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Autore Discussione: Italiani all'estero meglio tardi che mai  (Letto 3038 volte)
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« inserito:: Marzo 03, 2010, 05:21:59 pm »

2/3/2010

Italiani all'estero meglio tardi che mai
   
ANTONIO MARTINO, GIAN GIACOMO MIGONE*


Caro direttore, circostanze contingenti hanno recentemente portato alcuni esponenti politici e l'opinione pubblica a rimettere in discussione - finalmente! - la saggezza della legge sul voto degli italiani all’estero. A suo tempo, in quasi totale isolamento, ci eravamo opposti esplicitamente per ragioni che riteniamo sempre valide e che sono state fra l'altro ampiamente confermate dall’esperienza.

La nostra legislazione rende la cittadinanza italiana molto facile da ottenere e quasi impossibile da perdere, l'esatto contrario di quanto accade, per esempio, a quella americana. Che cosa debba intendersi per italianità non è, alla luce delle nostre norme, evidente. Sono italiani persone nate e residenti in Italia ma lo sono anche persone che non hanno mai messo piede nel nostro Paese e che in esso non hanno interessi di sorta; la loro cittadinanza è parte dell’eredità di uno dei genitori o anche solo di nonni o bisavoli. Persone che, vivendo all'estero da sempre, comprensibilmente possono non essere informate o interessate a quanto accade da noi. Ne consegue un esito legislativo a dir poco paradossale secondo cui da una parte lo ius sanguinis viene esasperato, mentre lo ius loci è tuttora negato a chi nasce in Italia da genitori legalmente immigrati. Come noto chiunque nasca, ad esempio, negli Stati Uniti, quale che sia la ragione (entrambi abbiamo figli con doppia cittadinanza), non solo ha diritto di cittadinanza ma può diventare presidente di quel Paese.

Né le nostre perplessità erano limitate alla non chiara definizione dei criteri di attribuzione della cittadinanza italiana. Ci sembrava che, una volta risolte le ambiguità di cui sopra e redatta un’anagrafe precisa e attendibile degli italiani residenti all’estero, ragioni logiche e pratiche militassero a favore dell’equiparazione di questi potenziali elettori agli altri italiani, quelli residenti e operanti in Italia. Pertanto il voto degli italiani all’estero doveva essere considerato alla stregua del voto degli italiani tout court.

L’esercizio del diritto-dovere dell’elettorato attivo doveva quindi seguire le stesse modalità per entrambe le categorie di cittadini italiani. Qualsiasi altra scelta avrebbe determinato la creazione di una nuova specie antropologica: ci sarebbero stati gli italiani da una parte e gli italiani all’estero dall’altra: una discriminazione indifendibile e odiosa. Uno di noi (Martino) sostenne esattamente questa tesi alla Camera suscitando l’ira dell’onorevole Tremaglia che si ritenne pertanto autorizzato a togliergli il saluto per molti mesi. L’altro (Migone) ebbe problemi analoghi al Senato, per avere sostenuto argomenti simili, oltre che avere segnalato i rischi derivanti da procedure di voto poco trasparenti e per le quali i nostri consolati non erano, e tuttora non sono, sufficientemente attrezzati.

In realtà, l’attribuzione del voto agli «italiani all’estero» avrebbe avuto senso se effettuata consentendo loro di votare come tutti gli altri, cioè nel collegio italiano di provenienza, e contribuendo ad eleggere le stesse persone per cui votavano tutti gli elettori di quel collegio. L’obiezione del sullodato Tremaglia a questa ovvietà fu che, avendo l’Italia adottato una forma, peraltro assai parziale, di maggioritario, il voto degli italiani all’estero avrebbe potuto rivelarsi decisivo, attribuendo all’uno o all’altro candidato la vittoria nel collegio. Una tesi per la verità assai balzana: Tremaglia fortissimamente voleva che gli italiani all’estero potessero votare... ma solo a condizione che il loro voto fosse ininfluente ai fini del risultato elettorale!

La soluzione che finì per essere adottata, come sappiamo, si basò sulla creazione di un elettorato attivo di secondo grado, quello degli italiani all’estero, di uno passivo anch’esso di diversa rilevanza, i candidati sottoposti alla scelta degli italiani di serie B non potevano essere votati che da loro, una «riserva indiana» costituita dalle circoscrizioni estere riservate agli italiani minori, e un accorpamento disinvolto di continenti che fungesse da base per la costituzione delle circoscrizioni in questione. Un colossale insieme di assurdità che, specie per via dell’inattendibilità delle liste elettorali degli italiani minori e per le bizzarrie delle modalità del loro voto, non poteva non produrre i risultati aberranti che sono sotto i nostri occhi.

Abbiamo così offerto al mondo lo spettacolo del pendolarismo parlamentare di persone che, per esercitare il loro dovere di rappresentanti del popolo, rectius di una parte meno rilevante di esso, si recavano a Roma partendo magari dalle Americhe o da qualche altro angolo del pianeta, naturalmente a spese del contribuente italiano e col grado di comodità consono al loro status (prima classe?). Questi ambulanti intercontinentali ebbero nella legislatura 2006-08 il pesante onere di assicurare la maggioranza al governo e le loro defatiganti trasvolate intercontinentali divennero essenziali alla governabilità dell’Italia!

Meglio tardi che mai: se l’improvviso accendersi di interesse per il problema condurrà ad una soluzione anche solo marginalmente meno insensata, non credo che ci sarà qualcuno disposto a lamentarsene. Se, invece, ancora una volta l’«attention span» dei politici si rivelerà disperatamente corto, non potremo che deprecare tutti l’ennesima occasione sciupata.

*Antonio Martino (martino_a@camera.it), deputato Pdl, ministro degli Affari Esteri dal 1994 al 1995 e della Difesa dal 2001 al 2006.
Gian Giacomo Migone (g.gmigone@libero.it), Ds, presidente della Commissione Esteri del Senato dal 1994 al 2001


da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 03, 2010, 05:22:49 pm »

QUEI CITTADINI CHE VOTANO MA NON PAGANO TASSE

di Paolo Balduzzi e Massimo Bordignon 02.03.2010

Torna agli onori della cronaca la Circoscrizione estero. Per facilitare l'esercizio di un diritto dei connazionali che risiedono in altri paesi sarebbe bastato il voto per corrispondenza. Invece la legge sul voto degli italiani all'estero finisce per garantire una rappresentanza senza tassazione: cittadini che non pagano tasse in Italia e non usufruiscono dei servizi influenzano con il loro voto le tasse che gli italiani residenti pagano e i servizi che ricevono. Viceversa, gli immigrati regolari nel nostro paese sono soggetti a una tassazione senza rappresentanza.

Le cronache sono piene in questi giorni delle mirabolanti avventure di Nicola Di Girolamo, senatore del Pdl, accusato di essere stato eletto al Parlamento italiano nella Circoscrizione estero, ripartizione Europa, grazie ai voti della ‘ndrangheta. Ma accuse di brogli e contestazioni sono state avanzate anche nei confronti di altri deputati e senatori eletti in quella Circoscrizione. Chi sono dunque gli italiani all’estero e come votano? Ed è giusto che votino? Perché le contestazioni?

IL VOTO DEGLI ITALIANI ALL’ESTERO

La legge 459 del 27 dicembre 2001 riconosce il diritto di voto per i referendum e le elezioni dei due rami dal Parlamento a tutti gli italiani residenti all’estero, iscritti all’Aire (Agenzia per gli italiani residenti all’estero, gestita dal ministero dell’Interno) o iscritti agli schedari consolari (gestiti dal ministero degli Affari esteri; i consolati dovrebbero automaticamente aggiornare i dati dell’Aire). Alla data dell’ultima elezione, il referendum del 2009, gli aventi diritto al voto in questa categoria erano 3.024.879. Si noti che secondo la legge sulla cittadinanza del nostro paese (legge 91/1992, articolo 1), per essere italiani, e dunque per godere dei diritti politici, basta nascere da almeno un genitore italiano. Ciò assicura la cittadinanza anche a coloro che, nati all’estero ma avendo subito optato per la cittadinanza italiana, non hanno poi mai risieduto sul territorio italiano, né ne hanno mai imparato la lingua. (1)
È a questi cittadini che si rivolge la legge 459/2001. La norma segue e completa una riforma costituzionale (legge costituzionale 1/2001) che introduce, agli articoli 56 e 57, la Circoscrizione estero e ne definisce la rappresentanza parlamentare: dodici deputati e sei senatori.
Sono due le sostanziali novità introdotte della legge ordinaria. La prima è rendere più semplice l’esercizio del diritto di voto per gli italiani che risiedono all’estero, prevedendo il voto per corrispondenza. In alternativa, l’elettore può decidere di votare in Italia nella circoscrizione del territorio nazionale in cui risulta iscritto; e se non ha mai risieduto in Italia, ma è italiano per discendenza diretta, la sua circoscrizione è quella del genitore, del nonno o di altro antenato. In secondo luogo, rende operativa la Circoscrizione estero: stabilisce infatti la sua ripartizione in quattro aree - Europa, America meridionale, America settentrionale e centrale, e Africa, Asia, Oceania e Antartide. Ma stabilisce anche che i candidati stessi (e di conseguenza gli eletti) debbano essere residenti all’estero.
Se l’obiettivo della legge fosse stato solo quello di rendere più facile l’esercizio del voto da parte degli italiani residenti all’estero, sarebbe stato sufficiente il voto per corrispondenza o qualunque altra forma di voto a distanza. Con la Circoscrizione estero si fa di più: si consente agli italiani all’estero di diventare elettorato passivo.
È possibile che l’intenzione del legislatore, con l’introduzione della Circoscrizione estero, fosse solo quella di offrire una funzione di rappresentanza. Ma nonostante il numero esiguo, questi parlamentari hanno acquisito un’importanza superiore alle previsioni. Durante la XV legislatura, hanno di fatto garantito al governo Prodi la fiducia al Senato, condizionandone l’azione di governo. Nell’attuale legislatura, invece, le vicende del senatore Pdl Nicola Di Girolamo, e le contestazioni su altri eletti all’estero, stanno mettendo in serio imbarazzo il Parlamento.

I LIMITI DELLA LEGGE

I punti deboli della legge 459/2001 sono numerosi. Innanzitutto, le ripartizioni della Circoscrizione estero sono molto ampie e quindi rischiano di essere poco rappresentative; addirittura, una comprende ben tre continenti. In un contesto di tale distanza tra eletto ed elettore, anche la possibilità di esprimere preferenze sui candidati (consentito a questi elettori, a differenza di quello che succede agli italiani residenti) può non funzionare come effettivo meccanismo di selezione e controllo della classe politica. Inoltre, i candidati potrebbero essere poco conosciuti dagli elettori e, soprattutto, poco controllabili dai partiti che li selezionano. Il caso Di Girolamo è significativo: nessuno sembra più ricordare chi lo ha proposto, ed è subito cominciato all’interno del Pdl il valzer delle responsabilità tra chi avrebbe dovuto valutarne la candidatura. Infine, come illustrano le cronache recenti, il voto espresso per corrispondenza solleva dubbi sulla sua trasparenza, regolarità e gestibilità amministrativa. Le operazioni di scrutinio sono lente e facilmente imprecise. Per esempio, a quasi due anni dalle elezioni politiche del 2008, i dati sugli scrutini delle schede per la Circoscrizione estero sul sito del ministero dell’Interno risultano ancora incompleti.
Tutti questi elementi vanno rapidamente rivisti dal legislatore e in effetti ci sono già diversi disegni di legge depositati in Parlamento. È molto probabile che a seguito del caso Di Girolamo, si arrivi a ripensarne alcuni, a cominciare dal voto per corrispondenza. Ma qualunque riforma deve tenere conto del fatto che la disciplina del voto per gli italiani all’estero si fonda su una norma della Costituzione. Senza toccare ulteriormente la Carta, il legislatore potrà al massimo modificare le modalità di espressione di voto o di selezione dell’elettorato passivo, ma non potrà eliminare la Circoscrizione estero. (2) E invece proprio su questa si dovrebbe riflettere.

RAPPRESENTANZA E TASSAZIONE

Il problema fondamentale è che il diritto di voto per gli italiani all’estero garantisce loro una effettiva “representation without taxation”: cittadini che non pagano tasse in Italia e non usufruiscono dei servizi influenzano, con il loro voto, le tasse che gli italiani residenti pagano e i servizi che ricevono. Questo è ancor più vero con la Circoscrizione estero, i cui rappresentanti parlamentari sono essi stessi cittadini non residenti in Italia. La rappresentanza senza tassazione contrasta con un principio fondamentale della democrazia, e se è in qualche modo accettabile per cittadini italiani che sono solo temporaneamente al di fuori dei confini nazionali, lo è di meno per chi ha deciso di vivere stabilmente all’estero e che in qualche caso, non conosce né le istituzioni né la lingua del paese di origine. La cosa è ancora più impressionante se si pensa che viceversa, in Italia vivono e lavorano individui che soffrono di una “tassazione senza rappresentanza”, vale a dire gli stranieri regolari. Secondo il Rapporto Caritas-Migrantes, nel 2007 gli immigrati hanno contribuito al 6,1 per cento del Pil e assicurato un gettito fiscale al nostro paese pari a 3 miliardi e 749 milioni di euro, dei quali 3,1 miliardi per i soli versamenti Irpef.

Curiosamente, il numero degli stranieri residenti in Italia, regolari e maggiorenni, è anch’esso di poco superiore ai tre milioni (dati Istat, 2009). Appare quanto meno singolare che una popolazione così ampia, che vive e lavora onestamente nel nostro paese, non possa esprimere alcun voto, neppure a livello amministrativo, pur essendo soggetta al fisco e usufruendo dei servizi offerti. Si noti che oltretutto vivono in Italia circa mezzo milione di stranieri solo di nome: sono i figli di immigrati, nati o arrivati in tenera età nel nostro paese, che hanno studiato in Italia, ne parlano perfettamente la lingua, e che sono in effetti indistinguibili dai connazionali della stessa età, eccetto che non godono degli stessi diritti. È opportuno che questa asimmetria venga risolta al più presto, accelerando il percorso per l’ottenimento della cittadinanza e dei diritti collegati.


(1) A questo numero si aggiungono i numerosissimi cittadini stranieri nati all’estero ma che possono vantare un ascendente italiano (fino al secondo grado). Questi ultimi devono però richiedere che venga riconosciuta loro la cittadinanza italiana, dopo avere risieduto sul territorio italiano per almeno tre anni (è il caso per esempio di tanti calciatori naturalizzati).
(2) L’unica strada, in questo senso, potrebbe essere quella dell’abrogazione totale della stessa legge 459/2001; ciò comporterebbe l’applicazione della disciplina precedente alle modifiche costituzionali del 2001 (così come previsto anche dall’articolo 3. comma 2 della legge cost. 1/2001: “In caso di mancata approvazione della legge di cui al comma 1, si applica la disciplina costituzionale anteriore”.
 
da lavoce.info
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