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Autore Discussione: JACOPO IACOBONI. -  (Letto 67331 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 01, 2015, 11:04:44 am »

Il Renzi di fine anno, un abbozzo di fact checking

29/12/2014
Di Jacopo Iacoboni

Ha senso accogliere la tradizionale conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio italiano non con i panettoni e lo spumante (e una lunga serie di sommari per riportarne il verbo), ma con qualche minimo abbozzo di fact checking su ciò che ha detto?

I. Nel dubbio su cosa sia più gradito ai lettori dell'Italia 2014, proviamo ad abbozzare qualche piccola ragione di perplessità su alcuni passaggi - dettagli, ma cruciali, del discorso di Matteo Renzi. Il primo è questo: Renzi, parlando della contesa sull'applicazione (o meno) del Jobs Act ai dipendenti pubblici, ha detto testualmente: "In Consiglio dei ministri ho proposto io di togliere la norma sui dipendenti pubblici perché non aveva senso inserirla in un provvedimento che parla di altro. Il Jobs act non si occupa di disciplinare i rapporti del pubblico impiego per il quale c’è una riforma in Parlamento". A un ascolto distratto, l'effetto psicologico, ma anche puramente semantico, di una frase gettata là (ma ben congegnata) così può essere: Renzi ha escluso i lavoratori statali dal Jobs Act, insomma, li ha salvati.

La realtà non è questa. E qualunque cosa pensiate del provvedimento sulla regole del lavoro (io ne penso non bene, come sapete), questa realtà va illustrata, il più possibile va fatta capire. Renzi ha escluso una norma che diceva, alla lettera, così: “La disciplina di cui al presente decreto legislativo non si applica ai lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165″. Traduzione: c'era (fino alla notte del 24 dicembre) una norma che escludeva i lavoratori del settore pubblico dal Jobs Act. Renzi non ha escluso i lavoratori, ha escluso quella norma (esattamente: un comma) che li escludeva.
 
L'intervento di Renzi non è dunque nella direzione (come pure molti - l'ho sentito con le mie orecchie oggi a ora di pranzo - lo recepivano) di proteggere gli statali dal Jobs Act, e neanche in quella di includerli con una norma esplicita tra i beneficiati (?) dalle nuove regole. Semplicemente, il premier si tiene- dal punto di vista tecnico giuridico - nella più totale ambiguità su questo punto. Ma già insigni costituzionalisti (leggete La Stampa di oggi, per esempio Giuseppe Tesauro) illustrano che, per estendere agli statali il Jobs Act servirebbe una norma esplicita dentro il decreto legislativo, non la vaghezza delle interpretazioni possibili. Tra Poletti-Madia e Ichino (per capirci, i due fronti in contrapposizione, il Jobs Act non si applica agli statali, il Jobs Act si applica automaticamente anche agli statali) il premier si colloca in una via di comodo, che gli fa fare buona figura coi media acritici, e forse con gli italiani meno attenti, ma lascia aperto il problema a qualunque esito. Tenendo in sospeso milioni di persone.
 
II. Parlando delle società partecipate Renzi ha detto "non c'è alcun progetto Cottarelli, ma l'obiettivo è comune, da ottomila bisogna passare a mille". Sull'obiettivo si vedrà, ma è falso che non ci sia un progetto Cottarelli. Il documento di Cottarelli era certo timido, e poco incisivo, ma non mancava di indicare 52 tagli possibili. Ve lo allego, qualora qualcuno avesse voglia di leggerlo. Anche questa è dunque un'ambiguità pesante, del discorso renziano odierno. 

III. A proposito della legge elettorale, Renzi oggi definisce l'Italicum un "Mattarellum con preferenze": "Il candidato di ogni collegio è chiaramente riconoscibile, in più c'è lo spazio per mettere due preferenze, un uomo e una donna. Io lo trovo un meccanismo di una semplicità impressionante. Chi arriva primo vince e governa per cinque anni". Anche questo è tecnicamente falso, per un motivo molto semplice (e detto da chi, come me, non disprezza affatto il Mattarellum, e conosce anche il valore positivo delle preferenze, oltre i loro limiti). Italicum e Mattarellum sono sistemi divergenti come possono esserlo le filosofie di fondo di un proporzionale con lista bloccata e di un maggioritario per quanto parziale (o annacquato). Metterle insieme, sfasarle, sovrapporle, significa sognare l'esistenza degli ircocervi

twitter @jacopo_iacoboni

da -http://www.lastampa.it/2014/12/29/blogs/arcitaliana/il-renzi-di-fine-anno-un-abbozzo-di-fact-checking-MHpmtPo6Jp6v8TjuIems4H/pagina.html
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« Risposta #46 inserito:: Gennaio 01, 2015, 04:08:27 pm »

Matteo e il governo parallelo. Il doppio binario delle nomine
Ministri esautorati, fedelissimi nelle task force su dossier miliardari

30/12/2014

Jacopo Iacoboni e Giuseppe Salvaggiulo

Nel grande risiko delle nomine Matteo Renzi si muove da sempre su un doppio binario. Da una parte sceglie e promuove uomini dotati di curriculum inattaccabili e la cui cifra è l’indipendenza; dall’altra colloca personaggi fidelizzati al massimo e legati a lui da rapporti tangibili in un livello intermedio che configura la struttura ramificata del suo potere profondo. 

L’ultimo Consiglio dei ministri, alla vigilia di Natale, lo conferma: il governo ha nominato l’economista liberal Tito Boeri presidente dell’Inps e l’imprenditore Vincenzo Manes «consigliere al sociale». Il primo sul binario degli indipendenti di prestigio; il secondo, sconosciuto al grande pubblico, su quello dei fedelissimi negli snodi di potere. Manes, molisano, è un potente imprenditore nel settore metallurgico, ma si occupa anche di «innovazione sociale» con la sua Fondazione Dynamo. E è uno dei finanziatori palesi (62 mila euro), della fondazione renziana Open, che organizza la kermesse della Leopolda.

Il primo esame 
Lo schema del doppio binario si era già testato nel primo giro di nomine nelle grandi aziende pubbliche poco dopo l’incarico di premier, o in pezzi dello staff di Palazzo Chigi. Da un lato le scelte spendibili nella logica del «cambiaverso»: donne, manager di profilo internazionale, professori, volti nuovi. E quindi profili come Carlotta de Franceschi consigliere economico; Patrizia Grieco e Paola Girdinio all’Enel; Emma Marcegaglia e Luigi Zingales all’Eni; Marta Dassù, Guido Alpa e Alessandro De Nicola a Finmeccanica; Francesco Caio e Antonio Campo Dall’Orto alle Poste. Dall’altro, lo schema portava nel cda dell’Enel l’avvocato pistoiese Alberto Bianchi, presidente della fondazione Open; a Finmeccanica un finanziatore storico della Leopolda, l’imprenditore senese nel settore biomedicale Fabrizio Landi; all’Eni Diva Moriani, imprenditrice aretina del rame nonché amministratrice proprio di Dynamo, la fondazione di Manes. Sempre all’Eni, nel collegio sindacale, è finito un altro amico di Renzi, Marco Seracini, che guidava NoiLink, altra fondazione importante nella galassia renziana. Mondi che ritornano. E cerchi che si chiudono. 

Da Firenze a Roma 
Nonostante si sia avvalso di alcune società di consulenza per cacciatori di teste, il premier ha già la sua rete e la utilizza ampiamente. Pedine cruciali come Filippo Bonaccorsi, appena chiamato a Palazzo Chigi per guidare la task force che dovrà gestire il delicatissimo piano del governo sulla scuola (oltre 21 mila istituti coinvolti, almeno un miliardo di euro in ballo). Bonaccorsi, avvocato romano, fratello della deputata Pd Lorenza - una dei quattro speaker dell’ultima Leopolda - ha guidato con perizia la privatizzazione dell’azienda di trasporto pubblico fiorentina, l’Ataf, quando Renzi era sindaco. Durante quella vertenza, vinta contro i sindacati, compare per la prima volta Maria Elena Boschi, che all’epoca aveva appena superato l’esame da avvocato.

 

Il ministro ha raccontato che diede un aiuto, a titolo gratuito, per risolvere le grane giuridiche. Renzi la nominò nel cda di Publiacqua, azienda mista (46 Comuni più Acea, Suez, Mps) che porta acqua nelle case di 1,3 milioni di toscani e vanta 160 milioni di fatturato e 660 milioni di investimenti. Incarico, questo, retribuito.

Non solo acqua 
Nel cda di Publiacqua, Boschi sedeva con il presidente Erasmo D’Angelis, ex giornalista del manifesto, ambientalista ma oppositore del referendum sull’acqua del 2011. Anche D’Angelis è stato portato a Palazzo Chigi da Renzi, con il ruolo strategico di capo dell’unità di missione sul dissesto idrogeologico. Sostituendo quattro ministeri, D’Angelis ha impresso una svolta radicale, sbloccando in pochi mesi 1300 cantieri per 1,6 miliardi di euro e candidandosi a gestirne altri 9 nei prossimi anni, facendo bingo sui fondi europei.

Il modello D’Angelis viene ora ripetuto con Bonaccorsi sulla scuola: funzioni strategiche, piani di alto valore simbolico, grandi flussi di spesa pubblica accentrati a Palazzo Chigi e ministeri anche importanti esautorati: ambiente, istruzione, sviluppo economico, infrastrutture… Basta ascoltare gli sfoghi dei grand commis dei dicasteri, che non toccano più palla sui dossier principali (per non parlare dei ministri, talvolta nemmeno informati). 

Grandi opere 
Il modello, naturalmente, si applica anche al principale canale di spesa pubblica: il miliardario rubinetto delle grandi opere, affidato alle cure del Cipe guidato da Luca Lotti, un po’ l’Underwood del renzismo, il protagonista di House of Cards, la serie tv citata da Renzi anche ieri.

Dopo il via libera a diverse autostrade, negli ultimi giorni il Cipe ha dato parere favorevole agli stanziamenti della Cassa depositi: 300 milioni per la metro 4 di Milano, 180 per la linea 1 a Napoli, 307 per l’inclusione sociale in Calabria, una decina al Piemonte per le «opere compensative» del Tav. 

Tra i principali dossier sulle infrastrutture sul tavolo del governo c’è il piano degli aeroporti. Al vertice di quello di Firenze, che ha appena ottenuto la salvifica fusione con Pisa, c’è (succeduto proprio a Manes) Marco Carrai che, con Bianchi, Boschi e Lotti, amministra la fondazione Open. Capisaldi di una sorta di governo parallelo quasi più influente di un consesso di ministri.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/30/italia/politica/matteo-e-il-governo-parallelo-il-doppio-binario-delle-nomine-u43xHLUS1NUIFwpL0fNq2K/pagina.html
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« Risposta #47 inserito:: Gennaio 12, 2015, 10:35:07 pm »

Il Pd e le primarie liguri al veleno. Cofferati: ex fascisti in campo
Domani si vota, la favorita Paita ammette: fino a oggi troppo potere lasciato alla Carige, se vinco cambierò

10/01/2015
Jacopo Iacoboni
Inviato a Genova

Qualche tempo fa un banchiere genovese di stazza nazionale suggeriva, ad autorevoli interlocutori che si introducevano in città, «per lavorare bene qui basta andare d’accordo con cinque persone: Burlando, Scajola, il Cardinale, il presidente della Fondazione (Repetto) e il presidente della Banca (Berneschi)». Mai fu data definizione migliore del sistema. Quel sistema doveva giungere al capolinea domani, con le primarie del Pd per scegliere il candidato (il che qui vuol dire il vincitore) delle prossime elezioni regionali. O forse no.

Il banchiere e il sistema 
Sostiene Raffaella Paita, la candidata favorita, assessore alle infrastrutture della giunta, neorenziana, sponsorizzata dal governatore uscente, «io non credo alla teoria del sistema-Burlando. Burlando, per dire, in Carige non ha mai fatto una nomina. Semmai si può fargli la critica di non aver controllato bene quello che succedeva. Ma non c’è stata collaborazione con gli altri poteri, come ci viene rimproverato. Piuttosto, direi che a Genova c’è stata una tendenza a far andare un po’ troppo Berneschi uomo solo al comando. Con me le cose s u questo cambieranno». 

Bilancio grigio 
La fotografia ligure attuale non è rosea: disoccupazione al 14%, giovanile al 44, la peggiore tra le regioni del nord. Il 40% dei consiglieri regionali (dal Pd al Pdl all’Idv) indagati per le spese pazze, due vicepresidenti di Burlando arrestati. Lui politicamente viene descritto dai nemici come una specie di muro di gomma, capace di incassare ogni critica e andare avanti. Singolare però che il vasto fronte dei suoi oppositori - diviso e abbastanza inconcludente - non sia riuscito a partorire come candidatura anti-Paita nient’altro che il vecchio Sergio Cofferati. «Un fallimento come amministratore a Bologna - osserva Paita - uno che si candida sempre contro i giovani».

Carige, Erzelli, Filse 
All’epoca delle primarie per il sindaco di Genova Burlando promise «ci togliamo dalle scatole questa qui (la Vincenzi), poi rivolteremo la regione come un calzino». Le cose sono andate diversamente. Non sempre per colpa sua, la crisi economica nazionale molto ha contribuito, poi c’è stata l’alluvione, ma la risposta è stata timida, priva di una visione, ordinaria. Burlando ha evocato responsabilità del sindaco di vent’anni fa, Adriano Sansa, in realtà è mancata una complessiva strategia ambientale durante la sua gestione in regione. Tenendo saldamente le chiavi della Filse, la finanziaria regionale per lo sviluppo, il governatore uscente ha preferito rinunciare a un progetto complessivo su pochi punti determinanti (per dire, contro la sversatura nel Bisagno), preferendo concentrare l’uso dei fondi europei su una miriade di microfinanziamenti a pioggia. Ha gestito così un enorme consenso, ma lasciando in eredità pesanti problemi. Nel frattempo Carige, ora in sofferenza, dava 250 milioni per il megaprogetto degli Erzelli: che ha tenuto due importanti aziende in città, Marconi e Nokia, ma lascia un’enorme cattedrale nel deserto di cui non si sa bene che fare.

Il Cinese attacca 
E il Pd? «I partiti non esistono più - ha sempre teorizzato Burlando - ciò che conta è la rete degli amministratori locali». E lui, su questo, è stato formidabile. Così oggi Paita è appoggiata da uomini trasversali, anche molto discussi, come Franco Orsi, ex dc, ex forzista, poi Pdl, uomo di Scajola. O Alessio Saso, Ncd, uomo di potere del ponente ligure, peraltro indagato in un’inchiesta su presunte infiltrazioni della ’ndrangheta nel Ponente. «Le responsabilità, se ci sono, andranno provate», risponde la Paita. «Comunque il tema dell’alleanza col Ncd non è all’ordine del giorno oggi, deciderà Roma». Cofferati ci racconta un’altra storia: «Non è vero, l’alleanza c’è eccome; e c’è uno stravolgimento delle primarie, che non sono più uno strumento per gli elettori di centrosinistra, ma per i pacchetti di voti del centrodestra per scegliere il candidato meno sgradito. L’Ncd ha detto apertamente che porterà gente al voto per Paita». Qualcosa contro cui si sono pronunciati anche Bersani e Cuperlo, ieri: «Pesanti intromissioni da destra», accusano. «Stanno con Paita anche tanti ex fascisti», dice Cofferati. Ex fascisti? «Certo. Gente come Orsi, che anni fa abbandonò il palco di Scalfaro un 25 aprile. O come Arrigo Petacco: c’è un manifesto di intellettuali per la Paita e sapete il più noto chi è? Lo storico revisionista su Mussolini».

Il clima è questo. Paita è sostenuta da Pinotti, e da Renzi, anche se il premier non ci ha messo granché la faccia. È stata anche molto attaccata da Cofferati per il conflitto d’interesse col marito, Luigi Merlo, presidente dell’Autorità portuale. Ora promette: «Se sarò eletta, lui si dimetterà». Curiosamente, per la carriera della moglie qui fa un passo indietro il marito, e questa è senz’altro un’evoluzione italiana.

Twitter @jacopo_iacoboni 

da - http://www.lastampa.it/2015/01/10/italia/cronache/il-pd-e-le-primarie-liguri-al-veleno-cofferati-ex-fascisti-in-campo-nrHHEbdRdPiSpOZthRFJ5K/pagina.html
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« Risposta #48 inserito:: Aprile 16, 2015, 11:50:58 am »

   Renzi e la Nemesi del rimpasto
Diritto al non oblio
01/04/2015

Siamo talmente presi dal diritto all'oblio che ci sentiamo legittimati a dimenticare tutto; anche quello che dovremmo ricordare.

La cosa appare ancor più stridente e dolorosa se riguarda i detti del potere. In questo caso, le frasi di Matteo Renzi. Il premier come sapete si trova nel pieno di una procedura di rimpasto vera e propria - anche se nel suo giro preferiscono la locuzione minirimpasto, e minirimpasto sia. Non sta solo sostituendo Maurizio Lupi con Graziano Delrio al ministero delle Infrastrutture (uno potrebbe dire: è inevitabile, che colpa ne ha Renzi?); sta dividendo quel ministero, creando di fatto un ministero regionale da assegnare al Ncd (o almeno così ha promesso), misurando con un certo bilancino questioni di sottosegretari e presenza di donne nel governo, ridefinendo (cosa decisiva) dossier e deleghe tra i sottosegretari a Palazzo Chigi. Insomma: tutto quello che, ha sempre detto lui, gli fa venire l'orticaria e mai avrebbe fatto. O almeno così ci promise.

Senza raccogliere le tante occasioni che potremmo citare, ce n'è una molto indicativa, che va invece ricordata: diritto al non oblio. Risaliamo neanche tanto indietro ma è utile, se non ci si ricorda più di nulla: siamo a gennaio del 2014, con Enrico Letta ancora in sella ma traballante - oggettivamente traballante, e traballante perché terremotato dall'allora neosegretario del Pd. Comincia allora a circolare, con grande zelo collettivo, l'ipotesi di un rimpasto, spettro che in passato già bastava a connotare le fasi B dei governi, quelle nelle quali inizia - anche agli occhi dei media - la loro decadenza. Certo anche solo parlare di rimpasto non aiuta Letta, che peraltro poco si aiuta di suo. E Renzi? Con una mano fa vacillare Letta, con l'altra esclude assolutamente il concetto stesso di rimpasto dal suo orizzonte visivo. "L'invito che noi facciamo al governo è: basta chiacchiere, cominciamo a fare sul serio", disse ospite in tv a Virus. "Rimpasto? Secondo lei la prima cosa che faccio è sostituire un ministro bersaniano per mettere uno renziano come nella prima repubblica? Uno come me secondo voi può dire: per avere il mio consenso mi dai tre sottosegretari, un viceministro e mezzo ministero...? Altro che rimpasto, questo modo di fare è inqualificabile…". Lui odiava quelle pratiche da vecchia politica, spiegò.
 
Aveva ragione, Renzi, a dirlo; se c'è una pratica insopportabile e totalmente-prima repubblica è proprio questa liturgia di "spacchettamento" (orrida parola, perdonate, ma la usano loro) di ministeri, di partitini da placare, sottosegretari da spartire, ministri da sostituire e deleghe da pappare. Insomma, quello che - Nemesi persin precoce - capita adesso a Renzi di fare.

twitter @jacopo_iacoboni

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/01/blogs/arcitaliana/renzi-e-la-nemesi-del-rimpasto-Sip6NjX6r3fWmOoI8U1NyI/pagina.html
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« Risposta #49 inserito:: Maggio 11, 2015, 10:25:52 am »

Violante: le riforme di Renzi non sono quelle che scrivemmo noi saggi nella Commissione
«Stanno abbandonando il parlamentarismo e introducendo il governo del premier. Senza contrappesi si rischia di uscire dal solco costituzionale»

01/05/2015
Jacopo Iacoboni

In questi giorni è un continuo evocare «i saggi di Napolitano», oppure «la Commissione per le riforme». Per usarli. Sia “i saggi”, sia la Commissione istituita da Enrico Letta, scrissero testi importanti su legge elettorale e riforma costituzionale. I testi li stese materialmente, in entrambi i casi, Luciano Violante.

Violante, sostengono Ceccanti e Barbera che le linee principali della legge elettorale sono le stesse che scriveste voi «saggi». 

«Le leggi elettorali non vanno considerate da sole perché sono parte essenziale della forma di governo. Il mix tra legge elettorale e riforma costituzionale, nelle attuali proposte di maggioranza, ci fanno passare da un “sistema parlamentare razionalizzato” al “governo non parlamentare del primo ministro”. È un modello diverso, dal punto di vista costituzionale e politico. Senza idonei contrappesi può diventare un modello preoccupante».

Ha ragione Enrico Letta nella sua lettera alla Stampa? 
«Letta ricorda giustamente che c’è differenza tra una commissione di esperti, e il Parlamento».

Renzi ci ha scritto: sono stato costretto alla fiducia, altrimenti finivo preda della melina della minoranza. Letta sostiene che su una legge così cruciale bisognava andare avanti il più possibile «insieme». Del resto, aggiungerei, anche Renzi lo diceva, mesi fa. Che ne pensa? 

«La fiducia sulle leggi costituzionali e su quelle elettorali non andrebbe mai messa, come del resto scrive chiaramente la Commissione».

Scriveste: «Una legge così delicata deve essere sottratta al capriccio delle maggioranze occasionali». 

«Appunto. C’è stato anche un eccesso di emendamenti, e di furbizie, da parte di alcuni partiti di opposizione. Quando l’opposizione parlamentare abusa dei propri diritti è inevitabile che la maggioranza abusi dei propri poteri».

Il premio di maggioranza è al 40%, mentre - voi lo scrivete - chiedevate una soglia più alta. La soglia di accesso del 3% è troppo bassa, voi indicavate il 5. 

«E’ così. Ma ribadisco che il problema principale è il cambiamento della forma di governo e la necessità di costruire forti contrappesi parlamentari».

Ora non è tardi? Quali contrappesi si possono introdurre a un Senato concepito con pochi senatori, non eletti, e senza veri poteri fiduciari, né di revisione dei conti? 
«Renzi ha fatto qualche positiva apertura a modifiche. A mio avviso dovrebbe trattarsi di un aumento dei poteri di controllo del Senato e del riconoscimento di effetti più incisivi alle proposte di iniziativa popolare».

 Renzi si riferisce solo al sistema di elezione dei senatori, non ai poteri. 
«Parrebbe. Ma se non si interviene corriamo il rischio che vengano trasformati in contropoteri i “poteri neutri”, come il capo dello Stato e la Corte costituzionale. Uno snaturamento che nessuno si augura. Credo nemmeno il premier».

Cosa si potrebbe, o si sarebbe potuto, fare? 
«Introdurre la sfiducia costruttiva; ma un emendamento del genere è stato respinto dalla maggioranza. Segno che la linea era quella del governo “non parlamentare” del primo ministro. Le accuse del ritorno al fascismo sono ridicole; ma questa inedita forma di governo necessita, per restare nel solco costituzionale, di idonei contropoteri. Noi proponevamo inoltre una diversa proporzione tra i parlamentari: 450-480 deputati, e 150-200 senatori. Invece, i senatori sono troppo pochi e i deputati sono troppi».

E sui capilista nella legge elettorale, o sulle candidature plurime, che idea ha? 
«Sui capilista io non faccio una tragedia. Ma se si accettano candidature in più collegi, serve una norma per obbligare il candidato “plurimo” a essere eletto dove ha il coefficiente più alto. Altrimenti spetta a lui scegliere chi è eletto, con inevitabili ulteriori distorsioni».

Twitter @jacopo_iacoboni 

Da - http://www.lastampa.it/2015/05/01/italia/politica/violante-le-riforme-di-renzi-non-sono-quelle-di-noi-saggi-tbZUFdEh7cNlJw2Bqrh5YJ/pagina.html
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« Risposta #50 inserito:: Luglio 01, 2015, 06:13:39 pm »

Casaleggio striglia Di Maio: lavorate male, sono deluso
Dopo la sfiducia dell’assemblea dei deputati alla Loquenzi, l’ira del cofondatore.
Ora il delfino deve scegliere, o stare con il cofondatore o con i “suoi” parlamentari

26/06/2015
Jacopo Iacoboni

Il golpe contro Casaleggio è in corso, ed è avvenuto quello che era stato segnalato: alla fine Ilaria Loquenzi, la capa della comunicazione del M5S alla Camera che tutti i deputati (poche volte si è sentita tale unanimità di giudizio) ritengono «priva di qualunque autorevolezza», e molti segnalano «anche priva dei titoli per quell’incarico», è stata sfiduciata. Contro di lei nella tarda serata di mercoledì hanno votato in 26 deputati (17 a favore, 14 astenuti; una trentina, attenzione, ha fatto in modo di risultare assente). Ma le conseguenze (e soprattutto i veri autori) di questo clamoroso attacco rivolto al cofondatore del Movimento vanno indagate e spiegate bene, nei limiti del possibile.

Non è che la Loquenzi fosse - contrariamente alla vulgata - particolarmente vicina a Casaleggio (semmai è vicina a Roberta Lombardi, che non s’è mai vista così fuori giri come ieri, investiva a male parole tutti quelli che considera responsabili dell’«agguato», definendoli «pezzi di m», e faceva girare la voce di un ruolo, inesistente, di Massimo Artini nell’operazione). Semplicemente, appena dieci giorni fa il cofondatore dei cinque stelle aveva riconfermato sul blog, e a doppia firma con Grillo, che lei e Casalino al Senato restavano i capi degli staff di comunicazione. Per un motivo: perché sono i suoi tramite (specialmente il secondo, in realtà) con i parlamentari. La comunicazione nel M5S ha quasi la funzione di un ufficio di super-capogruppo, e sicuramente di trait d’union tra Roma e due capi che non sono a Roma. Difendere a muso duro Loquenzi e Casalino significa - per Casaleggio - difendere il principio che lui e Grillo restano, nonostante tutto, i terminali ultimi del Movimento. Ma è ancora questa la realtà dei fatti? Questa vicenda dimostra che, come minimo, al manager Casaleggio sfugge ormai la dinamica tutta politica della sua creatura. Un mese fa lui stesso aveva detto al direttorio - che gli esponeva la necessità di «sostituire o affiancare» la Loquenzi - «se fate questo io me ne vado e vi lascio al vostro destino».

Ieri la reazione del manager milanese è stata, se possibile, ancora più furiosa, e proprio contro il direttorio: ha tenuto costanti contatti con Luigi Di Maio, il leader dei cinque. L’ha così strigliato che il giovane napoletano si aggirava con l’espressione di un ragazzo bastonato e arrabbiato. Il direttorio, attenzione, ha votato compatto a favore della Loquenzi; ma Casaleggio a questo punto è adirato in primis con loro, «siete stati incapaci, lavorate male, sono deluso da voi». E voleva pubblicare subito sul blog un post feroce, sia contro i deputati, sia contro il direttorio, per il modo in cui è stata gestita l’intera operazione. A finire nel mirino sarebbero non solo quelli che hanno votato contro, ma anche quelli che - consentendo che si svolgesse l’assemblea - agli occhi di Milano hanno creato le premesse per il crac. Tra i voti contro ci sono stati quelli della capogruppo Francesca Businarolo, del vicecapogruppo Giorgio Sorial (che da mesi si vanta del fatto che la Casaleggio verrà esautorata), dell’ex capogruppo Fabiana Dadone, dei liguri. Ma potrebbe essere rimosso, dal ruolo di presidente dei deputati, il veneto Federico D’Incà, uno dei volti «francescani» nei fatti (non a parole) del Movimento. Che ha votato a favore di Loquenzi pur non stimandola.

Cosa farà adesso Casaleggio? Ragiona su due opzioni-ponte. Fare Rocco Casalino, l’ex del grande fratello, capo anche alla Camera. La controindicazione è che Casalino non è granché amato dai deputati, e probabilmente finirebbe anche lui sotto attacco. Oppure, piano B, nominare capa Silvia Virgulti, che viene dal network della Casaleggio, è molto vicina politicamente a Luigi Di Maio, e nei mesi scorsi ha raccontato in giro che «Casaleggio voleva nominarmi capa della comunicazione, ma io ho detto di no». Se succedesse questo sarebbe una vittoria di Di Maio, o una perfidia di Casaleggio, che renderebbe a Di Maio molto più difficile il rapporto col gruppo parlamentare?

Il giovane leader del direttorio è in una tenaglia: deve scegliere se stare dalla parte dell’assemblea, sempre più anti-Casaleggio e vogliosa di autonomia (e magari usarla sottilmente assecondando la scalata, che coinciderebbe con la sua ascesa di leader in proprio), o restare al fianco di Casaleggio. Una scelta da cui dipende la sua stessa carriera politica.

follow @jacopo_iacoboni 

da - http://www.lastampa.it/2015/06/26/italia/politica/di-maio-costretto-a-scegliere-o-casaleggio-o-i-parlamentari-uCxmYucqANvocg8bOcv04J/pagina.htm
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« Risposta #51 inserito:: Luglio 05, 2015, 10:28:46 am »

Le parole di Di Maio nell’assemblea fatta rifare da Casaleggio.
Che cosa sta succedendo nel M5S?

01/07/2015

Cosa sta succedendo davvero nel Movimento cinque stelle? Cosa c'è dietro la rivolta antiCasaleggio - consumata nel primo voto dei deputati contro Ilaria Loquenzi, responsabile della comunicazione, e poi rientrata con una seconda assemblea, imposta dal manager milanese e finita con la ratifica della sua decisione?
 
La domanda diventa interessante se consideriamo che stiamo parlando comunque del secondo partito in Italia, ancora al venti per cento dei voti, forse qualcosa in più, e in gioco - almeno teoricamente - per andare al ballottaggio, con l'Italicum. Ma in questa domanda il punto cruciale è: il voto contro Casaleggio delineava una scalata bella e buona (una specie di golpe interno), o qualcosa che è accaduto soltanto per una somma di incapacità (del direttorio e dei deputati), una somma di casualità che hanno portato a un esito irripetibile?

Racconta Javier Cercas in un libro fenomenale, Anatomia di un istante, che i golpe sono tali solo in atto, mentre qualcuno li sta tentando. Quando falliscono, i golpisti negheranno di aver mai anche solo pensato a un golpe. Nel caso del voto contro Casaleggio, bisogna risalire almeno al 20 maggio scorso, per capire le cose, quando La Stampa racconta con qualche anticipo che esiste un caso-Loquenzi, e che, soprattutto, su questo si è consumato uno scontro molto forte tra Casaleggio e il direttorio, in particolare Di Maio. Il gruppo guidato dal giovane leader aveva rappresentato al cofondatore una richiesta dell'assemblea: sostituire o affiancare la responsabile della comunicazione del M5S alla Camera, spiegando che era malvista da quasi tutti i deputati. In sostanza il direttorio, anziché stoppare questa operazione dell'assemblea, provava a rappresentarla. La risposta di Casaleggio fu durissima: "Se fate questo io me ne vado e vi lascio al vostro destino". Di Maio e il direttorio apprendono in quel momento (a maggio) che Casaleggio vive l'attacco a Loquenzi come un attacco alla sua stessa figura di leader. Il direttorio, da allora, sa; dobbiamo pensare che capisca. Non c'è molto da capire, del resto: gli viene detto chiaramente, e a brutto muso, da Casaleggio. 

Cosa potrebbero fare allora i cinque? Se stanno con Casaleggio, lavorare subito per far rientrare i malumori contro la Loquenzi. Se vogliono indebolire Casaleggio, assecondare l'assemblea, sapendo che silurerà Loquenzi (è matematico, e La Stampa lo prevede al millimetro). Invece cosa succede? Il direttorio resta in una posizione non chiarissima: nel primo voto vota ovviamente per difendere Loquenzi, ma fa poco e male per convincere i deputati, cioè per fare il suo lavoro di trait d'union tra Milano e Roma. Nella migliore delle ipotesi, lavora male; nella peggiore lascia montare una rivolta stando a vedere cosa ne esce. Magari qualcosa di buono per alcune delle tante ambizioni in campo in questa partita.
Quando Casaleggio, è storia recentissima, cala il pugno di ferro, si riprende incredibilmente il pallone, azzera la prima assemblea e ne fa rifare un'altra, il direttorio è in una tenaglia. Come ne esce? L'assemblea di ieri sera meriterebbe di esser raccontata per filo e per segno, con tanti racconti a parte, e almeno citando un paio di interventi su tutti, quelli di Di Maio e quello di Matteo Mantero, opposti (Mantero fa accuse durissime al direttorio, su cui potremmo tornare in futuro). Ma qui - per la nostra analisi - è importante citare cosa dice il primo, il giovane leader campano. Di Maio si presenta davanti ai deputati e dice, anche con lieve autoironia: "Scusatemi se mi sono permesso in questi giorni di fare qualche telefonata agli amici, per spiegare meglio come stavano le cose. Forse abbiamo sbagliato noi, non siamo stati capaci di far capire abbastanza bene all'assemblea che il voto sulla Loquenzi veniva vissuto a Milano come un voto di fiducia personale su Casaleggio". Per questo, e solo per questo, sostiene Di Maio, si è creato il corto circuito disastroso di questa vicenda.

A questo punto però in sala in tanti si chiedono: dopo che Casaleggio - un mese fa! - aveva chiaramente minacciato il direttorio di andarsene se avessero insistito sul tema della sostituzione di Loquenzi, come mai, fedeli come sono, non si sono messi alacremente all'opera per convincere subito l'assemblea che quello diventava un voto su Casaleggio, e hanno invece lasciato fare? Sono incapaci, poco avveduti, o magari sono stati un po' meno fedeli del previsto, cioè fedeli a metà? Assistevano a un golpe pronti a schierarsi, eventualmente, con chi l'avesse vinto?

Certamente no; questo lo direbbe Cercas.

follow @jacopo_iacoboni

Da - http://www.lastampa.it/2015/07/01/blogs/arcitaliana/le-parole-di-di-maio-nellassemblea-fatta-rifare-da-casaleggio-HtiXGoXWd8DPQT3S8g7hpO/pagina.html
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« Risposta #52 inserito:: Luglio 05, 2015, 10:37:21 am »

Crocetta: dare retta al Pd? Sarei finito travolto dagli scandali
“Volevano in giunta Mirello Crisafulli e il cognato di Genovese, vi rendete conto?
Renzi? Non mi risponde”
In Sicilia la giunta di Rosario Crocetta è in serie difficoltà politiche, assessori in bilico, e il caso Tutino, il medico del governatore accusato di peculato e truffa


02/07/2015
Jacopo Iacoboni
Inviato a Palermo

Seduto su una poltrona nel suo studio di Palazzo d’Orleans - anzi, come dicono qui, Palazzo d’Òrleans - Rosario Crocetta ha l’aria di un uomo che resisterà fino alla fine. Il Pd in Sicilia è - tanto per cambiare - devastato da lotte interne, faide, divisioni. Crocetta è attaccatissimo dall’esterno, ma anche dall’interno, dai renziani e dai vecchi notabili a cui ha tolto poltrone e affari. Il problema è che la Regione è piantata, ferma, nulla riparte, e a Palermo nessuno è contento, neanche i cittadini, e lui fa fatica a girare per strada. 

Che succede, Crocetta, è mai possibile che il primo ad avercela con lei sembra essere il Pd? 
«È una vergogna, ma voglio farle un regalo. Se comincio a parlare io sui guai del Pd... Le racconto una cosa: quando vinsi le elezioni sa chi volevano farmi mettere in giunta, il Pd? Mirello Crisafulli, capisce? Guardate ora i suoi guai. E Franco Rinaldi, il cognato di Francantonio Genovese, ha presente lo scandalo che è poi scoppiato sulla formazione in Sicilia? Ecco: se stavo a dar retta al Pd la giunta durava sei mesi e veniva travolta dagli scandali giudiziari. Passi per l’Udc che voleva infilare Nino Dina, ma il Pd... Il loro astio per me comincia lì».

Ha fatto molti tagli meritori, ma dicono che la Regione è immobilizzata, bloccata. 
«Vogliamo dire dei tagli? Mi odiano perché ho tagliato la formazione, che costava 400 milioni e oggi costa 150, e ci mangiavano tutti, tutti, anche il Pd. Perché ho fatto tre miliardi di risparmi per un buco di bilancio che ho ereditato. Perché avevamo ventimila forestali a cui non si potevano pagare più gli stipendi, e io ho tagliato quattrocento milioni di sprechi. E così mi odia questo sistema di potere trasversale».

 

Però anche Faraone, i renziani, la attaccano. Loro c’entrano con quel sistema di potere? 
«Questo Faraone vuole solo fottermi la seggiola. Vogliono tutti la mia poltrona. Da Roma vogliono imporre dei piccoli proconsoli, non accettano che ci sia un governatore eletto dai siciliani, che lavora in autonomia».

E Renzi? 
«Sono l’unico governatore con cui non ha mai, mai parlato, neanche una volta. Il governo ci deve 350 milioni di coperture, c’è una sentenza della Consulta, e non ce le dà per strangolarmi».

Però anche lei è un po’ mollato da tutti, se ne va anche una donna simbolo, Lucia Borsellino, all’indomani dell’arresto di Tutino... 
«Fossi in lei me ne sarei andato da prima! La capisco benissimo, è addolorata, è oggetto di attacchi vergognosi. Per i risparmi che abbiamo fatto nella sanità, qui rischiamo la pelle. Abbiamo licenziato 900 delinquenti. La sanità con me è tornata in attivo, e non ho aumentato le tasse. Ma magari Renzi la Borsellino la difenderà; a me no di certo. Palermo è la città che attaccava Falcone, che eliminò Mattarella, che fece fuori Pio Latorre, che voleva mettere ordine, anche nel partito... O morto o in galera, diciamo qui».

Ma c'è questa storia di Matteo Tutino, il suo medico arrestato per accuse gravissime, peculato, truffa aggravata. I suoi nemici dicono che lei lo favorisse. 
«Ma quando mai! È una barbarie questo uso di inchieste che non mi toccano minimamente. Che devo fare la prossima volta, farmi scegliere il medico curante dal Csm? Io sono diabetico e ho un problema respiratorio. Dovevo operarmi all’addome e Tutino voleva farlo lui perché la cosa poteva rientrare tra gli interventi di chirurgia estetica, rimborsati. Bene: non l’ho fatto, sono andato da un privato e ho speso 3800 euro. Peraltro la pancetta la tengo ancora, come vede».

Scusi ma ha mai provato a parlare col premier? È del Pd. 
«Se lo chiamo mi passano i suoi attendenti, non m’interessa. Mi vogliono delegittimare e colpire. E pensare che il vero renziano ante litteram Sicilia sono io, la rottamazione la sto facendo io».

follow @jacopo_iacoboni 

da - http://www.lastampa.it/2015/07/02/italia/politica/crocetta-dare-retta-al-pd-finivo-travolto-dagli-scandali-Jy0lFAHQ8AiwPJdv8zG9HO/pagina.html
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« Risposta #53 inserito:: Febbraio 13, 2016, 04:38:32 pm »

La “struttura delta” della Casaleggio. Ecco tutti i nomi e come funziona
Dal contratto imposto al M5S Roma fino alle webstar politiche: come l’azienda guadagna


11/02/2016
Jacopo Iacoboni

Diciamo che è la struttura delta della Casaleggio, uno staff nello staff. Al punto 4a del «contratto» con il candidato sindaco del M5S a Roma, Gianroberto Casaleggio ha inserito una delle clausole più importanti, che possono passare inosservate: «Lo strumento per la divulgazione delle informazioni e la partecipazione dei cittadini è il sito beppegrillo.it/listeciviche/liste/roma». Tradotto, tutto il traffico - anche video e social - deve passare dal blog. Ma chi gestisce in concreto questa “struttura” alla Casaleggio associati? 

La Stampa è in grado di raccontarlo millimetricamente. Mentre Grillo parla di «Rai fascista», la Casaleggio guadagna dai video di Rai, La7 e Mediaset, con un sistema semplice e perfettamente legale. Prima cosa: ancor prima del boom del M5S, la Casaleggio ha costruito una quindicina di - chiamiamole così - webstar, da Di Battista a Fico, gente con un milione di iscritti su facebook, che è tenuta a concedere di pubblicare ogni proprio video sul sito di Grillo. Se Dibba fa una performance dalla Gruber, la deve mettere sul sito di Casaleggio. I video non vengono caricati su youtube (che non accetta caricamenti con monetizzazione di video protetti da copyright), ma su un altro servizio di cloud storage di video, che non ha evidentemente ancora stipulato accordi con le tv italiane e le società di produzione. A questo servizio la Casaleggio paga una quota per ricevere in cambio dei ritorni pubblicitari dagli spot che partono prima del video, e dai banner (attraverso Adwords o altre piattaforme di monetizzazione pubblicitaria). Per ogni video caricato e visto la Casaleggio incassa in percentuale una quota stimabile fino ai mille euro e oltre per ogni video visualizzato almeno centomila volte (dati variabili). Cosa che a suo tempo fece infuriare moltissimi parlamentari M5S, che però non hanno mai avuto la forza di stoppare questo meccanismo.

Alla Casaleggio tre persone hanno tenuto in mano operativamente la cosa, nel corso di questi anni in varie fasi: Pietro Dettori, che gestisce anche gli account twitter di Grillo, e molto spesso è autore materiale dei post (Grillo incredibilmente lascia fare anche quando poco o nulla sa di ciò che viene scritto, anche delle uscite più tremende), figlio di un imprenditore sardo legato in precedenza a Casaleggio. Biagio Simonetta, un giornalista, esperto di new media. Marcello Accanto, un social media manager. E, ultima entry, Cristina Belotti, che si occupa della tv La Cosa, una bella ragazza cresciuta curiosamente alla più pura scuola del centrodestra milanese, la scuola di Paolo Del Debbio - lavorava nella redazione del suo programma - e arrivata alla Casaleggio attraverso il network dei fratelli Pittarello; soprattutto Matteo, fratello di Filippo, storico braccio destro di Casaleggio, un passato anche da boy scout. Belotti è diventata collaboratrice di Luca Eleuteri, uno dei soci della Casaleggio (l’altro è Mario Bucchich; da non molto si sono aggiunti il programmatore storico della Casaleggio, Marco Maiocchi, e un uomo di marketing che collaborava con Casaleggio già in Webegg, Maurizio Benzi).

I tre che gestiscono il blog e le pagine social della galassia Casaleggio controllano tutto il giorno il trend di viralità dei contenuti pubblicati, attraverso le analisi comparate dei dati (usano insights di facebook e Google analytics). Con l’incrocio semplicissimo di questi due strumenti, sanno in ogni momento quanto stanno guadagnando. Le webstar politiche fanno fare soldi all’azienda. Un berlusconismo 2.0.

C’è però un’altra cosa in cui i «ragazzi» eccellono, e Dettori è bravissimo, la profilazione. È un loro divertimento sapere: chi si collega a un video, da dove, con quale software, quale browser, qual è la sua età e i suoi interessi. Non è proprio The Circle di Dave Eggers - l’azienda è troppo piccola; quello è il sogno.

Da - http://www.lastampa.it/2016/02/11/italia/politica/la-struttura-delta-della-casaleggio-ecco-tutti-i-nomi-e-come-funziona-KjOs99jXDHs6JbhPBP5uAM/pagina.html
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« Risposta #54 inserito:: Marzo 10, 2016, 06:10:40 pm »

Le dieci domande a Casaleggio. Il manager in audizione alla Camera
L’ex M5S Mucci: chiederemo di ricavi e concessionaria del blog
Il manager milanese Gianroberto Casaleggio in una foto scattata in piazza San Giovanni durante lo Tsunami Tour

09/03/2016
Jacopo Iacoboni

Quando citi Lenin per atterrire i sospettati di eresia, il minimo che possa succederti è che prima o poi qualcuno tenti di processare te. Il Processo a Casaleggio. 

Il manager milanese è stato chiamato a comparire in audizione alla commissione Affari costituzionali della Camera tra gli «esperti» che a vario titolo parleranno della nuova legge sui partiti. L’idea è venuta a Mara Mucci, una ex deputata M5S oggi nel gruppo misto, che gli farebbe alcune domande. Diciamo le dieci domande a Casaleggio. Mucci ha parlato con «La Stampa» e ce le ha raccontate.

«Faccio una premessa: questa legge sui partiti a me pare border line, credo ne sia anche consapevole il relatore, Matteo Richetti. Come si fa a imporre una forma giuridica alle forze politiche? Penso che anche nel Pd stiano riflettendo. Non possono imporre un’organizzazione a un movimento o a un partito, ma si può invece regolamentare per legge la trasparenza». La prima domanda da fare a Casaleggio, dice allora Mucci, è: «Ci direte con esattezza tutti i bilanci? Se rispondono che il bilancio è già pubblico, ci direte come sono rendicontati tutti gli eventi o extraeventi? Chi sono le società a cui vengono appaltati? A noi risulta che sia una sola, sempre la stessa, sono legati alla Casaleggio in qualche forma? Noi avevamo un servizio legale, dove viene rendicontato il pagamento di tutto questo? Chi lo paga? Qual è la lista esatta dei finanziatori di tutti gli eventi?».

Ad alcune domande Casaleggio potrà rispondere agevolmente; ad altre meno. Mucci vorrebbe veder rispondere ad alcune domande sul blog e i suoi guadagni: «I bilanci della Casaleggio sono pubblici, alla Camera di Commercio; ma da quelli non si evince la fetta del blog: quali sono i ricavi pubblicitari esatti del blog, che è collegato all’attività di una forza politica, e se ne giova apertamente? Se tu metti nel bilancio, per dire, 8500 voci, o se aggreghi tutto in poche voci, è diverso, il bilancio diventa leggibile o oscuro. Qual è la società che fa la raccolta pubblicitaria? È una società controllata, direttamente o indirettamente, dalla Casaleggio associati?».

 
È più che possibile, anzi è probabile, che Casaleggio non si presenti al suo Processo alla Camera, anche per evitare l’assalto. Molte questioni non paiono sempre messe bene a fuoco, come la vicenda delle mail sul server gestito da Massimo Artini («se Casaleggio usava quel server per spiare - dice una nostra fonte - perché poi avrebbe dato ordine di chiuderlo?»). Ma anche altre cose non tornano, e ci riconducono alla legge sui partiti, e all’emendamento Boccadutri che prevede 150 mila euro di multa a chi non presenta un bilancio e una forma giuridica.

Qui la domanda che andrebbe posta - a Casaleggio, e ancor di più ai suoi scalatori/rottamatori del gruppetto Di Maio - è semplice: Danilo Toninelli, che per conto di Di Maio si occupa della questione della legge sui partiti, ha fatto diverse uscite molto plateali denunciando che la legge sui partiti è un modo per attaccare il Movimento, colpendolo anche economicamente. Ma qui siamo in grado di svelare una banalissima contraddizione, che peraltro nel gruppo parlamentare del Movimento conoscono tutti benissimo: proprio per evitare di incappare nei rigori della nuova legge, il Movimento si è ormai dotato sia di un’associazione giuridica (con fondatore, tesoriere e segretario, Beppe Grillo, Enrico Nadasi, Enrico Grillo), sia di un bilancio. In altre parole: l’associazione c’è già; il bilancio è già regolarmente pubblicato, e risulta a zero euro (certificato da una società terza, la Audit Services, è su https://materiali-m5s.s3.amazonaws.com/rendiconti/ASSOCIAZIONE.pdf). Le spese per eventi, o spese legali, o extra, sono invece pubblicate sotto la voce «Comitato elettorale». Ma allora scusate, se il problema non esiste, perché Toninelli e Di Maio fanno lo show contro la legge? Impossibile pensare lo facciano per avere un video teatrale da far cliccare. 

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati

Da - http://www.lastampa.it/2016/03/09/italia/politica/le-dieci-domande-a-casaleggio-il-manager-in-audizione-alla-camera-ZA4VyBQy0tUsyaNkA2Y6TM/pagina.html
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« Risposta #55 inserito:: Aprile 11, 2016, 05:56:09 pm »

Casaleggio pensa di abdicare, gli succederà il figlio Davide
Passaggio dinastico, ma nel direttorio si preparano congiure

LAPRESSE

Roberto Casaleggio avrebbe di fatto già lasciato molti poteri decisionali al figlio Davide

07/04/2016
Jacopo Iacoboni

Qualche giorno fa un parlamentare molto importante del Movimento cinque stelle è salito a Milano alla Casaleggio associati per una riunione con Gianroberto Casaleggio. In un’ora e mezzo il cofondatore del movimento ha subito (almeno) cinque o sei pesanti cali dell’attenzione, faticando a mantenere la concentrazione per un arco di tempo consecutivo neanche troppo lungo. Il parlamentare è tornato a Roma e ha riferito: «Gianroberto ormai ha mollato, non ce la fa più a star dietro al Movimento. Decide ormai quasi tutto il figlio». Non si può dire che la notizia sia stata accolta col dispiacere umano che ci si aspetterebbe, specialmente nel direttorio dei cinque stelle; personaggi creati proprio da Casaleggio, ma pronti a scalarlo con la brutalità della più classica politica. C’è un direttore del direttorio; e non è Gianroberto (tanto meno Beppe Grillo, che fa promozione al suo tour da comico e mostra di avere ormai le tasche piene del suo antico giocattolo), ma il figlio. Nel Movimento a questo punto si delinea una guerra sorda, perché è chiaro che le tante scalpitanti webstar elette, accecate dalla tv e dalla vita romana, accettavano già a stento Gianroberto, l’intellettuale carismatico a cui dovevano tutto; figurarsi un giovane che è loro coetaneo. Già, perché il Riccardo III del Movimento, stanco e tradito, li sta giocando e ha preparato una classica successione dinastica alla coreana. 

Una stagione finisce. Ma com’è nello stile dei regimi familiari, il tramonto è segnato da tradimenti, opportunismi, viltà e ingratitudine degli ex cortigiani. Dopo un periodo in cui la salute del Riccardo III era parsa in un qualche miglioramento, forti sono di nuovo i segni di affaticamento. Se Casaleggio molla la presa, siamo in grado di rivelare che dell’azienda si occupa ormai integralmente Davide, che è anche colui che, apparentemente assieme al direttorio, in realtà da solo, tiene le chiavi del blog di Beppe Grillo, cioè dell’unica vera macchina del consenso e della gestione del gruppo parlamentare. Ma chi è, Davide?

Se Gianroberto è sempre stata la mente, Davide era il braccio, ma senza la stessa passione politica. Lui rendeva operative le decisioni prese durante le riunioni, coordinava le attività tecniche e organizzava gli «slot» dei dipendenti, cioè quanto ciascuno dovesse lavorare su un progetto. Sempre lui traduceva in tattiche, strategia e azioni pratiche, le visioni di Gianroberto, dopo averle analizzate dal punto di vista tecnico, spesso dopo lunghe riunioni a porte chiuse nell’ufficio del padre. È Davide ormai, prima di Gianroberto, che dà l’ok alle comunicazioni che partono dallo «staff di Beppe Grillo»; Davide tiene i contatti con i consulenti esterni (in particolare lo studio legale Montefusco). In realtà è da sempre dentro la macchina, fin dal 2009 si occupava dei meetup, era lui che conduceva allora gli incontri formativi dei candidati, anche prendendo decisioni politiche importanti. Gli esempi sono diversi, come questo: «Durante le elezioni su indicazione di Davide Casaleggio i candidati del meetup Europa decisero di estromettere x, y e z dal sito dei candidati, perché avevano spedito dei volantini con le sole loro facce in tutta Europa...». È Davide, e solo in un secondo momento i parlamentari che fanno capo a lui, che ha in mano e coordina il processo di «certificazione» delle liste, le espulsioni, e quindi verosimilmente ha in mano le chiavi del server.

In azienda già da tempo era a tutti gli effetti il vice. Non è per nulla simpatico, anche agli altri soci, con cui spesso ci sono scontri; ma è il figlio del capo e lo fa valere. Campione di scacchi da bambino, molto riservato, abitudinario (a colazione non cambia mai: brioches e succo di pera), qualcuno lo definisce «arrogante e autoritario, ma per niente autorevole». Non esita a usare i dipendenti dell’azienda come pedine per regolare i conti con i partner. Sportivo, patito di immersioni, con la doppia cittadinanza, è capitato che cercasse di coinvolgere i collaboratori nelle sue attività private, soprattutto quelle sportive, anche sfruttandone le capacità tecniche (come quando chiese a un dipendente di seguirlo in un weekend di immersioni per effettuare riprese con la telecamera). È Davide che ha inventato il sistema dei clic e dei siti-satellite, è lui che ha trasformato il blog in una macchina pubblicitaria, che fa guadagni.

Nelle discussioni, ci raccontano, più che il confronto rincorre l’obiettivo di indurre in errore l’interlocutore, anziché sostenere le proprie tesi, come descritto in uno dei libri che cita più spesso, «Getting to yes», di Roger Fisher e William Ury. Sul lavoro, e in politica, la frase ricorrente è «conta l’obiettivo», poco gli importa di come ci si arrivi. Stima Di Maio, ma lo considera un suo dipendente. «I parlamentari facciano i parlamentari, non devono occuparsi del loro collegio elettorale non siamo un partito», diceva anni fa Gianroberto Casaleggio, il Riccardo III del movimento. La nuova generazione, qualunque cosa succeda, ha già preso un’altra via.

Da - http://www.lastampa.it/2016/04/07/italia/politica/casaleggio-pensa-di-abdicare-gli-succeder-il-figlio-davide-dWYOvKCJk5S4QHwOeYRBeM/pagina.html
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« Risposta #56 inserito:: Aprile 14, 2016, 05:15:48 pm »

Il M5S squassato china la testa e ratifica la volontà di CASALEGGIO
Ma ora il cofondatore e il direttorio sono sotto tiro e a rischio guerriglia


30/06/2015
Jacopo Iacoboni

Alla fine, a tarda sera, i deputati del Movimento cinque stelle hanno chinato amaramente la testa e ratificato passivi la volontà di Casaleggio. Sono riusciti - magra consolazione - a non votare, perché il voto li avrebbe definitivamente squassati, ma squassati lo sono già: il direttorio è imbarazzatissimo e sculacciato dal cofondatore del Movimento e in definitiva Gianroberto Casaleggio si riprende il pallone e azzera il voto di sfiducia che gli era arrivato contro la scorsa settimana. Ma la storia, com’è evidente, avrà un mucchio di strascichi e non finisce così. Questa è solo una puntata, per quanto sintomatica e rivelatrice.

Ilaria Loquenzi, la contestatissima - e molto poco amata - responsabile della comunicazione del Movimento alla Camera resta al suo posto, ma lo scontro che s’è consumato è stato durissimo: tra parlamentari e Casaleggio, tra parlamentari e direttorio, e all’interno degli stessi parlamentari. Ieri sera, in un’assemblea che non finiva mai e che è stata ovviamente molto aspra, si sono create (almeno) due grandi fazioni: da una parte il direttorio e diversi parlamentari che spingevano perché si rivotasse, pur sapendo che questo avrebbe definitivamente spaccato in due il gruppo, ma il loro guadagno era farsi belli con Milano e acquisire peso agli occhi di Casaleggio. Dall’altra chi mercoledì aveva votato no, stanco delle imposizioni di Casaleggio, ma anche tantissimi astenuti, o gente che non ne voleva assolutamente sapere di prender parte a quella contesa, mortale per l’affiatamento e le speranze di compattezza del gruppo. Nel primo voto, ricordiamolo, gli assenti erano stati una trentina: tanti.

Il dato è che Casaleggio ha imposto una volontà, e ribadito che il Movimento lo comanda lui, come un manager che dirige un’azienda. Ma uno scontro consumato in questa maniera è destinato a lasciare una traccia pesantissima anche sugli sviluppi futuri. «Guardate che a Milano si ricorderanno di chi ha votato contro Casaleggio», Di Battista catechizzava così i contrari, quasi uno a uno. I quali l’hanno vissuta ovviamente come una minaccia di non esser ricandidati da Milano. In un partito normale fa parte del cinismo della politica che il capo minacci di non ricandidare i parlamentari che gli vanno contro, ma nel Movimento?

È chiaro che alla fine di questa clamorosa frattura tra parlamentari e Casaleggio quello che viene sancito è la metamorfosi, forse definitiva, del Movimento cinque stelle, la sua trasformazione da movimento in partito. Resta sul campo anche l’ambizione di leadership di Luigi Di Maio, che forse ha pensato di poter gestire il malcontento antiCasaleggio, ma si ritrova bastonato dal manager milanese, e dimidiato nell’autorevolezza - coi suoi deputati - in vista delle prossime tappe di questa guerra.

Da - http://www.lastampa.it/2015/06/30/italia/politica/il-ms-squassato-china-la-testa-e-ratifica-la-volont-di-casaleggio-geUhxZcvxkAfPBNzY3pcXI/pagina.html
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« Risposta #57 inserito:: Aprile 23, 2016, 12:57:53 pm »

Marco Canestrari: “M5S tradito: c’era una comunità. Ora solo una guerra per il potere”
Parla l’ex braccio destro di Grillo e Casaleggio


22/04/2016
Jacopo Iacoboni
Londra

«Sono stato per anni l’uomo che seguiva Beppe Grillo ovunque, dal colloquio con l’ambasciatore tedesco a quello con il presidente del Senato. Ho lavorato anni alla Casaleggio accanto a Gianroberto, ero il suo inviato agli incontri nazionali dei meet up, la cinghia di trasmissione tra loro, le cellule originarie del Movimento, e lui. Solo io e altre due persone sappiamo davvero cosa volessero Roberto e Beppe». Marco Canestrari oggi ha 33 anni. Sa tutto, del passato e del presente di quello che ormai è un’azienda-partito. Alla Casaleggio, dove fu chiamato dal fondatore, lo chiamano con lo sfottò appioppato da Grillo, «la mente grigia». Oggi vive a Londra, fa il programmatore informatico. Ha deciso di parlare e raccontare la mutazione genetica del Movimento, chi l’ha voluta e chi nonostante le lacrime ha tradito le volontà del fondatore dell’azienda.

Perché lo fa? Di solito chi è stato alla Casaleggio una cosa in comune ce l’ha: il silenzio. 
«All’inizio eravamo una comunità. Roberto amava quella parola. Ora non più. Era il mio capo, lo ricordo con molto affetto e professionalmente devo tutto a lui. Credeva davvero nel suo progetto, non aveva secondi fini. Ma le cose sono andate diversamente. Al suo funerale mi sono avvicinato a Luca (Eleuteri, il socio di Casaleggio) per salutarlo, lui senza dire una parola mi ha puntato il dito in faccia per venti secondi e mi ha allontanato; forse contava su un presunto accordo di omertà che avrei violato dicendo pubblicamente la mia, ma non sono il tipo».

Che pensa del M5S oggi? 
«Con l’Italicum ha la possibilità concreta di vincere le prossime politiche, e cambiare l’Italia. Dubito in meglio».

Perché è pessimista? 
«Il Movimento nel 2013 è stato votato per nove milioni di motivi diversi, nessuno dei quali era ritrovarsi un gruppo parlamentare impegnato in una guerra per bande e a coprire le proprie bugie, a cominciare dagli stili di vita, tutt’altro che francescani. È nato denunciando i politici che usavano la querela per minacciare i giornalisti, e ora spaccia robaccia sui siti legati al blog, e alimenta cultura della minaccia e diffamazione seriale in rete. Sono diventati la voce del nuovo oscurantismo. Come gli antivaccinisti che attirano i clic sui siti. Al ministero della salute ci mandiamo un antivaccinista? È un sistema che allontana le competenze e attira i ciarlatani».

Alla Casaleggio non dicevate che non c’erano leader? Qui si vede un leader, Di Maio, autonominatosi, e un capo sostanziale, Davide Casaleggio. È così? 
«Autonominatosi al Tg1 peraltro. Secondo Roberto il direttorio doveva solo smistare responsabilità. Invece è stato usato per fini personali e per acquisire potere».

 LEGGI ANCHE - Successione a Casaleggio, patto tra il figlio Davide e Di Maio. Ma la partita è il controllo dei server (di Jacopo Iacoboni) 

Mi fa dei nomi? 
«L’ascesa di Di Maio, che Grillo aveva cercato di fermare dicendo ’non ci faremo imporre il candidato premier dalle tv’, è speculare all’ascesa di Renzi e coltiva di per sé il germe del tradimento. Davvero qualcuno pensa che l’onorevole Di Maio smetterà di far politica a 37 anni, dopo due mandati? Hanno già creato un patto e una casta di intoccabili: tutto quello contro cui Roberto ci spingeva a lottare».

Può fare degli altri esempi? 
«L’uso della tv per la rincorsa del consenso personale e non per il Movimento. Di Battista al Processo del lunedì. Fico che da Formigli dice che il limite del doppio mandato non si tocca, cioè parla a Di Maio anziché ai cittadini. Giravolte politiche impressionanti: l’assessore di Livorno indagato, a cui non si chiedono le dimissioni».

Davide che persona è? È interessato alla politica? 
«Davide non ha nessuna passione politica, a differenza del padre. Roberto aveva costruito il M5s su una suggestione culturale di fondo: Il ciclo dei robot di Asimov. Pensava alle regole del Movimento come alle tre regole della robotica di Asimov: noi mettiamo solo delle regole, non elementi politici, diceva. All’interno di quelle regole poi si sviluppa tutta la dialettica. Davide invece vuole solo raggiungere gli obiettivi che si dà. Mancato Roberto, il Movimento rimane solo un asset dell’azienda: chi lavora sui portali - sul blog e su Rousseau - è assunto dalla Casaleggio, ad essa risponde e lavora anche su altri progetti, estranei alla politica. Io non credo che loro si arricchiscano, ma finanziariamente questo modello sta in piedi grazie alla pubblicità sul blog - che peraltro risulta la sede ufficiale del M5S - e sui siti che il blog sponsorizza. Se vi rinunciano, devono licenziare».

Tutto questo continuerà a gestirlo Davide, non Di Maio? 
«Sì, da quello che mi risulta. Ed è il punto politicamente rilevante».

In che senso? 
«Chi ha i dati gestisce tutto. Per esempio, adesso c’è qualcuno in Casaleggio che può sapere chi dei parlamentari ha votato a favore del direttorio e chi contro. Siamo autorizzati a supporlo perché il codice di Rousseau non è pubblico. L’informazione è potere: se nell’ambito di una comunità alcuni hanno tutte le informazioni, e altri nessuna, questi guideranno i processi in base alle proprie esigenze. Lo dice sempre anche Davide».

L’ANALISI - Il passaggio più difficile per i grillini (di Giovanni Orsina) 

Canestrari, Grillo può non vedere tutto questo? 
«Può non vederlo, sì. Non gli vengono dette cose molto importanti che succedono: per i referendum chiesti dal Vday 2 sarebbero potuti arrivare dei rimborsi referendari. Fui mandato dalla Casaleggio a chiedere una delega in bianco in favore di Beppe per la gestione di questi rimborsi. Il comitato referendario era composto da ragazzi del meet up di Roma. Chiesi a Davide di garantirmi che Beppe ne fosse al corrente. Non ricevetti risposta. Ci incontrammo all’hotel Ripetta, sottoposi il documento al comitato e ci fu uno scontro perché alcuni non volevano firmare. Fu chiamato Beppe, che arrivò e disse di non saperne nulla, e annullò tutto. Capisce? Grillo non sapeva ciò che stavano facendo».

Lei è ancora un iscritto al Movimento? 
«Sì, certo. E proprio perché rimango fedele al progetto di Roberto, che voleva che il movimento controllasse i parlamentari, ho dato vita a un progetto di analisi in rete. La prima tappa è il sito www.maquantospendi.it dal quale ciascuno si può fare la sua opinione. Non ho contribuito a far nascere il Movimento per poi vedere un parlamentare che spende 32mila euro in vitto in tre anni a spese del contribuente».

Che farà Grillo adesso? È obbligato a occuparsi ora di ciò di cui forse non s’è mai occupato? 
«Beppe avrà un ruolo decisivo i prossimi mesi. So che di recente si chiede anche lui se la nostra gente volesse tutto questo. È molto dubbioso lui per primo sul M5S di oggi. Gli manderei un consiglio: pensa bene di chi fidarti, guarda il blog adesso, pieno di pubblicità, ricordati di quando mi chiedevi di convincere Roberto a togliere tutti i bottoni “compra” che non ti piacevano. Quello non è più il Blog, è un asset aziendale. E nessuno voleva un Movimento così».

Versione integrale dell’intervista pubblicata oggi sul giornale 

LEGGI ANCHE - Il “Big bang” dell’incontro di Casaleggio con Grillo trasformò per sempre il web italiano (di Massimo Russo) 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/04/22/italia/politica/ms-tradito-cera-una-comunit-ora-solo-una-guerra-per-il-potere-MRjHH8uf6H08hLKSpjFuwM/pagina.html
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« Risposta #58 inserito:: Giugno 13, 2016, 01:02:46 pm »

Dieci pensieri sul voto nelle città
Virginia Raggi, candidata del M5S in grande vantaggio al primo turno delle comunali a Roma

06/06/2016
Jacopo Iacoboni

Il primo turno delle amministrative delinea un quadro articolato, che provo a fotografare così. 

I. Il Movimento cinque stelle sfonda a Roma, la città dei disastri di Alemanno e la città di Mafia Capitale che tocca il Pd romano, oltre che della defenestrazione di Ignazio Marino (ci torneremo). Accanto alle percentuali di Virginia Raggi, direi che contano molto i voti assoluti al Movimento, per descrivere l’ampiezza di questo risultato. Alle politiche, nel 2013, il M5S prese a Roma 130mila voti. Alle europee del 2014, nonostante la grande vittoria di Matteo Renzi, il Movimento prese 293.241 voti. Ieri ne ha presi 393.483, centomila voti netti in più: un’immensità. È il punto di partenza di ogni analisi, ma anche punto molto impegnativo, una cima difficile da eguagliare e una città, Roma, che fa abbastanza storia a sé, nel bene come (soprattutto) nel male. 

II. I cinque stelle vanno molto bene a Torino, anche qui grazie a una donna, Chiara Appendino, un’ottima candidata per profilo personale, che ha scelto di fare una campagna molto moderata - secondo alcuni anche troppo - andando, anziché verso i temi di sinistra (reddito di cittadinanza), verso quelli di centrodestra (rapporto con le fondazioni, ampia e anche spregiudicata rassicurazione alla città borghese). Il risultato in voti assoluti è anche qui notevole. La progressione di questi anni parla meglio di ogni altra cosa: alle europee il M5S aveva preso a Torino 91mila voti, ieri ne ha presi 107mila. Cinque anni fa, quando Appendino entrò in consiglio comunale, il Movimenti ottenne 21mila voti. Parallelamente, il Pd del sistema-Fassino è passato da 138mila voti cinque anni fa a 106.832 ieri (alle europee, il Pd a Torino aveva preso 189.596 voti.

III. Il M5S resta un Movimento molto disomogeneo territorialmente. Cresce anche a Milano, ma lì non supera il 10 per cento (molto poco, in quella città, per ambire in prospettiva alla sfida delle politiche). E’ basso a Napoli, la città di tre membri del direttorio su cinque. E’ stabile a Bologna, qui anzi con una lieve flessione di voti assoluti, e rimane fuori dal ballottaggio: e considerate che l’Emilia è una terra fondativa dei cinque stelle. Da questo punto di vista, la grande vittoria, anche simbolica, e l’incremento di voti assoluti (quasi universale) del M5S non coincidono con una equa ripartizione della sua presenza diffusa. I cinque stelle restano una forza centrale e centromeridionale, mentre al nord (con l’eccezione di Torino e la Liguria) faticano ancora. 

 IV. Il Pd è in un arretramento sostanziale grave. I numero lo dicono un po’ ovunque, ma l’emorragia è drammatica a Roma. Nel 2013 i democratici presero nella capitale 267mila voti, alle europee del 40% di Renzi addirittura 506mila, ieri ne hanno presi 200mila. Molto pochi in assoluto, anche se - a mio giudizio - Giachetti ha compiuto un miracolo ad arrivare al ballottaggio col quasi 25 per cento. Un mese fa partiva spacciato al 14, secondo i sondaggi, e portando con sé il peso dei disastri del pd romano e delle inchieste di Mafia capitale. 

V. Renzi. Certo ha avuto un ruolo la voglia, assai diffusa in Italia, di dare anche un colpo a Renzi, e a quanto lui tenda a personalizzare ogni battaglia (questa, paradossalmente, l’aveva personalizzata molto meno di altre). Gli errori principali a me paiono due. Uno: il cosiddetto Partito della Nazione si sta rivelando in questi anni un boomerang ovunque, assoluto, kafkiano. O dove si prova a costruirlo (Beppe Sala a Milano è in lievissimo vantaggio, ma in una gara del tutto aperta, e ha concluso davvero col fiatone e spompo), o dove il Pd paga scissioni, lacerazioni, perdita di consensi e nascita di forze politiche alla sua sinistra. Successe in Liguria, successe a Venezia, succede a Torino, a Milano è finita malamente l’era Pisapia, a Napoli, dove ci si è alleati con Verdini. Non pare una politica che stia pagando, almeno nei territori. Chi è convinto del contrario, rimanga sereno a discutere con Verdini e Alfano. 

VI. Il caso Marino. A Roma - e veniamo al secondo errore del premier segretario - il Pd sconta, ne sono abbastanza certo, la penosa defenestrazione di Ignazio Marino, un siluramento deciso nelle segrete stanze, dall’alto e in maniera davvero opaca, di un sindaco eletto, che era rimasto impigliato in storie - come già si sta vedendo - di nessun rilievo penale. Sarebbe bastato non distruggere Marino per evitare il tornante del voto a Roma: senza il quale lo scenario di oggi sarebbe tutto sommato accettabile per Renzi (e al netto di Giachetti che, lo ripeto, ha salvato il salvabile). Ps. Marino, e quel che restava delle sue basi elettorali, l’hanno ovviamente fatta pagare come potevano, o non votando, o votando direttamente Raggi. 

VII. A Roma colpisce assai che il Pd vinca solo in tre municipi (due dei quali centro e Parioli), e oltre le mura perda ovunque. Un partito salottizzato e cricchizzato. 

VIII. I candidati. Il Pd - tolto secondo me Giachetti - non è in grado di imbroccare un candidato interessante e almeno relativamente fresco che è uno. Il Renzi della rottamazione presunta ci ha proposto: Fassino, Beppe Sala, l’oscura burocrate Valente, e l’usato (abbastanza) sicuro Merola. Uau, che appeal (senza contare i tratti di profondo conservatorismo, o di vera svolta moderata, di queste scelte). Pensate invece ai due posti dove il Movimento vince, Roma e Torino (altrove, ripeto, non va affatto così trionfalmente): schiera due volti interessanti, che funzionano, due donne che hanno un profilo molto più divertente anche da raccontare; qualunque cosa pensiate, naturalmente, del loro spessore politico, delle loro scelte politiche, delle loro frequentazioni, dei mondi (spesso di centrodestra) che le hanno accompagnate, o di tutte le ambiguità del partito-azienda e della Casaleggio, che più volte abbiamo riccamente documentato. 

 

IX. Il centrodestra. Mi pare che, se unito, esiste eccome: basti solo il caso di Milano a dimostrarlo: ha il problema di trovare un leader competitivo, come nel capoluogo lombardo è riuscito a fare. Ma non è scomparso affatto dall’Italia, attenzione. 

X A Roma, tutto l’opposto: Meloni e Marchini insieme avrebbero largamente garantito i voti per andare al ballottaggio, ma la rissa Berlusconi-Salvini ha reso impossibile una mediazione su un nome comune. Meloni resta figura chiave per il ballottaggio di Roma. Qui risulta che lei personalmente non ami affatto la Raggi (raccontano che le stia cordialmente antipatica), ma i suoi elettori? Molti sembrerebbero non così distanti da pose anti-establishment (e addirittura dure con rom me migranti) dei cinque stelle. Giachetti può lavorare sulla rete che porta all’elettorato di Marchini (Toti, Ranucci, propaggini varie di rutellismo), e deve provare a convincere almeno una fetta dei sostenitori di Giorgia. Un’impresa non impossibile, ma certo, molto, molto in salita. 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/06/06/italia/speciali/elezioni/2016/amministrative/dieci-pensieri-sul-voto-nelle-citt-vtuCzFUpXJXUQm0UxqQUYJ/pagina.html
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« Risposta #59 inserito:: Giugno 18, 2016, 11:55:14 am »

Il comunista Piero dai gesuiti a Marchionne
Di Fassino restano le profezie tutte sbagliate contro l’M5S e lo storico ‘abbiamo una banca’ riferito allo scandalo Unipol. Negli anni è stato virtualmente candidabile a tutto – dalla Consulta fino al suo sogno inconfessabile: il Quirinale – alla fine si è dovuto accontentare della poltrona di sindaco del capoluogo piemontese: dalle giovanili del Pci alla Fabbrica, storia di un uomo che vuole blindare il sistema Torino. Un sistema dominato dalla subalternità alle banche e da un patto cinico tra il rottamatore Renzi e l’ex studente dei gesuiti.

Di Jacopo Iacoboni, da MicroMega 2/2016

Le profezie che si autoavverano

A Torino la chiamano la «Seconda profezia di Fassino». In una seduta molto accesa del consiglio comunale, durante la quale si discuteva del consuntivo di bilancio del 2015 del Comune, davanti alle obiezioni insistenti di Chiara Appendino – la consigliera di minoranza che oggi lo sfida come candidata sindaco del Movimento 5 stelle – a un certo punto il sindaco democratico sbotta in uno dei suoi classici scatti e le fa: «Io mi sono seccato dei suoi giudizi presuntuosi, e anche fondati sull’ignoranza. Un giorno lei si segga su questa sedia e vediamo se sarà capace di fare tutto quello che oggi ha auspicato di saper fare». Lo disse roteando le mani a palme distese, gli occhiali da presbite nella mano destra, un gesto che fa spesso come a dire «via via, toglietevi di torno seccatori». Il momento avrebbe dovuto esser grave o almeno teso, in realtà quasi tutti scoppiarono a ridere; persino i consiglieri di maggioranza seduti nelle vicinanze del sindaco. Il quale poco dopo concesse, un po’ da sovrano assoluto come nelle costituzioni octroyées: «E comunque lo decideranno gli elettori». Il fatto è che la battuta calata dall’alto era troppo simile alla più sciagurata profezia politica della storia recente della sinistra italiana, che passerà alla storia, appunto, sotto il nome di «Prima profezia di Fassino». Era il 2009, l’ultimo segretario dei Ds era ospite della Repubblica quando, intervistato su Beppe Grillo che aveva chiesto di prendere la tessera del Pd in Sardegna, rispose: «Un partito non è un taxi sul quale si sale e si scende, è una cosa seria. Se Grillo vuol fare politica, fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende! Perché non lo fa?». Dopo, pare di poter dire, l’ha fatto.

Ma sarebbe solo una battuta, quella di Fassino. Se non fosse che è sintomatica della sordità di un’intera generazione di dirigenti dell’apparato comunista italiano, e di un atteggiamento e un tic ca-ratteriale del sindaco del Pd. Alla fine il sindaco uscente si ricandida per guidare Torino, cosa che lui deve vivere già di per sé come una sconfitta, vista la considerazione che il personaggio ha di sé, e dopo esser stato virtualmente candidabile a tutto – dalla Consulta fino al suo sogno a qualcuno confessato: il Quirinale – ed esser rimasto con un pugno di mosche in mano; ma Fassino una forma di alterigia la eredita da tutta la storia, comunista d’apparato e poi postcomunista, da cui proviene: quella totale convinzione che «il partito siamo noi», «la sinistra siamo noi» e che «ciò che è fuori di noi è comunque nulla», nulla salus extra nostra moenia. A volte la declina in modi che possono far sorridere, oppure anche aggressivi verso chi gli capita a tiro, ma è un atteggiamento di fondo, che con il renzismo, in maniera solo apparentemente paradossale, si è sposato infine benissimo (i due si sono alleati in maniera singolare, ma persino naturale, e ci torneremo).

Questo atteggiamento riemerge ciclicamente nella vicenda personale di Fassino, un fiume carsico, qualcosa che non riesce mai a tenere a bada e assomiglia da vicino a una forma di arroganza del potere. Fassino del resto ci è nato, se per potere intendiamo naturalmente la segreteria del Partito comunista, quando ancora era una cosa seria e a suo modo anche un po’ terribile, o ancora prima le scuole frequentate, i gesuiti a Torino, oppure dopo, da ragazzo e poi da giovane funzionario comunista, il rapporto con la fabbrica e con il mondo della grande azienda: ovviamente, la Fiat. Fu la vicinanza alla segreteria del partito, che coltivò fin da quand’era piccolino – e forse prima ancora la scuola dei gesuiti a Torino – che gli insegnarono qual era la sua collocazione naturale; quale che poi fosse, di volta in volta, quel potere, fino ad arrivare nei momenti più involutivi della sua carriera a una forma di accorta ma anche implacabile conservazione di un sistema di potere, qual è quello che lascia la sua gestione torinese.

Un comunista ‘contro il comunismo’?

Enrico Berlinguer aveva già messo gli occhi addosso a quel ragazzo e lo voleva alla guida della Fgci, poi lui rifiutò, come ha raccontato nella sua biografia Per passione, «aprendo così la strada» a Massimo D’Alema (Fassino, particolare interessante sulla sua psicologia, ha scritto una sua biografia quando aveva 54 anni). Il suo avvicinamento alla politica avviene nel ’64, con il gruppo di Aldo Agosti, la rivista Nuova Resistenza e poi il movimento studentesco, anche se Fassino – come i suoi compagni di scuola – sulla sua iscrizione al Pci si è riraccontato la storia a cui voleva credere: «Mi iscrissi al Pci dopo l’invasione di Praga, che il partito condannò. In questo senso ho detto che mi sono iscritto “contro il comunismo”: se quella condanna non fosse venuta, forse io non sarei arrivato». Insomma, se Veltroni non era mai stato comunista, Fassino fu comunista «contro il comunismo».

E se è vero che è di Berlinguer ai cancelli della Fiat nel 1980 la foto che si porta più gelosamente dietro nei vari uffici che l’hanno ospitato, anche a Palazzo di città a Torino, bisogna pur dire che questa tendenza a riscrivere la propria storia lampeggia abbastanza spesso nella carriera di Fassino, assieme a quella parallela a cambiare opinione in base al mutare degli scenari. Il primo caso è abbastanza facile da illustrare: marcia dei quarantamila, Torino 1980. Il 26 settembre Berlinguer va a Torino e davanti ai cancelli a Mirafiori pronuncia la celebre frase sull’appoggio logistico del Pci una eventuale occupazione della Fabbrica. Il 27 ottobre cade il governo Cossiga e la Fiat trasforma i licenziamenti in cassa integrazione. Bene: se chiedete a Fassino, allora responsabile del Pci per le fabbriche, come andò quella trattativa, la sua risposta oggi è che «il Pci allora cercò di convincere il sindacato ad accettare l’offerta», una linea che «non passò per via del clima che si era creato». Insomma, come se lui fosse da sempre stato il grande riformista disposto al saggio dialogo coi poteri e la grande industria, «nell’interesse dei lavoratori». Se fate la stessa domanda a Fausto Bertinotti, che allora era segretario della Cgil piemontese, la storia diventa tutta diversa: «Se l’hanno pensato nelle segrete stanze del Pci se lo sono detto tra di loro. Io non l’ho mai sentito».

Il secondo caso – i cambi d’idea anche repentini di Fassino – può essere illustrato con un salto in avanti che ci porta d’imperio ai giorni nostri. Di Fassino su Grillo abbiamo detto, non ha cambiato idea ma è stato profeta di sventura; ma bisognerà dire anche qualcosa di Fassino e Renzi, e di Fassino su Renzi. Nell’autunno del 2012, durante le primarie tra Bersani e l’allora sindaco di Firenze in vista della candidatura a premier alle politiche del 2013, Fassino si schierò senza esitazioni con Pierluigi Bersani, guarda caso il vincitore praticamente certo di quella primarie, avendo dietro di sé le coop, le regioni rosse e tutto l’apparato; Fassino, allora, andava dicendo cose assai tranchant sul rottamatore: «Renzi? Ha una grande capacità mediatica, ma penso che il paese abbia bisogno di una guida esperta e forte. Io sono per Bersani, che ha queste caratteristiche». Poi, nella primavera del 2013 – non un secolo dopo – in seguito alla «non vittoria» di Bersani, e a metà del guado della sofferta esperienza di Enrico Letta, Renzi era diventato d’incanto «l’uomo forte che rappresenta la capacità di novità». Lo disse al Foglio, che parve il luogo migliore per registrare la conversione di Fassino sulla strada del renzismo. Grande esultanza dei berlusconiani di quel giornale, che vedevano infine sdoganata la loro storia e trasferita sul piano della presentabilità sociale a sinistra.

Il voto di Torino nella prossima primavera rappresenta l’ultimo capitolo di questa conversione, e di un patto di ferro tra Renzi e Fassino che ha fatto a un certo punto sperare, al secondo, nientemeno di poter giungere al Colle; ma a Renzi Fassino serve solo per blindare il sistema Torino, e questo è: prendere o lasciare. Se vogliamo ricercare e raccontare i prodromi, o almeno i segni anticipatori, di questo patto nella storia personale dell’ex segretario dei Ds, sono appunto in questa costante esperienza fassiniana dalla parte dell’esercizio del potere; unita a quella componente di esprit sabaudo che, anziché nella vocazione gobettiana o bobbiana, s’incarna nell’attitudine militare o militaresca, dunque nell’abitudine mentale all’obbedienza da ragazzi, e al dare ordini da vecchi. Fassino lavora tanto. Sgobba, anche. Il che lo rende piuttosto diverso dai comunisti e postcomunisti romani. Non si può dire sia refrattario ai potenti. La formula è «attitudine al dialogo»: «Io mi sono occupato di Fiat per diciassette anni, e ho sempre seguito la massima: “Quando in fabbrica c’è un problema o lo risolvi tu o lo risolve il padrone”. Insomma: mai tirarsi indietro e cercare sempre soluzioni».

L’esito finale di questo approccio è stato un rapporto diretto con Sergio Marchionne, con il quale capita che si vada anche a cena, sempre nello stesso ristorante, la saletta riservata al Vintage; ma insieme sono stati avvistati, non una volta sola, anche in piazza dei Mestieri, la sede della Compagnia delle Opere. La Fiat e Cl. A suo tempo vi fu, anche, un certo annusarsi – sia pure più a distanza – con Giovanni Agnelli. Quando nell’83 Fassino venne eletto capo della federazione del Pci a Torino, disse che «l’avvocato Agnelli volle conoscermi appena venni eletto. Fu una lunga chiacchierata, molto simpatica. Mi disse: “Senta Fassino, io capisco tutto. A Torino ci sono tanti operai e voi siete il partito che li rappresenta. Ci scontriamo, ci mettiamo d’accordo, capisco tutto: comunista Torino, comunista Milano, ci sono le fabbriche. Ma una cosa non capisco: perché ci sono i comunisti a Roma e a Napoli?”».

Dalle chiacchierate «molto simpatiche» col sovrano al canale con Sergio Marchionne il passo è stato persino più breve del previsto. Torino si è sempre governata presidiando i vertici di questo triangolo: il Pci, la Fiat, la procura. La borghesia intellettuale della città non ha fatto altro che fare il pendolo, alternativamente, dentro questo triangolo. Gli anni del terrorismo hanno costruito uno schema che poi nel tempo s’è modificato, ma non distrutto; diciamo che s’è aggiornato. Ma a Torino la Procura ha rappresentato un elemento di questo scenario, più che un fattore di rupture, reale o possibile, come a Milano – dagli anni di Tangentopoli a oggi.

L’uomo-sistema

E dire che la partenza familiare del sindaco conteneva premesse potenzialmente diverse. Il nonno materno, Cesare Grisa, socialista, e sindaco di Almese, il padre, Eugenio, capo partigiano. Il nonno paterno, Piero, ucciso dalla Brigate Nere. Anche Eugenio, suo padre, morì giovane, nel ’66, quando Fassino aveva solo 17 anni. Lo avvisano i suoi insegnanti gesuiti, e la condizione di orfano non può non aver pesato, psicologicamente, in questa biografia. C’è però un altro particolare curioso, in questa provenienza così antifascista e valsusina, di cui indirettamente bisognerà tenere conto: Fassino ha raccontato al Corriere: «Papà è stato il mio maestro di politica. Era amico di Craxi ma militava nella piccola corrente giolittiana». Bettino Craxi di cui proprio Fassino – da segretario dei Ds – avviò una sciagurata riabilitazione a sinistra. Ida Dominijanni a inizio 2006 scriveva: «Piero Fassino ha ribadito in questi giorni la sua rivalutazione del “politico della sinistra”, del “rivitalizzatore del Psi”, del primo leader ad aver intuito “il bisogno di modernizzazione economica e istituzionale” dell’Italia, dell’uomo di Stato che seppe decidere su Sigonella e sulla scala mobile; una mole di meriti che rende davvero imperscrutabile perché, come lo stesso Fassino ammette, il Pci-Pds-Ds-Pd abbia reso possibile farne il “capro espiatorio” di quel sistema di finanziamento illecito dei partiti sul quale “mancò allora una seria riflessione”».

Lo studente dei gesuiti, il diciassettenne orfano di papà, il funzionario comunista, il politico di manovra, il segretario diessino, il rivalutatore di Craxi, l’alleato di Bersani e subito dopo di Renzi, il costruttore di una rete di potere che è quella della Torino 2016, delineano un prisma che però si unifica in un tratto: più che quello del «grande riformista», quello dell’uomo-sistema, e una fortissima ambizione sabauda, sia pure celata dai panni del gregario, dell’«onesto Fassino», del «Piero che a Roma arriva a Botteghe Oscure all’alba», o del Piero che a Torino negli anni Settanta aveva il vezzo di mettere le sedie a posto dopo le assemblee del Pci. Pochi lo ricordano, ma in tutti questi anni Silvio Berlusconi, di cui è stato straraccontato il celebre «inciucio» con D’Alema sulle riforme e sulla tv, è stato a un congresso postcomunista soltanto quando il segretario era Fassino. Accadde a Firenze, nel 2007. Fassino presentava la mozione «Per il partito democratico». Antiche amicizie – quella sua e soprattutto di D’Alema, per esempio, con Fabio Mussi o con Gavino Angius – si rompevano, e chi c’era quel giorno incredibilmente ad applaudire il segretario Piero? Silvio Berlusconi. Gli piacque molto il discorso di Fassino, il partito retto da quel piemontese di Avigliana gli riservò un’accoglienza discretamente calorosa e il Cavaliere alla fine sottolineò la «volontà coraggiosa» di Fassino, il tratto ormai compiutamente socialdemocratico dell’ormai imminente Pd che si delineava, fino a concludere: «Se è questo, al 95 per cento sarei pronto a iscrivermi pure io». Lo incrociammo mentre stava risalendo in macchina e il Cavaliere fu ancora più prodigo: «Vede, questa gente non mi odia, anche il loro segretario mi ha conosciuto e non mi odia più, chi mi conosce non mi può odiare».

‘Abbiamo una banca’

Che fosse in atto una mutazione politica del mondo del comunismo italiano era evidente da un pezzo, che ce ne fosse un’altra, per dirla pasolinanamente, antropologica, e dal punto di vista sabaudo, anche umana, non era così palese; almeno non nelle proporzioni. Nessuno in quei giorni ricollegò quegli elogi di Berlusconi, o la revisione del craxismo, col fatto che «l’onesto Piero» s’era incagliato, neanche un paio di anni prima, nel caso dell’«abbiamo una banca». Il 31 dicembre del 2005 il Giornale pubblicò il testo di alcune telefonate di Fassino con Giovanni Consorte, il manager Unipol che stava dando la scalata a Bnl (non distante da una parallela, grottesca scalata dei furbetti del quartierino Ricucci e Coppola nientemeno che al Corriere della Sera), e fece sensazione che Fassino – che non commise nessun illecito, non fu neanche indagato e anzi, si costituì parte civile e ottenne ragione per la pubblicazione della telefonata da parte del quotidiano di Paolo Berlusconi – con quell’«abbiamo una banca» si mostrasse anche linguisticamente così succedaneo e, ora sì, gregario, a miti e tic di un rampante capitalismo da razza padana, o addirittura razza furbetta.

Dieci anni dopo i tempi dell’«unica merchant bank dove non si parla inglese» (la Palazzo Chigi attorno a Massimo D’Alema, nella celebre battuta di Guido Rossi), la sinistra dell’«abbiamo una banca» aggiungeva una variante tragicomica e altrettanto suicida, con quella battuta. La destra ovviamente la cavalcò e ci andò a nozze. Ma in quel che restava di una sinistra che avesse ancora a cuore il concetto di democrazia radicale, la cosa non poteva piacere né esser scusata. Barbara Spinelli, che per D’Alema aveva usato l’espressione di «disincanto etico», per Fassino scrisse che era un caso di «inebetita ignoranza». Da un certo punto di vista, grave più di un reato. Fassino fu sempre restio ad ammettere l’errore. Disse, al massimo: «Penso che ci sia molta cattiveria e ingenerosità nel modo in cui vengono utilizzate delle telefonate del tutto innocue. Io posso forse accettare di discutere dell’opportunità di quelle telefonate, ma non costituiscono certo né un reato né alcuna forma di illecito». Posso «forse».

Le banche non erano un pallino di un momento. Se c’è una partita sulla quale, saltando per un momento all’oggi, il sindaco uscente si gioca tutto è appunto l’asse che dal comune porta a Intesa San Paolo, passando per la sua fondazione, Compagnia di San Paolo. Il comune che Fassino e soprattutto, prima di lui, l’assessore al Bilancio della giunta precedente, Gianguido Passoni, lasciano in dote al futuro è gravato di una mole preoccupante di debiti, che oggi è a quota 2,9 miliardi. Un indebitamento che grava tantissimo sulle casse del comune, costringendolo a tagli dolorosi anche nelle politiche sociali e ipotecando qualsiasi politica. Fassino ha motivato questa scarsità di risorse con la situazione di crisi generale, i vincoli di bilancio, i tagli dei trasferimenti decisi (anche) dal governo Renzi, senza mai menzionare o ridiscutere la politica di investimenti in derivati fatta dalle giunte precedenti del Pd. Ma è interessante notare come si è attrezzato per fronteggiarla: da una parte, rigorismo massimo nei conti e taglio drastico anche in servizi essenziali – perfino un’antica eccellenza torinese, come i nidi scolastici, è ormai assediata dalla carenza di risorse e con un rapporto educatori-bambini che comincia a sfiorare l’uno a sei. In alcuni nidi storici della città, per l’impossibilità economica e normativa di gestire il turn-over degli insegnanti, si può arrivare alla situazione limite: classi di 18 bimbi con due sole educatrici, uno stato di cose insostenibile e potenzialmente pericoloso.

Dall’altra, c’è stato un asse sempre più stretto e ormai sempre più amicale – considerando che stiamo parlando di una città che ormai non arriva al milione di abitanti, quindi un piccolo salotto, un bellissimo centro, circondato da periferie impoverite e spaesate – col grande potere bancario della città, la Compagnia di San Paolo, primo azionista della prima banca italiana, e il più grande investitore sul territorio. Le cifre le dà l’attuale presidente, Luca Remmert, quando dice che la «Compagnia anche nell’ultimo anno è stato attore fondamentale del territorio con oltre 153 milioni di euro di stanziamenti per il 2016».
In pratica non c’è quasi attività nella ricerca, nella formazione, nella scuola, persino nella salute, che a Torino di fatto non sia finanziata dalla Compagnia, anziché dal comune, la cui spesa se ne va di fatto quasi esclusivamente per la pura gestione ordinaria. Ecco perché detenerne le chiavi significa controllare il futuro politico del comune, quale che sia il sindaco che uscirà vincitore dalle urne. E qui, inesorabilmente, il sistema torinese si è compattato, facendo scudo all’idea che potesse non vincere il partito-sistema.

Col pretesto che il consiglio della Compagnia andava in scadenza, e sostenendo che fosse impossibile rimandare le nomine (l’indicazione del presidente spetta per prassi al sindaco di Torino), Fassino ha iniziato una serie di pour parler il cui risultato, espresso a qualche importante interlocutore cittadino, era l’intenzione di nominare alla guida della Compagnia Francesco Profumo, rettore del Politecnico, grande amico di Fassino, e jolly del Pd in tutte le partite di potere sabaude (a un certo punto si era anche pensato di poter candidare lui, nel 2010, poi prevalse Fassino).

Piccolo particolare: Profumo era già presidente di Iren, la potente società municipalizzata dell’energia di Torino, Genova e dell’Emilia, una spa quotata in Borsa (nel 2014 ricavi per 2,9 miliardi) ma anche, per vincolo statutario, a controllo pubblico. I comuni, con Torino in testa, ne decidono i vertici, e Iren a sua volta ne finanzia molte attività, con sponsorizzazioni e progetti di marketing territoriale (12 milioni nel 2014). Ecco perché il controllo di Iren e della Compagnia e l’influenza su Intesa Sanpaolo sono così strategici. Detenere, con Profumo, anche le leve dell’investimento cittadino della Compagnia avrebbe delineato un conflitto d’interessi improponibile, ma l’idea era di sondare la cosa, e magari tentarci nel più assoluto silenzio. Una denuncia di Giorgio Airaudo, che corre con una lista alternativa al Pd, e potrebbe «riaprire la partita» costringendo Fassino a un ballottaggio difficile – denuncia alla quale si è associata Chiara Appendino, la candidata 5 stelle – e soprattutto un’inchiesta della Stampa, hanno poi costretto Fassino ad annunciare che Profumo se voleva salire in Compagnia avrebbe dovuto lasciare la guida di Iren.

Raccontano a Torino che un paio di giorni dopo, il sindaco fosse infuriato con Profumo, che gli aveva nascosto di essere, anche, candidato alla presidenza del Cnr. Mentre Profumo, che dopo l’inchiesta della Stampa s’è chiuso nel più totale silenzio, era arrabbiato perché Fassino non gli aveva detto niente di quell’uscita pubblica (che in effetti non era concordata) sul conflitto d’interessi del rettore. Quel giorno, a Torino, c’era con Remmert anche Giovanni Bazoli, che passeggiava ammirando le opere pittoriche della Quadreria all’educatorio Duchessa Isabella della Compagnia di San Paolo in piazza Bernini. E, un po’ distante, il segretario della Compagnia, Piero Gastaldo, legato a Sergio Chiamparino, desideroso di giocare anche lui una partita.

Il Partito della nazione in salsa sabauda

In generale, il sistema della fondazioni culturali rappresenta uno dei luoghi opachi dello spoils system della città: stipendi, superstipendi, criteri di nomine, tutto finisce quasi sempre appannaggio dello stesso giro di persone, più o meno dai tempi di Valentino Castellani: centoventi bocche che si spartiscono incarichi ben pagati, e non particolarmente faticosi. Chiara Appendino, la candidata dei 5 stelle, ha promesso: «Andremo a vedere tutto, il comune farà una conven-zione: per dare soldi alle fondazioni, loro dovranno rispettare criteri di trasparenza, bilancio, costi del personale. Oggi non esiste nulla, arbitrio puro. Inaccettabile, per dire, che un consigliere nominato prenda uno stipendio più alto dei manager comunali». In questi in-carichi di solito il 70 per cento va alla maggioranza (di centro-sinistra), ma un lauto 30 all’ormai palesemente finta opposizione di centro-destra. Finta perché questa volta Fassino – per fronteggiare il rischio di una perdita dei voti a causa della lista di Airaudo – ha spinto oltre ogni limite la sua disponibilità manovriera: si è alleato con una serie di liste che vanno da quella di «sinistra» (diciamo) dell’ex assessore al Bilancio, a quel che resta dell’Italia dei valori, fino al sostegno esplicito di Enzo Ghigo (l’ex proconsole di Berlusconi a Torino) e di Michele Vietti, l’amico di Angelino Alfano, crocevia degli studi avvocatizi della città. La versione torinese del Partito della nazione di Renzi.

Questa è insomma la Torino di Fassino, la Torino che Renzi non può permettersi di perdere perché in altre città rischia ancora di più, e perdere qui sarebbe una Caporetto definitiva; e queste alcune delle sue dinamiche non note allo sguardo più distratto, le tipiche dinamiche di un sistema di potere chiuso, che non riguarda però una bega cittadina, ma il controllo della prima banca italiana, sull’asse Torino-Milano, i conseguenti assetti di potere che ne possono derivare. Contestuale alla nomina in Compagnia ci sarà quella in Intesa San Paolo, dove l’idea è riconfermare Gian Maria Gros-Pietro.

In questo quadro le elezioni torinesi sono solo un elemento della fotografia, e neanche il principale. La scena è dominata dai soldi, ipotecata dalle nomine in scadenza di mandato, offuscata da un patto cinico tra il rottamatore e l’ex studente dei gesuiti, che ha scelto di farsene perno. Una sera di carnevale del 2002, in piazza Navona a Roma, Nanni Moretti pronunciò la sua invettiva politica più famosa, «con questi dirigenti non vinceremo mai!», e fece pure il gesto di indicarli. La frase, storicamente, fu appioppata a D’Alema, ma pochi sanno che in prima fila a Roma, quel giorno, in corrispondenza del dito di Moretti c’era proprio Piero Fassino.

(28 aprile 2016)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-comunista-piero-dai-gesuiti-a-marchionne/
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