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Autore Discussione: CLAUDIA MORGOGLIONE  (Letto 2362 volte)
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« inserito:: Marzo 05, 2010, 10:21:50 pm »

L'INTERVISTA

Colloquio con Shirin Neshat, videoartista di fama internazionale

Nei cinema italiani sta per uscire il suo film, premiato col Leone d'argento a Venezia.

"Io, dissidente iraniana ed eterna esule vi chiedo: aiutate i registi in carcere"

La regista sulla "rivoluzione verde": "Che emozione, vedere tanto coraggio al femminile"

E sugli artisti finiti in prigione, come il collega Panahi, dice: "Temo qualsiasi atrocità"

di CLAUDIA MORGOGLIONE


ROMA - Esule dal suo Iran, lei, Shirin Neshat, lo è da una vita: "Avevo diciassette anni quando lasciai il Paese - racconta la cinquantatreenne videoartista nonché regista, Leone d'argento a Venezia per il film Donne senza uomini - mio padre mi mandò all'estero a studiare, credevo che sarei tornata. E invece vennero la Rivoluzione islamica di Khomeini, poi la guerra con l'Iraq. E così sono stata 'abbandonata' in Occidente: e quella lontananza dalla mia patria è durata per sempre". Trasformandola in una cittadina del mondo, in dissidente perpetua, che dalla sua casa di New York segue con apprensione le vicende di Teheran, gli arresti dei suoi colleghi cineasti. Come Jafar Panahi: "Stiamo cercando, con Amnesty International, di farlo liberare: ma l'unico modo per ottenerlo è che si mobiliti Hilary Clinton".

La Neshat è a Roma perché la sua pellicola, visuale e sperimentale come la sua autrice, sta per sbarcare nelle sale italiane grazie alla coraggiosa distribuzione della Bim. Donne senza uomini è una storia tutta al femminile, ambientata nell'Iran del 1953 quando, con un colpo di Stato appoggiato dalla Cia, fu deposto il presidente democraticamente eletto e cominciò il regime dello Scià. Su questo sfondo, assistiamo alle vicende di quattro personaggi, i cui destini confluiscono in uno splendido giardino di campagna...

Shirin, cosa rappresenta il giardino al centro della sua pellicola?
"Uno spazio di libertà che per queste donne è come lo spazio dell'esilio: un luogo dove loro avrebbero potuto avere una seconda chance. Come l'ho avuta io, lasciando il mio Paese. Più in generale, col mio film voglio soprattutto mostrare, oltre alla condizione femminile, la convivenza degli opposti: realismo e magia, arte e politica, arte e cinema. E come la bellezza incroci la violenza".


Cosa pensa del ruolo della donna in Iran? E' cambiato dal lontano 1953, o è sostanzialmente immutato?
"Io non vedo affatto le donne del mio Paese come vittime. Anche se è vero che  sono oppresse. Sono molto forti, non hanno mai fatto compromessi, hanno sempre combattuto per i loro diritti. Per le le donne iraniane sono sempre state fonte d'ispirazione, ma non per il semplice fatto che anch'io sono iraniana".

Il loro coraggio è stato determinante, nella recente rivoluzione verde...
"Vederle l'estate scorsa, così pronte alla sfida, mi ha fatto commuovere. Davanti a certe immagini, a quei volti bellissimi che protestavano, ho pianto".

Ma non c'è solo il problema femminile: il suo è un Paese in cui l'opposizione viene ridotta al silenzio, in cui i talenti, tutti non allineati al regime, vengono sbattuti in prigione: come Jafar Panahi, Leone d'oro a Venezia per il suo Il Cerchio.
"La situazione di Panahi è molto grave. Oggi ho saputo che sua moglie, sua figlia e altre 14 persone che erano in casa sua al momento del blitz delle forze dell'ordine sono state rilasciate. Ma per lui sono davvero preoccupata: contro i talenti del Paese questo governo è capace di tutto, delle peggiori atrocità. Siamo terrorizzati per ciò che potrebbe accadere alle persone detenute. Perché questo governo vede la creatività come una minaccia: arrestare Panahi, o altri registi celebri, è un modo di dire a tutti gli altri artisti 'state buoni, non vi ribellate'".

Di fronte a questa repressione, cosa puà fare la comunità internazionale?
"Purtroppo quelli non ascoltano la voce dei media occidentali. Ma dei leader come Berlusconi, Sarkozy, Hilary Clinton devono per forza tenere conto. Le opinioni pubbliche occidentali dovrebbero perciò fare una forte pressione sui propri leader: serve una forte voce diplomatica. Se la Clinton decidesse di intervenire per Panahi, sono sicura che lo scarcererebbero".

A suo giudizio la durezza del regime è strettamente collegata col fondamentalismo islamico?
"Prima della Rivoluzione islamica l'Iran era già musulmano, ma era una religione adattata alla cultura persiana, con contaminazioni di sufismo, misticismo, altre forme spirituali. Poi con la Rivoluzione la religione è diventata ideologia, si è politicizzata: e da qui è venuto tutto il male. Portando una rigidità a cui non eravamo abituati: la nostra è una cultura basata sulla musica, sulla poesia, sulla bella architettura".

Adesso a cosa sta lavorando?
"Sono in trattative per acquisire i diritti di trasporre sul grande schermo il romanzo Il palazzo dei sogni di Ismail Kadarè: mi piace il modo in cui svela il potere dello Stato sull'individuo, e fa capire l'assurdità del fanatismo religioso".
 

© Riproduzione riservata (05 marzo 2010)
da repubblica.it
« Ultima modifica: Aprile 08, 2013, 07:02:29 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 26, 2013, 11:54:13 am »

Favelas e natura, Jasmine in Amazzonia "Viaggio magico per scoprire me stessa"

La Trinca racconta la sua esperienza sul set di "Un giorno devi andare" di Giorgio Diritti, ambientato quasi interamente tra le comunità di indios brasiliani: "Ho lasciato a casa la presunzione del cinema e sono sbarcata lì con gli occhi spalancati di un bambino.

Tra prove fisiche estreme e spiritualità"

di CLAUDIA MORGOGLIONE


ROMA - Jasmine Trinca, la protagonista di Un giorno devi andare, non usa giri di parole: "Già solo progettando - e poi realizzando - questo film, Giorgio Diritti ha dimostrato grande coraggio. Un desiderio di osare raro, tra i nostri registi". E in effetti la sfida c'era tutta: una pellicola girata quasi interamente in Brasile, tra le zone fluviali amazzoniche del Rio Negro e le palafitte della favela di Manaus, con parte degli interpreti reclutati tra gli indios del luogo.  Per raccontare temi come la ricerca della felicità al di là del consumismo e delle catene occidentali, la voglia di risvegliarsi alla vita attraverso il contatto con una natura selvaggia e con una popolazione molto povera e molto semplice, anche se insidiata dal progresso e dalla curruzione. E al centro di questo viaggio - esistenziale, spirituale, in parte religioso - c'è il personaggio interpretato da lei, Jasmine. Che oggi confessa come l'esperienza fatta "quasi alla fine del mondo" (per parafrasare le prime, ormai celebri parole di Papa Francesco) l'abbia cambiata per sempre: "Siamo arrivati lì - racconta - non con la presunzione del cinema, ma con occhi spalancati, completamente innocenti, come fanciulli. Rispettando i luoghi, e accogliendoli dentro di noi: pronti ad aprirci agli incontri con la gente".

E il risultato è un film pronto a sbarcare nelle sale il 28 marzo in circa cento copie, distribuito dalla Bim. Opera dalla gestazione lunga e complicata, rifiutata (secondo alcuni rumors) dalla Mostra di Venezia 2012, e poi presentata all'ultimo Sundance Festival. E che insieme alle due prove precedenti del suo autore - il fenomeno Il vento fa il suo giro e il pluripremiato L'uomo che verrà - forma, pur nei temi fra loro diversissimi, una sorta di trilogia intorno all'idea di comunità: "E' proprio così - conferma Diritti - sono profondamente convinto dall'idea che il bene del singolo passa per il bene della comunità in cui è immerso. E che quando si perde il senso del vivere insieme, qualsiasi felicità è impossibile". Nella natura selvaggia del Sudamerica, però, lui ha scoperto qualcosa di più: "La semplicità di un bimbo che ti corre incontro, ti abbraccia e ti sorride: ti fa sentire l'emozione della vita". Con la sua dimensione spirituale: "Che poi lo attribuisci al Dio a al caso, non ha importanza".

La vicenda del film ruota intorno al personaggio di Augusta (Jasmine Trinca), trentenne che dopo aver perso il figlio e aver saputo di non poter averne più "scappa" in Brasile con una suora (Pia Engleberth) amica di sua madre (Anne Alvaro), che aiuta ed evangelizza le tribù degli indios. Ma poi finisce per fuggire anche dalla missione religiosa della sua compagna di viaggio per stabilirsi nel poverissimo villaggio tutto palafitte di Manaus, integrandosi perfettamente. Ma dietro la semplicità e la bontà dei residenti si agitano ombre minacciose, che arrivano a corrompere anche la famiglia presso cui è ospite. E allora sceglie la solitudine...

Una pellicola che per la Trinca non è stata una semplice occasione professionale. Come si capisce dall'enfasi che lei, spesso timida e refrattaria agli incontri coi cronisti, mette nel raccontare l'esperienza: "E' stata incredibile, faticosissima sul piano fisico: le piogge che vedete sullo schermo sono tutte vere: ma a me le situazioni e le prestazioni estreme esaltano". E poi ovviamente ci sono state le scoperte umane: "Siamo stati in villaggi con gente che non ha mai visto un film, ma che si è subito entusiasmata, anche adattandosi ai tempi del cinema. Arrivando, l'unica cosa che avevo in mente è 'io devo conoscere davvero questo posto'. E ci sono riuscita: quando ho incontrato le comunità delle palafitte ho capito fin dal primo momento perché vivono lì. Quello di magico e di potente che il luogo custodisce".

Ma ci sono anche altre cose che l'hanno colpita. Ad esempio, quando ha girato in una sequenza in cui il suo personaggio, mentre vive da eremita su una spiaggia, riceve l'inaspettata visita di un bambino indio, e riesce a ridere, giocare e comunicare con lui al di là delle barriere linguistiche e sociali: "In questo devo ringraziare mia figlia, che ora ha quuatro anni - rivela - il piccolo con cui ho recitato non parlava nemmeno il portoghese, e per entrare in contatto ho usato esattamente gli stessi giochi che faccio con la mia bambina. E' incredibile che le stesse cose funzionino a Roma come sul Rio Negro".

Per l'attrice, poi, questo viaggio ha avuto anche, e inevitabilmente, una dimensione spirituale: "Sono partita dopo aver subito una grossa perdita: per questo ho compiuto anche un percorso dentro me stessa, passando per il dolore e per la comprensione della persona che sono. La natura lì fa capire come noi tutti apparteniamo a una dimensione più profonda, e fa sentire pieni di energia. E' stata come una rieducazione; e sì, anche un riavvicinamento alla spiritualità". Con un unico rimpianto finale: "Quando si torna qui restano le memorie, anche sensoriali, dell'esperienza; ma in qualche modo si finisce per essere 'contaminati' di nuovo".


(25 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2013/03/25/news/jasmine_trinca-55325779/?ref=HREC2-14
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