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Autore Discussione: Addio ad Alberto Ronchey un giornalista indipendente  (Letto 2373 volte)
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« inserito:: Marzo 09, 2010, 10:54:33 pm »

Aveva 84 anni, si è spento venerdì nella sua abitazione di Roma

Era stato direttore della Stampa, editorialista del Corriere della sera e di Repubblica

Addio ad Alberto Ronchey un giornalista indipendente

Fu ministro della Cultura nei governi Amato e Ciampi

Ottone: "La P2 blocco' la sua nomina al Corsera"

di ETTORE BOFFANO


ROMA - E' morto venerdì scorso nella sua casa romana Alberto Ronchey. Lo rende noto la figlia a esequie già avvenute. Era nato a Roma nel 1926. Alberto Ronchey è stato direttore della Stampa, editorialista del Corriere della Sera e di Repubblica. Inoltre è stato ministro per i Beni Culturali e Ambientali per i governi Amato e Ciampi e presidente del gruppo editoriale Rizzoli Corriere della Sera. Era nato a Roma il 27 settembre 1926.

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L'Italia di chi leggeva i giornali lo scoprì per davvero e sino in fondo in quel "mitico" anno 1968 che segnò la storia delle generazioni di tutto il mondo e anche la sua vita di giornalista. Accadde quando un giovane Gianni Agnelli, da soli due anni alla guida della Fiat e della Famiglia, lo chiamò a succedere, sulla poltrona di direttore della "Stampa", a Giulio De Bendetti: il grande condottiero che aveva comandato per quasi 20 anni sulla tolda del quotidiano torinese, portandolo ai record di vendite e ai vertici dell'informazione europea.

Non che Alberto Ronchey, allora quarantaduenne, non fosse già uno dei giornalisti italiani più noti e più stimati. Una carriera cominciata subito da direttore nel dopoguerra (dopo la laurea in Giurisprudenza conseguita nella sua natia Roma), alla "Voce Repubblicana", l'organo di quel Pri di Ugo La Malfa e di Francesco Compagna ai quali rimase legato a lungo, pur mantenendo sempre una netta indipendenza politica (era stato anche segretario delle federazione giovanile di quel piccolo partito, nel 1946). Nel 1956 è corrispondente da Roma per il "Corriere d'Informazione" e collabora col "Corriere della Sera". Dal 1959 scrive per la "Stampa", per la quale diventa corrispondente da Mosca, e poi inviato speciale: in Europa, Egitto, Cuba, Biafra, Congo, Alaska, India, Giappone.


Ma nel 1968, la scelta da parte dell'Avvocato, quell'essere destinato a sostituire "un mostro sacro" come De Benedetti, assunsero per la caratura professionale di Ronchey un significato straordinario: erano ancora gli anni nei quali le decisioni di Agnelli attorno a due "gioielli di famiglia", la "Stampa" appunto e la Juventus, indicavano voglia di novità e cambiamento nei modi di essere dell'intero gruppo Fiat.

E il mandato per Ronchey fu esplicito: consolidare il grande giornale valorizzato da De Benedetti, ma al tempo stesso ispirarne una profonda modernizzazione aperta agli scenari internazionali, in una Torino e in un Piemonte che, intanto, stavano vivendo le ultime ondate del boom economico accompagnate dalla contestazione giovanile e dalle lotte operaie. Ronchey lavorerà a quella missione tra il 1968 e il 1973, imponendo al giornale cambiamenti d'immagine (la cronaca cittadina e "Specchio dei tempi", la rubrica delle lettere, trasferiti in fondo alla foliazione), ma soprattutto espandendo il settore dell'informazione estera. Un impegno all'inizio difficile per il "romano" Ronchey in un giornale profondamente intrecciato con l'identità piemontese, ma che poi segnerà nei decennu sucessivi il rinnovamento della testata.

Nel 1974, il ritorno a Roma come editorialista della "Stampa", poi un lungo passaggio al "Corriere" che lascia nel 1981, in piena bufera "P2", approdando a "Repubblica" chiamato da Eugenio Scalfari che gli affida anche una rubrica intitolata "Diverso parere". Nello stesso tempo, comincia anche a collaborare all'"Espresso" e poi con "Panorama", lavorando anche in Rai per programmi sull'Unione Sovietica e sugli Stati Uniti.

Nel giugno del 1992 diventa ministro dei Beni Culturali nel governo di Giuliano Amato, confermato un anno dopo da Carlo Azeglio Ciampi. Nel suo mandato, Ronchey vara alcuni provvedimenti per innovare sistema-cultura italiano, come la legge 4 del 14 gennaio 1993 (la "Legge Ronchey") voluta per dare efficienza a musei statali, biblioteche e archivi, con servizi di vendita di pubblicazioni e di ristoro. Sua anche la scelta di ricorrere alla mobilità del personale per tenere i musei aperti nei giorni festivi o quella degli "sfratti" imposti alla musica rock dall'Arena di Verona, alla lirica da Caracalla ed alle bancarelle dagli Uffizi.

Osservatore e narratore della "guerra fredda" e dei due grandi colossi mondiali che si fronteggiavano nell'equilibro del terrore per un possibile conflitto atomico, ma anche profondo conoscitore della politica italiana e dei suoi vizi, coniò due neologismi entrati oramai nel linguaggio comune: "lottizzare", usato per descrivere la spartizione degli incarichi, soprattutto in Rai, in base all'appartenenza politica piuttosto che alle effettive capacità professionali; e "fattore K" (dal russo kommunizm, comunismo), per spiegare la mancata alternanza al governo dell'Italia legata alla presenza di un grande partito comunista bloccato nella sua ascesa al potere. Altrettanto nota la sua sottile ironia sull'Italia e sui difetti delle sue classi dirigenti: "Raccontare ai giornalisti stranieri la politica culturale italiana non è cosa semplice. Bisogna prima di tutto cercare di non ridere".

Nel 1994 e sino al 1998, lasciati gli incarichi di governo, diventò presidente del Gruppo editoriale Rizzoli-Corriere della Sera e in seguito editorialista del quotidiano di via solferino. Tra le sue numerose opere: "La Russia del disgelo" (1963), "Atlante ideologico" (1973), "La crisi americana" (1975), "Accadde in Italia. 1968-1977" (1977), "Libro bianco sull'ultima generazione" (1978), "Diverso parere" (1983), "Giornale contro" (1985), "I limiti del capitalismo (1991)", "Fin di secolo in fax minore" (1995), "Atlante italiano" (1997) e "Accadde a Roma nell'anno 2000" (1998). Nel 2004, Rizzoli pubblicato il libro-conversazione di Ronchey con Pierluigi Battista "Il fattore R", un viaggio attraverso le svolte e le crisi degli ultimi 60 anni di storia italiana e mondiale.

Di lui, un giorno, Indro Montanelli disse: "Gli dobbiamo alcuni dei migliori saggi apparsi negli ultimi trenta o quarant'anni nella carta stampata, non soltanto italiana, di politica, economia, sociologia (quella vera): frutto di lunghi soggiorni in tutti i paesi d'Europa, in America, in Cina, in Giappone, d'indagini da 007 nelle loro viscere, di attente e vaste letture". E adesso, invece, rievocando le loro carriere parallele ("Fummo assieme a Mosca e lui diventò direttore della "Stampa" mentre io andavo a guidare il "Corriere"") Piero Ottone lo ricorda così: "La sua cifra più autentica era lo scrupolo di non sbagliare mai, di non imporre mai al lettore un qualsiasi errore. Qualcosa che nel giornalismo odierno non esiste più. Controllava tutto, numeri, date, nomi e non era mai soddisfatto sino a quando non vedeva l'articolo stampato, sempre in ansia di non aver fatto tutto il possibile".

"Aveva un senso etico, morale del giornalismo - conclude Ottone - che ha ispirato tutta la sua vita personale e professionale. Nel 1977, quando lasciai la direzione del Corriere, i Rizzoli padre e figlio mi chiesero un consiglio sul mio successore e io feci il suo nome. Apparvero entusiasti, ma poi cambiarono idea. Seppi dopo che era scattato un veto da parte di Licio Gelli che non lo voleva direttore. La scusa ufficiale per quel no fu che Alberto era troppo amico di Agnelli".

© Riproduzione riservata (08 marzo 2010)
da repubblica.it
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