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Autore Discussione: JEAN-MARIE COLOMBANI Una doppia sanzione per Nicolas  (Letto 3851 volte)
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« inserito:: Marzo 15, 2010, 09:47:51 am »

15/3/2010

Una doppia sanzione per Nicolas

   
JEAN-MARIE COLOMBANI

Gli elettori francesi hanno espresso ieri un voto di protesta che ha preso la forma di una voto-sanzione. Per il governo e per Nicolas Sarkozy è chiaramente un voto negativo, un avvertimento molto serio e il presidente sbaglierebbe a non comprenderlo.

Se si guarda l’insieme dei risultati di queste elezioni regionali è facile riassumerne il senso a livello nazionale: il ritorno del partito socialista, la sconfitta dell’Ump (il partito unico della destra), la forza degli ecologisti che sono ormai il terzo partito francese e il risveglio del Front National, l’estrema destra.

La sconfitta dell’Ump, il partito di Nicolas Sarkozy, rappresenta la sconfitta di tutta la destra che raccoglie dalle urne il risultato storicamente più basso della destra di governo nella storia della Quinta repubblica.

Il partito socialista si ritrova invece a un livello che non raggiungeva da più di vent’anni: è praticamente al 30 per cento e si reinstalla come la forza ineludibile in qualunque ipotesi di alternativa di governo.

Gli ecologisti che avevano già raccolto un buon risultato un anno fa alle Europee si prendono qualche voto in meno ma si installano come terzo partito del Paese. Per il partito socialista questa è insieme una buona e una cattiva notizia. La buona è che esiste ormai sotto gli occhi di tutti un’alleanza di governo possibile e potenzialmente maggioritaria in Francia sull’asse Ps-verdi. Ed è questo alla fine il risultato più significativo di questo scrutinio.

Ma per i socialisti la cattiva notizia è che per consolidare questa prospettiva dovranno fare alcune concessioni ai verdi in termini di programma, perché i due partiti non condividono certo le stesse posizioni e su molte questioni il Ps considera i verdi «retrogradi». Il problema del programma non sarà dunque da sottovalutare in prospettiva della costruzione di un’alternativa di governo.

L’estrema destra del Front National, infine, perde molti voti rispetto alle regionali del 2004 ma recupera parecchio rispetto alle Europee e alle presidenziali.

Insomma, per Sarkozy e la maggioranza di destra una doppia sanzione: il rapporto di forza si è rovesciato a beneficio della sinistra e la rimonta del Front è il risultato dell’assurdo dibattito sull’identità nazionale provocato dal governo.

La lettura dei risultati ci induce però alla prudenza. Innanzitutto va registrato il record dell’astensione, più del 50 per cento, un dato impressionante in Francia che ha consentito a tutti i portavoce della destra che si sono espressi ieri sera di tentare di minimizzare il significato nazionale della consultazione perché un francese su due non si è recato al seggio. Ma va detto che l’astensione vale per tutti. Non bisogna poi dimenticare che si trattava di voto per il rinnovo dei Consigli regionali, l’elezione dei presidenti di Regione e dunque si tratta di una consultazione fortemente segnata dalle particolarità locali. Tuttavia ciò non ne sminuisce la portata nazionale e la questione che si pone ora è sapere come reagirà Nicolas Sarkozy e se saprà rispondere al malcontento che si è espresso così chiaramente.

Il presidente è di fronte a una contraddizione maggiore: lo stesso ritmo delle riforme, e talvolta il contenuto delle riforme, innervosiscono e alimentano il malcontento perché la cosa che più interessa oggi ai francesi è l’occupazione. Contemporaneamente, però, l’elettorato di Sarkozy si è sfiduciato perché gli rimprovera di non essere stato capace di andare abbastanza avanti nelle riforme. Questa contraddizione è molto difficile da superare ed è la questione che dominerà la vita pubblica francese: come risponderà ora il presidente alla crisi?

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 20, 2010, 04:56:40 pm »

20/10/2010

Parigi brucia ma non sarà il nuovo '68
   
JEAN-MARIE COLOMBANI


Sei settimane di protesta, manifestazioni di piazza imponenti (benché sindacati e polizia diano valutazioni di partecipazione molto diverse), un terzo delle stazioni di servizio rimaste a secco di benzina, a Lione, ma anche a Parigi, gruppi di «casseurs» in azione, non molto numerosi, ma assai mobili e violenti: ce n’è abbastanza perché alcuni evochino già un nuovo «maggio ’68».

Dimenticando però che il «maggio» aveva fatto nascere una formidabile aspirazione alla libertà, in un’atmosfera che portava speranza, mentre oggi si tratta essenzialmente di una protesta contro il potere in un’atmosfera molto pessimista, impregnata dalla paura del declino e quella, più grande, della perdita dei diritti sociali. Infatti, oltre all’oggetto della protesta, e cioè la riforma delle pensioni e il passaggio dell’età legale da 60 a 62 anni, tutti temono l’arrivo di un’austerità imposta dalla necessità di ridurre il deficit dei conti pubblici, benché la crisi abbia già costretto i più poveri ai sacrifici e aumentato il numero dei disoccupati. Ma come ogni volta che si parla di riforme, in Francia si discute sulla questione del metodo. Prima di definire qual è il «metodo» di Sarkozy, bisogna eliminare dalla discussione ciò che non appartiene al presidente.

Primo elemento: il rifiuto del consenso da parte degli attori politici. Certo, il metodo ideale, ma mai applicato, sarebbe quello della paziente ricerca di un consenso; tanto più su un tema che ci impegna sul futuro della società. Gli svedesi, per esempio, si sono presi due anni per rifondare il loro sistema pensionistico. In Francia solo Michel Rocard, quand’era primo ministro si era sforzato di praticare la costruzione del consenso. Aveva spiegato che una democrazia moderna non poteva funzionare bene puntando soltanto sulla prevalenza di una maggioranza politica a spese di una minoranza; secondo lui, su ciascun dossier, era più importante costruire una consenso per convincere i soggetti interessati prima di passare all’azione. Numerosi suoi compagni socialisti per screditare lui e il suo metodo avevano ben presto accusato Rocard di essere un fanatico del «consenso molle». E dunque, in occasione di ogni grande riforma, in Francia bisogna rassegnarsi ad assistere allo scontro tra una maggioranza politica e un movimento sociale.

La maggior parte dei nostri presidenti, presto o tardi, hanno dovuto arrendersi: De Gaulle nel maggio ’68, Mitterrand nel luglio 1984, Chirac nel dicembre ’95 e nella primavera 2006. I nostri manuali di diritto costituzionale dovrebbero essere arricchiti di un capitolo sulla figura del manifestante e ai mille e un uso che delle manifestazioni che si sostituiscono al dibattito.

Il secondo elemento, che ancora non riguarda Sarkozy, è la crisi in se stessa. Con il suo seguito di ingiustizie e disoccupazione; e soprattutto con la paura che continua ad alimentare nel nostro Paese. La crisi è uno degli elementi chiave dell’impopolarità che colpisce la maggior parte dei leader al governo: Barack Obama, sulla soglia delle elezioni di mid-term, è oggetto di un vero e proprio rifiuto da parte di una parte importante della società americana; o ancora Angela Merkel, minacciata dal rischio di essere messa sotto accusa da un cattivo risultato alle prossime elezioni regionali! Per non citare che gli esempi più vicini ed eclatanti di leader in difficoltà.

E così la politica ci ha finalmente condotto a Nicolas Sarkozy. Nella prospettiva dell’elezione presidenziale e per sostenere la sua stessa candidatura nel 2012, Sarkozy si è lanciato nell’opera di ridarsi un’identità. Vorrebbe, di nuovo, presentarsi come il presidente delle riforme.

Prima di esaurire il suo catalogo di promesse ed essendo obbligato ad aspettare il ristabilimento dell’economia, ha affrontato il campo delle pensioni per tentare di ridarsi l’immagine del presidente che ha il coraggio di riformare. Durante la campagna elettorale, al contrario, aveva promesso di non toccare l’età pensionabile di 60 anni. Ha dunque scelto le pensioni come campo di battaglia con uno stendardo ben visibile: la fine della pensione a sessant’anni. Il messaggio è semplice: «Io sono non soltanto coraggioso, ma anche capace di abbattere uno dei grandi simboli della sinistra». La sequenza di proteste e manifestazioni che stiamo vivendo in questi giorni per lui ha un significato altrettanto chiaro: «Io sono capace di resistere ai venti e alle maree».

Dunque da una parte ci sono dei manifestanti sostenuti maggioritariamente dall’opinione pubblica che ingenuamente pensano che basti loro scendere in piazza per far piegare il presidente. Dall’altra un Nicolas Sarkozy che cerca di rilegittimarsi nello scontro. Da questo punto di vista, il nemico dei sindacati, che purtuttavia non negano la necessità di una riforma, ma che vorrebbero negoziarla, e al tempo stesso il miglior alleato di Sarkozy, ha un nome: la radicalizzazione. Tutto ciò che porta alla paralisi, agli incidenti, alle violenze, in altre parole tutto ciò che è disordine costituisce il modo migliore di affrettare, come reazione, una domanda di ordine e di autorità. Intorno ad essa, Nicolas Sarkozy, potrà così ottenere ciò che cerca disperatamente: ricompattare la destra intorno a lui.

La destra, appunto, in questo momento è in grande difficoltà. Raramente ci è capitato di vedere un terzo dei deputati della maggioranza chiedere la fine dello scudo fiscale nel momento stesso in cui il presidente ne faceva il simbolo della sua politica. Fino a che il ministro dell’economia ha ammesso che questo scudo era diventato il simbolo dell’ingiustizia. E così raramente avevamo visto 40 deputati della maggioranza astenersi o votare contro l’ennesimo progetto di legge sull’immigrazione a causa dei passaggi nel testo che avrebbero potuto far pensare che una categoria di francesi e cittadini europei (i Rom) sarebbero stati discriminati. E che dire dell’annunciato rimpasto, fattore di smobilitazione e disordine all’interno del governo e del quale il primo ministro François Fillon ha giustamente detto che non potrà certo rappresentare la soluzione alla crisi.

In ogni caso, nello spirito di Nicolas Sarkozy bisogna imperativamente superare lo scoglio della riforma delle pensioni per poter affrontare altre riforme che gli permetteranno questa volta di presentarsi con un viso più simpatico: grazie alla creazione di una nuova branca della previdenza sociale dedicata agli anziani non autosufficienti (nel nostro Paese la proporzione dei seniores nella popolazione continua a crescere) ma anche scegliendo tra le varie riforme suggerite dalla Commissione Attali che potrebbero - nel capo dell’evoluzione dei contratti di lavoro - fornire ai sindacati materie su cui confrontarsi.

Ma il seguito del film a cui stiamo assistendo dipenderà dallo sviluppo - ordinato o caotico - della sequenza «movimento sociale». A meno che quest’ultimo non si incarti da solo. Ma in ogni caso io non credo a un nuovo «maggio ’68».

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7974&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 01, 2012, 12:09:59 pm »

1/5/2012 - DIARIO DELL'ELISEO

La guerra ai sindacati e i due volti del Président

JEAN-MARIE COLOMBANI

Ogni Primo Maggio, il pavé parigino è occupato, tra place della Bastiglia e quella della République, dai sindacati che celebrano la festa del lavoro e, a place de l’Opéra, dal Front National che celebra Giovanna d’Arco. Quest’anno, bisogna aggiungere una grande manifestazione «sarkozysta», convocata sulla spianata del Trocadero. Il Presidente uscente voleva celebrare «il vero lavoro». Ma, davanti alle proteste provocate da questa spiacevole espressione (gli è stata affibbiata l’etichetta di Presidente della «vera disoccupazione»), ha deciso di celebrare «la vera festa del lavoro».

Al di là di questa terminologia, attraverso la quale Nicolas Sarkozy cerca nuovamente di conquistare qualche elettore del Front National, assistiamo a una spettacolare inversione che semina dubbi su di lui piuttosto che rassicurare sulla sua rielezione a Presidente. In effetti il candidato Sarkozy 2012 ha dichiarato guerra ai sindacati, alle associazioni e alle corporazioni, minacciandoli di ricorrere, contro di loro, a un referendum se non lo seguiranno nelle sue riforme, in una pura logica bonapartista.

Tuttavia, il Presidente Sarkozy in cinque anni ha fatto il contrario: ha negoziato, dialogato, ottenuto non soltanto dei risultati, ma ha anche governato con la tacita complicità della Cgt, il principale sindacato francese. La stessa Cgt che attacca ormai a ogni suo discorso. Così i sindacati si sono visti riconoscere, da una legge di Sarkozy, una rappresentanza mai avuta in un Paese dove raccolgono solo l’8% dei salariati. Ma, in cambio, questi sindacati hanno contenuto le proteste popolari contro la riforma delle pensioni ed evitato il suo fallimento. Quindi ora ci si domanda: chi è il vero Sarkozy? Il candidato populista di oggi o il Presidente responsabile di ieri?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10053
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 03, 2013, 04:38:39 pm »

Editoriali
03/09/2013

Non fare nulla è la scelta peggiore

Jean-Marie Colombani

Se il Congresso Usa darà l’ok, ci saranno, da parte di Washington, affiancata da Parigi, Riad e Ankara, rappresaglie sotto forma di raid aerei contro la Siria di Assad, «colpevole» di aver utilizzato armi chimiche contro i civili. 

Le questioni sollevate sono diverse: legalità e legittimità degli eventuali raid, tenuto conto del «no» da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; ruolo e influenza del cosiddetto Occidente; incidenza del rifiuto britannico e dello scetticismo dell’opinione pubblica, al cui interno la paura è superiore all’indignazione; il gioco mortifero della Russia di Putin; guerre intestine che dilaniano il mondo arabo. E l’elenco non è finito. 

 
Ma, ad allungarlo, si corre il rischio di perdere di vista l’essenziale: l’uso delle armi chimiche contro popolazioni innocenti. Le armi il cui uso era stato proibito all’indomani della Prima Guerra Mondiale in nome di una legge internazionale ancora balbettante. Gasare civili è un crimine di natura particolare, che deve restare fuori legge. Non fare nulla equivarrebbe ad accettarne la banalizzazione.

Quello che colpisce di più è però lo scetticismo, o meglio, l’ostilità di una larga parte dell’opinione pubblica europea, che si oppone a qualunque azioni militare. Ma si sbaglia. Essa crede, come in Gran Bretagna dove questo riflesso è particolarmente forte, di assistere a un remake dell’Iraq, dove il prezzo da pagare, grazie alle follie di George W. Bush, è altissimo e rischia di esserlo ancora a lungo. Fondata sulla menzogna delle armi di distruzione di massa, la spedizione in Iraq, un disastro strategico, è la fonte principale di questa diffidenza generalizzata.

 
Ora, Iraq non è il paragone giusto. Più pertinente sarebbe l’analogia con il Kosovo, vale a dire quella campagna aerea sotto l’egida della Nato e non dell’Onu, che aveva costretto i serbi a ritirarsi. Non è indifferente il fatto che Milosevic sia stato messo alla sbarra dalla comunità internazionale: questo ha aiutato la soluzione politica del conflitto.

All’epoca Bill Clinton aveva invocato, con l’appoggio di due mesi e mezzo di raid, la necessità di evitare centomila morti in Kosovo. In Siria i centomila morti ci sono già. Quelli che avrebbero voluto impedire il massacro sono dunque in ritardo di due anni La decisione di Barack Obama di non agire se non dopo un voto formale del Congresso rispecchia lo scetticismo imperante. Il Presidente americano cerca di premunirsi contro quanto aveva subito all’epoca dell’intervento in Libia: gli Stati Uniti avevano fortemente appoggiato l’iniziativa franco-britannica prima di fare marcia indietro sotto la pressione del Congresso. Barack Obama cerca anche di compensare la tiepidezza di molti Paesi, tra cui la Gran Bretagna, con una riaffermazione di legittimità interiore. Resta da sapere quali condizioni porrà il Congresso alla richiesta di intervento da parte del Presidente americano. 

 
Precisamente, il precedente del Kosovo, invocato da Obama, sottolinea i limiti di ciò che si immagina, vale a dire raid aerei limitati e di breve durata, perciò destinati ad avere un effetto simbolico. Affinché una tale operazione sia utile, bisognerebbe che avesse un obiettivo politico. E soprattutto che sia previsto «il dopo».

Recentemente, Francia e Gran Bretagna, sostenute dagli Stati Uniti, sono intervenute in Libia. L’operazione militare è riuscita e aveva raggiunto il suo scopo con la caduta di Gheddafi. Ma non essendo stato né pensato, né organizzato, né accompagnato il «dopo», la Francia ha dovuto riprendere le armi in Mali, dove si erano spostati e dispiegati uomini e armamenti jihadisti venuti dalla Libia.

La Siria è sicuramente un teatro di operazioni più complesse. Gran parte delle reticenze delle opinioni pubbliche viene d’altra parte dal fatto che le opposizioni siriane, un po’ lo erano state le opposizioni cecene, sono state infiltrate da jihadisti vicini ad Al Qaeda. Tutto ciò è documentato.

 
Per questo è così difficile aiutare il Consiglio nazionale siriano. Ma si dimentica un po’ troppo presto che Bashar al Assad è così forte perché è aiutato dai pasdaran iraniani e dalla milizia di Hezbollah, che, in materia di estremismo, non ha niente da invidiare ai jihadisti che li combattono.

Infine, l’enunciato di questa complessità basta a spiegare una parte non trascurabile dell’ostilità diffusa a ogni intervento. In soldoni, la reazione è questa: perché non lasciare che si ammazzino fra di loro senza immischiarci? E’ quello che Jean-Pierre Chevènement esprime quando spiega che non bisogna entrare in questa «guerra di religione». Un altro motivo di ostilità, articolato questa volta da François Bayrou è legato alla sensibilità cristiana che, sul terreno, ha preso le parti di Bashar al Assad.

 
Il contesto internazionale rende pure opaco lo scenario del dopo riposta. Contro gli Stati Uniti, in effetti, si è costituito un’asse Russia-Iran-Siria che sembra oggi vittorioso. Di fronte a questo asse, Barack Obama è parso pusillanime, senz’altra opzione che la protesta verbale, al punto di avere tracciato una linea rossa, l’uso della armi chimiche, che è stata superata senza punizione.

Due anni fa, all’inizio di quella che era allora una protesta democratica e a maggioranza laica, Obama si era rifiutato di impegnarsi, mentre allora la soluzione di una no fly zone, suggerita da quelli che volevano evitare un bagno di sangue, era preferibile alle tentennamenti del governo americano. Era vero che lo stesso Obama ha ricordato che era stato eletto per mettere fine alle guerre, in Iraq e Afghanistan, e che gli era dunque particolarmente difficile immaginare nuove azioni militari. 

 
Il prezzo da pagare è quello di una perdita di credibilità che non può che incoraggiare l’Iran nel suo programma nucleare. Non è la minore delle poste in gioco in questa guerra civile siriana che l’uso dei gas da parte di Assad è riuscito a internazionalizzare. In ogni caso, al punto dove siamo, come ha detto Hubert Védrine, «la peggiore soluzione sarebbe non fare nulla».

Francia e Gran Bretagna, Paesi che non sono stati al traino degli Stati Uniti ma in prima linea nell’allarme come nell’iniziativa diplomatica (è stata la Francia la prima a riconoscere il Consiglio nazionale siriano), sono finite in un curioso incrocio dove non riescono a incontrarsi.

 
L’editoriale del «Financial Times» esprime senza giri di parole che mentre la Francia è pronta a impegnarsi con l’uso della forza contro un dittatore assassino, e la Gran Bretagna non lo è, è difficile non temere per il futuro della Gran Bretagna come «attore globale». Il tono, in Gran Bretagna, è d’altronde di spiegare che la decisione dei deputati britannici di negare al loro governo il via libera a un’azione militare «riduce la taglia della nazione».

E siamo al cuore della reazione agli eventi di François Hollande che è, a giusto titolo, ossessionato dal timore del declino. Non va dimenticato che il presidente lega costantemente la politica del desindebitamento all’obbligo, per la Francia, di ritrovare la sua «sovranità». E’ il motivo per cui, dal Mali alla Siria, non esita a spingersi avanti, persuaso, come François Mitterrand, che rientra nel mandato che ha ricevuto di fare in modo che la «Francia possa mantenere il suo rango».

da - http://www.lastampa.it/2013/09/03/cultura/opinioni/editoriali/non-fare-nulla-la-scelta-peggiore-406p76Gnw7Pi2lfSEIfK1J/pagina.html
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