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« inserito:: Agosto 19, 2007, 03:24:05 pm » |
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«Non facciamo mettere gli ubriachi alla guida»
Paoli:«Per 15 anni schiavo dell'alcol»
Il cantante: il bere ha ucciso mio fratello, dopo ho capito che dovevo dire basta
ROMA - «Guardatelo lì, il cantante maledetto che sorseggia il suo latte». Disse proprio così Sergio Bernardini, proprietario della mitica Bussola di Viareggio. Era il 1961, estate, notte calda, avvolgente. Gino Paoli seduto al bancone del bar, in un momento di relax. E fu forse per gioco, forse per una scherzosa sfida con l'amico, che per tutta risposta azzardò un'ordinazione per lui inconsueta. «Whisky e sigaretta. Hai capito bene, whisky e sigaretta », ripetè al disorientato cameriere. «La mia storia con l'alcol è cominciata così, senza che me ne accorgessi — racconta oggi l'artista di Sapore di sale —. Nata da uno sfottò. È durata quindici anni. Quella sera mi stupii di me stesso. Da principiante, reggevo il bicchiere alla grande. Fu una fregatura. Il fatto di non essere mai ubriaco mi autorizzava ad andare avanti. Insomma, avevo una predisposizione naturale, un vero talento. Questione di enzimi. Io ci davo sotto davvero. Quanto mi scolavo? Non glielo dico. Tanto, tantissimo. Solo superalcolici, solo whisky. Avevo capito che il segreto per non sbronzarsi e non andare in tilt era evitare di mescolare più roba». Gino in questi giorni sta terminando le sue vacanze. Un giro in barca per il mare della Croazia. Il primo settembre sarà a Limone Piemonte, dove l'Anca Lombardia (Associazione nazionale contro alcolismo) gli consegnerà un premio per il «suo impegno e la sua testimonianza».
Il premio è intitolato a Gian Bonzi, alcolista redento, morto lo scorso anno. Ha deciso di sposare la causa dopo aver conosciuto tramite un amico comune, Beppe Grillo, il giornalista Bruno Liconti, una delle anime dell'associazione. Fu proprio a Liconti che confidò la sua personale vittoria sul whisky, cercata con determinazione dopo la morte per alcolismo del fratello. Per la prima volta Paoli la rende pubblica, narrandola con un linguaggio asciutto, essenziale, senza veli. Nelle sue canzoni meravigliose, non una traccia di questa esperienza. Una scelta voluta: «Sarebbero state tristissime, come scrivere di droga. L'alcol è come la droga». La verità sulla schiavitù del fratello l'ha scoperta quando era troppo tardi: «Me l'ha tenuta nascosta per vent'anni. Il giorno insegnava fisica all'università, la notte beveva, da solo, come un pazzo. Fino a quando la moglie non è venuta a chiederci aiuto. Ma non c'era più nulla da fare. Era già "spappolato". Nel frattempo era nato il mio terzo figlio. E ho capito che dovevo dire basta. Loro non hanno mai assaggiato un goccio, in compenso». C'è differenza, distingue, tra lui e gli alcolisti puri: «Io ero solo un ubriacone, un grosso bevitore che amava la compagnia. Loro invece si nascondono, mentono. La mia fortuna è stata sapermi fermare in tempo. Una cosa è bere per piacere, un'altra è scontarne le conseguenze. Certo, qualche sbronzata forte l'ho presa anch'io ma di solito restavo lucido. Una mattina però mi sono svegliato senza ricordarmi cosa avessi fatto la sera precedente. È stato un campanello d'allarme. Ho avvertito il pericolo». La voglia di uscirne dipende in gran parte dal carattere: «Io pretendo di mantenere il controllo di me stesso. Credo che chiunque dovrebbe averlo. Un uomo dovrebbe ragionare così. Controllo e, soprattutto, amore per se stessi. Chi fa uso di alcol invece odia se stesso, si disprezza, non si accetta. Beve per volersi dimenticare. Non provavo niente di tutto questo. Per me il whisky era piacere, allegria, riunirsi con gli amici».
L'avvio dello svezzamento è stato difficile, non per le crisi di astinenza, ma per la mancanza fisica e visiva del bicchiere poggiato sul tavolino, quando si sta tutti insieme la sera e ti chiedono «Gino, tu non prendi niente? Ma perché, dai, solo un goccio...». Ogni uscita si trasformava automaticamente in un pericolo, il pericolo di ricadere nel rituale: «Ma io sono uno zuccone, mi dicevo no e poi no. Ce l'ho fatta. Lei mi chiede se esiste e com'è la vita oltre il bicchiere. Sì esiste, anche se uscirne è un vero casino. Senza aiuto è impossibile averla vinta se si è alcolisti persi. Credo che l'unica speranza sia affidarsi alle associazioni. Il segreto è non cominciare per niente. L'alcol è subdolo. Non ti accorgi di esserne preso, non c'è campanello d'allarme. Un giorno cominci a fare lo scemo, il giorno dopo lo stesso. Fino a quando non puoi rinunciare e sei fregato». In Croazia gli è arrivata notizia delle stragi all'uscita della discoteca. La voce gli si incrina, ora è davvero arrabbiato: «Se fai male solo a te stesso, pazienza, nessuno può sindacare sulle tue scelte. Ma se ammazzi gli altri sei un vero stronzo. E allora io dico. Non facciamoli salire in macchina gli ubriachi. Inutile piazzare le volanti per strada con l'etilometro. Fermiamoli prima, quando escono dai locali. Che qualcuno li controlli. Il buttafuori, i vigilanti, qualunque figura che venga investita di questa autorità per decreto. Ehi ragazzo, dammi le chiavi della macchina, tu da qui non esci. O facciamo così o sulle strade si continuerà a morire. Ma la volontà forte di intervenire non c'è. Perché l'alcol è un business e cosa ti aspetti da uno Stato che proibisce il fumo e poi mette il sigillo sui pacchetti di sigarette?».
Margherita De Bac 19 agosto 2007 da corriere.it
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