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Autore Discussione: SERGIO ROMANO.  (Letto 96312 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Aprile 14, 2009, 02:47:50 pm »

14 APRILE 2008-2009

L'anno veloce della politica


di Sergio Romano


A un anno dalle ultime elezioni politiche e dopo 11 mesi di governo Berlusconi, continuo a pensare che il bipolarismo italiano (domani forse bipartitismo) presenti, rispetto al passato, molti vantaggi. Gli italiani non votano più per dare procure in bianco ma per scegliere un presidente del Consiglio. I governi hanno buone possibilità di restare in carica sino alla fine della legislatura. Se il risultato è incerto, come nel 2006, si torna, prima o dopo, alle urne. L’opposizione, nel frattempo, è costretta a riflettere sui propri errori e a riorganizzare le forze per la prossima partita. A molti italiani può non piacere essere governati da Silvio Berlusconi. Ma erano largamente di più gli italiani a cui spiaceva, un anno fa, essere governati da Romano Prodi. Abbiamo insomma la sola stabilità che si addica a un Paese democratico: quella che assicura contemporaneamente, con qualche inevitabile sbavatura, la continuità e l’alternanza. Avremmo quindi buoni motivi per essere abbastanza soddisfatti del modo in cui il sistema politico si è andato progressivamente assestando nel corso degli ultimi 15 anni.

Ho usato il condizionale perché questa stabilità, anziché tranquillizzare gli animi degli italiani, ha avuto effetti opposti. Ha scatenato una sorta di guerra civile fredda tra campi contrapposti, e ha suscitato in una parte considerevole del Paese una sorta di rigetto per l’intera classe politica. Invece di essere finalmente «normali» viviamo in uno stato di permanente litigiosità. Il problema non è soltanto italiano. Non vi è democrazia in cui la globalizzazione, l’immigrazione e la crisi del sistema finanziario non abbiano messo a dura prova la credibilità dei governi e dei partiti. Ma il clima politico italiano è peggiore di quello dei nostri partner europei. Abbiamo finalmente la stabilità, ma a un prezzo più alto di quello che il Paese possa permettersi di pagare.

Vi sono, per spiegare questo fenomeno, almeno due ragioni, strettamente speculari. L’opposizione continua a considerare Berlusconi una intollerabile anomalia, un leader, come scrisse l’Economist, «unfit to govern», non idoneo al governo del Paese. E Berlusconi, dal canto suo, continua a rappresentare se stesso come l’unico leader «fit to govern». Non è soltanto il vincitore delle elezioni, il capo del partito di maggioranza, il presidente del Consiglio. È il solo che possa modernizzare l’Italia e salvarla dal comunismo. Non si considera soltanto utile al futuro del Paese: si ritiene indispensabile. Questa auto-rappresentazione gli impedisce di completare la riforma della Costituzione d’intesa con l’opposizione. Sa che l’Italia ha urgente bisogno di cambiare le parti invecchiate della sua Carta e non può ignorare che una buona parte del centrosinistra è giunta alle stesse conclusioni. Ma il dialogo con l’opposizione comporterebbe la definitiva legittimazione dell’avversario e gli impedirebbe di continuare a giocare la carta dell’indispensabilità. E se la riforma, a queste condizioni, diventa improbabile, preferisce andare avanti così, nella speranza di fare da sé ciò che non vuole fare con altri.

È inutile chiedersi chi abbia, in questa guerra civile fredda, le maggiori responsabilità. Berlusconi è presidente del Consiglio e ha ragionevoli possibilità di restare in carica per altri quattro anni. Tocca a lui rompere il ghiaccio e passare, d’accordo con il centrosinistra, alla fase costituente. Ha certamente avuto il merito di creare le condizioni per un sistema politico più stabile. Si serva della vittoria per completare il lavoro.

14 aprile 2009

DA corriere.it
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« Risposta #31 inserito:: Aprile 22, 2009, 12:53:55 pm »

LA CONFERENZA ONU SUL RAZZISMO

A Ginevra dovevamo partecipare e batterci


di Sergio Romano


Come la conferenza precedente, anche «Durban II» si è conclusa con un comunicato pasticciato, zeppo di buoni propositi ed esortazioni generiche, privo probabilmente di pratiche conseguenze. Le posizioni, dentro e fuori la conferenza, erano troppo distanti.
I Paesi ex coloniali credono, non senza qualche ragione, che «razzismo» fosse quello dei conquistatori e non accettano lezioni morali dai loro vecchi padroni. I Paesi musulmani pensano che le critiche all’islamismo e il dileggio delle loro credenze siano colpe più gravi della durezza con cui i loro governi trattano gli oppositori. I Paesi arabi, in particolare, ritengono che lo Stato israeliano abbia usurpato le loro terre e trattato i loro connazionali come cittadini di seconda categoria. I Paesi occidentali non intendono rinunciare agli illuminati principi della loro migliore tradizione filosofica e chiedono al mondo di rispettarli. Ma quando un membro della loro famiglia li ha platealmente violati nel carcere di Abu Ghraib, a Guantanamo, nella pratica delle «consegne straordinarie» e persino nelle istruzioni impartite dal suo governo ai propri servizi di sicurezza, i cugini occidentali hanno chiuso un occhio o, addirittura, prestato la loro collaborazione. Sperare, in queste circostanze, che la conferenza di Ginevra potesse produrre una linea concordata, utile ed efficace, era ingenua illusione. Come tutti gli esercizi inutili, anche questo potrebbe lasciare una coda di risentimenti e rendere le grandi crisi internazionali ancora più imbrogliate e avvelenate.

Che cosa avremmo dovuto fare di fronte a un tale mostro diplomatico?

Partecipare o restarne fuori? Per rispondere a queste domande sono state espresse molte opinioni, fra cui quelle, appassionate e bene argomentate, di Angelo Panebianco e Paolo Lepri sul Corriere degli scorsi giorni contro la partecipazione. Proverò a sostenere la tesi opposta.

La conferenza di Ginevra non è una iniziativa privata. È un incontro promosso dall’Onu, nell’ambito delle sue attività istituzionali, e inaugurato dal suo segretario generale. Sapevamo che sarebbero stati pronunciati discorsi intolleranti e inaccettabili. Ma è forse la prima volta che propositi di questo genere turbano un dibattito delle Nazioni Unite? Decidemmo di boicottare l’Assemblea generale quando Nikita Kruscev si tolse la scarpa per batterla sul leggio del suo scranno e annunciò che il comunismo ci avrebbe sepolti? Gli assenti, a Ginevra, hanno dato agli altri la sensazione di non tollerare la sconfitta, di non voler essere minoranza.

Questa non è diplomazia: è una forma di presuntuosa arroganza. Noi italiani, in particolare, abbiamo dimenticato le parole di Giovanni Giolitti ai deputati che si erano ritirati sull’Aventino dopo il delitto Matteotti: «A mio avviso dovreste rientrare alla Camera». E quando il socialista Giuseppe Modigliani replicò «Per fare a revolverate?», il vecchio di Dronero rispose «Può darsi». Intendeva dire che persino la durezza del dibattito può essere preferibile a un atteggiamento che si propone d’inceppare un meccanismo istituzionale.

Avremmo dovuto andare a Ginevra per affermare le nostre verità, rintuzzare le faziose parole di Ahmadinejad, separare i faziosi dai ragionevoli (esistono anche quelli), comprendere le ragioni degli altri, lasciare agli atti della Conferenza programmi e concetti a cui avremmo potuto fare riferimento in altri momenti e circostanze. La Santa Sede lo ha fatto e ci ha dato, in questo caso, una lezione di laico buon senso.


22 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #32 inserito:: Maggio 12, 2009, 04:16:04 pm »

Immigrati e respingimenti

Tra ipocrisie e realta’

Uno dei maggiori esponenti del Partito democratico, Piero Fassino, dichiara che «respingere i barconi non è uno scandalo». La conferenza dei vescovi italiani disapprova il respingimento dei migranti e il reato d’immigrazione clandestina. Il rabbino di Roma evoca il ricordo di una nave carica di ebrei a cui fu impedito lo sbarco sulle coste americane. E il Partito democratico reagisce alle vicende degli scorsi giorni con un coro di voci discordi: da quelle di coloro che condannano il razzismo del governo o definiscono la sua politica «scandalosa», a quelle di coloro che approvano, con sfumature diverse, la linea di Fassino.

Tralasciamo la Cei e il rabbino. La prima rivendica la missione universale della Chiesa e parla in ultima analisi di se stessa e della propria vocazione. Il secondo è custode del passato ebraico e sente l’obbligo di ravvivare in ogni occasione la fiamma della memoria. Né l’una né l’altro hanno o avranno responsabilità di governo. Diverso, invece, è il caso dell’opposizione. Un partito che ha governato e si propone di tornare al potere non può limitarsi a sentenziare che le soluzioni del governo sono sbagliate, illegali e immorali. Deve contrapporre proposte utili e idee praticabili. Non può dire, ad esempio, che il problema deve essere affrontato e risolto negoziando accordi bilaterali per la restituzione dei migranti ai Paesi di cui sono cittadini. La formula ha dato buoni risultati nei Balcani, dove gli albanesi avevano un evidente interesse a collaborare con il governo italiano. Ma è destinata a produrre risultati mediocri quando l’altro Stato, come nel caso di alcuni Paesi nord-africani, controlla male il proprio territorio, ha una frontiera meridionale porosa ed è lieto di sbarazzarsi di persone che aggravano la sua situazione sociale.

Il solo accordo che ha qualche possibilità di funzionare è quello con la Libia. E’ un bell’accordo? No. Non ci piace che i migranti vengano inviati in un Paese dove saranno trattati, nella migliore delle ipotesi, con una rude indifferenza. Non ci piace che il governo italiano abbia respinto in tal modo anche coloro che avevano il diritto di chiedere asilo; e il presidente della Camera ha fatto bene a ricordare che il problema non può essere eluso. Ma l’accordo con i libici, purché osservato da Tripoli, è il solo che abbia qualche possibilità di scoraggiare il traffico di carne umana sulle coste del Mediterraneo. L’opposizione non può dimenticare che l’Italia, come la Spagna, è il più esposto e il più vulnerabile dei Paesi mediterranei. Siamo desiderabili perché siamo vicini, abbiamo un lunghissimo confine marittimo e apparteniamo al «sistema di Schengen », vale a dire a una grande area in cui il controllo dei passaporti è stato abolito. Sperare che l’Italia possa difendersi dall’immigrazione clandestina con gli strumenti di cui si servono i Paesi meno vulnerabili è una illusione. Se può essere di qualche consolazione ricordo che gli Stati Uniti adottano verso i profughi cubani (una categoria che dovrebbero trattare con particolare benevolenza) la stessa politica: li accolgono se sono riusciti a sbarcare, li cacciano se vengono fermati in mare.

Il Partito democratico, quindi, non può limitarsi a criticare. Se vuole essere credibile deve accettare l’ipotesi dei respingimenti, magari con maggiori controlli italiani e internazionali sui campi dei rifugiati in territorio libico, o chiedendo, nello spirito delle dichiarazioni di Fini, che le domande d’asilo vengano raccolte e verificate in Libia. Gli sarà più facile, in tal modo, cercare di correggere quelle parti della legge sulla sicurezza che puzzano di xenofobia e rispondono alle idiosincrasie della Lega piuttosto che alle reali esigenze del Paese.

Sergio Romano
12 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #33 inserito:: Maggio 27, 2009, 10:03:30 am »

Il consenso e la misura


Un mese fa, dopo il terremoto de­gli Abruzzi e la fondazione del Pdl, Berlusconi poteva legit­timamente sostenere di avere con sé la maggioran­za degli italiani. La soluzio­ne del pasticcio napoleta­no, la rinascita della compa­gnia aerea nazionale, la sua continua presenza sul cam­po, all’Aquila, gli effetti con­tenuti della crisi del credito sull’economia nazionale e gli affanni dell’opposizione gli garantivano un consen­so senza precedenti. E’ pos­sibile che qualche sondag­gio peccasse di una certa esagerazione, ma il suo compiacimento non era in­giustificato. Avrebbe dovu­to ricordare che i sondaggi sono soltanto istantanee e riflettono gli umori di un Paese per sua natura mute­vole. Il buon lavoro fatto a Napoli e in Abruzzo andrà verificato alla luce dei risul­tati. Cai non è ancora uscita dalla fase del rodaggio. Il Pdl contiene molte anime. La Lega ha un’agenda a cui non intende rinunciare. E come tutte le coalizioni, an­che quella di Berlusconi è una somma di reciproche convenienze, un patto de­stinato a durare sino a quando i soci ne traggono qualche vantaggio. Ma non è facile suggerire la pruden­za a un uomo che ha costru­ito la propria vita sulle fon­damenta dell’ottimismo.

Ora, dopo le vicende del­le scorse settimane, la fac­ciata dell’edificio di Berlu­sconi comincia a rivelare al­cune crepe. Nulla di vera­mente nuovo e sorprenden­te. Sapevamo che Fini, do­po il discorso pronunciato al congresso del Pdl, non avrebbe perduto occasione per sottolineare l’originali­tà delle proprie posizioni. Sapevamo che le baruffe per l’Expo avrebbero nuo­ciuto all’immagine di Mila­no e, quindi, a quella di Ber­lusconi. Sapevamo che l’al­leanza con il movimento di Raffaele Lombardo a Paler­mo era una operazione sici­liana, basata su logiche di­verse da quelle della politi­ca nazionale. Sapevamo che il processo Mills avreb­be continuato a spargere ve­leni. Nulla di ciò che è acca­duto in questi giorni era im­prevedibile e inatteso. Ma l’effetto di questi episodi è stato moltiplicato da una faccenda di cui, francamen­te, avremmo preferito non occuparci.

Penso al caso Letizia na­turalmente. Se il presiden­te del Consiglio afferma di non essersi comportato co­me un vecchio satiro sono pronto a credergli. Ma il ca­so non sarebbe scoppiato se Berlusconi non avesse creduto di potersi permet­tere comportamenti che provocano reazioni imba­razzate anche da chi non gli è pregiudizialmente osti­le. La vita privata diventa pubblica nel momento in cui sorge il sospetto che l’ebbrezza del consenso ab­bia alterato il concetto che Berlusconi ha di se stesso e delle sue funzioni. Sappia­mo che ha molti fedeli, di­sposti a sostenerlo in qual­siasi circostanza. Ma il suo vero successo dipenderà in ultima analisi da ciò che avrà fatto durante questa le­gislatura. L’Italia ha biso­gno di riforme strutturali e costituzionali. Deve supera­re la crisi e approfittarne per affrontare problemi, dalle pensioni al mercato del lavoro, che hanno lun­gamente rallentato il suo progresso. E’ giusto che il governo conti anzitutto sul­le proprie forze. Ma è sba­gliato credere che il proble­ma delle riforme istituzio­nali possa essere evocato a piacimento con dichiarazio­ni polemiche e iniziative unilaterali, sull’onda delle circostanze, come se non fosse all’ordine del giorno da almeno tre decenni e non richiedesse una intesa con l’opposizione. Con una formula che dovrebbe pia­cere a Berlusconi, l’unica cosa da fare in questo mo­mento è parlare di meno, lavorare di più.

Sergio Romano

27 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #34 inserito:: Maggio 31, 2009, 10:59:58 pm »

Accordi


La forza opaca della lobby russa


Non voglio credere che la scelta del governo tede­sco nel caso Opel sia sta­ta dettata da un pregiu­dizio anti-italiano. Credo anzi che la proposta della Fiat fosse in que­ste circostanze quella più confor­me alle logiche aziendali e al rigo­re economico di cui la Germania ha dato prova in altre circostanze. Il «tedesco», in questa faccenda, è stato Marchionne. Di fronte al di­segno che prevedeva la nascita di un grande gruppo automobilisti­co euro-americano, ma avrebbe comportato qualche inevitabile sa­crificio, il governo di Angela Me­rkel, invece, ha preferito la soluzio­ne che garantisce, a breve termi­ne, il mantenimento degli organi­ci delle ditte praticamente fallite. Non è una decisione lungimiran­te. Prima o dopo la nuova Opel do­vrà affrontare il problema delle sue dimensioni nel mondo e chiedersi se il futuro non sa­rebbe stato meglio garantito dalla solu­zione prospettata da Sergio Mar­chionne. Ma, al mo­mento della stretta finale, hanno pre­valso due fattori.

Il primo è di bre­ve respiro. A quattro mesi dalle elezioni, i due alleati della coalizio­ne tedesca hanno affrontato la cri­si dell’Opel tenendosi d’occhio so­spettosamente, ciascuno dei due pronto a trarre il massimo profitto dagli errori dell’altro. Può darsi che qualche esponente del partito cristiano-democratico avesse com­preso l’interesse della proposta di Marchionne. Ma Angela Merkel ha preferito non correre rischi.

Il secondo fattore è l’esistenza nella società tedesca di una poten­te lobby russa. Non penso soltan­to a Gerhard Schröder, ai suoi rap­porti con Putin, alla disinvoltura con cui ha dapprima favorito, co­me cancelliere, una grande inizia­tiva russo-tedesca (il gasdotto del Mare del Nord) e assunto poi la presidenza di uno dei suoi organi direttivi. Penso alla convinzione, molto diffusa nella società tede­sca, che Germania e Russia siano feli­cemente comple­mentari e che la pri­ma, grazie ai suoi capitali e alla sua tecnologia, possa recitare, in qualsia­si operazione con­giunta, la parte del partner anziano.

I due Paesi si sono ferocemente combattuti, ma la storia della presenza tedesca nella economia russa e degli accordi più o meno segreti conclusi dai due Paesi è più lunga di quella delle loro battaglie.

Comincia con la prima industrializzazione russa, fra l’800 e il ’900, e continua con il Trattato di Rapallo (1922), con la collaborazione militare ed economica del decennio successivo, con il trattato di amicizia e il protocollo segreto del 1939, con la impetuosa ripresa dei rapporti economici dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La lobby, anche in questo caso, ha vinto la sua partita. Ma potrebbe avere dimenticato che le partecipazioni azionarie russe, in questo momento, sono spesso opache e poco rassicuranti.

L’affare Opel si presta a qualche riflessione sulla politica italiana.
Il presidente degli Stati Uniti, in questa faccenda, non aveva altra scelta fuor che quella di accettare la decisione garantita dal governo di Berlino, ma il vertice telefonico fra Merkel e Obama, nelle scorse ore, mette implicitamente in evidenza l’assenza del governo italiano. So che gli interventi sono utili quando sono accompagnati da garanzie finanziarie e che l’Italia, in questo momento, non era in grado di offrire alcunché. Ma il confronto tra la serietà delle trattative di Berlino e la litigiosa frivolezza della politica italiana, soprattutto nelle ultime settimane, non è edificante.



Sergio Romano
31 maggio 2009

da corriere.it
« Ultima modifica: Maggio 12, 2010, 04:43:20 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #35 inserito:: Giugno 07, 2009, 12:01:50 pm »

Accordi

La forza opaca della lobby russa


Non voglio credere che la scelta del governo tede­sco nel caso Opel sia sta­ta dettata da un pregiu­dizio anti-italiano. Credo anzi che la proposta della Fiat fosse in que­ste circostanze quella più confor­me alle logiche aziendali e al rigo­re economico di cui la Germania ha dato prova in altre circostanze. Il «tedesco», in questa faccenda, è stato Marchionne. Di fronte al di­segno che prevedeva la nascita di un grande gruppo automobilisti­co euro-americano, ma avrebbe comportato qualche inevitabile sa­crificio, il governo di Angela Me­rkel, invece, ha preferito la soluzio­ne che garantisce, a breve termi­ne, il mantenimento degli organi­ci delle ditte praticamente fallite. Non è una decisione lungimiran­te. Prima o dopo la nuova Opel do­vrà affrontare il problema delle sue dimensioni nel mondo e chiedersi se il futuro non sa­rebbe stato meglio garantito dalla solu­zione prospettata da Sergio Mar­chionne. Ma, al mo­mento della stretta finale, hanno pre­valso due fattori.

Il primo è di bre­ve respiro. A quattro mesi dalle elezioni, i due alleati della coalizio­ne tedesca hanno affrontato la cri­si dell’Opel tenendosi d’occhio so­spettosamente, ciascuno dei due pronto a trarre il massimo profitto dagli errori dell’altro. Può darsi che qualche esponente del partito cristiano-democratico avesse com­preso l’interesse della proposta di Marchionne. Ma Angela Merkel ha preferito non correre rischi.

Il secondo fattore è l’esistenza nella società tedesca di una poten­te lobby russa. Non penso soltan­to a Gerhard Schröder, ai suoi rap­porti con Putin, alla disinvoltura con cui ha dapprima favorito, co­me cancelliere, una grande inizia­tiva russo-tedesca (il gasdotto del Mare del Nord) e assunto poi la presidenza di uno dei suoi organi direttivi. Penso alla convinzione, molto diffusa nella società tede­sca, che Germania e Russia siano feli­cemente comple­mentari e che la pri­ma, grazie ai suoi capitali e alla sua tecnologia, possa recitare, in qualsia­si operazione con­giunta, la parte del partner anziano.

I due Paesi si sono ferocemente combattuti, ma la storia della presenza tedesca nella economia russa e degli accordi più o meno segreti conclusi dai due Paesi è più lunga di quella delle loro battaglie.

Comincia con la prima industrializzazione russa, fra l’800 e il ’900, e continua con il Trattato di Rapallo (1922), con la collaborazione militare ed economica del decennio successivo, con il trattato di amicizia e il protocollo segreto del 1939, con la impetuosa ripresa dei rapporti economici dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La lobby, anche in questo caso, ha vinto la sua partita. Ma potrebbe avere dimenticato che le partecipazioni azionarie russe, in questo momento, sono spesso opache e poco rassicuranti.

L’affare Opel si presta a qualche riflessione sulla politica italiana.
Il presidente degli Stati Uniti, in questa faccenda, non aveva altra scelta fuor che quella di accettare la decisione garantita dal governo di Berlino, ma il vertice telefonico fra Merkel e Obama, nelle scorse ore, mette implicitamente in evidenza l’assenza del governo italiano. So che gli interventi sono utili quando sono accompagnati da garanzie finanziarie e che l’Italia, in questo momento, non era in grado di offrire alcunché. Ma il confronto tra la serietà delle trattative di Berlino e la litigiosa frivolezza della politica italiana, soprattutto nelle ultime settimane, non è edificante.


Sergio Romano
31 maggio 2009
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« Risposta #36 inserito:: Giugno 07, 2009, 07:50:12 pm »

Errori e sfortuna di Gordon

Serio e preparato, ma i tempi sono cambiati


Come scrive Le Monde, Gordon Brown, premier dal 27 giugno 2007, corre il rischio di non riuscire a festeggiare il secondo anniversario della carica nazionale che ha atteso per parecchi anni all’ombra di Tony Blair. Nella grande crisi britannica del 2008 (la più grave dopo quella degli Stati Uniti) vi è oggi anche il dramma di uomo intelligente, serio, solidamente preparato ad affrontare le grandi tribolazioni della finanza internazionale, ma drammaticamente sfortunato.

Raccontare rapidamente la sua storia può servire a comprendere la natura della crisi e del sistema politico britannico.

Quando i laburisti vinsero le elezioni nel 1997 e tornarono finalmente al potere, il merito fu certamente di Blair. Cambiò lo stile del partito, ereditò senza arrossire il liberismo di Margaret Thatcher e di John Major, consolidò i tradizionali rapporti della Gran Bretagna con gli Stati Uniti, ne rilanciò la presenza in Europa e cercò di creare, insieme a Jacques Chirac, il nucleo di quella che sarebbe dovuta diventare la politica militare dell’Unione europea. Con Blair il Labour smise di essere il partito severo e imbronciato dei Wilson e dei Callaghan, la forza politica che non si era mai completamente sbarazzata della sua vecchia anima sindacale, del suo dirigismo economico e di una robusta frangia massimalista.

Il Labour divenne allora un partito moderno, anzi «swinging » come gli inglesi amavano definire la loro capitale, capace di affrontare le sfide della modernità e utilizzare spregiudicatamente, per la sua immagine, tutte le risorse della nuova comunicazione. Con una camaleontica genialità Blair riuscì a essere amico di tutti: di Clinton e di Bush, di D’Alema e di Berlusconi, di Aznar e di Schröder, dell’arcivescovo anglicano di Canterbury e del cardinale arcivescovo di Westminster. Sotto il suo regno i servizi pubblici, dalla sanità ai trasporti, funzionarono mediocremente, ma l’economia registrò brillanti tassi di crescita, la Borsa distribuì favolosi dividendi e la City attirò da tutto il mondo migliaia di giovanissimi maghi del denaro, instancabili inventori di nuovi prodotti finanziari.

Nella sua veste di cancelliere dello Scacchiere, Gordon Brown amministrò le casse dello Stato e tenne con successo, accanto a Blair, le redini della finanza nazionale. Tutti sapevano che al momento della terza vittoria elettorale, nel 2005, i due artefici del successo britannico avevano stretto un patto e che Brown, dopo qualche mese, avrebbe preso possesso del numero 10 di Downing street. I pochi mesi divennero due anni durante i quali Blair, grande regista di se stesso, mise in scena con accorta lentezza lo spettacolo della sua dipartita.

Quando Brown poté finalmente succedergli, molti laburisti tirarono un sospiro di sollievo. Volevano rinnovare l’immagine del partito, correggere gli effetti di alcune discusse decisioni di Blair (la guerra irachena per esempio), e recuperare i tradizionali valori del laburismo britannico: l’efficienza dei servizi pubblici, la sensibilità per i ceti sociali meno favoriti, una maggiore sobrietà mediatica. Figlio di un pastore presbiteriano e poco incline ai piaceri degli ozi italiani, Gordon Brown sembrava essere la persona più adatta a guidare il governo sino alla fine della legislatura e a conquistare per il partito una quarta vittoria elettorale.

Le circostanze non gli sono state favorevoli. Alcuni incidenti di percorso e qualche discutibile lascito del suo predecessore hanno attraversato quasi immediatamente la sua strada e complicato sin dai primi mesi il suo insediamento alla testa del governo. La crisi finanziaria e il crollo del sistema bancario britannico hanno offuscato la sua immagine. Era naturale ricordare, dopo tutto, che il fantasioso castello di carte in cui la Gran Bretagna aveva vissuto per molti anni, era stato edificato quando Brown era cancelliere dello Scacchiere. Con una ammirevole forza di volontà riuscì a riprendere il controllo del timone, recuperò la tradizione statalista del partito, escogitò soluzioni che sarebbero state imitate da altri Paesi e riuscì a dare l’impressione, per qualche mese, che il responsabile economico della crisi fosse anche il migliore uomo a cui affidare il compito del salvataggio e della ripresa.

Se le sue ricette sono quelle giuste, non sarà Brown, probabilmente, a trarne vantaggio. Dopo essere sopravvissuto a una crisi nella quale erano in gioco parecchi miliardi di sterline, Gordon Brown rischia di scivolare su qualche dozzina di rimborsi che assommano probabilmente a pochi milioni di sterline. Così è fatta la Gran Bretagna. Quando si stanca di un uomo, di un governo, di un partito, smette improvvisamente di essere compassata, flemmatica, imperturbabile, rispettosa dell’autorità, e diventa democraticamente spietata. Non basta. Come è dimostrato dalle dimissioni di una serie di ministri, i primi ad abbandonare il leader, in queste circostanze, sono i suoi più fedeli compagni. Quello che è accaduto nel 1990 a Margaret Thatcher potrebbe accadere domani a Gordon Brown.

Sergio Romano
06 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #37 inserito:: Giugno 12, 2009, 07:16:52 pm »

LA LIBIA E L’OCCIDENTE

Le verità dimenticate


Nei discorsi con cui hanno accol­to il colonnello Gheddafi, i suoi ospiti italiani, dal capo del­lo Stato al presidente del Consiglio e al presidente del Senato, hanno parlato di amicizia, collaborazio­ne, sviluppo congiunto. Do­po avere ascoltato le sue fi­lippiche contro l’Italia colo­niale avrebbero potuto ri­cordargli che il coloniali­smo fu molte cose, non tut­te e non sempre necessaria­mente spregevoli. Ma han­no preferito mettere l’ac­cento sul futuro e sugli in­teressi comuni dei due Pae­si in un mondo profonda­mente cambiato. Hanno fatto bene. Il realismo e l’in­teresse nazionale giustifica­no qualche strappo alla ve­rità storica. Peccato che a Gheddafi il passato interes­si molto più del futuro. Ne ha dato una nuova dimo­strazione ieri, quando ha confezionato un pasticcia­to elenco di responsabilità occidentali, da Cesare a Bu­sh, e ha detto che il terrori­smo può essere in alcune circostanze una legittima difesa contro la dominazio­ne straniera.

Quali circostanze? Vi fu un lungo periodo durante il quale Gheddafi si definì «punto d’appoggio della ri­voluzione mondiale» e non smentì, tra l’altro, di avere sostenuto finanziaria­mente l’Ira (Irish Republi­can Army) contro un Pae­se, la Gran Bretagna, «che ha umiliato gli arabi per se­coli ». Quando lo storico del colonialismo Angelo Del Boca cercò di compor­re una lista delle «lotte di liberazione» in cui il colon­nello libico è intervenuto con il suo denaro, ne ven­ne fuori una carta geografi­ca che comprende Maurita­nia, Rhodesia, Namibia, Isole Canarie, Oman, Ango­la, Sud Africa, Thailandia, Filippine, Colombia, Salva­dor, Kurdistan, Nuova Cale­donia, Vanuati, Nuove Ebri­di. Non basta. I leader di al­cuni Paesi arabi lo hanno accusato di avere tramato contro i loro regimi e le lo­ro persone; i leader di alcu­ni Paesi africani (il Ciad per esempio) di avere at­tentato alla loro indipen­denza. A chi scrive non so­no piaciute né l’incursione di Reagan contro Tripoli nell’aprile 1986, né la guer­ra di George W. Bush con­tro l’Iraq nel marzo del 2003. Ma nel processo cele­brato da Gheddafi contro gli Stati Uniti e l’Occidente, il pubblico ministero è l’uo­mo che ordinò l’assassinio di alcuni dissidenti libici al­l’estero, invase il Ciad ed è oggettivamente responsa­bile dell’attentato contro un aereo della Panameri­can nel cielo scozzese di Lockerbie (270 vittime). La giustificazione del terrori­smo, in bocca a Gheddafi, risveglia ricordi di un pas­sato che il colonnello do­vrebbe cercare di coprire con un velo di pudore.

Nelle parole pronuncia­te ieri dal leader libico vi è infine anche imprudenza politica. Bush commise molti errori strategici e tat­tici, ma combatté il fanati­smo islamico, vale a dire il movimento che ha mag­giormente insidiato negli scorsi anni la vita del colon­nello e la stabilità del suo regime. Vi fu un lungo peri­odo durante il quale Ghed­dafi fu stretto in una morsa fra l’ostilità americana e le minacce della Fratellanza musulmana. Se è ancora al potere e può visitare libera­mente uno Stato europeo, lo deve in buona parte al patto con gli Stati Uniti e con l’Europa degli scorsi anni, quando rinunciò alle armi nucleari ma ottenne in cambio la revoca del­l’embargo e la ripresa dei rapporti diplomatici con Washington. Quando parla del passato Gheddafi non può ricordare soltanto quello che serve al suo compiaciuto autoritratto di liberatore dell’Africa. Conviene anche a lui, non soltanto a noi, parlare so­prattutto del futuro.


Sergio Romano
12 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #38 inserito:: Luglio 04, 2009, 12:15:41 pm »

TRA INTERESSI E DIRITTI UMANI

La mano tesa di Hu all’Europa


Nella intervista del presidente ci­nese Hu Jintao al Corriere di ieri vi sono i tradizionali ingre­dienti retorici con cui si confezionano le dichiara­zioni, i brindisi e i comuni­cati congiunti che accom­pagnano le visite interna­zionali: affinità culturali, ri­spetto reciproco, antica amicizia, interessi comuni, futuro migliore, sfide glo­bali da affrontare insieme. Vi è anche un cenno al Ri­nascimento e vi sarà im­mancabilmente, in qual­che brindisi, un riferimen­to a Marco Polo, nume tute­lare dell’amicizia italo-cine­se ogniqualvolta i due Pae­si desiderano celebrare i lo­ro rapporti. Ma vi è anche un passaggio sull’Europa che non è convenzionale e merita attenzione.

Hu Jintao dice che «le re­lazioni sino-europee han­no superato le difficoltà e le vicissitudini precedenti e sono tornate nel binario normale». Pensa al Tibet e all’incontro di qualche lea­der europeo con il Dalai La­ma, ma non lo dice e prefe­risce venire al sodo della questione dichiarando che «Pechino ha attribuito grande importanza ai rap­porti con l’Ue e la conside­ra come una delle priorità della sua politica estera». E aggiunge, per maggiore chiarezza: «La Cina sostie­ne il processo di integrazio­ne europea e accoglie con soddisfazione il suo ruolo sempre più utile e rilevan­te negli affari internaziona­li».

Queste ultime parole contengono una cortese bugia. Non è vero purtrop­po che il ruolo dell’Ue sia «sempre più utile e rilevan­te ». Nonostante qualche sprazzo di encomiabile de­cisionismo (la missione mi­litare in Libano, l’interven­to nella crisi georgiana, la reazione iniziale alla crisi del credito), l’Unione euro­pea, per rovesciare una espressione di John Major a proposito della Gran Bre­tagna, è un pugile che com­batte al di sotto del suo pe­so. Dai referendum falliti del 2005 siamo quasi sem­pre una somma di indeci­sioni, tentennamenti ed egoismi nazionali. I cinesi lo sanno, ma si servono di una bugia per dirci che il mondo ha bisogno dell’Ue e che gli europei farebbero bene a rendersene conto. Affinità culturali? Antica amicizia? No, le ragioni, grazie al cielo, sono più concrete e attuali.

La Cina non desidera un mondo americano. Visto da Pechino il nuovo presi­dente è meglio del suo pre­decessore ma è pur sem­pre il capo di una potenza imperiale. La crisi del credi­to ha messo in evidenza i rapporti di reciproca conve­nienza che uniscono il cre­ditore cinese al debitore americano, ma ha contem­poraneamente dimostrato a Pechino quanto sia peri­coloso legare il proprio de­stino alle imprevedibili po­litiche degli Stati Uniti. De­sidera una Europa forte perché preferisce un mon­do multipolare in cui vi sia­no forze capaci di contene­re e controllare la debor­dante potenza americana.

Con le sue parole Hu Jin­tao ci ricorda che esiste uno spazio vuoto e che spetta a noi riempirlo. Ten­de la mano a una Europa debole e divisa nella spe­ranza che il gesto la inco­raggi ad accantonare le sue beghe e i suoi bisticci per fare infine una politica con­forme ai suoi interessi e al­le sue ambizioni. Se ne avrà il coraggio, la Cina sa­rà il suo «partner strategi­co ». Dovremmo forse, per raccogliere l’invito, rinun­ciare ai nostri principi in materia di diritti umani? Credo piuttosto che l’Ue sa­rà più ascoltata e rispettata a Pechino di quanto non si­ano i singoli Paesi quando fingono di credere che un occasionale incontro con il Dalai Lama abbia dato un contributo alla soluzione della questione tibetana.


Sergio Romano

04 luglio 2009
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« Risposta #39 inserito:: Luglio 08, 2009, 12:48:29 pm »

TRA ECCELLENZE E POLEMICHE

La vera immagine di un Paese


Nelle battaglie italiane anche la politica estera finisce spesso, malauguratamente, nell’arena dove il governo e l’opposizione, per la maggiore gioia dei loro tifosi, preferiscono lanciarsi accuse reciproche piuttosto che accordarsi su linee comuni. Non vorrei che accadesse anche in occasione del G8 dell’Aquila dove i giudici di gara e i segnalinee non sono italiani e potrebbero avere interesse, soprattutto in questo momento, a fischiare i nostri falli. Questa è l’occasione in cui gli italiani hanno interesse a ricordare che nei grandi incontri internazionali il governo, al di là di polemiche e vicende personali, piaccia o no, rappresenta l’intero Paese. Se ne esce a testa alta è una vittoria per tutti, se ne esce male siamo tutti sconfitti.

Non credo d’altro canto che l’Italia, in questo momento, debba vergognarsi della sua politica internazionale. Abbiamo alcune debolezze che sono il risultato di vecchi errori e di obiettive condizioni di bilancio. Spendiamo poco per le forze armate. Non siamo riusciti a mantenere gli impegni assunti verso i Paesi in via di sviluppo. Siamo più bravi a declamare i protocolli di Kyoto che a rispettarne gli obblighi. Ma abbiamo sempre avuto, anche quando l’espressione non esisteva, un certo soft power che giova al nostro ruolo internazionale. Nelle zone di crisi dell’ultimo decennio, dalla Jugoslavia all’Afghanistan, siamo stati presenti con uomini e donne che hanno fatto scrupolosamente il loro dovere e creato sentimenti di simpatia per il loro Paese.

In Libano, durante la guerra del 2006, il governo è riuscito a creare una forza internazionale che ha giovato, se giudichiamo dal risultato delle ultime elezioni, alla stabilità della regione. E’ facile ironizzare sull’Italia che gioca contemporaneamente su molti tavoli e riesce a essere amica di tutti. Ma chiunque abbia occasione di andare in giro per il Mediterraneo e il Medio Oriente si accorge che abbiamo un credito e una simpatia che possono servire sia all’Unione mediterranea di Nicolas Sarkozy, sia alla nuova politica di Barack Obama verso l’Islam. Gli accordi con la Libia, anche se momentaneamente appannati dallo stile operettistico di Gheddafi, sono utili per tutti, non soltanto per noi.

Chi scrive ha molti dubbi sulla utilità della personalizzazione delle relazioni internazionali, ma deve riconoscere che i rapporti di Berlusconi con Putin e con Erdogan, negli anni in cui George W. Bush era poco amato in Russia e in Turchia, sono serviti a tenere aperti i canali di comunicazione e a raffreddare alcuni momenti di tensione. Vi è poi un’altra carta che l’Italia può giocare sul tavolo della politica internazionale. Abbiamo un alto debito pubblico e facciamo fatica ad adottare le riforme di cui abbiamo bisogno. Ma nei momenti più gravi della crisi del credito abbiamo dimostrato di avere una società parsimoniosa e flessibile, un decoroso sistema bancario e un buon senso finanziario di cui altri Paesi sono stati privi.

Dopo una fase, nella prima metà del decennio, in cui il governo sembrava voltare le spalle all’Europa, siamo stati più europeisti di alcuni nostri partner. Al vertice dell’Aquila l’Italia e la Germania portano idee che meritano di essere ascoltate e discusse. Non sono sicuro che il G8 sia l’organizzazione più adatta ad affrontare i problemi dei prossimi anni. Ma se mi guardo attorno e confronto la politica italiana con quella di altri Paesi, non credo che siano soltanto sette quelli che hanno il diritto di farne parte.

Sergio Romano
08 luglio 2009

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« Risposta #40 inserito:: Luglio 16, 2009, 11:55:59 am »

OPPOSIZIONE IN CRISI E BIPOLARISMO


La sorte del Pd riguarda tutti

Molto di ciò che ho l e t t o in questi giorni sul Partito democratico e sui suoi travagli mi è sembrato scritto dall’interno della famiglia con tutti i sentimenti — rabbia, speranze deluse, affetti traditi—che distinguono generalmente le liti domestiche. Non mi sorprende. Esiste in Italia una grande famiglia progressista a cui appartengono idealmente, spesso per ragioni storiche ed ereditarie, molti italiani.

Essere «di sinistra», sia pure con ascendenze diverse, fa parte della loro identità. Oggi molti di questi italiani non sembrano rassegnarsi all’idea di avere perduto la loro vecchia casa. Sanno di avere bisogno di una casa nuova, ma non si risolvono a fare i sacrifici necessari per costruirla e sfogano questi sentimenti di frustrazione esasperando le difficoltà del Pd con una sorta di rabbioso compiacimento. Si direbbe talvolta che non siano alla ricerca di un’intesa, ma delle ragioni per renderla impossibile.

Credo che un estraneo, approdato in Italia da un altro Paese, farebbe fatica a raccapezzarsi e ragionerebbe in modo alquanto diverso. Constaterebbe in primo luogo che l’apparizione di Silvio Berlusconi sulla scena e il successo della sua strategia hanno straordinariamente semplificato il quadro politico italiano. Lavorando per sé Berlusconi ha lavorato anche per l’opposizione aprendo uno spazio a sinistra che aspetta di essere riempito. Qualcuno lo ha capito e, partendo dai materiali esistenti, ha cercato di riunire le due grandi famiglie storiche della sinistra italiana: quella dei nipoti del marxismo e quella dei cristiano-sociali.

Vi era, al momento della fondazione del Partito democratico, un inconveniente. Gli ingredienti della nuova sinistra italiana non corrispondevano, se non parzialmente, a quelli della sinistra europea e gli eletti del Pd al Parlamento di Strasburgo avrebbero corso il rischio di separarsi fra gruppi parlamentari diversi. Quell’ostacolo è stato superato. Per accogliere gli italiani il gruppo parlamentare socialista si chiamerà d’ora in poi «dei socialisti e dei democratici ». Mi sembra che nel cambiamento della ragione sociale vi sia una dimostrazione di sensibilità per i problemi della sinistra italiana e, implicitamente, il desiderio di aiutarla ad avere una dimensione europea. Non è tutto.

L’estraneo venuto da fuori constaterebbe che il Pd ha avuto il coraggio di scegliere il suo leader con una gara alla luce del sole fra candidati che hanno diversi profili politici e culturali. Le candidature sono interessanti, sollecitano dibattiti e polemiche, danno l’impressione di una vera gara. Può darsi che nel corso della gara gli scontri divengano aspri e preannuncino nuove fratture. Ma le primarie senza scontri sono quelle in cui il risultato è già stato scritto prima dell’inizio della partita. Servono a consolidare una leadership esistente, non a creare un partito nuovo.

Ancora un’osservazione. Dopo avere constatato che il quadro è meno tragico di come viene generalmente descritto, l’estraneo penserebbe che il rafforzamento del Pd serva a rendere meno fragile l’attuale bipolarismo e sia utile in ultima analisi per l’intero Paese. Prima o dopo il Pdl dovrà vivere senza Berlusconi. Gli sarà più facile superare quel passaggio se avrà di fronte a sé un forte partito democratico con cui misurare le proprie forze.

Sergio Romano
16 luglio 2009
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« Risposta #41 inserito:: Agosto 01, 2009, 04:20:00 pm »

FEDERALISMO E PARTITO DEL SUD

Il governo e le sue spine


L’ottimismo e il compiacimen­to con cui il presidente del Consiglio descriverà nei prossimi giorni i primi quattordici mesi del suo governo sono scontati e per certi aspetti compren­sibili. Ma non possono oscurare il fatto che siano bastate poche settimane perché il quadro della poli­tica nazionale si rovescias­se. Il maggiore problema all’ordine del giorno non è più la crisi del Pd (di cui continueremo verosimil­mente a occuparci ancora per parecchio tempo). La questione maggiore è lo stato di salute della mag­gioranza, oggi divisa da dissensi più gravi per la go­vernabilità del Paese di quanto siano i travagli del­l’opposizione. Colpa degli scandali che hanno fatto di Berlusconi, per qualche settimana, il bersaglio pre­ferito di una buona parte della stampa internaziona­le? Credo piuttosto che gli scandali siano stati in que­sta vicenda soprattutto un’occasione e un’aggra­vante.

All’origine dei dissensi vi è il patto che Berlusconi aveva stretto, prima delle elezioni, con il Nord di Bossi e il Sud, vale a dire in particolare la Sicilia di Lombardo. Conoscevamo il prezzo di Bossi. Sapeva­mo che il leader della Lega avrebbe sostenuto Berlu­sconi per ottenere final­mente il federalismo fisca­le. Ma non era chiaro qua­le fosse il prezzo di Lom­bardo. E non era chiaro so­prattutto se l’obiettivo di Bossi fosse compatibile con le condizioni del Sud e le ambizioni della sua classe dirigente. Il federali­smo avrà un senso soltan­to se sarà fiscale, vale a di­re se consentirà alle singo­le regioni di trattenere per sé, con le imposte di cui di­sporranno, una parte mag­giore del reddito prodotto dai loro elettori. Occorrerà naturalmente un fondo di solidarietà per le regioni meno fortunate, ma que­sto fondo sarà sufficiente ed efficace soltanto se il Nord sarà generoso e il Sud capace di affrontare con un diverso stile di go­verno il problema del pro­prio sviluppo. Su questa seconda condizione era le­cito avere molti dubbi.

Quando celebreremo, fra un anno e mezzo, il 150˚ anniversario dell’Unità, non potremo fare a meno di costatare che il Mezzo­giorno rimane, nonostan­te molti tentativi, il grande problema irrisolto dell’Uni­tà nazionale. Sin dal mo­mento in cui il Parlamen­to approvò la legge sul fe­deralismo potevamo quin­di immaginare che il dia­volo, come al solito, si na­scondesse nei dettagli e che le contraddizioni della maggioranza sarebbero di­ventate, prima o dopo, evi­denti.

Gli scandali e la reces­sione hanno bruscamente accelerato questo proces­so. Gli scandali hanno in­debolito Berlusconi e lo hanno costretto a combat­tere in difesa. Il Nord di Bossi e il Sud di Lombardo gli sono fedeli perché non volevano il collasso della maggioranza, ma hanno colto l’occasione per sotto­lineare le loro differenze (penso alle dichiarazioni di Bossi sull’Afghanistan) o per parlare più schietta­mente della ripartizione del denaro pubblico. La re­cessione, d’altro canto, ha costretto Tremonti a strin­gere i cordoni della borsa.

Se il prodotto interno lor­do diminuisce e il gettito fiscale si contrae, il mini­stro dell’Economia di un membro dell’eurozona (i Paesi che fanno parte del mercato unico e, soprattut­to, hanno adottato la mo­neta unica) deve essere «nazionale», non «regio­nale », deve togliere dena­ro, non darlo.

E’ questa probabilmente la ragione per cui Lombardo ha deciso di anticipare i tempi e di minacciare la costituzione di un partito del sud. Considerato in un’ottica meridionale il denaro non serve soltanto a creare migliori condizioni di sviluppo. Serve anche, e forse soprattutto, a rafforzare quel piedistallo di clientele e di favori che permettono alla classe dirigente di conservare e consolidare il potere.

E’ possibile che Berlusconi riesca ancora una volta a superare queste difficoltà. Lo farà probabilmente secondo il suo stile di governo, vale a dire dando qualche soddisfazione a ciascuno dei questuanti. E sono certo che darà prova anche in questo caso di molta abilità. Ma Tremonti sarà costretto a ricordargli che i conti si fanno anche con Bruxelles e Francoforte. E altri dovranno ricordargli che non si può continuare a parlare di federalismo fiscale senza affrontare contemporaneamente il problema del Sud, vale a dire del denaro di cui ha bisogno e del modo in cui dovrebbe spenderlo.



Sergio Romano

01 agosto 2009
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« Risposta #42 inserito:: Agosto 19, 2009, 10:19:41 am »

IL DIBATTITO SULLE NUOVE ALLEANZE

Il fattore Lega che agita i partiti


L’estate si presta ai dibattiti futi­li e stravagan­ti, ma anche le stravaganze possono esse­re segnali e campanelli d’allarme. Quelle sui dialet­ti e sull’inno di Mameli di­mostrano quanto sia com­plicato per un partito na­zionale (il Pdl) governare con un partito regionale che non può accontentarsi di obiettivi teoricamente centrati (federalismo fisca­le, sicurezza) e deve conti­nuamente, per coltivare il proprio elettorato, «rinno­vare il guardaroba». La questione diventa ancora più seria se qualcuno al Sud (Bassolino a Napoli, Lombardo e Micciché a Pa­lermo) decide di imitare la Lega e progetta un «parti­to del Meridione».

Accade così che molti, a destra e a sinistra, comin­cino a chiedersi se argina­re la Lega e impedirle di dettare l’agenda nazionale non sia più importante del bipartitismo imperfetto creato dalle ultime elezio­ni politiche. Paolo Costa, ex sindaco di Venezia ed esponente del Partito de­mocratico, sostiene sul

Corriere del 9 agosto che è meglio, in questa situazio­ne, aiutare Giancarlo Ga­lan, il presidente del Vene­to (Pdl), a vincere le prossi­me elezioni regionali. Ga­lan raccoglie la proposta e tende una mano al Pd. Cre­scono nel frattempo le pressioni sull’Udc di Pier Ferdinando Casini a cui molti chiedono di fare una scelta di campo. E Giulia­no Amato, in una intervi­sta al Messaggero di ieri, osserva che «il ricatto del­le estreme è molto forte». E aggiunge: «Dobbiamo riuscire a verificare se sia­mo in grado d’avere un bi­polarismo governato dai partiti di governo e non dalle rispettive estreme. Può darsi che una fase ne­cessaria per arrivarci sia una grande coalizione ita­liana che includa i soli par­titi di governo». Grazie alla Lega e ai suoi imitatori meridionali stiamo assistendo quindi alla controffensiva dei maggiori partiti nazionali. Chi ritiene che l’unità sia un valore da preservare, o almeno pensa che la sua rottura avrebbe ricadute pericolose e produrrebbe situazioni ingovernabili, non può che esserne feli­ce. Ma vi sono alcuni pun­ti su cui è bene fare chia­rezza. I partiti nazionali non sono necessariamen­te tali per ragioni ideali. Sono unitari perché han­no un elettorato esteso al­la Penisola, una rete d’inte­ressi che copre l’intero ter­ritorio e l’ambizione di go­vernare il Paese. Questi so­no punti di forza quando i partiti hanno programmi che possano giovare con­temporaneamente al Nord e al Sud. Diventano fattori di debolezza se il loro pro­gramma consiste nel tenta­tivo di accontentare un po’ l’uno e un po’ l’altro senza riuscire a colmare il diva­rio che li separa. Chi vuole arginare la Lega deve ren­dersi conto che il successo del partito di Bossi non è dovuto agli slogan velleita­ri, alle liturgie folcloristi­che e alle campagne estive contro l’Inno di Mameli. La Lega potrebbe continua­re a crescere perché riesce a rappresentare in molte circostanze le frustrazioni del Nord, la sua diffusa sensazione che nessun go­verno, di destra o di sini­stra, sia riuscito finora a garantirgli le condizioni necessarie per restare in Europa. Per batterla, quin­di, non basta immaginare nuovi schieramenti e nuo­ve alleanze. Occorre rico­noscere l’esistenza di due Italie, separate dalla diffe­renza dei loro problemi, e dimostrare che il governo, quale che sia la sua compo­sizione, è disposto a fare scelte nuove, coraggiose e in alcuni casi inevitabil­mente impopolari.


Sergio Romano
18 agosto 2009
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« Risposta #43 inserito:: Agosto 31, 2009, 10:20:59 pm »

L’anniversario

- Quel giorno la Germania nazista, forte dell’accordo Molotov-Ribbentrop, invadeva la Polonia

Danzica, 1˚ settembre 1939

La guerra al mondo di Hitler

Putin e Merkel insieme per i 70 anni dal conflitto


Domani ricorre il Settantesimo anniversario dell’invasione nazista della Polonia, evento che diede inizio alla Seconda guerra mondiale. Il 1˚settembre 1939 le truppe di Hitler varcarono il confine stabilito al termine della Prima guerra mondiale per ricongiungere la «città libera» di Danzica alla «Madrepatria tedesca». In realtà, il dittatore nazista si era segretamente accordato con Stalin per spartirsi l’intero territorio polacco. In pochi giorni, il «Blitzkrieg» (guerra lampo) scatenata da terra, dal mare e dall’aria, con i bombardamenti degli Stukas sulle città e i villaggi, ebbe ragione dell’esercito polacco. Il 17 settembre anche l’Urss attaccò la Polonia. Il 1˚ottobre il Paese era completamente occupato e diviso in «sfere di influenza». Per rimarcare gli avvenimenti di 70 anni fa, si ritroveranno dunque a Danzica i capi di Stato e di governo di una ventina di Paesi. Alla cerimonia, presieduta dall’attuale presidente polacco, Lech Kaczynski, e dal premier Donald Tusk, parteciperanno anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, il premier russo Vladimir Putin e l’italiano Silvio Berlusconi.

Negli ultimi giorni, persino nelle ultime ore prima dell’inizio del con­flitto, i governi e le diplomazie con­tinuarono a comportarsi come se la pace fosse ancora possibile. I consi­gli dei ministri delle maggiori po­tenze europee tennero frenetiche riunioni straordinarie. Gli amba­sciatori ricevettero concitati dispac­ci, chiesero udienza ai governi pres­so i quali erano accreditati, avanza­rono proposte, suggerirono confe­renze quadripartite come quella che un anno prima, a Monaco, ave­va regalato all’Europa una pace bre­ve e illusoria. A Londra, a Parigi, a Roma esistevano ancora persone che tentavano disperatamente di riannodare il filo spezzato dei rap­porti tedesco-polacchi. Qualcuno, senza dubbio sarebbe stato pronto, come nell’incontro quadripartito di Monaco, a sfamare Hitler con un’altra libbra di carne. Era tutto inutile. Il primo ad accorgersi che i giochi erano fatti e che non vi sa­rebbero stati, per la diplomazia eu­ropea, «tempi supplementari», fu l’ambasciatore d’Italia a Berlino Ber­nardo Attolico. Tentò di convince­re Ribbentrop a ricevere l’ambascia­tore polacco ed ebbe il dubbio ono­re di una udienza con il Führer da cui ricevette il testo delle inaccetta­bili e umilianti proposte che la Ger­mania aveva inviato alla Polonia. Tentò un’ultima carta e propose la mediazione dell’Italia. Ma Hitler, con falsa cortesia, disse che non vo­leva mettere il Duce in una situazio­ne imbarazzante. Ma allora, chiese Attolico, «è tutto finito?». La rispo­sta fu, freddamente, «sì».

Che la guerra fosse stata decisa da tempo e destinata a scoppiare nella notte fra il 31 agosto e il 1˚ settembre è dimostrato dagli inci­denti che i tedeschi avevano minu­ziosamente inscenato per giustifica­re il conflitto. I più macabri e grot­teschi furono quelli di Gleiwitz e Hohlinden, due cittadine tedesche a breve distanza dalla frontiera po­lacca. A Gleiwitz un drappello di SS in uniforme polacca entrò negli uf­fici della radio locale alle otto della sera del 31 agosto, rinchiuse gli ad­detti tedeschi nelle cantine e an­nunciò trionfalmente agli ascoltato­ri della piccola emittente, in polac­co, che la stazione era stata «con­quistata ». Per dare un tocco di veri­tà alla menzogna un altro drappel­lo di SS portò sul luogo un cittadi­no polacco, da tempo prigioniero della Gestapo, e lo uccise. La poli­zia, più tardi, trovò altri due cada­veri che non furono mai identifica­ti.

Nella sede della dogana di Hohlinden, più o meno alla stessa ora, andò in scena un copione anco­ra più sanguinoso. Quando la vicen­da venne alla luce, durante i proces­si di Norimberga, i giudici apprese­ro che l’edificio della dogana era stato «espugnato» da un altro drap­pello di SS in uniforme polacca. Di­strussero l’edificio, spararono pa­recchie salve di proiettili e si lascia­rono docilmente arrestare dalla po­lizia del Reich. Ma sul posto, dopo la farsa, cominciò la mattanza. Tra­sportati da un campo di concentra­mento, sei prigionieri dovettero re­citare la parte delle vittime. Furono uccisi, gettati sul luogo del delitto, esposti ai flash dei fotografi e, per­ché nessuno potesse riconoscerli, sfigurati. Sembra, a onore del vero, che la Wehrmacht, pronta ad ese­guire gli ordini del comando supre­mo e a entrare in territorio polacco, ignorasse di questi spudorati prete­sti.

La vera guerra, quella dei bolletti­ni ufficiali cominciò alle quattro e quarantacinque del mattino del 1˚ settembre con le bordate di una na­ve di battaglia, la Schleswig Hol­lstein, contro la guarnigione polac­ca di Westerplatte, accanto a Danzi­ca. I polacchi reagirono, difesero vi­gorosamente la cittadella di Gdy­nia, tentarono un contrattacco e, prima di soccombere, tennero in scacco i tedeschi per cinque giorni. Vi furono altri scontri e altre resi­stenze, ma la Wehrmacht e la Luf­twaffe (come scrive Donald C. Watt in un bel libro sul 1939 pubblicato da Leonardo vent’anni fa) «aveva­no una schiacciante superiorità nu­merica in tutti gli elementi decisi­vi: negli uomini, negli armamenti, nell’addestramento e nella tattica; di fatto in tutto tranne che nel co­raggio ». La guerra sarebbe durata forse più a lungo se i polacchi, co­me scrive B.H. Liddel Hart nella sua Storia della Seconda guerra mon­diale , avessero concentrato le loro forze dietro due grandi fiumi, la Vi­stola e il San. Ma la strategia di Var­savia fu dettata da una combinazio­ne di considerazioni economiche ed errori politici. I polacchi voleva­no conservare il controllo delle mi­niere di carbone della Slesia, vicino alla frontiera tedesca, e credettero di poter contare sull’immediata as­sistenza militare della Francia e del­la Gran Bretagna. Non compresero che né Londra né Parigi erano allo­ra in condizione di sguarnire il fronte occidentale. E non capirono soprattutto che la loro sorte era sta­ta decisa a Mosca il 23 agosto quan­do Ribbentrop e Molotov, sotto lo sguardo benedicente di Stalin, ave­vano firmato il patto di non aggres­sione tedesco-sovietico. I polacchi ignoravano in quel momento che un protocollo segreto, firmato nel­le stesse ore, prevedeva la spartizio­ne del loro Paese. Ma non poteva­no ignorare che l’Urss aveva dato al­la Germania, con il patto di non ag­gressione, una formale «licenza di uccidere».

A Roma il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano trascorse l’intera giornata del 31 agosto nel tentativo di organizzare una nuova conferen­za quadripartita. Parlò al telefono con Attolico e ricevette gli amba­sciatori di Francia e di Gran Breta­gna. Quando informò Mussolini, verso le nove della sera, che ogni tentativo era stato inutile, questi ne rimase «impressionato» e disse: «È la guerra. Però domani faremo una dichiarazione in Gran Consi­glio che noi non marciamo». Il gior­no dopo, mentre in Polonia si com­batteva, Ciano annotò nel suo dia­rio: «Il Duce è calmo. Ormai ha pre­so la decisione del non intervento e la lotta che ha agitato il suo spirito durante queste ultime settimane è cessata». Vi fu un Consiglio dei mi­nistri alle tre del pomeriggio duran­te il quale venne approvato l’ordi­ne del giorno con cui l’Italia annun­ciava al mondo la sua «non bellige­ranza ». Tutti i ministri, sembra, ap­provarono con un sospiro di sollie­vo e qualcuno disse a Ciano, abbrac­ciandolo, che aveva «reso un gran servigio al Paese». Ancora più pro­fondo fu il sospiro di sollievo degli italiani. Cominciò così un felice in­terludio durante il quale potemmo sperare che l’Italia non avrebbe commesso l’errore di gettarsi in una guerra che il suo popolo non desiderava e a cui le sue forze arma­te erano del tutto impreparate. L’in­terludio finì il 10 giugno 1940.

Sergio Romano
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« Risposta #44 inserito:: Settembre 05, 2009, 05:06:49 pm »

DAI VELENI AI PROBLEMI DEL PAESE

Un po’ di serietà (e piu’ politica)


Se gli italiani avessero prestato attenzione a ciò che è accaduto in questi mesi nei Paesi con cui abbiamo maggiori affinità, avrebbero costatato che non ve n’è uno in cui esponenti della classe politica non siano stati coinvolti in scandali di varia natura: comportamenti licenziosi, fotografie compromettenti, bisticci con la stampa o con le autorità religiose, uso privato del pubblico denaro, menzogne sbugiardate. Scoppiano generalmente sulla prima pagina di un tabloid e durano sino a quando, nel giro di poche settimane, l’interessato dimostra di essere stato calunniato o è costretto a dimettersi. Da noi invece si è assistito a un crescendo inarrestabile di voci, di rivelazioni, di insinuazioni, di repliche e controrepliche. E non appena uno scandalo accennava ad assopirsi, ecco apparirne un altro, ancora più clamoroso del precedente.

Conosciamo le ragioni di questa differenza. L’«interessato », nel nostro caso, non è un ministro, un sottosegretario o un parlamentare. È il presidente del Consiglio. Il centrosinistra tenta di fare la sua parte ma è troppo occupato a curare le sue ferite. E il dibattito pubblico è polarizzato tra chi si è ridotto a fare opposizione guardando il premier dal buco della serratura e chi usa dossier e lettere anonime per screditare gli avversari. Come aveva promesso agli inizi della vicenda («andrò in Parlamento»), Berlusconi avrebbe dovuto rispondere con iniziative e atti politici. Ma ha preferito cedere alla tentazione delle dichiarazioni estemporanee, ora ironiche, ora adirate. Non sono convinto che le querele lanciate contro alcuni giornali possano minacciare la libertà d’informazione. Credo piuttosto che il presidente del Consiglio, con le sue iniziative giudiziarie, abbia commesso l’errore di privatizzare il proprio rapporto con la stampa (anche le dichiarazioni fuori luogo di ieri lo dimostrano). Anziché reagire politicamente ha adottato il ruolo e la figura della «parte lesa», e ha delegato così a un magistrato (l’osservazione è di Michele Ainis su La Stampa del 3 settembre) il compito di decidere chi abbia torto e chi abbia ragione. Sappiamo che altri uomini politici prima di lui hanno commesso lo stesso errore, ma Berlusconi ha dato l’impressione che certe vicende si lavino con il denaro delle multe e degli indennizzi. Più di qualsiasi altro avrebbe dovuto sapere che le battaglie politiche si fanno in Parlamento e nel Paese, non nelle aule dei tribunali. Ha dimostrato invece che il pubblico e il privato, nel suo stile di governo, tendono continuamente a confondersi e a sovrapporsi. È un’altra conferma della leggerezza con cui ha sempre trattato in questi anni il fondamentale problema del suo conflitto d’interessi.

Il risultato di questo crescendo è duplice. Da un lato gli scandali hanno finito per fare passare in seconda linea i problemi economici e sociali che affliggono la società italiana e la discussione sul modo migliore di affrontarli. Dall’altro hanno reso ancora più difficile quel tanto di concordia politica senza la quale il confronto tra maggioranza e opposizione diventa un combattimento senza vincitori da cui esce perdente l’intero Paese.

Ma questo è davvero il momento in cui occorre un sussulto di saggezza e serietà da parte di tutti, anche nel rispetto di un valore costituzionale come la libertà di stampa, affinché la politica e i problemi del Paese ritrovino il loro spazio; valori cui il capo dello Stato si è più volte richiamato.

Sergio Romano
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