8/10/2010
Ma Pechino ci vuole più "tedeschi"
FRANCESCO SISCI
Dopo i tanti sorrisi, gli abbracci, le dichiarazioni di intenti la domanda a Pechino è: riusciranno finalmente Italia e Cina a trasformare la simpatia in affari, in denaro contante che arricchisca davvero i due Paesi?
I cinesi sono infatti innamorati dell’Italia.
A loro piacciono la nostra moda, il nostro cibo, le nostre città, la nostra cultura... e persino i nostri ingegneri, visto che quasi il 70% delle nostre esportazioni a Pechino sono di macchine utensili. Ma tutto sommato l’interscambio Italia-Cina, pur crescendo rapidamente, rimane al di sotto di quello di altri paesi e molto al di sotto delle possibilità di tanta simpatia. Secondo i cinesi infatti noi italiani siamo «romantici», che tradotto dalla frase gentile significa che promettiamo molto ma concludiamo poco.
La storia non è lontana, agli inizi degli Anni 90 la Cina offrì all’Italia di sviluppare il raddoppio di Shanghai, quella metropoli da 10 milioni di abitanti che è oggi Pudong. L’Italia firmò i contratti ma poi l’inchiesta di «mani pulite» azzerò tutto, affari sporchi e candidi. L’Italia non mantenne le promesse, i cinesi aspettarono qualche anno, ma poi dovettero fare tutto da soli. Qualche tempo dopo fu la volta di Tianjin, la megalapoli alle porte di Pechino. I cinesi avrebbero voluto un nostro intervento che partisse dal quartiere italiano al centro della città. Politici nostrani sfilarono, promisero ma poi non accadde quasi nulla.
Con Shanghai e Tianjin sono sfumati affari di decine di miliardi di euro, roba che avrebbe risanato un paio di finanziarie di emergenza. Ma la verità è che il sistema politico italiano, il sistema Italia, non era in grado di fare sistema, o di seguire con attenzione, nel dettaglio, le questioni cinesi, come fanno invece i leader cinesi. Forse era colpa dell’Italia in Cina, forse si poteva provare a fare il contrario, pensarono i cinesi sempre invaghiti di casa nostra. Così quando Roma offrì loro di comprare i porti loro si precipitarono. Mandarono squadre di tecnici a compilare voluminosi rapporti, ma le conclusioni furono quasi sempre deludenti. Per i porti ci vogliono infrastrutture e in Italia tempi e costi delle infrastrutture sono un mistero.
Qualcuno comunque è venuto, la Cosco, la compagnia di logistica di Pechino, è a Napoli, e la Hutchinson Whampoa, di Hong Kong, è a Taranto, ma anche lì le cose vanno a rilento e con difficoltà.
Ciascuno di questi non è un semplice affare, sarebbe (o forse sarebbe stato) un punto di leva per trasformare l’economia e la politica dell’Italia e con essa quella dell’Europa. Ma l’Italia, forse incredula di tanta fortuna quasi caduta dal cielo, forse troppo occupata in altre faccende, forse troppo ricca e grassa e oberata di questioni interne, non ha finora mai colto tali occasioni. Singole aziende grandi e piccole dei due Paesi fanno bene in Cina e in Italia, ma sono sforzi, appunto, singoli, in ordine sparso. Questi sforzi sono tanto più difficili in quanto il mercato cinese è il più competitivo del mondo e gli italiani affrontano non concorrenti stranieri isolati ma aziende potentemente sostenute dai loro stati.
La Cina ha bisogno certo di entusiasmo, ma anche di studio, di sistematicità, di approfondimento. I cinesi sotto un’apparenza quasi napoletana poi sono molto «tedeschi». Infatti non a caso, pur senza la nostra simpatia, l’interscambio Cina-Germania è più grande di quello della Cina con il resto dell’Europa messo insieme. I cinesi senza l’organizzazione, la continuità si confondono, non capiscono, pensano che siano promesse «romantiche», teste di tigre e code di serpente, un modo cinese per dire che si fanno i proclami ma poi non si andrà avanti.
A Pechino si chiedono se mai impareremo a essere un po’ tedeschi, oppure se semplicemente cambieremo il modo di affrontare la Cina, se smetteremo l’idea di cercare inutilmente di intrupparci in reggimenti, per adottare una tattica da guerriglia, in ordine sparso.
La guerriglia è come l’Italia è stata finora in Cina. La guerriglia ci si addice, visto che fu inventata da Garibaldi e che quasi il 90% del nostro prodotto interno lordo è creato da piccole e medie imprese ultra-diffidenti verso lo Stato e le sue istituzioni. Ma neanche la guerriglia è semplice, ha bisogno di una profonda conoscenza del territorio, ci vuole qualcuno che abbia informazioni solide e affidabili.
È un’equazione complicata, perché oltre alle difficoltà dell’Italia poi ci sono quelle della Cina, a cui spesso i cinesi non pensano e che dall’Italia, lontana in geografia e cultura, paiono più grandi dell’Himalaya. Di certo non basteranno l’entusiasmo e i sorrisi, ma occorre essere ottimisti, e da qualcosa bisogna pure cominciare. Inoltre possiamo contare sul bene fatto in passato. I cinesi ancora si ricordano che la prima centrale nucleare moderna venne loro donata da Vittorino Colombo, negli Anni 70. Allora l’Italia era all’avanguardia della tecnologia atomica, ma aveva deciso di abbandonarla per la moda politica del momento.
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