Editoriali
03/09/2013
Non fare nulla è la scelta peggiore
Jean-Marie Colombani
Se il Congresso Usa darà l’ok, ci saranno, da parte di Washington, affiancata da Parigi, Riad e Ankara, rappresaglie sotto forma di raid aerei contro la Siria di Assad, «colpevole» di aver utilizzato armi chimiche contro i civili.
Le questioni sollevate sono diverse: legalità e legittimità degli eventuali raid, tenuto conto del «no» da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; ruolo e influenza del cosiddetto Occidente; incidenza del rifiuto britannico e dello scetticismo dell’opinione pubblica, al cui interno la paura è superiore all’indignazione; il gioco mortifero della Russia di Putin; guerre intestine che dilaniano il mondo arabo. E l’elenco non è finito.
Ma, ad allungarlo, si corre il rischio di perdere di vista l’essenziale: l’uso delle armi chimiche contro popolazioni innocenti. Le armi il cui uso era stato proibito all’indomani della Prima Guerra Mondiale in nome di una legge internazionale ancora balbettante. Gasare civili è un crimine di natura particolare, che deve restare fuori legge. Non fare nulla equivarrebbe ad accettarne la banalizzazione.
Quello che colpisce di più è però lo scetticismo, o meglio, l’ostilità di una larga parte dell’opinione pubblica europea, che si oppone a qualunque azioni militare. Ma si sbaglia. Essa crede, come in Gran Bretagna dove questo riflesso è particolarmente forte, di assistere a un remake dell’Iraq, dove il prezzo da pagare, grazie alle follie di George W. Bush, è altissimo e rischia di esserlo ancora a lungo. Fondata sulla menzogna delle armi di distruzione di massa, la spedizione in Iraq, un disastro strategico, è la fonte principale di questa diffidenza generalizzata.
Ora, Iraq non è il paragone giusto. Più pertinente sarebbe l’analogia con il Kosovo, vale a dire quella campagna aerea sotto l’egida della Nato e non dell’Onu, che aveva costretto i serbi a ritirarsi. Non è indifferente il fatto che Milosevic sia stato messo alla sbarra dalla comunità internazionale: questo ha aiutato la soluzione politica del conflitto.
All’epoca Bill Clinton aveva invocato, con l’appoggio di due mesi e mezzo di raid, la necessità di evitare centomila morti in Kosovo. In Siria i centomila morti ci sono già. Quelli che avrebbero voluto impedire il massacro sono dunque in ritardo di due anni La decisione di Barack Obama di non agire se non dopo un voto formale del Congresso rispecchia lo scetticismo imperante. Il Presidente americano cerca di premunirsi contro quanto aveva subito all’epoca dell’intervento in Libia: gli Stati Uniti avevano fortemente appoggiato l’iniziativa franco-britannica prima di fare marcia indietro sotto la pressione del Congresso. Barack Obama cerca anche di compensare la tiepidezza di molti Paesi, tra cui la Gran Bretagna, con una riaffermazione di legittimità interiore. Resta da sapere quali condizioni porrà il Congresso alla richiesta di intervento da parte del Presidente americano.
Precisamente, il precedente del Kosovo, invocato da Obama, sottolinea i limiti di ciò che si immagina, vale a dire raid aerei limitati e di breve durata, perciò destinati ad avere un effetto simbolico. Affinché una tale operazione sia utile, bisognerebbe che avesse un obiettivo politico. E soprattutto che sia previsto «il dopo».
Recentemente, Francia e Gran Bretagna, sostenute dagli Stati Uniti, sono intervenute in Libia. L’operazione militare è riuscita e aveva raggiunto il suo scopo con la caduta di Gheddafi. Ma non essendo stato né pensato, né organizzato, né accompagnato il «dopo», la Francia ha dovuto riprendere le armi in Mali, dove si erano spostati e dispiegati uomini e armamenti jihadisti venuti dalla Libia.
La Siria è sicuramente un teatro di operazioni più complesse. Gran parte delle reticenze delle opinioni pubbliche viene d’altra parte dal fatto che le opposizioni siriane, un po’ lo erano state le opposizioni cecene, sono state infiltrate da jihadisti vicini ad Al Qaeda. Tutto ciò è documentato.
Per questo è così difficile aiutare il Consiglio nazionale siriano. Ma si dimentica un po’ troppo presto che Bashar al Assad è così forte perché è aiutato dai pasdaran iraniani e dalla milizia di Hezbollah, che, in materia di estremismo, non ha niente da invidiare ai jihadisti che li combattono.
Infine, l’enunciato di questa complessità basta a spiegare una parte non trascurabile dell’ostilità diffusa a ogni intervento. In soldoni, la reazione è questa: perché non lasciare che si ammazzino fra di loro senza immischiarci? E’ quello che Jean-Pierre Chevènement esprime quando spiega che non bisogna entrare in questa «guerra di religione». Un altro motivo di ostilità, articolato questa volta da François Bayrou è legato alla sensibilità cristiana che, sul terreno, ha preso le parti di Bashar al Assad.
Il contesto internazionale rende pure opaco lo scenario del dopo riposta. Contro gli Stati Uniti, in effetti, si è costituito un’asse Russia-Iran-Siria che sembra oggi vittorioso. Di fronte a questo asse, Barack Obama è parso pusillanime, senz’altra opzione che la protesta verbale, al punto di avere tracciato una linea rossa, l’uso della armi chimiche, che è stata superata senza punizione.
Due anni fa, all’inizio di quella che era allora una protesta democratica e a maggioranza laica, Obama si era rifiutato di impegnarsi, mentre allora la soluzione di una no fly zone, suggerita da quelli che volevano evitare un bagno di sangue, era preferibile alle tentennamenti del governo americano. Era vero che lo stesso Obama ha ricordato che era stato eletto per mettere fine alle guerre, in Iraq e Afghanistan, e che gli era dunque particolarmente difficile immaginare nuove azioni militari.
Il prezzo da pagare è quello di una perdita di credibilità che non può che incoraggiare l’Iran nel suo programma nucleare. Non è la minore delle poste in gioco in questa guerra civile siriana che l’uso dei gas da parte di Assad è riuscito a internazionalizzare. In ogni caso, al punto dove siamo, come ha detto Hubert Védrine, «la peggiore soluzione sarebbe non fare nulla».
Francia e Gran Bretagna, Paesi che non sono stati al traino degli Stati Uniti ma in prima linea nell’allarme come nell’iniziativa diplomatica (è stata la Francia la prima a riconoscere il Consiglio nazionale siriano), sono finite in un curioso incrocio dove non riescono a incontrarsi.
L’editoriale del «Financial Times» esprime senza giri di parole che mentre la Francia è pronta a impegnarsi con l’uso della forza contro un dittatore assassino, e la Gran Bretagna non lo è, è difficile non temere per il futuro della Gran Bretagna come «attore globale». Il tono, in Gran Bretagna, è d’altronde di spiegare che la decisione dei deputati britannici di negare al loro governo il via libera a un’azione militare «riduce la taglia della nazione».
E siamo al cuore della reazione agli eventi di François Hollande che è, a giusto titolo, ossessionato dal timore del declino. Non va dimenticato che il presidente lega costantemente la politica del desindebitamento all’obbligo, per la Francia, di ritrovare la sua «sovranità». E’ il motivo per cui, dal Mali alla Siria, non esita a spingersi avanti, persuaso, come François Mitterrand, che rientra nel mandato che ha ricevuto di fare in modo che la «Francia possa mantenere il suo rango».
da -
http://www.lastampa.it/2013/09/03/cultura/opinioni/editoriali/non-fare-nulla-la-scelta-peggiore-406p76Gnw7Pi2lfSEIfK1J/pagina.html