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Autore Discussione: MO IBRAHIM - I leader africani sono cresciuti  (Letto 2083 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Marzo 13, 2010, 11:18:49 am »

13/3/2010

I leader africani sono cresciuti
   
MO IBRAHIM

La consueta immagine dell’Africa è quella di un continente devastato dai conflitti e dalla miseria. Ma quest’immagine, basata sui regimi africani più corrotti, è ingiusta e ingannevole; sarebbe come sostenere che tutti gli europei sono colpevoli di pulizie etniche solo perché sono accadute nell’ex Jugoslavia.

E’vero, l’Africa ha alcuni Stati «falliti», ma la maggior parte delle sue 53 nazioni sono luoghi pacifici e piacevoli.

L’anno scorso, l’indice annuale «Ibrahim» sui governi dell’Africa, compilato dalla mia Fondazione, ha mostrato che la gestione dei governi è migliorata in due terzi degli Stati africani. E se guardiamo a politici come Joaquim Chissano, l’ex presidente del Mozambico, o Festus Mogae, l’ex presidente del Botswana, o a Kofi Annan e Nelson Mandela, appare evidente il livello elevato della leadership africana.

È molto importante, perché il buon governo è la pietra angolare dello sviluppo. I governi debbono instaurare e far fiorire condizioni favorevoli al settore privato perché possa produrre posti di lavoro, e i funzionari pubblici non devono considerare le casse dello Stato come un proprio conto corrente. Il governo è responsabile nel provvedere servizi, ma è la società civile che deve essere vigile e assicurare che i funzionari lavorino per questi obiettivi. Una forte società civile che controlla e chiede di più ai suoi leader è vitale nel migliorare il buon governo dell’Africa. Come in economia, è la domanda che stimola l’offerta.

L’indice annuale «Ibrahim» sul buon governo esamina le performance dei governi in tutta l’Africa sub sahariana, fornendo uno strumento che permette ai cittadini e ai gruppi della società civile di controllare i progressi dei loro governi. Consideriamo quasi cento indicatori e definiamo il buon governo in un modo nuovo: come servizi e beni pubblici che debbono essere forniti ai cittadini. Non misuriamo apporti come aiuti pubblici o introiti da risorse naturali, o promesse e impegni dei governi; invece abbiamo scelto di misurare l’impatto dell’attività dei governi sulla vita dei cittadini.

Oltre al buon governo, facciamo anche pressioni sui nostri leader per una maggiore integrazione regionale. Molte nazioni africane, piccole e senza sbocchi al mare, non potranno mai diventare protagonisti nell’economia mondiale senza una maggiore cooperazione all’interno delle loro stesse regioni. L’attuale integrazione, zoppa e aleatoria, si è dimostrata finora largamente inefficace.

Una delle conseguenze di questa mancanza di cooperazione per i 967 milioni di africani è la replica burocratica delle frontiere monetarie che li dividono in 53 fette nazionali. La Cina, con 1,3 miliardi di abitanti, è un solo Paese. L’Unione Europea, con 500 milioni, è un mercato unico, con la maggior parte degli Stati che condividono la stessa moneta. Se le piccole nazioni dell’Africa non si mettono assieme, non riusciranno mai a integrarsi propriamente e a beneficiare della globalizzazione economica mondiale. E l’integrazione economica deve essere appoggiata dalla crescita del commercio intraregionale: meno del 4% del commercio africano è tra nazioni africane, paragonato a oltre il 70% in Europa e a oltre il 50% in Asia.

Sono gli africani stessi che debbono affrontare queste questioni, ma i nostri partner internazionali hanno un ruolo importante da giocare. Il dibattito sul fallimento degli aiuti internazionali nel promuovere lo sviluppo, assieme all’attuale crisi finanziaria, ha portato acqua al mulino di chi si oppone all’assistenzialismo. Ma la discussione dovrebbe invece essere focalizzata su come ottenere il massimo dagli aiuti internazionali, sia per chi li riceve che per i contribuenti dei Paesi donatori. Gli aiuti, credo, dovrebbero essere orientati sulle infrastrutture: ponti, strade, cablaggio Internet, centrali elettriche. E, accanto, va fatto uno sforzo per lo sviluppo del «soft-ware»: sanità ed educazione.

Per troppo tempo a livello internazionale c’è stato sbigottimento per le condizioni di governo in Africa. La corruzione e l’assoluta mancanza di affidabilità nel settore pubblico sono stati indicati come i colpevoli di tutti i mali africani. Ma va anche detto che la comunità internazionale, sempre pronta a puntare l’indice sulle mancanze dei leader africani nel governare i loro popoli, è molto meno entusiasta quando si tratta di esaminare il proprio ruolo nella fuga dei capitali dall’Africa. Europa e America sono lente nell’approvare una legislazione in grado di impedire alle loro aziende di corrompere con mazzette gli ufficiali governativi in cambio di concessioni minerarie o altri vantaggi; finora le leggi esistenti non sono state fatte rispettare a sufficienza. Allo stesso modo, le banche europee e americane custodiscono le risorse sottratte illegalmente all’Africa.

Poi c’è il problema delle barriere tariffarie al commercio, mai risolto. Se i prodotti africani sono costretti a competere in mercati blindati a favore dei produttori europei e americani, l’Africa non avrà mai l’opportunità di crescere. La questione delle barriere doganali parla chiaramente di quanto è sincero l’impegno internazionale per lo sviluppo dell’Africa.

Infine, c’è il problema delle risorse limitate per le operazioni internazionali di peacekeeping in Africa, sempre con risultati disastrosi. Nel mio Paese, il Sudan, e nel suo stato occidentale del Darfur, le truppe dell’Unione Africana (Ua) cercano di proteggere i civili. Mentre l’Ua sta fornendo i soldati per controllare il conflitto, le Nazioni Unite e la comunità internazionale hanno avuto il compito di fornire risorse ed equipaggiamenti, che sono ampiamente inadeguati.

Nessuno nega che l’Africa ha molti problemi. Ma non si può permettere che questi problemi mettano in ombra i molti successi del continente.

Copyright: Project Syndicate

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