioni in seno al Partito socialista e i dispetti del maggiore partito di opposizione avevano reso il nodo della politica greca particolarmente imbrogliato. Il primo ministro George Papandreou ha creduto per un momento che avrebbe potuto sciogliere il nodo con un referendum popolare da cui il governo, sperabilmente, sarebbe uscito vincente. Ma i maggiori leader europei gli hanno fatto capire, giustamente, che un voto popolare in queste circostanze avrebbe avuto un esito incerto e reso ancora più aggressive le manovre dei mercati. A Papandreou non restava che dimettersi e lasciare il posto a un uomo che ha una riconosciuta abilità tecnica ed esperienza professionale. I due maggiori partiti, dal canto loro, hanno capito che soltanto la loro presenza congiunta nella squadra presieduta da Lucas Papademos avrebbe dato al governo ciò che il presidente del Consiglio non poteva dargli: una forte legittimità democratica.

In Italia la soluzione adottata dopo l'apertura della crisi assomiglia per certi aspetti a quella greca. Ma vi è una differenza importante. Benché invitati, i maggiori partiti hanno preferito non lasciarsi direttamente coinvolgere. Hanno votato la fiducia, e si spera che non facciano mancare il loro appoggio alle misure del governo. Ma vogliono avere le mani libere e il diritto di mandare a casa Mario Monti non appena ne avranno la convenienza. Non pensano alla crisi economica, alla sfiducia dei mercati, alla comprensibile impazienza dei partner. Pensano alle elezioni e non vogliono essere responsabili di tutto ciò che il governo Monti avrà fatto da qui ad allora. Dei tre Paesi mediterranei colpiti dalla crisi, l'Italia è quindi il solo in cui la politica, in uno dei momenti più difficili per il Paese, preferisca essere irresponsabile.

Sergio Romano

20 novembre 2011 | 9:29© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_20/tre-crisi-di-governo-in-una-sola-romano_902be06c-134c-11e1-8f9c-85bd5d41d537.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #111 inserito:: Novembre 27, 2011, 03:22:35 pm »

LA LINEA DURA DELLA MERKEL

Prigionieri europei del dogma tedesco

Non vado alla ricerca di attenuanti per la lentezza e la riluttanza con cui la Germania ha affrontato sin dall'inizio la crisi dell'euro. Ma dobbiamo almeno cercare di comprendere perché esista ormai una questione tedesca.

Dai primi decenni dell'Ottocento la Germania è una prodigiosa accumulazione di energie morali e materiali: un grande pensiero filosofico e storico, una galoppante rivoluzione industriale, una impressionante serie di scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, una straordinaria fioritura di talenti artistici nella letteratura, nella musica, nel teatro, nel cinema e nelle arti visive. Nel 1914 il Paese ha impiegato questa ricchezza per un «assalto al potere mondiale» (come fu definito dallo storico Fritz Fischer) che si è concluso con una umiliante sconfitta. Negli anni Trenta, dopo il fallimento della Repubblica di Weimar, ha cercato di raggiungere lo stesso obiettivo con nuovi mezzi, nuove strategie, una micidiale overdose di nazionalismo razziale. E il fallimento è stato ancora più catastrofico di quello del 1918.

Il terzo atto della storia tedesca comincia alla fine degli anni Quaranta. Il Paese analizza le ragioni della sconfitta, rinuncia al sogno del potere mondiale, s'impegna a espellere dal suo corpo sociale i virus dell'arroganza razziale, chiede perdono alle sue vittime e investe tutte le sue energie in un progetto economico fondato sulla necessità di evitare gli errori del passato: l'arroganza guglielmina, la fragilità economica della Repubblica di Weimar, la follia hitleriana. La conquista della grandezza economica e il trionfo del marco sono esattamente l'opposto dei progetti precedenti. Sono obiettivi di pace, non di guerra. Ma vengono perseguiti con gli stessi metodi del passato: coesione e disciplina sociale, rispetto delle regole, rigore intellettuale e soprattutto una programmazione accurata, diligente, inflessibile. Niente protegge il popolo tedesco dalle sue ricorrenti angosce romantiche quanto il sentimento di agire per realizzare un progetto minuziosamente concepito e preparato.

Ma anche nel terzo atto, come nei due precedenti, questa virtù nasconde un rischio. Una Germania priva di certezze diventa inquieta e nervosa, se non addirittura nevrotica. Correggere il programma lungo la strada per tenere conto di eventi imprevisti è quindi molto più difficile per i tedeschi di quanto non sia per i loro maggiori partner europei. È accaduto durante le due grandi guerre mondiali e sta accadendo purtroppo anche durante la guerra dell'euro. I predecessori di Gerhard Schröder e Angela Merkel sarebbero forse riusciti a modificare il piano in funzione della realtà. Ma i vecchi cancellieri, da Konrad Adenauer a Helmut Kohl, erano convinti che al loro Paese occorresse, insieme al successo economico, una forte integrazione europea.

Per Merkel, come per Schröder, l'Europa è una eredità a cui non è né intellettualmente né sentimentalmente legata. Questo non significa che non abbia capito la gravità della crisi. Dopo la sua resistenza iniziale, il cancelliere ha cercato di spiegare ai suoi concittadini che il salvataggio dei Paesi a rischio è un obbligo a cui la Germania, nel suo stesso interesse, non può sottrarsi. Ma non ha mai osato mettere in discussione gli assiomi che fanno parte del dogma economico tedesco, dal ruolo della Banca centrale europea agli eurobond. Lo farà, prima o dopo, ma rischia di farlo troppo tardi. Forse Mario Monti può spiegarglielo meglio di quanto non possa e sappia fare Nicolas Sarkozy.

Sergio Romano

27 novembre 2011 | 9:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_27/prigionieri-europei-del-dogma-tedesco-sergio-romano_47f5c430-18d2-11e1-be06-06f00295b4d4.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #112 inserito:: Novembre 29, 2011, 04:17:22 pm »

LA LINEA DURA DELLA MERKEL

Prigionieri europei del dogma tedesco

Non vado alla ricerca di attenuanti per la lentezza e la riluttanza con cui la Germania ha affrontato sin dall'inizio la crisi dell'euro. Ma dobbiamo almeno cercare di comprendere perché esista ormai una questione tedesca.

Dai primi decenni dell'Ottocento la Germania è una prodigiosa accumulazione di energie morali e materiali: un grande pensiero filosofico e storico, una galoppante rivoluzione industriale, una impressionante serie di scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, una straordinaria fioritura di talenti artistici nella letteratura, nella musica, nel teatro, nel cinema e nelle arti visive. Nel 1914 il Paese ha impiegato questa ricchezza per un «assalto al potere mondiale» (come fu definito dallo storico Fritz Fischer) che si è concluso con una umiliante sconfitta. Negli anni Trenta, dopo il fallimento della Repubblica di Weimar, ha cercato di raggiungere lo stesso obiettivo con nuovi mezzi, nuove strategie, una micidiale overdose di nazionalismo razziale. E il fallimento è stato ancora più catastrofico di quello del 1918.

Il terzo atto della storia tedesca comincia alla fine degli anni Quaranta. Il Paese analizza le ragioni della sconfitta, rinuncia al sogno del potere mondiale, s'impegna a espellere dal suo corpo sociale i virus dell'arroganza razziale, chiede perdono alle sue vittime e investe tutte le sue energie in un progetto economico fondato sulla necessità di evitare gli errori del passato: l'arroganza guglielmina, la fragilità economica della Repubblica di Weimar, la follia hitleriana. La conquista della grandezza economica e il trionfo del marco sono esattamente l'opposto dei progetti precedenti. Sono obiettivi di pace, non di guerra. Ma vengono perseguiti con gli stessi metodi del passato: coesione e disciplina sociale, rispetto delle regole, rigore intellettuale e soprattutto una programmazione accurata, diligente, inflessibile. Niente protegge il popolo tedesco dalle sue ricorrenti angosce romantiche quanto il sentimento di agire per realizzare un progetto minuziosamente concepito e preparato.

Ma anche nel terzo atto, come nei due precedenti, questa virtù nasconde un rischio. Una Germania priva di certezze diventa inquieta e nervosa, se non addirittura nevrotica. Correggere il programma lungo la strada per tenere conto di eventi imprevisti è quindi molto più difficile per i tedeschi di quanto non sia per i loro maggiori partner europei. È accaduto durante le due grandi guerre mondiali e sta accadendo purtroppo anche durante la guerra dell'euro. I predecessori di Gerhard Schröder e Angela Merkel sarebbero forse riusciti a modificare il piano in funzione della realtà. Ma i vecchi cancellieri, da Konrad Adenauer a Helmut Kohl, erano convinti che al loro Paese occorresse, insieme al successo economico, una forte integrazione europea.

Per Merkel, come per Schröder, l'Europa è una eredità a cui non è né intellettualmente né sentimentalmente legata. Questo non significa che non abbia capito la gravità della crisi. Dopo la sua resistenza iniziale, il cancelliere ha cercato di spiegare ai suoi concittadini che il salvataggio dei Paesi a rischio è un obbligo a cui la Germania, nel suo stesso interesse, non può sottrarsi. Ma non ha mai osato mettere in discussione gli assiomi che fanno parte del dogma economico tedesco, dal ruolo della Banca centrale europea agli eurobond. Lo farà, prima o dopo, ma rischia di farlo troppo tardi. Forse Mario Monti può spiegarglielo meglio di quanto non possa e sappia fare Nicolas Sarkozy.

Sergio Romano

27 novembre 2011 | 11:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_27/prigionieri-europei-del-dogma-tedesco-sergio-romano_47f5c430-18d2-11e1-be06-06f00295b4d4.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #113 inserito:: Dicembre 10, 2011, 10:31:35 am »

LA STORIA

Il federalismo mai amato (e boicottato) dagli inglesi

Londra ha portato i principi dell'economia di mercato

Il generale De Gaulle disse che la Gran Bretagna, se fosse entrata nella Comunità europea, sarebbe stata il cavallo di Troia degli Stati Uniti in Europa; e dette una chiara prova dei suoi sentimenti interrompendo bruscamente le trattative per l'adesione, iniziate nella prima metà degli anni Sessanta. La porta si aprì soltanto dopo le dimissioni del generale e l'elezione di Georges Pompidou alla presidenza della V Repubblica nel 1969, vale a dire in un momento in cui la Francia, indebolita dalla crisi del '68, non era più in grado di opporsi.

Anche nelle parole con cui Nicolas Sarkozy ha respinto le richieste di David Cameron nel dibattito sull'unione fiscale, vi è l'eco di antiche posizioni golliste. La Francia ha «inventato» l'Europa comunitaria e non ha mai rinunciato al desiderio di averne la leadership. Può accettare una sorta di condominio franco-tedesco, ma non è disposta a tollerare che la Gran Bretagna governi dalle coste dell'Europa, con le sue riserve mentali e le sue prerogative speciali, le sorti dell'Unione. Può accettare e favorire la collaborazione militare con la Gran Bretagna, come nel caso dell'operazione libica, ma nelle questioni che concernono l'Ue e le sue istituzioni la Francia non intende permettere che Londra abbia un diritto di veto.

Se la questione fosse esclusivamente in questi termini, l'Italia avrebbe in qualche circostanza il diritto di stare dalla parte della Gran Bretagna piuttosto che da quella della Francia. Finché l'Europa non sarà veramente e schiettamente federale, all'Italia interessa che al vertice dell'Unione vi sia un direttorio fluido, composto dai suoi maggiori Paesi, piuttosto che da una leadership francese o franco-tedesca. Quando ha parlato lungamente con David Cameron, prima dell'inizio del vertice di Bruxelles, Mario Monti ha fatto esattamente ciò che avevano fatto in circostanze analoghe i presidenti del Consiglio e i ministri degli Esteri italiani dell'era democristiana. Ma i termini del problema sono oggi diversi. Il punto in discussione non è, in questo momento, quello della leadership. Il punto è un altro. Quale delle soluzioni all'ordine del giorno può servire al superamento della crisi? È indispensabile, per mantenere la Gran Bretagna nell'unione fiscale, accettare le sue condizioni e le sue riserve? Per rispondere a questa seconda domanda è utile ricordare quale sia stata la politica europea di Londra dopo la nascita del Mercato comune.

Durante i negoziati per la creazione della Comunità economica europea, la Gran Bretagna fu invitata a farne parte. Rifiutò perché preferiva, secondo una famosa espressione di Churchill, il «gran largo», vale a dire il Commonwealth, il rapporto speciale con gli Stati Uniti e una politica europea compatibile con le sue ambizioni mondiali. Ma al tempo stesso voleva evitare una unione troppo stretta degli Stati europei e contrappose al Mercato comune un'Associazione europea di libero scambio (Efta, European Free Trade Association), costituita nel 1959 con la partecipazione di Austria, Danimarca, Norvegia, Svezia e Svizzera. L'Efta non era soltanto un progetto economico. Era la grande nave inglese che avrebbe raccolto a bordo i naufraghi del Mercato comune non appena la barca della Comunità europea fosse finita sugli scogli. Le cose non andarono secondo le previsioni della Gran Bretagna. Mentre l'Efta stentava a decollare e l'economia britannica soffriva di stagflation (una combinazione di stagnazione e inflazione), il successo del Mercato comune era confermato dall'espansione dei rapporti commerciali fra i sei Paesi che ne facevano parte. Qualche anno dopo Londra, pragmaticamente, prese atto dell'insuccesso del suo progetto, chiese di entrare nella Comunità, subì pazientemente il veto gollista e raggiunse lo scopo, finalmente, nel 1972. Aveva cambiato la sua tattica ma non la sua strategia. Non entrò nella Comunità per collaborare al progetto degli Stati fondatori. Vi entrò per sorvegliare da vicino il processo unitario e impedire che l'Europa divenisse una federazione. Perseguì lo scopo frenando gli ardori unitari dei suoi nuovi compagni di viaggio e ottenendo per sé, come nel caso della politica agricola comune, un trattamento particolare e privilegiato.

Questo non significa che il suo ruolo sia stato costantemente e coerentemente negativo. Portò con sé alcuni fondamentali principi dell'economia di mercato, il patrimonio delle sue esperienze internazionali e una grande serietà nell'applicazione delle regole pattuite fra i membri. Alcuni dei suoi commissari, da Roy Jenkins a Neil Kinnock e Chris Patten, furono impeccabilmente europei. Ma gli scopi della sua politica restavano fondamentalmente gli stessi: evitare che i progressi dell'Unione impedissero alla Gran Bretagna di essere il perno indispensabile di una grande comunità atlantica composta dall'Europa e dagli Stati Uniti.

Questo disegno divenne sempre più evidente a mano a mano che la Comunità europea progrediva sulla strada della sua unità. Al vertice europeo del Castello Sforzesco, nel 1985, Margaret Thatcher cercò inutilmente di opporsi alla convocazione di una conferenza intergovernativa che avrebbe fissato le tappe successive della costruzione europea. Durante i negoziati per l'Unione economica e monetaria (Maastricht 1992), il primo ministro John Major ottenne per il suo Paese il diritto di non sottoscrivere il protocollo sociale dell'Unione e di non adottare la moneta unica. Dopo il crollo dell'impero sovietico in Europa centro-orientale, Major fu il maggiore sostenitore dell'allargamento agli ex satelliti dell'Urss. Era convinto, con ragione, che un'Europa allargata e diluita avrebbe reso il federalismo ancora più difficile e remoto. Credemmo per un momento che l'arrivo di Tony Blair avrebbe modificato le grandi linee della politica britannica. Ma ci accorgemmo rapidamente che anche Blair, messo alle strette, preferiva il «gran largo» del rapporto privilegiato con gli Stati Uniti al futuro federale dell'Unione Europea.

Oggi la Gran Bretagna ha un primo ministro conservatore, esponente di un partito che nel corso dell'ultimo decennio, mentre era all'opposizione, ha accentuato le sue tendenze euroscettiche. Ma il suo governo, a cui partecipano anche gli europeisti del partito liberal-democratico, attraversa una grande crisi economico-finanziaria e scopre improvvisamente che la morte del detestato euro renderebbe ancora più gravi le condizioni del Regno Unito. Deve quindi aiutare gli altri Paesi dell'Ue a salvarlo, ma vorrebbe al tempo stesso un nuovo opt-out per i servizi finanziari britannici, vale a dire una sorta di extraterritorialità per la City di Londra; e cerca di ottenere lo scopo impedendo con il suo veto la conclusione di un nuovo trattato dell'Unione. Ma non può impedire che i suoi partner concludano una serie di accordi intergovernativi e corre il rischio di finire in un girone minore dal quale non potrà condizionare la politica di quella parte dell'Ue che vuole creare una unione fiscale. Sarà molto più difficile per Londra fare d'ora in poi la politica del doppio binario, ora europeo, ora atlantico. Ma la Gran Bretagna è un Paese pragmatico che riesce sempre, prima o dopo, a fare scelte realistiche. I Paesi dell'euro, nel frattempo, non hanno l'obbligo di aspettarla.

Sergio Romano

10 dicembre 2011 | 7:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/esteri/11_dicembre_10/il-federalismo-mai-amato-e-boicottato-dagli-inglesi-sergio-romano_9e08aa7a-22f7-11e1-bcb9-01ae5ba751a6.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #114 inserito:: Dicembre 15, 2011, 06:11:19 pm »

LO SFORZO DI MONTI, GLI ASSALTI LEGHISTI

Un professore senza allievi

Gli ostacoli, piccoli e grandi, che il governo Monti ha trovato sulla sua strada dimostrano quanto fosse fragile e spesso ipocrita il fronte della solidarietà nazionale che sembrava essersi costituito all'inizio del suo mandato. Vi è una parte della classe politica che ha fatto un passo indietro per ragioni di forza maggiore, ma non ha mai rinunciato al desiderio di continuare a tenere nelle sue mani, senza pagarne il prezzo, i fili del potere.

Monti, dal canto suo, ha dato a tutti una lezione di stile politico a cui eravamo disabituati. Ha ascoltato i suoi interlocutori. Ha risposto e argomentato con pacatezza e senso dell'umorismo. Ha cercato di tenere conto delle richieste che avrebbero reso la manovra più equa, ma non ha permesso che l'impianto dell'operazione venisse tradito e snaturato. Ha spiegato perché certe misure richiedano uno studio accurato dei loro effetti e non possano venire adottate sull'onda della rabbia o dell'indignazione. Ha evitato di lasciarsi trascinare in quegli sterili litigi che fanno la gioia delle telecamere, ma si lasciano alle spalle un vuoto sconcertante di idee e di programmi. Chi temeva che un governo tecnico tradisse la volontà degli elettori dovrebbe almeno confessare che il «tecnico» non sta facendo nulla che possa pregiudicare, alla fine della legislatura, le sorti della democrazia italiana.

Dietro le difficoltà frapposte al governo di Mario Monti vi è la vista corta di coloro che non hanno altro orizzonte fuor che quello della prossima scadenza elettorale. Non si chiedono che cosa accadrà dell'Italia se i mercati continueranno a scommettere contro il suo piano di risanamento economico e finanziario. Si chiedono soltanto che cosa accadrà delle loro modeste persone quando il Paese sarà chiamato alle urne. E se il prezzo della rielezione è rappresentato da qualche cedimento all'Italia delle mille famiglie corporative, sono pronti e premere perché venga pagato dal governo.

La Lega è ancora più spregiudicata. Il partito di Umberto Bossi non ha né memoria né programmi. Dimentica di essere stato al governo per più di tre anni. Dimentica di avere sottoscritto tutte le manovre di Giulio Tremonti e di avere avuto accesso, in quel periodo, a tutti i dati sulle reali condizioni economiche del Paese. Chiamato a parlare del futuro, brontola soltanto qualche sgangherata battuta sulla secessione e l'indipendenza monetaria della Padania. Declama slogan contro gli speculatori, i banchieri e gli affaristi, ma si comporta come i mercati quando scommettono contro un'azienda o un Paese e fanno di tutto perché la loro previsione si realizzi. Sa che nella società italiana, come in ogni altra società europea, vi sono legittime preoccupazioni per il futuro e spera soltanto di trasformarle in voti per sé stessa. Non partecipa alla discussione sulle misure da prendere e le cose da fare. Vuole soltanto le elezioni il più presto possibile ed è pronta a trattare qualsiasi dibattito parlamentare come l'occasione di un comizio preelettorale.

Mi chiedo se la Lega si renda conto che uno spettacolo come quello offerto al Paese e all'Europa durante la seduta di ieri al Senato rende il governo Monti ancora più necessario di quanto fosse al momento della sua costituzione.

Sergio Romano

15 dicembre 2011 | 8:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_15/romano_professore-senza-allievi_75af93ba-26e2-11e1-853d-c141a33e4620.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #115 inserito:: Gennaio 04, 2012, 07:44:20 pm »

LA CONCERTAZIONE IMPOSSIBILE

Rito fuori tempo (e fuori bilancio)

Il governo, i sindacati e gli incontri


Sui temi del lavoro il governo si prepara a incontrare le organizzazioni sindacali e a consultarle. I tempi sono stretti e dovranno tenere conto di alcune scadenze europee fra cui la riunione dell'Eurogruppo fissata per il 23 gennaio. I sindacati rispondono chiedendo al governo un «piano per il lavoro», vale a dire un progetto complessivo formato da misure economiche e dai mezzi finanziari necessari alla loro adozione. Susanna Camusso, segretario della Cgil, dichiara in una intervista a La Stampa di ieri che non «dobbiamo farci dettare i tempi da Bruxelles» e che «nelle trattative si può fissare la data d'inizio, non quella di chiusura». La parola «trattative», in questo contesto, significa concertazione. I sindacati non vogliono essere ascoltati. Vogliono «concertare», vale a dire concorrere alla definizione delle misure che il governo presenterà al Parlamento e ai suoi partner europei.

Conosciamo il metodo. La concertazione è stata per molti anni il totem intoccabile della democrazia consociativa, la formula magica che avrebbe garantito al Paese la pace sociale. Per la verità vi sono stati momenti eccezionali (durante gli «anni di piombo» e il governo Ciampi del 1993, per esempio) in cui il metodo è servito a sbloccare situazioni pericolose. Ma abbiamo fatto troppa esperienza di concertazione, nel corso degli anni, per non conoscerne gli inconvenienti. Il primo è d'ordine istituzionale. Il sindacato è una associazione di lavoratori e pensionati. Non rappresenta il Paese, non risponde della sua politica al corpo elettorale. Risponde soltanto a coloro che hanno deciso di associarsi per meglio difendere i loro interessi. Quando chiede la concertazione, il sindacato pretende per i propri soci più poteri di quanti ne abbia un cittadino qualunque, vuole essere una sorta di condomino, un passaggio obbligato, un contropotere, e stravolge i principi fondamentali della democrazia rappresentativa. Il governo può ascoltarlo, consultarlo, studiare le sue proposte, ma non può dimenticare che le responsabilità del potere esecutivo non sono condivisibili e che il suo unico interlocutore istituzionale è il Parlamento, non un'associazione di categoria.

Il secondo inconveniente è d'ordine pratico ed economico. Quasi tutti gli accordi sottoscritti con il metodo della concertazione sono stati raggiunti grazie a compromessi che distribuivano compensazioni, permettevano al sindacato di esibire la prova del proprio potere, incidevano pesantemente sui conti dello Stato. Se abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi e accumulato un enorme debito pubblico, lo dobbiamo anche alla concertazione. Oggi il denaro per le compensazioni è finito, i compromessi a spese dell'Erario non sono più possibili e i tempi non sono dettati da Bruxelles, ma dalla necessità di correggere il più rapidamente possibile, nell'interesse del Paese, gli errori commessi in passato. Il sindacato ha funzioni importanti e deve essere in condizione di esercitarle con la massima libertà. Ma tra queste funzioni non vi è quella di concorrere al governo del Paese.

Sergio Romano

4 gennaio 2012 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_04/rito-fuori-tempo-e-fuori-bilancio-sergio-romano_dd42aa92-369d-11e1-9e16-04ae59d99677.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #116 inserito:: Gennaio 25, 2012, 10:55:22 pm »

QUANDO LA PROTESTA COLPISCE TUTTI

Ma l'illegalità è intollerabile

Fra le proteste siciliane e quelle degli autotrasportatori corrono molte differenze. Il movimento siciliano è il risultato di un malumore diffuso, alimentato forse anche da infiltrazioni mafiose, diretto principalmente (o almeno così dovrebbe essere) contro le autorità dell'Isola. La Sicilia ha uno statuto speciale e gode di un regime fiscale che consente ai suoi governanti di affrontare autonomamente almeno alcuni dei suoi problemi. Se questo non è accaduto, le ragioni della protesta sono anzitutto locali.

Quello degli autotrasportatori, invece, è un problema collegato in buona parte alla crisi del Paese ed è quindi interamente nazionale. Stiamo parlando di una categoria composta in gran parte da piccolissime aziende in cui il padrone è al tempo stesso un dipendente, investe il proprio denaro, contrae debiti con le banche, paga se stesso ogni mese con il frutto del proprio lavoro, ha un reddito che può essere drasticamente ridotto dal prezzo del gasolio e dei pedaggi.

In condizioni normali, tuttavia, le due proteste dovrebbero coinvolgere i partiti politici e le organizzazioni sindacali. Non è facile dare risposte politiche a un movimento difficilmente interpretabile come quello dei «forconi» e dare risposte sindacali alla protesta di una categoria composta da «padroncini». Ma questo dovrebbe essere, in una democrazia, il compito dei partiti e dei sindacati, soprattutto se vogliono continuare a essere nazionali. Gli uni e gli altri, invece, sembrano essere in queste due vicende sostanzialmente assenti. Il governo è composto da tecnici, ma è sostenuto da una maggioranza che ricorda per molti aspetti quella delle grandi coalizioni tedesche. I camionisti sono difficilmente sindacalizzabili, ma i sindacati amano considerarsi interlocutori totali del governo per tutte le questioni che abbiano ricadute economiche e sociali. Perché partiti e sindacati sembrano comportarsi come se le responsabilità fossero esclusivamente del governo?

Sbagliano per almeno due ragioni. In primo luogo le proteste, se affrontate distrattamente, potrebbero, soprattutto in questo particolare momento, contagiare altre categorie. Le liberalizzazioni hanno suscitato forti reazioni, ma i gruppi colpiti, con l'eccezione dei tassisti, sembrano comprendere che le misure adottate dal governo non spiacciono alla maggioranza degli italiani e che una reazione emotiva sarebbe inopportuna. In alcuni di questi gruppi, tuttavia, vi è un'ala che potrebbe cogliere l'occasione per alzare il livello della protesta.

In secondo luogo esiste un problema di legalità. Sappiamo che ogni categoria, per meglio farsi vedere e ascoltare, usa quando sciopera le armi, più o meno efficaci, del suo mestiere. Ma quando un gruppo si serve del proprio strumento di lavoro e della propria funzione per interrompere le comunicazioni sulle maggiori strade della penisola, il danno sofferto dall'economia nazionale è intollerabilmente superiore ai motivi della protesta. Nessuno ha il diritto di strangolare il proprio Paese per meglio risolvere i propri problemi. E nessun partito o organizzazione sindacale ha il diritto di considerare queste vicende come problemi del governo a cui è lecito voltare le spalle. Sui problemi di legalità, anche se spetta soprattutto all'esecutivo intervenire con fermezza, il silenzio dei partiti e dei sindacati sarebbe ingiustificabile.

Sergio Romano

25 gennaio 2012 | 10:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_25/romano-illegalita-intollerabile_221ac324-471b-11e1-8fa7-b2a5b83c8dfe.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #117 inserito:: Febbraio 20, 2012, 11:03:06 am »

ISTITUZIONI E MORALITÀ DELLA POLITICA

L'immagine del potere

Se coinvolgono uomini delle pubbliche istituzioni, gli scandali possono suscitare reazioni diverse. Quando il cancelliere tedesco Helmut Kohl fu accusato di avere utilizzato un finanziamento illecito per creare la rete del suo partito nella Germania dell'Est, molti provarono pena e simpatia per l'uomo che aveva brillantemente unificato il suo Paese. Quando un ex primo ministro francese, Dominique de Villepin, fu processato (e alla fine assolto) per un affare di tangenti che aveva sfiorato Nicolas Sarkozy e provocato un duro scontro fra due protagonisti della V Repubblica, fummo meno sorpresi. Qualcuno ricordò il caso dei diamanti di Bokassa che oscurò la carriera politica di Valéry Giscard d'Estaing, allora presidente della Repubblica. Altri pensarono agli affari africani del figlio di François Mitterrand e alle inchieste giudiziarie che pendevano sulla testa del presidente Jacques Chirac (condannato dopo la fine del suo mandato). Molti italiani decisero che Francia e Italia sono davvero «cugine». Quando il governatore dell'Illinois, Rod R. Blagojevich, è stato condannato per la vendita di un seggio senatoriale, la notizia non ha stupito nessuno. Sapevamo che negli Stati Uniti vi è sempre stata una classe politica spregiudicata, corrotta, venale, e che il Paese deve essere giudicato soprattutto per la severità con cui riesce a eliminare le sue mele marce.
Abbiamo reagito diversamente, invece, quando abbiamo appreso che il presidente della Banca nazionale svizzera Philipp Hildebrand era stato costretto a dimettersi da un'operazione valutaria della moglie, apparentemente favorita da notizie riservate apprese in famiglia. Dalla Svizzera, e soprattutto da una persona che appartiene al vertice della sua vita pubblica, non ce lo aspettavamo.
Questi episodi dimostrano che il nostro giudizio dipende in ultima analisi dalla reputazione di un Paese e soprattutto dall'immagine che vuole dare di sé al mondo. È questa la ragione per cui il caso del presidente della Repubblica federale tedesca ci sembra più grave delle clamorose vicende accadute in altre democrazie. Christian Wulff ha negato di avere avuto rapporti finanziari con un impresario della Bassa Sassonia, ma le indagini di un giornale, la Bild , lo hanno costretto ad ammettere l'esistenza di un prestito (500.000 euro) concesso a un tasso agevolato dalla moglie dell'imprenditore. Non è tutto. Una intercettazione telefonica (accade anche in Germania) lo ha colto mentre cercava d'impedire che il giornale continuasse a pubblicare articoli sulla vicenda. Avrebbe dovuto dimettersi, ma ha tentato di resistere grazie al sostegno di Angela Merkel, desiderosa soprattutto di mantenere al vertice dello Stato una persona amica. Abbiamo visto di peggio. Ma tutto questo accadeva mentre il Cancelliere e i suoi ministri davano lezioni di pubblica moralità alla Grecia e ad altri Paesi dell'eurozona.
Intendiamoci. È giusto che la Germania richiami i suoi partner all'obbligo di gestire i conti pubblici con rigore; ed è giusto ricordare ai greci che i loro problemi non sono soltanto finanziari. Alle origini della crisi vi sono i guasti di un sistema clientelare, la corruzione diffusa, l'evasione fiscale, le bugie che hanno nascosto per molto tempo la gravità del male. Ma nel modo in cui i tedeschi hanno trattato l'affare vi è stata una arroganza che nascondeva un sentimento di superiorità. Un bagno d'umiltà favorirebbe la soluzione della crisi greca e renderebbe l'aria dell'Europa più respirabile.

Sergio Romano

18 febbraio 2012 | 7:48© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_18/l-immagine-del-potere-sergio-romano_ed578ea2-59f7-11e1-bf04-228ddd739b1f.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #118 inserito:: Febbraio 29, 2012, 04:31:48 pm »

UNA MARCIA INTERROTTA (FORSE PER SEMPRE)

C'era una volta il federalismo

Nelle intenzioni del governo che l'ha istituita, l'Ici (Imposta comunale sugli immobili) era destinata a essere la chiave di volta del federalismo municipale. Ancor prima di trasformarsi in Imu (Imposta municipale unica) è diventata una indispensabile fonte di gettito per il bilancio dello Stato. Le Tesorerie comunali erano un simbolo dell'autonomia municipale. Una norma del decreto sulle liberalizzazioni prevede che i Comuni versino al ministero delle Finanze tutti i «residui attivi», vale a dire le somme stanziate ma non utilizzate. Il turismo è una delle competenze assegnate alle Regioni, ma il ministro Piero Gnudi non nasconde che le cose andrebbero meglio se di questa materia si occupasse lo Stato. La Sanità è certamente una competenza regionale, ma il federalismo sanitario si è rivelato molto costoso e ha avuto l'effetto di rendere ancora più drammaticamente visibile il divario di efficienza tra le regioni del Nord e quelle del Sud. Queste riflessioni coincidono con un periodo in cui lo Stato è costretto dalle circostanze a cercare, dovunque sia, il denaro di cui ha bisogno. È possibile che la marcia verso il federalismo, passata la bufera, riparta con il consenso pressoché unanime di questi ultimi anni?

Non ne sono sicuro. Sapevamo ormai da molto tempo che gli organi di governo locale (con l'eccezione di numerosi Comuni) sono diventati al tempo stesso sportelli di spesa e agenzie di collocamento. I loro organici e gli immobili costruiti per ospitarli hanno soltanto un rapporto remoto con le funzioni e le esigenze dell'ente. Servono a organizzare eventi spesso inutili (a ogni città il suo festival), a stipendiare consulenti, ad assumere nuovi funzionari e impiegati, a presidiare aziende di pubblica utilità. Servono, in ultima analisi, a conquistare voti nelle prossime elezioni. Se l'Italia fosse seriamente federalista, la Lega dovrebbe essere in prima fila tra coloro che chiedono la eliminazione delle Province. Ma il partito di Bossi, per conservare la sua base elettorale e continuare a sventolare la bandiera della Padania, ha bisogno, paradossalmente, dell'ente meno federale dello Stato italiano.

La crisi ha avuto un grande merito. Ha scoperchiato la pentola del cattivo federalismo e ha reso ancora più evidenti gli sprechi di cui è responsabile. Ha dimostrato che il sistema ha creato un nuovo feudalesimo e ha reso l'Italia più disunita di quanto fosse all'epoca dei festeggiamenti per il suo primo centenario. Il governo Monti non può perdere tempo prezioso per scrivere una nuova versione del Titolo V della Costituzione e non ha interesse a distrarsi dai suoi compiti principali per scendere in guerra contro tutti i baroni di questo federalismo clientelare. Ma la classe politica dovrà ricordare che l'Italia ha qualche possibilità di essere federale soltanto se il sistema verrà radicalmente pulito e rinnovato. Anche un buon federalista dovrebbe ammettere che il Paese, in questo momento, ha soprattutto bisogno di buoni prefetti.

Sergio Romano

29 febbraio 2012 | 8:06© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_29/c-era-una-volta-il-federalismo-sergio-romano_5ea37aea-62a3-11e1-8fe6-00ac974a54fa.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #119 inserito:: Marzo 27, 2012, 07:16:06 pm »

LA POLITICA E LA LEGGE ELETTORALE

Una questione di serietà

Si è molto parlato, dopo la formazione del governo Monti, di abdicazione, sospensione o sconfitta della politica, e si è persino detto che la semplice esistenza di un ministero tecnico rappresentava uno strappo alla democrazia. Abbiamo sentito queste affermazioni anche negli scorsi giorni, dopo l'approvazione della riforma del mercato del lavoro. Ma si è dimenticato che questo governo non ha mai avuto i pieni poteri, ha fatto leggi grazie al voto del Parlamento e ha potuto contare, bene o male, sull'appoggio di una grande coalizione che ambedue gli schieramenti, anche se in momenti diversi, avevano già ripetutamente auspicato. I politici sono usciti da Palazzo Chigi e dai ministeri romani, ma le leve del potere sono rimaste, in ultima analisi, a Montecitorio e a Palazzo Madama. Ce ne siamo accorti quando, dopo la riduzione degli spread , i partiti sono usciti, forse troppo presto, dal prudente riserbo delle settimane precedenti e hanno considerevolmente modificato il testo del decreto sulle liberalizzazioni. Avrebbero potuto farlo se il governo tecnico avesse avuto il potere di gestire gli affari della Repubblica in stato d'eccezione sino alla prossima tornata elettorale?

Per dimostrare che la politica non era stata esautorata i tre maggiori partiti avevano del resto una straordinaria occasione. Potevano approfittare di questa breve vacanza per accordarsi su un pacchetto di riforme costituzionali che avrebbe eliminato tra l'altro la paralizzante servitù del bicameralismo perfetto e permesso agli italiani di andare al voto con una legge meno iniqua e deformante di quella con cui abbiamo eletto le Camere nelle due ultime elezioni. Sembrava che il lavoro comune stesse dando qualche discreto risultato e che ciascuna delle parti fosse disposta a raggiungere una posizione comune, quando il processo sembra essersi inceppato. Sono bastate le divergenze sul percorso parlamentare della riforma Fornero (decreto o disegno di legge) e la vicinanza delle elezioni amministrative perché i partiti ridiventassero litigiosi e miopi, vale a dire più inclini a vedere le scadenze vicine piuttosto che il futuro istituzionale della nazione.

Questo, non la formazione di un governo tecnico, sarebbe il vero fallimento della politica nazionale. La legge elettorale è un errore da correggere. Aumenta il potere delle segreterie dei partiti e diminuisce quello degli elettori. Può creare maggioranze non soltanto sproporzionate e artificiali, ma anche fragili ed effimere. Vi sono riforme, come la riduzione del numero dei parlamentari e l'attribuzione di diverse competenze a ciascuna delle due Camere, che il Paese attende da almeno trent'anni e che le riforme federaliste dell'ultimo decennio hanno reso indispensabili. È possibile immaginare che il Paese torni al voto fra dodici mesi con un sistema che ha esasperato gli elettori e creato governi inefficienti? È possibile che la classe politica corra il rischio di spingerci ancora una volta verso una crisi che ha costretto il presidente della Repubblica a promuovere la formazione di un governo d'emergenza? Se cercheranno di attribuirsi a vicenda le responsabilità di un tentativo fallito e di una riforma ancora una volta rinviata, i partiti politici avranno raggiunto un solo risultato: quello di dare fiato alla rabbia dell'anti politica e di regalare voti a coloro che non hanno partecipato al tentativo riformatore delle scorse settimane. Non oso chiedere a questi partiti di fare l'interesse dell'Italia. Mi limito a suggerire che tengano almeno conto dei loro interessi.

Sergio Romano

27 marzo 2012 | 8:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_27/romano_89de71d2-77d0-11e1-978e-bf07217c4d25.shtml
Registrato
Pagine: 1 ... 6 7 [8] 9 10 ... 12
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!