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Autore Discussione: Luciano Violante. Mi vergogno di essere stato comunista.  (Letto 9728 volte)
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« inserito:: Agosto 21, 2007, 12:01:05 pm »

Poche confische: una vergogna
Luciano Violante


Io non credo che sia impossibile in un Paese moderno sradicare le organizzazioni armate che sul suo territorio, o partendo dal suo territorio, uccidono, controllano, estorcono, corrompono.

Dopo la strage di Duisburg scopriamo che sulla ’ndrangheta si sa quasi tutto. Tv e giornali hanno pubblicato l’elenco delle famiglie e i nomi dei principali appartenenti a ciascuna di esse, il numero di affiliati, l’entità del giro di affari e i settori di intervento.

Un quotidiano ha dedicato due pagine a una grande mappa con la geografia degli interessi della organizzazione criminale. In Russia la famiglia Mazzaferro acquista banche e alberghi. In Australia le famiglie Timboli, Sergi e Barbaro si occupano di lavori pubblici e controllano il gioco d’azzardo. In Salvador le famiglie Nirta acquistano cocaina. E così via, girando per il mondo.

Ma se sappiamo così tante cose perché non riusciamo a stroncare l’organizzazione?

Se sinora è mancato il risultato, nonostante lo sforzo che c’è ed è considerevole, è segno che serve una impegno politico nuovo ed una nuova strategia. La presenza di bande armate di questa dimensione sul territorio dello Stato è una questione democratica prima che criminale e come tale va affrontata.

Ciò che rende le diverse mafie pressocchè invulnerabili, nonostante gli arresti e i processi, è la loro non estraneità al contesto economico, sociale e politico, di modo che è difficile un’azione di sradicamento senza toccare corposi interessi dell’economia e della politica, che si ribellano, ribaltano le accuse sui magistrati e sollevano polveroni.

Il carattere democratico della questione mafiosa nasce da questo intreccio. Il terrorismo rosso fu sbaragliato nell’arco di pochi anni non solo per l’impegno ideale, politico e operativo, ma anche perché era un corpo estraneo alla società italiana. La lotta contro le mafie è più difficile proprio per la loro non estraneità alla società del territorio dove sono radicate. Tuttavia non si tratta di una piovra misteriosa e inafferrabile. Si tratta di uomini, danaro e legami. Bisogna arrestare e condannare quegli uomini, sequestrare e confiscare il danaro, tagliare i legami. E agire con continuità, adeguando sempre i mezzi di risposta ai mutamenti dell’avversario.

Occorre una inflessibile determinazione, cominciando dalle cose apparentemente più piccole. A San Luca da dodici anni, ripeto da dodici anni, si tenta invano di costruire una caserma dei carabinieri. Sinora hanno avuto la meglio le minacce di morte e l’incendio di una ruspa. La caserma non c’è, lo Stato non ce la fa, vince la ‘ndrangheta. Nel luogo ove doveva esserci un presidio di legalità restano le fondamenta e i primi pilastri, monumento della forza della ‘ndrangheta e della debolezza dello Stato. Perchè i ragazzi di quel paese, di fronte a questo scandalo, dovrebbero credere alla legalità della Repubblica e non alle sollecitazioni del padrino di turno? La costruzione di quella caserma può diventare la prima pietra di una nuova determinazione democratica. Se non è possibile costruire l’edificio per vie ordinarie, si chiami il genio militare. Si dia il segno che non si è né inerti, né collusi, né arresi.

Naturalmente non basta ricostruire quella caserma. Occorre una reimpostazione complessiva degli strumenti di lotta contro le diverse mafie, adattando gli strumenti alle specificità di ciascuna di esse. Le leggi e le istituzioni di cui oggi disponiamo sono state elaborate tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, su misura della mafia siciliana. Le due istituzioni frutto di quella stagione sono la Direzione investigativa antimafia, un organismo di polizia specializzato contro le mafie, e la Direzione nazionale antimafia, una sorta di organo di coordinamento delle procure della Repubblica, oggi diretto da Piero Grasso, già procuratore della Repubblica di Palermo dopo Gian Carlo Caselli. Si ha l’impressione che entrambi gli istituti meriterebbero una riflessione per potenziarne le capacità operative, differenziando anche dal punto di vista della organizzazione interna competenze e interventi in relazione a mafia siciliana, ‘ndrangheta e camorra, anche per verificare i risultati raggiunti nei confronti di ciascun settore.

La ‘ndrangheta, ad esempio, è la più impunita tra le diverse mafie. Perché ciò che serve a colpire le altre organizzazioni è arma spuntata nei suoi confronti? La ’ndrangheta, nonostante la preparazione professionale dei magistrati calabresi, ha avuto più colpi in Piemonte e Lombardia che in Calabria, mentre la mafia è stata più colpita in Sicilia e la camorra in Campania. Perchè questa particolarità?

Rispondere alle domande aiuterà a ripartire con autorevolezza, efficacia e rapidità. Esistono poi alcune questioni tecniche. Il processo penale consente una sorta di patteggiamento in grado di appello che, come ha recentemente denunciato il magistrato che si occupa della strage di Duisburg, dottor Gratteri, riesce a ridurre una pena di 24 anni a otto o nove anni. È compatibile questa indulgenza con la “tolleranza zero” contro le mafie? oppure il rigore vale solo per i rom e i marocchini?

L’aggressione alle ricchezze mafiose segna il passo. Dal 1992 al 2006 si è confiscato solo il 15% dei beni sequestrati e quindi se ne è restituito l’85%. Alla ‘ndrangheta, che avrebbe un giro di affari pari a 22 miliardi di euro, sono stati confiscati negli ultimi quindici anni beni per poco più di 44 milioni di euro (dati Dia). Esagero se dico che è vergognoso per tutti noi questo stato di cose?

Ma non è impossibile girare pagina. L’attuale Commissione Antimafia ha avanzato proposte serie e incisive che, messe in atto, ci aiuterebbero a superare le attuali difficoltà.

So bene che esistono anche problemi di carattere politico, economico e sociale. Ma a mio avviso è necessario sfuggire al sociologismo o al politicismo attaccando presto e con durezza. Se l’attacco funziona, l’esperienza dice che il resto seguirà.

Pubblicato il: 20.08.07
Modificato il: 20.08.07 alle ore 9.32   
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 02, 2008, 09:06:57 pm »

La lettera

Referendari, coinvolgete la Consulta

LUCIANO VIOLANTE


Caro Direttore,
il capo dello Stato ha incaricato il presidente del Senato di accertare se esiste la possibilità di varare una nuova legge elettorale. Era obbligato a farlo perché il superamento della legge Calderoli era chiesto dalle forze presenti in Parlamento, da sindacati e associazioni imprenditoriali. Se il presidente Marini riuscisse a portare a termine il suo incarico, si costituirebbe un governo che, approvata la legge elettorale, e quindi evitato il referendum, ci condurrebbe al voto entri i primi sei mesi dell'anno. Ma se così non fosse si aprirebbe uno scenario a dir poco confuso. Infatti ci troveremmo di fronte al conflitto tra due atti «costituzionalmente obbligati». Il primo è la convocazione dei comizi elettorali per le nuove elezioni. Il secondo è la convocazione dei comizi elettorali per il referendum.

La Corte costituzionale infatti, con una famosa sentenza del 1978, quella che ha riconosciuto il comitato promotore del referendum come «potere dello Stato», ha dichiarato che la convocazione del corpo elettorale per pronunciarsi sul referendum è «costituzionalmente dovuta», cioè obbligatoria. Esiste una norma per la quale il voto sul referendum è rinviato di un anno in caso di coincidenza con lo scioglimento delle Camere. Ma il dubbio nasce dal fatto che questo referendum riguarda non una legge qualsiasi ma la legge elettorale, che, come hanno riconosciuto le recenti sentenze della Corte sul referendum, ha caratteri del tutto particolari perché determina le regole per eleggere i rappresentanti del Popolo.

Chi ha sottoscritto il referendum intendeva eleggere il nuovo Parlamento con la legge referendaria. Se il Parlamento venisse eletto con la vecchia legge, verrebbe vanificato il senso stesso della richiesta dei referendari. In pratica, le forze politiche, incapaci di approvare una nuova legge elettorale, creerebbero le condizioni per lo scioglimento delle Camere, e quindi impedirebbero ai cittadini di pronunciarsi. È una scelta politicamente discutibile. Ma c'è altro. Il Comitato promotore del referendum potrebbe sollevare davanti alla Corte Costituzionale conflitto di attribuzione contro la deliberazione di scioglimento delle Camere.

Personalmente non condivido il testo della legge che verrebbe fuori da una vittoria del referendum; ma le regole devono valere anche quando non piacciono. Sarebbe bene perciò far concludere con successo il tentativo del presidente Marini. Altrimenti ancora una volta la politica, per egoismi, o per incapacità di decidere, sarebbe scavalcata da altri poteri

* presidente della commissione Affari costituzionali della Camera
02 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 04, 2008, 05:20:42 pm »

La nullità del Porcellum

Stefano Passigli


Quanti insistono per andare subito alle urne, rifiutando di modificare prima una legge elettorale che essi stessi giudicano pessima, rischiano un clamoroso autogol. Nel giudicare ammissibile il referendum la Corte Costituzionale ha infatti affermato che «l´impossibilità di dare un giudizio anticipato di legittimità costituzionale non esime questa Corte dal dovere di segnalare al Parlamento l´esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l´attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi».

In altre parole, la Corte ha chiaramente avvertito che qualora essa fosse chiamata, attraverso le consuete e appropriate modalità di accesso, a pronunciarsi sulla costituzionalità del Porcellum essa inclinerebbe a giudicare illegittima una norma «che non subordina l´attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima».

A ciò potremmo aggiungere ulteriori rilievi di incostituzionalità su singoli aspetti del Porcellum: potremmo ad esempio chiederci se sia o meno rispondente al principio di eguaglianza omettere di calcolare, ai fini dell´attribuzione del premio di maggioranza, i voti dei residenti in Val D´Aosta, o i voti degli italiani all´estero se espressi presso i consolati (laddove il loro voto viene invece conteggiato se tornano a votare in Italia). I ventiquattromila voti che alla Camera hanno dato la vittoria all´Unione sarebbero stati ben oltre centomila conteggiando Val d´Aosta e italiani all´estero. Cosa sarebbe avvenuto se l´Unione fosse stata sconfitta per ventiquattromila voti, riportandone però oltre centomila esclusi dal conteggio?

È assai probabile, dunque, non solo che un quesito di costituzionalità venga sollevato circa la rispondenza del premio di maggioranza prevista dal Porcellum al nostro dettato costituzionale e al diritto ad elezioni libere e democratiche richiamato dalla dichiarazione europea dei diritti dell´uomo, ma anche che un residente in Val d´Aosta o un cittadino italiano che intenda votare all´estero adisca un giudice ordinario sollevando un quesito di legittimità per vedere dichiarato incostituzionale il minor valore riconosciuto al proprio voto. È difficile ipotizzare, dopo l´invito rivolto dalla Corte al legislatore in materia di premio di maggioranza, che su tale tema o sugli altri aspetti particolari su richiamati il giudice adito possa valutare «manifestamente infondati» i quesiti e non ne investa la Corte Costituzionale. Altrettanto difficile ipotizzare che la Corte - nelle more del proprio giudizio - non sospenda in via di tutela cautelare lo stesso procedimento elettorale. Avremmo così un rinvio della campagna elettorale e uno slittamento del voto, e il protrarsi per lungo tempo di un governo limitato nei propri poteri all´ordinaria amministrazione. Non è certo questo l´interesse del Paese. Insistere per immediate elezioni, accusando quanti chiedono di varare prima una nuova legge elettorale di aver paura del voto, risponde solo a una convenienza di partito, e potrebbe rivelarsi estremamente miope: mantenendo in carica un governo privo dei necessari poteri la richiesta del centrodestra si tradurrebbe non solo in un danno per il Paese ma potrebbe risultare estremamente miope per lo stesso centrodestra.

Pubblicato il: 04.02.08
Modificato il: 04.02.08 alle ore 12.35   
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 07, 2008, 03:23:26 pm »

Calearo e la Condivisione

Luciano Violante


La politica comincia a dare segni di vita. Abbiamo tentato per sei anni, dal 2001, di affrontare con riforme legislative la frammentazione dei partiti e non ci siamo riusciti. La scelta di Veltroni, «andiamo liberi», ha condizionato gli altri partiti. Gli apparentamenti si contano sulle dita di una mano e presentano una lista comune, oltre al Pd, Forza Italia e An nel centrodestra, Rifondazione, Verdi, Comunisti e Sinistra democratica nell’area di sinistra, Udc e La Rosa Bianca nel centro dello schieramento politico. Oggi al Senato ci sono 11 gruppi parlamentari, domani non saranno più di 5.

Alla Camera i Gruppi sono quattordici, domani saranno meno della metà.

In Commissione Affari Costituzionali abbiamo discusso per circa un anno attorno a un progetto per limitare l’accesso alla candidatura per persone rinviate a giudizio o condannate per reati gravi. Beppe Grillo ha raccolto centinaia di migliaia di firme su una proposta con lo stesso contenuto. Dopo che Veltroni ha informato che non sarebbero state candidate nel PD persone con carichi pendenti, la questione è diventata regola per quel partito e forse anche per altri che, se non lo facessero, si esporrebbero alla critica degli elettori.

La politica esce dal letargo e trova la forza di cominciare a fare il proprio mestiere. Lo sta facendo, in tutti gli schieramenti, con dosi massicce di cesarismo; ma è inevitabile quando bisogna uscire dal caos e creare un nuovo ordine. L’importante è che l’ordine, una volta costituito, non sia quello di Cesare, né quello di Bruto; ma sia semplicemente democratico.

La politica ha scelto le «liste uniche»; le liste uniche, a loro volta, stanno condizionando la natura dei partiti politici. Giuseppe De Rita, in un bel fondo scritto ieri sul Il Corriere della Sera, sostiene che i partiti, divenuti grandi contenitori, hanno perso l’identità e si stanno costruendo in base al principio di appartenenza. Ha ragione De Rita quando sottolinea il venir meno dell’identità e la conseguente costituzione di «partiti contenitori». Ma non sono certo che il carattere dominante dei nuovi partiti sia l’appartenenza. Anche perché le appartenenze, nei due maggiori partiti, continuano ad essere diverse. Piuttosto mi sembra che oggi si aderisca ad una lista elettorale e ad un partito in base al principio di condivisione; aderisco perché condivido gli obbiettivi di quel partito, perché mi convincono gli argomenti, perché ne apprezzo il leader. Ad esempio, è difficile ritenere che il presidente Calearo «appartenga» al PD. È più realistico dire che ne condivide gli obbiettivi. Ed è proprio per il prevalere del principio di condivisione che le coalizioni si sono ristrette. Prima erano costruite contro l’avversario politico; non perché condividessero obbiettivi programmatici comuni.

La distinzione non è di poco conto perché sulla base del principio di condivisione degli obbiettivi si possono creare le future identità politiche dei partiti, che non sarebbero palle al piede, ma premesse per ricostruire la nuova identità civile degli italiani.

Pubblicato il: 06.03.08
Modificato il: 06.03.08 alle ore 9.40   
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 05, 2008, 11:06:37 pm »

Violante: «Certa propaganda ha legittimato la destra estrema»

Maria Zegarelli


«Il Partito democratico può dare un grande contributo, come opposizione, nell’indicazione di soluzioni per affrontare i problemi legati alla sicurezza nel nostro paese. La prima è l’efficacia del processo penale e del sistema delle pene». Luciano Violante ha presieduto la Commissione Affari Costituzionali della Camera e uno degli ultimi atti è stato proprio la presentazione dell’«Indagine conoscitiva sullo stato della Sicurezza in Italia, sugli indirizzi della politica della sicurezza dei cittadini e sull’indagine e il funzionamento delle forze di polizia». Il rischio, avverte, è che si porti avanti un dibattito tutto ideologico a scapito di proposte efficaci.

Presidente, il brutale pestaggio avvenuto a Verona per mano di giovani di estrema destra, quali riflessioni apre, dopo questa campagna elettorale che ha messo al centro l’allarme sicurezza?

«La sicurezza è stato al centro anche della campagna elettorale londinese, come di quella del presidente Sarkozy. In Italia, come altrove, la destra è apparsa più in grado di contrastare questo fenomeno perché propone semplicemente più coercizione; al cittadino comune quella sembra la ricetta giusta perché ha maggiore efficacia comunicativa. Ma il problema italiano e un altro: non funzionano le regole del processo, proprio quelle che servono per applicare la coercizione. E Zapatero ha vinto in Spagna perché la sicurezza l’ha garantita».

I dati dimostrano che in Italia il numero dei reati è stabile, eccezione fatta per quelli definiti “violenti e predatori”, cioè aggressioni, furti, rapine e violenze. Come si affronta quella che rischia di diventare un’emergenza?

«Dobbiamo rendere efficaci il processo e l'applicazione delle pene. C’è un grande scatto tra l’efficacia dell’azione di polizia e l’inefficacia dell’azione penale. Ogni giorno leggiamo di casi di persone arrestate per gravi episodi di violenza e poi scarcerate per qualche errore o per qualche lungaggine: così cresce la percezione di insicurezza nei cittadini. In questo clima ci si affida a chi più urla perché sembra più forte. Chi ha vinto le elezioni si è assunto di una grande responsabilità. Ora siamo alla prova dei fatti».

Dopo i fatti di Verona si è acceso il dibattito. Stavolta gli autori dell’aggressione sono italiani...

«Non ha senso un dibattito su chi è più pericoloso, se l’immigrato o l’italiano. Il criminale va preso e punito. Punto e basta. Sia straniero, sia italiano».

Il ragazzo fermato è un naziskin, appartiene a gruppi di estrema destra. Forza Nuova ha detto che i balordi di Verona non hanno nulla a che fare con il movimento. Non c’è il rischio che questi gruppi si sentano “legittimati” ad agire contro quelli che secondo loro sono “i diversi”?

«Questa campagna elettorale ha portato alla legittimazione della destra più estrema. Personaggi condannati per estremismo di destra salire sui palchi, fare comizi, diventare dirigenti di un partito politico che si presenta alle elezioni. Questo fenomeno rischia di legittimare le loro idee. Ma il Pd commetterebbe un errore mortale se si fermasse a queste lamentele e non affrontasse subito, da opposizione preparata e responsabile, il tema della sicurezza. È vero che l’Italia è uno dei paesi più sicuri del mondo, come è emerso anche dall’indagine conoscitiva della I Commissione - a differenza dei paesi del Nord Europa dove i reati di violenza sono in aumento - ma è vero anche che la percezione dei cittadini è di maggiore insicurezza. Con questi sentimenti bisogna fare i conti. Non si può rispondere sventolando le statistiche: si deve mettere fine all’impunità. Non c’è nulla di peggio, per alimentare un sentimento antidemocratico, che vedere libero dopo pochi giorni l’autore di un reato che ti colpisce in casa tua, nelle tue cose, nella tua persona».

Lei dice: il Pd presenti le sue proposte. E il governo?

«Il governo farà le sue mosse: se giuste sarà bene sostenerle. Se sbagliate bisogna dimostrarlo e presentare le alternative. Pensiamo a noi. Si discute della forma del pd. Ma un grande partito costruisce il suo modo d’essere nell’impegno quotidiano sulle grandi questioni dei cittadini, non con discussioni astratte. Dobbiamo presentare progetti di legge che riguardano la costruzione di un processo penale e di un sistema sanzionatorio rigorosi. Alcuni criminali, grazie a favoritismi, si fanno passare per alcolisti cronici e godono di importanti riduzioni di pena se accettano di sottoporsi a un trattamento riabilitativo che tra l’altro per loro non è un problema visto che sono finti alcolisti. Bisogna gettare a mare alcuni irragionevoli meccanismi indulgenziali. Per questo motivo lascerei da parte il dibattito ideologico e passerei sul terreno delle misure concrete. Oggi il terreno più pasticciato è quello del processo e della pena. Spero che sia proprio il Pd ad essere il primo partito ad aprire una discussione seria presentando disegni di legge per ricostruire la credibilità dello Stato. L’idea di fondo, a mio avviso, è che esiste la responsabilità degli individui per quello che fanno: e questa responsabilità uno stato democratico la sanziona. Altrimenti distrugge se stesso. I disegni di legge vanno presentati ai cittadini in tutte le province italiane, come ha fatto Veltroni in campagna elettorale. Nello stesso tempo bisogna partire dalle cose che funzionano...».

Faccia un esempio. Nel sistema giustizia cosa funziona?

«La procura della Repubblica di Bolzano ha avuto un premio europeo per come è organizzata e per la celerità dei processi. Idem per il tribunale civile di Torino. Perché non partire da queste realtà, capire come funzionano, come organizzano i loro uffici e poi applicare quel metodo nel resto del paese? Sono davvero seccato dal dibattito ideologico, è arrivato il momento della battaglia per la soluzione pratica dei problemi».

Pubblicato il: 05.05.08
Modificato il: 05.05.08 alle ore 17.05   
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 14, 2008, 11:07:24 am »

14/7/2008
 
Giustizia, il sadismo processuale
 
 
  
 
 
LUCIANO VIOLANTE
 
La riscrittura della norma sulla sospensione dei processi (ora si chiama rinvio) appare frutto di una sorta di sadismo processuale. È indubbiamente meno dannosa della precedente, ma potrebbe produrre danni maggiori rispetto a quelli che intendeva evitare. Il rinvio è diventato facoltativo, riguarda i processi per reati meno gravi, ma non bagattelle, può durare sino a diciotto mesi, teoricamente da un giorno a un anno e mezzo.

Dovrebbe funzionare in questo modo: a) il presidente del tribunale si fa dare dai presidenti di sezione l'elenco dei processi che potrebbero essere sospesi in base alla legge e ai criteri che egli stesso stabilisce; b) i presidenti di sezione studiano le centinaia di processi che potrebbero essere, in astratto, sospesi, al solo fine di accertare se l'imputato potrebbe essere condannato a una pena estinta per l'indulto; c) i presidenti di sezione, terminato l'esame dei fascicoli, li mandano al presidente del tribunale; d) questi li esamina uno per uno (nei grandi tribunali si tratta di alcune migliaia di fascicoli) e decide per quali di essi è opportuno emettere il decreto di rinvio; e) rintraccia l'indirizzo dell'imputato per chiedergli attraverso regolare notifica se consente al rinvio del suo processo («Il rinvio non può essere disposto se l'imputato si oppone» dice il terzo comma del nuovo articolo 2 ter); f) l'imputato non ha un termine entro il quale opporsi al rinvio; g) ma finché l'imputato non manifesta la propria volontà oppositiva la prescrizione continua a decorrere.

È prevedibile che questo grave e traballante carico di adempimenti, dall'incerto destino, disincentivi qualunque presidente di buon senso dall'esercizio del potere di rinvio, che, ripetiamo, è puramente discrezionale. Egli dedicherà il suo tempo a condurre in porto i processi che la stessa legge definisce urgenti piuttosto che a studiare quelli che, sempre in base alla stessa legge, non lo sono. Ma la scelta non è indolore. Se il processo non si fa perché c'è il decreto di rinvio, la prescrizione è sospesa e la parte civile può trasferire la sua azione nel processo civile, con corsia preferenziale. Se il processo non si fa perché non c'è tempo per farlo, senza decreto di rinvio, decorre la prescrizione che estingue il reato e l'imputato viene assolto. Sono prevedibili le polemiche per l'uso o il non uso del potere di rinvio.

Nel momento in cui la politica lamenta l'eccesso di discrezionalità della magistratura nella trattazione dei processi penali e la magistratura denuncia la farraginosità delle procedure, il Parlamento si appresta a votare una proposta che aumenta insieme discrezionalità e farraginosità. Qualcosa, evidentemente, non funziona.

A questo punto una modesta proposta: non è meglio mettere da parte questa norma sul rinvio e richiedere, come del resto opportunamente stabilisce un altro comma dell'emendamento del governo, che il ministro relazioni dopo un anno al Parlamento sull'applicazione da parte della magistratura dei criteri di priorità? Ascoltata la relazione, si potrà fare un bilancio e decidere eventuali, meditati, passi ulteriori.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Febbraio 21, 2012, 12:09:09 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 06, 2008, 06:23:04 pm »

6/10/2008
 
Dove arriva il potere del pm
 
 
LUCIANO VIOLANTE
 
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno annullato una decisione della sezione disciplinare del Csm che aveva assolto due pm della procura di Salerno, accusati di aver sottoposto a indagini preliminari un terzo magistrato, sebbene non fosse stato acquisito alcun elemento indiziante nei suoi confronti. I due pubblici ministeri avrebbero agito non sulla base di una notizia di reato, ma per ricercare una notizia di reato.

Non è un caso isolato. Si tratta di errori gravi che potrebbero essere determinati anche dall’equivoca formulazione di un articolo del codice di procedura penale (330) dove è scritto che il pm e la polizia giudiziaria «prendono» notizia di reati di propria iniziativa. «Prendono» non significa «cercano»; significa che la notizia di reato c’è già (per esempio in una inchiesta giornalistica) perché non si può «prendere» una cosa che non c’è. Ma, in assenza di chiarimento esplicito, l’espressione potrebbe anche essere erroneamente interpretata come autorizzazione per pm e polizia giudiziaria a cercare di propria iniziativa questa benedetta notizia.

Il compito di cercare le notizie di reato spetta invece alla polizia amministrativa. Al pm compete di indagare, anche avvalendosi della polizia giudiziaria che opera alle sue dipendenze, sui fatti oggetto della notizia di reato, comunque a lui pervenuta, e individuare i colpevoli. Ma, senza notizia, niente indagini.

Quale è l’importanza di questa distinzione?

Al pm l’ordinamento riconosce poteri assai incisivi nei confronti della libertà, della onorabilità e dei beni dei cittadini, ma a una condizione: che quei poteri siano esercitati in base a un presupposto preciso e controllabile, l’esistenza di una notizia di reato. L’informazione che un reato è stato commesso delimita il raggio di azione degli interventi del pm circoscrivendolo a quel determinato fatto e nei confronti di persone che a quel fatto siano in qualche modo connesse. Alla polizia amministrativa, invece, sono attribuiti poteri ridotti proprio perché può indagare per accertare se un reato è stato commesso, anche in presenza solo di un sottile sospetto. Nel primo caso, a presupposti precisi corrispondono poteri assai penetranti; nel secondo, a un raggio di azione più ampio e indeterminato corrispondono poteri ridotti.

Al fine di determinare senza equivoci l’ambito dei poteri del pm e della polizia giudiziaria è perciò opportuno fissare nel codice una chiara linea di confine tra il potere costituzionale del pubblico ministero di esercitare l’azione penale e le libertà costituzionali dei cittadini. Occorre scrivere con chiarezza che il pm non può ricercare la notizia di reato e può attivarsi solo dopo averla acquisita dalla polizia giudiziaria o in qualunque altro modo. Cade in errore, quindi, chi ritiene che la proposta di cui qui si parla sottrarrebbe al pm la polizia giudiziaria e la conduzione delle indagini. Al contrario, così si rafforza la natura giurisdizionale della sua funzione. Infatti, se il pm potesse andare in cerca di notizie di reato, si trasformerebbe in una sorta di poliziotto, uscirebbe dalla magistratura e perderebbe ineluttabilmente la propria indipendenza dal potere politico.

È vero, peraltro, che i problemi pratici della giustizia sembrano riguardare soprattutto la lunghezza dei tempi. Ma una regola ferrea della politica dice che le disfunzioni di un potere dello Stato (e la magistratura lo è) vengono definitivamente risolte solo quando è stabilito in modo inequivoco cosa quel potere può fare e cosa, invece, non può fare. Oggi è in discussione la collocazione di ciascuna grande istituzione costituzionale in rapporto alle altre e in relazione ai cittadini. Il progetto di federalismo fiscale fissa nuovi rapporti tra Stato, Regioni ed Enti locali; i progetti di riforma costituzionale e di riforma dei regolamenti delle Camere cambiano le funzioni del Parlamento, del Governo, del presidente del Consiglio e i rapporti tra queste istituzioni.

Tra il XIX secolo, quando sono state poste le basi dell’attuale sistema costituzionale, e il XXI, che stiamo vivendo, troppe cose sono cambiate. Per far uscire la nostra democrazia dalle secche in cui si trova bisogna tradurre in termini adeguati alle nuove necessità i grandi principi che la sostengono: separazione dei poteri, responsabilità nei confronti dei cittadini, controllo circolare tra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario. I difensori acritici della magistratura la danneggiano perché ignorano che anche per questa istituzione si pone il problema della riflessione e del rinnovamento. La Cassazione ha toccato un piccolo ma significativo aspetto del problema. Ignorarlo significa lasciare senza contraddittori coloro che intendono risolverlo in modo sbagliato.

da lastampa.it
 
 
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 08, 2008, 10:01:07 am »

«Sì al cambio delle norme con la maggioranza»

Violante: «Magistrati, troppo potere»

La proposta: «Azzeriamo il contenzioso reciproco. Poi parta il confronto alla luce del sole»


ROMA - Onorevole Luciano Violante, dopo la nuova guerra tra le toghe, la maggioranza invoca a gran voce la riforma della giustizia, lei è d'accordo?
«Facciamo un'ipotesi: e cioè che il nuovo caso sia un'eccezione. Dovremmo registrare, dopo il tempestivo intervento del capo dello Stato, che il Csm si è mosso con immediatezza ed efficacia. Tutto bene. Ma io, però, non sono affatto convinto che sia un'eccezione».

Perché?
«Lo scontro tra Salerno e Catanzaro è la logica conseguenza del fatto che per anni la politica ha omesso di affrontare seriamente il tema della magistratura come potere. Il centrodestra in verità il problema se lo è posto, ma in modo che è apparso ritorsivo, non riformatore. Il centrosinistra non ne ha parlato per timore di limitare l'indipendenza dei magistrati. Eppure negli ultimi decenni il potere delle diverse magistrature è cresciuto a dismisura, in modo spesso autoreferenziale e quindi non sempre accompagnato da quella autodisciplina che dovrebbe sempre ispirare l'esercizio delle funzioni pubbliche, specie di quelle che più hanno bisogno della fiducia dei cittadini. Ecco perché, è evidente, che ormai è necessario fare la riforma subito».

Come mai è tanto cresciuto il potere della magistratura?
«Il fenomeno è generale in tutto il mondo. Basta pensare al ruolo della Corte suprema sua thailandese nella crisi dei giorni scorsi. Per non parlare di quello giocato dalla Corte Suprema americana nella prima elezione di Bush. Ma in Italia ha una peculiarità».

Perché?
«Per tre motivi. Innanzitutto perché manca nel mondo politico la consapevolezza della necessità di un'etica pubblica e di una responsabilità politica indipendente e separata dalla responsabilità penale. Se l'unica responsabilità che conta è quella affermata dai giudici, diventa inevitabile che i giudici acquisiscano un anomalo potere di condizionamento dei fatti politici. Il secondo motivo è che le diverse magistrature costituiscono l'ossatura amministrativa dello Stato. Sono la nostra Ena, cioè quello che in Francia è la Scuola nazionale di amministrazione. Si pensi al ruolo dei magistrati ordinari all'interno del ministero della Giustizia, nelle strutture del Csm, nei gabinetti e uffici legislativi degli altri ministeri, nelle Commissioni parlamentari. Per non parlare del fatto che ogni atto di governo o della pubblica amministrazione finisce sotto la giurisdizione del Tar e del Consiglio di Stato».

Persino la nomina del primo presidente della Cassazione...
«L'autogestione della macchina giudiziaria e della carriera, e la presenza in snodi essenziali dell'amministrazione pubblica hanno assicurato la totale impermeabilità dell'ordine giudiziario a controlli esterni e la possibilità per ciascun magistrato che lo voglia di essere al centro di un sistema esclusivo di relazioni di potere».

E il terzo motivo?
«È il potere "invasivo" del pubblico ministero, accresciuto dal grande numero di leggi penali. Il codice non chiarisce quando il pm può iniziare ad intervenire: se dopo aver ricevuto la notizia di reato, oppure quando, a sua discrezione, decide di andare a vedere se per caso un reato è stato commesso da un privato, un'azienda, un ufficio pubblico. In questo secondo caso il potere di intrusione nella vita del cittadino, delle imprese o della pubblica amministrazione è enorme».

Bene, bisogna fare la riforma della giustizia. Ma come? Insieme maggioranza e opposizione?
«Opposizione e maggioranza devono fare "time out", azzerare il contenzioso reciproco e discutere, senza presentare pacchetti già chiusi da prendere o lasciare. Al centrosinistra direi: fare la riforma della giustizia insieme al centrodestra non è un favore fatto a Berlusconi, è un dovere nei confronti del Paese, per permettergli di essere più equo, più responsabile e più moderno. E ancora: avevamo detto prima delle elezioni che avremmo fatto le riforme insieme al Pdl, dopo che le abbiamo perse non è un buon motivo per non farle più. Naturalmente il dialogo deve essere fatto nelle aule parlamentari, alla luce del sole».

Il centrodestra vuole separare pm e giudici. Servirà?
«No. La separazione delle carriere fa del pm una specie di superpoliziotto, appartenente ad una casta chiusa e perciò pericolosa. Consiglio di verificare gli effetti di questa riforma in Portogallo».

Cos'altro è necessario?
«Integrare la composizione del Csm, con la nomina di un terzo dei componenti da parte del capo dello Stato. E un'indagine conoscitiva sull'efficienza del sistema giudiziario: perché a Bari, con le stesse regole, un processo civile dura tre volte più che a Torino?».

Alla maggioranza e al governo invece cosa dice?
«Bando alle ritorsioni. È il momento di far prevalere il senso dello Stato. Non è che perché il cane è bagnato che adesso bisogna farlo affogare».

M. Antonietta Calabrò
08 dicembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 08, 2008, 06:09:41 pm »

7/12/2008 (19:21) - LO SCONTRO POLITICO

Giustizia, no dei giudici alla riforma
 
Il Pdl accelera: "Bisogna intervenire"

L'Anm: vogliono toglierci autonomia.

Il Pd: "Sì al dialogo ma ci sono paletti".

L'Udc apre, altolà dell'Italia dei Valori


ROMA

Per Silvio Berlusconi è sempre stata una priorità. Ma ora che sul caso De Magistris è scoppiata la "guerra" tra le procure di Catanzaro e di Salerno che ha spinto a intervenire il capo dello Stato e il Csm, il presidente del Consiglio può rilanciare quel tema a lui così caro che la crisi economica aveva fatto finire in secondo piano. «La riforma della giustizia va fatta, bisogna andare avanti» è la parola d’ordine che il premier ha lanciato ieri da Pescara. E che oggi viene raccolta da tutta la maggioranza, fino a trasformarsi in un vero pressing.

Il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri chiede uno «stop ai partiti travestiti da correnti di magistrati» e il presidente della commissione Giustizia della Camera, Giulia Bongiorno, parla di riforma «urgente» e definisce «necessaria» una revisione dell’accesso alla carriera. Il presidente dei deputati Pdl, Fabrizio Cicchitto, auspica un dialogo con «l’opposizione non giustizialista» ma mette in chiaro che per la maggioranza la riforma resta comunque «doverosa». Il Pd, dopo l’apertura di Massimo D’Alema di due giorni fa, mantiene una certa diffidenza, e soprattutto dice con chiarezza che l’esigenza di affrontare la situazione non può essere scambiata come un modo per reintrodurre il tema della separazione delle carriere su cui resta una decisa contrarietà. Netto e totale, invece, il no dell’Italia dei Valori.

È Niccolò Ghedini, deputato del Pdl e avvocato-consigliere del premier, in un’intervista a ’La Stampà, a tracciare il possibile "timing" della riforma. Ghedini parla di «magistratura fuori controllo» e ipotizza un percorso, senza decreti, ma fatto in due step: «un ddl subito, forse già questa settimana, per sveltire il processo e rinforzare le garanzie. L’altro, più complesso, di natura costituzionale, all’inizio dell’anno prossimo». Lo stesso Ghedini chiama in causa Massimo D’Alema chiedendo se «le aperture che vengono dalla sinistra ci permetteranno una riforma condivisa». Il Partito democratico, con la capogruppo al Senato Anna Finocchiaro, risponde sì alla chiamata al dialogo, ma con dei paletti ben fermi. «Se il Governo vorrà lavorare a una riforma che acceleri i processi amministrativi e penali - sottolinea - troverà orecchie attente e nostre proposte. Separazione delle carriere e un Csm separato per i pubblici ministeri non ci convincono e non aiutano di certo a migliorare la qualità e la velocità dei tempi per la giustizia dei cittadini».

Insomma, dice il Pd, la destra non «soffi sul fuoco» per ottenere riforme non condivise. Un invito al Pd a sedersi al tavolo del confronto, intanto, arriva dal leader Udc Pier Ferdinando Casini. «Credo - dichiara - che una riforma si imponga e nessuno si può tirare fuori. Io chiedo al Pd di sedersi attorno a questo tavolo con la maggioranza». Di traverso a qualsiasi ipotesi bipartisan si mette però il partito di Antonio Di Pietro. La «vera riforma della giustizia di cui il Paese ha bisogno - sostiene il capogruppo Idv alla Camera, Massimo Donadi - è quella che garantisce innanzitutto certezza e tempestività nella tutela dei diritti dei cittadini. L’idea di Berlusconi, invece, è sempre e solo quella di mettere la magistratura sotto il controllo della politica».

Ma un secco "no" all'ipotesi di un intervento legislativo arriva dai giudici. L’Anm denuncia il rischio di una riforma strumentale della Giustizia fatta per colpire autonomia e indipendenza della Magistratura, sull’onda dello scontro fra Procure sui fascioli De Magistris. Il presidente del "sindacato" delle toghe Luca Palamara sottolinea come, proprio sul caso De Magistris, «il sistema giudiziario italiano ha dimostrato di avere gli anticorpi e non ha bisogno di controlli esterni». Ed il segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati Giuseppe Cascini è anche più esplicito: «Sbaglia chi pensa di approfittare della situazione per ridurre l’auitinomia e l’indipendenza della Magistratura. La risposta da dare non è quella. L’intervento tempestivo del Csm dimostra che il sistema funziona e sa intervenire, quando necessario, con la dovuta rapidità e severità anche nei confronti dei comportamenti sbagliati e scorretti di Magistrati».

da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 12, 2009, 07:01:05 pm »

Mi vergogno di essere stato comunista

di Luciano Violante

Ricordando le foibe.


È il 10 febbraio. Siamo nella sala della Lupa, la più importante di Montecitorio, per la “Giornata del ricordo”. L’aria, all’inizio, è quella delle cerimonie. Saluti cortesi, scambio di parole di circostanza. Alle 18 il presidente della Camera pronuncia un sobrio intervento. Poi le luci si spengono e comincia la recitazione di un pezzo teatrale che si chiama “Una grande lapide bianca”.

Il testo è il monologo sull’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia e sulla tragedia delle foibe. Un anziano, sloveno o croato, non importa, riceve il diario di un suo vecchio compagno di giochi, italiano, poi costretto all’esodo. Una voce fuori campo legge brani di quel diario. Ad ogni brano il vecchio risponde con il suo punto di vista. Gli italiani erano stati sempre a far da padroni sulle case, sulle terre, sull’aria persino e ora finalmente dovevano andarsene via. Dovevano essere cacciati. Poi parla l’autore del diario, caricato su un treno con la piccola sorella perché i genitori si sono persi, forse uccisi. Il treno va verso sud. A Bologna il treno è fermo per ore perché, è un fatto storico, c’è una manifestazione di sinistra, prevalentemente pci contro gli esuli considerati traditori perché avevano lasciato un paese comunista.

Poi riprende lentamente la sua marcia lungo l’Adriatico, sino a Jesi. L’esule è italiano, si sente ancora più italiano perché ha scelto di andare via e di stare con gli altri italiani. Ma questi italiani non lo considereranno un concittadino, lo guardano con sospetto e guardano con sospetto tutti coloro che sono venuti via. A Jesi sono chiusi in un campo e alloggiati in baracche, come fossero prigionieri. È la tragedia che molti esuli subirono. Ma non è di questo che voglio parlare. A un certo momento del monologo vengono rievocate le foibe, la tragedia delle giovani donne violentate, degli italiani legati due e due e precipitati nelle foibe perché contrari o sospettati di essere contrari all’annessione alla Jugoslavia di Trieste e di parte del suo territorio. Mentre la tragedia era raccontata io mi sono sentito in imbarazzo. Se fosse stato raccontato un brano di vita a Mauthausen mi sarei immedesimato nella storia, mi sarei sentito a mio agio, orgoglioso di appartenere alla storia di quei vinti che poi hanno vinto. Mi sono reso conto per la prima volta, che la mia storia politica era stata dalla parte degli aggressori, di chi legava il fil di ferro ai polsi delle vittime, prima di precipitarle, non dalla parte di chi aveva i polsi legati. Dalla parte di chi aveva violentato e non dalla parte di chi era stato violentato. Certo, mi sono battuto, tra i primi e anche senza un grande seguito, perché la storia politica e umana del confine orientale fosse letta sino in fondo.

Da presidente del Gruppo Ds, con il pieno sostegno di Piero Fassino, allora segretario del partito, mi sono schierato e ho schierato il Gruppo per l’approvazione della legge sulla giornata del ricordo. Anche se non tutti nel Gruppo e nel partito erano d’accordo. A Trieste, e altrove, in più occasioni, ho ribadito l’intollerabilità dei lunghi decenni di silenzio. E tuttavia mi sembrava che le implicite accuse delle parole della piéce riguardassero anche me. Perché l’aver appartenuto al partito comunista e il sentirmi tutt’ora dentro quella rigorosa educazione politica e quel complesso di valori civili e repubblicani mi faceva sentire tra quegli assassini. Come si sente un uomo di An quando si parla di San Saba o di via Tasso? Come si sente un cattolico quando si parla dell'Inquisizione o dei preti pedofili? Ma non basta questo a consolare. Anzi, è una deviazione. Il punto è che sinché la sinistra non celebrerà le foibe e la destra non celebrerà Fossoli resteremo divisi nelle nostre storie e nelle nostre memorie.

Prima, nel pomeriggio, Giorgia Meloni mi aveva chiesto, per una radio del suo ministero, rivolta ai giovani, se non dovessimo costruire una memoria condivisa. Mi è sembrato necessario spostare la risposta dal tema della memoria al tema della identità. Si è parlato spesso di memoria condivisa. Ma la memoria per ciascuno di noi è il proprio personale rapporto con la storia generale e con le vicende della propria vita. È perciò difficile che sia condivisa. L’identità deve essere condivisa, non la memoria. Essere italiani vuol dire avere avuto tanto Fossoli quanto Baisovizza. E deve significare sentirsi tanto dalla parte di chi stava sui vagoni piombati quanto dalla parte di chi era precipitato nelle foibe. Il problema italiano non è la memoria; è l'identità. Ci sentiamo ancora oggi appartenenti a storie diverse perché queste classi dirigenti guardano poco al futuro e rinvangano continuamente il passato dell’altro per trovarvi argomenti di divisione, come se la storia dell’altro non riguardasse anche noi. E se io contrappongo a chi mi sbatte le foibe sul tavolo, i crimini di guerra di settori dell’esercito italiano nella ex Jugoslavia, resteremo cittadini di due Italie diverse. Se il mio avversario contrapporrà gli omicidi del triangolo rosso alle torture delle brigate nere, confermeremo che siamo cittadini di due Italie diverse. Su questa divisione lucreranno politici astuti e nel burrone tra le Italie del nostro passato potrebbe precipitare l’Italia del nostro futuro.

Costruire l’identità italiana avendo il coraggio di farci entrare anche la storia dell’altro, condannando tutto ciò che bisogna civilmente condannare, anche se viene dalla propria parte, ma sapendo che anche quella è storia d’Italia, ci renderebbe capaci di capire la drammaticità della nostra vicenda nazionale e ci darebbe la possibilità di costruire un futuro comune e migliore.

Capisco che molte obiezioni potrebbero essere fatte e rispettabili. Tuttavia occorre che si discuta anche di questo se si vuole perseguire l’interesse dell’intero Paese, dentro il quale deve stare l’interesse della propria parte. Diverso sarebbe se si intendesse perseguire l’interesse della propria parte, anche contro l’interesse del Paese.

Giovedì, 12 febbraio 2009 

da ilriformista.it
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 27, 2009, 11:33:45 am »

Il Pdl Le prime assise

«L’era Silvio? Non avevamo capito nulla»

Violante: nel Pds si ironizzava.

Solo Pecchioli comprese, D’Alema intuì qualcosa
 
 
ROMA - «L’inizio di tutto? Ho un ricordo netto, visivo, e quasi fisico: ero nel mio ufficio di presidente della commissione Antimafia, a Palazzo San Macuto, e stavo guardando i tigì di mezza sera. All’improvviso sentii dare questa notizia: "L’imprenditore Silvio Berlusconi ha deciso di appoggiare il leader dell’Msi Gianfranco Fini che, nella corsa a sindaco di Roma, è impegnato contro Francesco Rutelli, candidato del centrosinistra"... Beh: mai, prima di quel momento, c’era stato qualcuno così sfrontato nell’appoggiare un esponente di destra, e di una destra vera, autentica... che anno era?».

Era il 23 novembre 1993.
(Luciano Violante ha 68 anni ed è nato a Dire Daua: il padre, giornalista comunista, fu costretto dal regime fascista ad emigrare in Etiopia. Ma su questo non indugiamo: è pomeriggio tardi, dalle finestre del suo ufficio al terzo piano di via Uffici del Vicario si vede il sole venire giù su Roma. È un ufficio bello ed elegante come il rango di ex presidente della Camera impone. Naturalmente di Violante, ora nel Pd, occorre ricordare che fu anche magistrato di spicco e alto dirigente del Pci, e poi, ma questo è in molti libri di storia, uno dei pochi e sinceri amici di Giovanni Falcone).

Berlusconi—all’epoca padrone di tv e strepitoso presidente del Milan — decide di mettersi a fare politica: voi del Pds cosa pensaste?
«Pensammo ciò che pensò buona parte della classe politica italiana sopravvissuta a Tangentopoli: ma chi è questo? Cosa vuole? Come si permette di irrompere nella nostra politica in modo così sgrammaticato?».

Tutti sorpresi.
«No... forse non tutti. Ugo Pecchioli, che era presidente della commissione per i Servizi, qualcosa intuì».

Tipo?
«Lui era un politico assai rigido, rigoroso. Di pura cultura comunista. Ma ricordo che un giorno mi disse: "Attenti, le cose nuove, in politica, nascono così"...».

E i diccì? E i socialisti?
«Erano provati dalle vicende di Tangentopoli... Ma tipi come Martinazzoli e Cabras... e anche come Gargani...».

Cosa dicevano?
«Mah, è probabile che loro qualcosa, delle potenzialità di Berlusconi, intuissero. In fondo loro avevano frequentato Bettino Craxi, erano stati suoi alleati e perciò lo avevano incontrato in privato, con lui avevano trattato...».

E quindi?
«Beh, credo che una certa sua capacità di rompere gli schemi, in fondo, la ritrovassero anche in Berlusconi».

Voi, invece, rigidi.
«Non capimmo che cominciava una nuova era».

Perché?
«Aneddoto. Pranzo di Pasqua, a casa mia, in montagna, a Cogne: tra gli ospiti una signora che era funzionaria di Publitalia. La quale, ad un certo punto, fa: "Io ve lo dico... guardate che quello sta fondando un partito"...».

E voi?
«Scettici. Pensando: e che un partito si fonda così?».

Ingenui.
«Ci credevamo poco. Mentre lui tesseva alleanze, stringeva patti con la Lega, con la destra... noi ironizzavamo».

Per esempio, quando?
«Quando si seppe che ai suoi adepti forniva un kit di ordini: lasciare i bagni puliti, essere sempre sbarbati...».

E quando, il 26 gennaio del 1994, Berlusconi registrò il suo primo messaggio televisivo, mettendo una calza da donna davanti all’obiettivo della telecamera per garantirsi così un effetto visivo più fascinoso?
«Pensammo fosse una roba poco seria. E sbagliammo. Perché lui, invece, aveva già intuito come la nuova società italiana stesse cambiando e, alla verità del merito, tipica della nostra storia comunista, si stesse sovrapponendo la verità della forma».

Achille Occhetto, avversario designato.
«All’ultimo match televisivo si presentò con un abito marrone in stoffa "occhio di pernice" piuttosto triste... Berlusconi, di fronte, come un manichino lucente...».

Ma lo sottovalutaste davvero a lungo. Veltroni, all’epoca direttore dell’«Unità », gli consentì addirittura di scrivere un editoriale in prima pagina per spiegare l’uso delle sue tivù. Vittorio Foa lo definì una «bolla di sapone»...
«Davvero Foa disse questo?... Se posso aggiungere, però, ricordo che D’Alema, almeno lui, non fu tenero. La verità è che Berlusconi, dopo che i suoi tigì avevano cavalcato Tangentopoli, si presentò dicendo "io sono il nuovo". Noi, automaticamente, diventammo il vecchio».

Eppure voi, fino all’ultimo, pensaste di vincere. Occhetto definì la vostra armata elettorale una «gioiosa macchina da guerra».
«Propaganda. Io dico che se ci fossimo alleati con i popolari di Martinazzoli avremmo vinto. Comunque, negli ultimi due giorni di comizi, capii che avremmo perso. A Palermo, a Caltanissetta....

Ci fu un suo incidente con Marcello Dell’Utri.
«Il quotidiano La Stampa mi attribuì frasi che io non avevo mai pronunciato. Occhetto mi costrinse alle dimissioni da presidente dell’Antimafia, seguì una querela... acqua passata, direi».

Oggi comincia il congresso di fondazione del Pdl.
«Il segreto di Berlusconi è che è sempre rinato. Ha vinto, perso, rivinto, riperso, e ancora rivinto. Ogni volta cambiando gioco e regole».

E stavolta?
«Stavolta, con il Pdl, l’obiettivo è quello di dare un nuovo ordine alla società italiana...».

Fabrizio Roncone

27 marzo 2009
da corriere.it
« Ultima modifica: Aprile 19, 2009, 05:06:48 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 27, 2009, 11:35:15 am »

Dalla ormai celebre calzamaglia della discesa in campo all'annuncio dal "predellino"

Le tappe della vita politica del Cavaliere nel giorno di apertura del congresso Pdl

"Questo è il paese che amo" La storia italiana del Cavaliere

di MATTEO TONELLI

 

ROMA - Dalla discesa in campo alla salita sul predellino. La parabola di Silvio Berlusconi si potrebbe sintetizzare così. Eppure ne sono successe di cose da quel lontano 1994 in cui gli italiani cominciarono a conoscere la faccia del Cavaliere (con annessa libreria posticcia sullo sfondo) fino ad oggi, alla vigilia del battesimo del Pdl.
Il contenitore unico del centrodestra che ha inglobato An e si prepara a festeggiare, in pompa magna, la sua nascita. Con tanto di banda musicale.

Quindici anni di cambiamenti, di partiti nati e spariti, di leader inventati e bruciati. Quindici anni la cui comprensione, però, non può prescindere da Silvio Berlusconi.
E' lui l'unica costante immutabile della scena politica. Più di Prodi, che pur l'ha sconfitto due volte. Più di Fini,"il politico di professione" relegato a eterno numero due. Piaccia o non piaccia gli ultimi 15 anni hanno avuto come costante il Cavaliere. Da Forza Italia, alla Casa delle libertà, al Pdl. Al comando sempre un solo uomo: Berlusconi.

E anche oggi, mentre il Pdl sta per nascere, non si può dimenticare che l'atto fondativo della nuova forza politica risiede nel balzo del premier sul predellino di una macchina tra la folla che lo ascoltava in piazza San Babila. Congressi? Ma quando mai. La storia è Forza Italia è un continuo slittare o derubricarli a semplici Consigli Nazionali. Voti? Mozioni? Macché. mai nessuno, in Forza Italia, ha osato mai proporre un documento di critica al Cavaliere. E di un voto non c'è mai stato bisogno: bastava l'acclamazione. Persino le parole sono rimaste le stesse. Quelle del '94 della scesa in campo, Berlusconi le ha riutilizzate, nel 2008, al termine del consiglio nazionale che sancì la confluenza di Fi nel Pdl. A Berlusconi bastarono dieci minuti e le stesse parole del '94. Come dire: nulla è cambiato, in primis il Cavaliere.

Ma vale la pena di partire da lontano. Tornare con la memoria agli ultimi mesi del '93 quando si diffondono le voci del probabile ingresso in politica del Cavaliere.
Lui smentisce, ma la cassetta con il famoso discorso del "Paese che amo" è già pronta. Gli italiani si trovano davanti ad un nuovo modo di fare politica. Fatto di sondaggi, sorrisi, spot televisivi usati a piene mani. Il Cavaliere guida uno schieramento che lo vede al nord alleato con Ccd e Lega (Polo delle libertà), al centro-sud con Ccd e An (Polo del buon governo) e vince, travolgendo "la gioiosa macchina da guerra" messa in piedi dall'allora segretario del Pds Achille Occhetto.

Ma dura poco. L'ormai famoso avviso di garanzia durante il vertice di Napoli fa cadere il governo. E' l'inizio di una "guerra" contro la magistratura che segna il Dna di Forza Italia. Una vera e propria ossessione quella di Berlusconi: "La giustizia va riformata". Al governo va Prodi e il Cavaliere prepara la rivincita. Forza Italia cambia statuto e diventa un partito. Leggerissimo, per la verità. Di plastica, dicono i detrattori. Di sicuro saldamente identificato con il suo leader. Lo stesso di sempre. Che ne diventa presidente del 1998. Ovviamente per acclamazione. "Siamo un partito liberaldemocratico, popolare, cattolico, laico e nazionale" scandisce Berlusconi. Che, un anno più tardi, vede Forza Italia entrare nel Ppe.

E' il momento del primo cambio di nome. Nel 2000 nasce la Casa delle libertà. In pratica un cartello delle forze che si oppongono "alla sinistra". Si arriva così al voto del 2001. Il Cavaliere firma, in diretta televisiva da Bruno Vespa con tanto di scrivania portata per l'occasione, il "contratto con gli italiani e promette "grandi opere, sviluppo, libertà, meno tasse". Un mix che fa breccia nell'elettorato. Berlusconi torna a palazzo Chigi. Ma non sono rose e fiori con il centrosinistra che rialza la testa alle amministrative del 2005.

Il resto è storia recente. La sofferta vittoria di Prodi del 2006. Il Cavaliere furioso che grida ai brogli e non riconosce la vittoria dell'avversario. Il Professore che, fin dal primo giorno deve fare i conti con una coalizione rissosa e divisa. Ma anche nel centrodestra i rapporti sono tutt'altro che sereni. "Il limite della Casa delle libertà, è quello di essere una coalizione, dove basta il veto di uno solo dei partiti coalizzati per bloccare qualsiasi decisione" dice il Cavaliere sempre più insofferente verso Fini e Casini. Che ricambiano. Sembra che si vada alla rottura quando Berlusconi, il 18 novembre del 2007, rompe gli indugi e sale sul predellino della sua berlina di lusso in piazza San Babila a Milano. Intorno una folla adorante. "E' l'ora dei partito unico del centrodestra". Fini e Casini, scavalcati, schiumano rabbia. "Siamo alle comiche finali" tuona il leader di An. Ma la caduta del governo Prodi funziona da miracoloso collante (non con l'Udc che se ne va da sola). A marzo 2008 si vota e il centrodestra stravince. Berlusconi risale a palazzo Chigi. Per Forza Italia è l'ora dello scioglimento. Il 21 novembre dello scorso anno il consiglio nazionale vota la confluenza nel Pdl. An la segue il 20 marzo. Si arriva così all'oggi. Con un partito che nasce sul predellino di un'auto, senza che nessuno, al momento dell'annuncio, ne sappia nulla. Se non Berlusconi, ovviamente. Dal 94 ad oggi, unico vero dominus del centrodestra. Comunque si voglia chiamarlo.

(27 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 19, 2009, 05:07:28 pm »

16/4/2009
 
Un rischio la vittoria dei sì

 
LUCIANO VIOLANTE
 
La disputa sulle date del referendum sta per esaurirsi; si può perciò cominciare a parlare del merito. Gli intenti che spinsero i referendari ad assumere l'iniziativa nel 2007 erano più che lodevoli. Di fronte al rischio che il panorama rissoso delle coalizioni proprio della scorsa legislatura diventasse un carattere strutturale del nostro sistema politico, proposero di liquidare quelle coalizioni attribuendo il premio di maggioranza alla sola lista vincente. In ogni scelta politica ci sono vantaggi e danni.
Allora i vantaggi erano superiori ai danni.

Ora, però, il superamento di quel tipo di coalizioni è avvenuto per via politica. Nel 2008 Veltroni, con coraggio, si coalizzò con la sola Idv e Berlusconi lo seguì stringendo un patto solo con la Lega. E' difficile pensare che si possa tornare alle carovane di un tempo: i primi a ribellarsi sarebbero gli elettori. Perciò, guadagnati per via politica i vantaggi che si volevano conseguire attraverso il referendum, bisogna fare i conti con i danni.

Il quesito principale intende attribuire il premio di maggioranza alla lista che abbia preso più voti: la lista vincente alla Camera o al Senato, in ipotesi anche solo con il 30% dei voti, otterrebbe il 55% dei seggi. Già oggi non gli elettori, ma i capi dei partiti, caso unico nel mondo avanzato, hanno il potere di scegliere i componenti del Parlamento. Il referendum conferma questa loro prerogativa e anzi la potenzia perché mette nelle mani di un solo uomo, il capo del partito vincente, chiunque esso sia, la scelta della maggioranza assoluta dei parlamentari. Le preoccupazioni aumentano quando si guarda agli statuti dei partiti e alle prassi che caratterizzano la loro vita interna: ben pochi partiti politici oggi potrebbero definirsi democratici, visto che molti funzionano con modalità carismatiche e populiste. Se domani vincesse il Sì, un solo partito, in netta minoranza nel Paese, diventerebbe maggioranza assoluta in Parlamento e potrebbe ad esempio, da solo, eleggere il Capo dello Stato, impossessarsi dei mezzi d'informazione, cambiare secondo le proprie convenienze la legge elettorale e i regolamenti parlamentari. Il Parlamento diventerebbe una protesi del governo, anzi del presidente del Consiglio, chiunque esso sia.

Oggi la maggioranza Pdl-Lega assicura una certa dialettica politica che non blocca la democrazia ma favorisce il confronto; lo stesso sarebbe accaduto se avesse vinto la coalizione Pd-Idv. Se domani, grazie al referendum, governasse solo il Pdl o solo il PD la democrazia sarebbe più salda? Il bipartitismo non è una bestemmia, ma esige un sistema elettorale che dia ai cittadini la possibilità di scegliere i propri parlamentari e regole democratiche in tutti i principali partiti. Queste condizioni oggi non ci sono e pertanto il bipartitismo che verrebbe fuori dal referendum consoliderebbe in realtà le attuali oligarchie.

Mi sembra assai rischioso sostenere che conviene far vincere il Si per potere poi cambiare la legge Calderoli. Se davvero ci fosse una maggioranza per cambiare la legge elettorale, perché non la si è cambiata tempestivamente, anche per evitare il referendum? In realtà oggi non c'è una maggioranza per una nuova legge elettorale ed è difficile che possa esserci domani, quando i vincenti avrebbero nelle proprie mani tutto il potere.
 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Maggio 13, 2009, 11:16:57 am »

Violante: «Il Pdl la smetta di alimentare paure e il Pd di fare proposte astratte»
 
 
di Nino Bertoloni Meli

ROMA (11 maggio) - «Sgombriamo il campo dal clima elettorale, finiamola di dire ”entrino tutti” oppure ”fuori tutti”, e affrontiamo insieme, le parti più responsabili di maggioranza e opposizione, i problemi inediti e profondi legati all’immigrazione». Parola di Luciano Violante, ex presidente della Camera, esponente di spicco del Pd che conosce bene i temi, legali e non, connessi all’immigrazione.

Presidente Violante, è giusto respingere i migranti e accompagnarli in Libia?
«Non è giusto ma è legale, specie se si trovano in acque internazionali. Ma se a bordo ci sono rifugiati politici, questi hanno diritto a entrare e purtroppo la Libia non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati».

C’è un problema umanitario?
«Certamente, ma non possiamo accogliere tutti. E non possiamo neanche trasformare l’immigrato nel nemico pubblico numero uno. Occorre usare la ragione, non l’emozione. E’ un problema che va ben oltre la quotidianità e oltre i confini nazionali, riguarda e riguarderà ancora per molti anni tutto il mondo. E’ una situazione difficile da governare, ma reprimere è diverso da governare».

Le ricette usate dal governo la convincono?
«Troppo spesso si produce paura a mezzo di paura e si crea un vero e proprio ”mercato della paura” nel quale attingere consensi. Ma da questo mercato non nascono soluzioni».

L’opposizione non sembra mettere in campo ricette più convincenti.
«Ha ragione. Ci vorrebbe, ci vuole un confronto serio in Parlamento e nel Paese tra maggioranza e opposizione, o almeno tra le parti più ragionevoli degli uni e degli altri. Con l’immigrazione dovremo convivere nei prossimi decenni, non è argomento che si può affrontare unilateralmente o a lance in resta».

E poi c’è la crisi che incombe, i ”respingimenti” diventano più popolari, la gente non sembra strapparsi i capelli.
«Con la crisi, certo, c’è meno disponibilità verso concetti come solidarietà e accoglienza. E tuttavia la politica deve avere la sua strategia, i suoi valori».

E quel dialogo e confronto che auspica, come si potrà fare?
«Immagino che parte della Lega e parte della sinistra radicale non ci staranno, ma spetta alle forze più sensibili a soluzioni strutturali, non contingenti, avanzare soluzioni giuste e realistiche».

Nel concreto?
«Un esempio: se in un dato comune il 30 per cento sono immigrati, si assegni loro il 30 per cento delle case popolari o il 30 per cento dei posti negli asili nido, se no si crea guerra tra poveri, risentimento, senso di discriminazione a rovescio».

Berlusconi non vuole una società multietnica.
«Credo lo dica per competitività con la Lega. In Italia, comunque, l’immigrazione è sì aumentata dal 5 al 7 per cento, ma siamo lontani da una società multietnica. Multietnici invece sono alcuni quartieri di grandi e medie città. E comunque la multietnicità è il destino del mondo futuro. Tanto vale capirlo e imparare a governare il processo e le sue conseguenze. Non servono messaggi come quello dei posti in tram solo per milanesi».

Il premier l’ha definita una semplice e innocua battuta.
«E’ positivo che abbia preso le distanze. Ma queste posizioni non sono mai innocue, alimentano discriminazione, paura e senso di insicurezza. Un’ultima cosa vorrei far rilevare».

Prego.
«Politiche sull’immigrazione richiedono di riflettere su concetti di fondo come cittadinanza, nazione, identità. Un grande problema si affronta con riflessioni adeguate. Un problema di queste dimensioni non può essere governato solo con polizia e codice penale. Tra tutte le illusioni, quella più grave è l’illusione repressiva». 

da ilmessaggero.it
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