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Autore Discussione: JACOPO IACOBONI. -  (Letto 62989 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Luglio 01, 2016, 05:29:10 pm »

Rodotà: quando i referendum diventano un boomerang
Il giurista smonta il mito della democrazia referendaria: “L’errore di Cameron è stato usare la consultazione per fini politici, attenti a non ripeterlo anche in Italia”
Stefano Rodotà: «Il referendum senza vera informazione diventa una distorsione. I costituenti italiani erano stati più accorti, previdero una lunga fase, dall’inizio della campagna referendaria e il voto, che generalmente va da gennaio a giugno»

27/06/2016
JACOPO IACOBONI
ROMA

«Questo referendum è stato brandito da Cameron per ragioni interne al suo partito, un uso del tutto strumentale di uno degli istituti giuridicamente più delicati. Ma così facendo il referendum diventa - da strumento di democrazia diretta e partecipazione - lo strumento distorcente di un appello al popolo, peraltro un popolo disinformato. E muore».
 
Professor Rodotà, la vicenda del referendum sulla Brexit - e oggi i tre milioni di firme, il premier scozzese Sturgeon che prova a fermare l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, e anche molti laburisti che ricordano che dovrà comunque decidere un voto del Parlamento - ecco, tutto questo logora definitivamente il mito della democrazia referendaria? 
«Una situazione analoga a quella attuale si creò in Francia nel 2000, all’epoca del referendum sul trattato costituzionale. Io, da estensore della Carta dei diritti fondamentali, partecipai a quella campagna referendaria francese; ero a favore del sì, consapevole dei limiti di quel testo, e mi trovai dinanzi anche tanti amici socialisti francesi, gente con cui avevo collaborato alla stesura, che mi dicevano “eh no, votiamo no perché Fabius...”, “eh no, votiamo no perché l’idraulico polacco...”. Anche allora, come oggi in Inghilterra, il referendum fu strumentalizzato neanche per interessi nazionali, per interessi di un partito. È il primo punto da capire».
 
Qual è il secondo? 
«Proprio nella carta dei diritti, giugno ’99, ma anche nel Trattato di Lisbona, si scrisse che fondamentale non è solo il “mercato comune”, ma la costruzione di un “popolo comune” europeo. L’Unione avrebbe fallito se fosse rimasta alle procedure economiche, senza creare procedure di legittimazione popolare, cioè senza la politica. Il caso Grecia è stato esemplare. Il principio di solidarietà, che è nel trattato di Lisbona, è stato ridotto all’interesse nazionale; il “popolo comune” non è mai nato».
 
L’informazione e il sistema dei media non sono stati complici? Il referendum sulla Brexit è stato costellato di bugie scandalose, si è lasciato dire a Johnson che in caso di uscita dall’Ue in Gran Bretagna sarebbero calati d’un colpo i migranti di 350mila unità... 
«Il referendum senza vera informazione è una distorsione. I costituenti italiani erano stati più accorti, previdero una lunga fase, dall’inizio della campagna referendaria e il voto, che generalmente va da gennaio a giugno».
 
Il Labour ora si appella a un voto del Parlamento, ma la strumentalizzazione di cui Cameron è stato campione forse non ha lasciato del tutto indenne Jeremy Corbyn, troppo silenzioso, non trova? 
«Corbyn ha pensato che non gli conveniva fare campagna dura per il Remain, perché in qualche modo il Remain avrebbe vinto comunque, sia pure di poco, e lui non si sarebbe alienato i voti dei più scontenti. Ma questo è un altro modo di strumentalizzare il referendum, piegare un istituto delicatissimo a calcoli interni a un partito».
 
Non pensa che bisogna essere meno ottimisti, a questo punto, sull’idea di democrazia diretta, referendaria? In Italia questa idea è agitata molto soprattutto dalla propaganda M5S. 
«Io, tolto quello del 2 giugno, i referendum li ho fatti tutti, e obiettivamente c’è un degrado. Ci sono anche esempi di referendum positivi, che hanno aumentato la partecipazione, penso a quello sull’acqua. Ma un referendum male usato produce un effetto divisivo fortissimo: il rischio qui è creare non uno, ma due popoli europei totalmente separati».
 
Andiamo verso un referendum italiano in cui penso si scontrino due propagande, quella di Renzi, palese, e quella del M5S, meno denunciata. È possibile, in questo quadro, aspettarsi qualcosa di buono? 
«Ormai l’ambiente informativo è molto più sensibile alle suggestioni, e alla propaganda, di quanto non fosse anche nel passato recente. Siamo, direbbe il titolo di un bel libro di Emilio Gentile, in una Democrazia recitativa, in cui è più la recita che l’informazione. In questo quadro il referendum, da forma di democrazia diretta dei cittadini, si trasforma nell’appello al capo e alla folla. Renzi ha commesso l’errore di cavalcare questo quadro, che gli si può ritorcere contro».
Oltre al Capo, infatti, c’è la Folla informe, diceva Canetti.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/06/27/italia/politica/rodot-quando-i-referendum-diventano-un-boomerang-JuXpMSRHAkJH5mE0mawMrL/pagina.html
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« Risposta #61 inserito:: Luglio 04, 2016, 12:46:38 pm »

Il Manuale Cencelli del M5S.
La corrente Lombardi e la zona grigia contro Virginia
Documento esclusivo: Urbanistica, Patrimonio, Bilancio tutti i nomi nelle Commissioni per accerchiare la Raggi
La sindaca è alle prese con le difficoltà di far quadrare giunta, capo di gabinetto, portavoce.
E nelle commissioni è osteggiata dalla cordata Lombardi (che trova convergenza d’interessi con Di Maio), e deve mediare con quella centrale, e quella dei talebani

04/07/2016
Jacopo Iacoboni
Roma

La partita dell’accerchiamento a Virginia Raggi, che abbiamo denunciato per tempo giovedì e venerdì, è giunta a due nodi cruciali: le nomine delle commissioni, vero asse del potere e sottopotere capitolino, e un attacco molto forte sferrato contro Daniele Frongia, da poco nominato capo di gabinetto e già in bilico. Sulle commissioni, La Stampa è venuta in possesso di un documento notevole, una specie di manuale Cencelli con tutte le caselle, di cui possediamo copia, che fotografa quanto sia accerchiata in questo momento Virginia Raggi. Un Cencelli di cui daremo tutti i nomi, e la spiegazione delle dinamiche di fondo ad essi sottese. 

Il punto di fondo è che la Lombardi (la ex Faraona tornata molto in spolvero, bisogna dargliene atto, e capace di legare con Luigi Di Maio) ha messo gli occhi su tre commissioni chiave: Urbanistica, Patrimonio e Casa e Bilancio. Nella prima ha stravinto: Virginia incassa, sì, la presidente, Donatella Iorio, architetto competente ma non politicamente abilissima, ma circondata da figure o lombardiane, o di quella vasta zona grigia - la corrente centro Movimento - abbastanza disponibile a trattative politiche al ribasso. Simona Ficcardi è della corrente Marcello De Vito (il braccio armato della Lombardi). Daniele Diaco, bravo ragazzo, tende però a seguire le indicazioni di Luca Marsico. E chi è Luca Marsico? 

Ex aspirante sindaco, voleva sfidare De Vito ma fu a suo tempo silurato brutalmente dalla Lombardi. Con queste modalità: salì a Nervi da Grillo portandosi il figlio piccolo. L’incontro fu assai umano e finì a pacche sulle spalle. Seguì giro di telefonate da Roma a Milano e Genova, risultato: Marsico, dopo l’incontro assai umano, fu silurato selvaggiamente, eppure oggi è diventato esecutore della Lombardi; una triste vicenda sintomatica delle dinamiche umane nel Movimento. Annalisa Bernabei è un caso incredibile: da non molto nei cinque stelle, ha rinunciato alla corsa da sindaco e preso poi un boom di voti personali per una new entry; come se avesse ricevuto grossi consensi di legittimi gruppi d’interessi. Poi c’è Fabio Tranchina: durante il confronto su Sky, Roberto Giachetti denunciò il video del consigliere M5S che abbandona la commissione municipale subito dopo aver firmato la presenza. Tranchina ha resistito a quella bufera su di lui, è considerato nelle logiche interne un centrista - esistono i centristi anche nel M5S - molto disponibile alla trattativa. E questa sarà la commissione urbanistica del nuovo comune. 

Alla presidenza della commissione Patrimonio e casa doveva andare Valentina Vivarelli, una talebana, rigida ma indipendente; si è scambiata con Maria Agnese Catini, nome molto più giocabile per la Lombardi, che presidia poi i sei posti per commissario del M5S anche con Marcello De Vito in persona, e di nuovo con la Ficcardi (che sarà oltretutto vice). Alla commissione Bilancio il presidente Marco Terranova è della Raggi, ma è anche legato a Luca Marsico (leggete sopra). Lombardi piazza anche qui De Vito, e c’è Monica Montella, ricercatrice Istat ma in rotta con Daniele Frongia (l’uomo più vicino alla Raggi). Anche qui grandi margini di manovra per la Faraona (gli altri nomi non paiono in grado di incidere, Coia non versato nelle decisioni, Angelo Sturni appartenente - con Calabrese e Angelo Diario - a quella corrente “utopica” del Movimento molto rispettabile, ma poco incisiva nelle dinamiche).

In questo quadro, sa di vittoria marginale che Virginia si sia assicurata quasi integralmente la commissione scuola (Maria Tereza Zotta presidente) con commissari suoi come Terranova e Iorio, e indipendenti come Vivarelli e Gemma Guerrini, una di sinistra; specie se pensiamo che poi, per dire, all’Ambiente (altra commissione cruciale, a Roma) ci sarà Diaco presidente (leggete sopra), e certo sarà assai attivo Paolo Ferrara, consigliere M5S di Ostia, molto discusso, e interessatissimo indovinate a cosa? Naturalmente, alle spiagge. Ferrara, uomo totalmente della corrente Lombardi, è stato tra parentesi assai attivo in queste ore a fare telefonate per sondare la disponibilità di qualche personaggio a fare il capo di gabinetto. Ma come, direte, un capo di gabinetto non c’è già?

A Daniele Frongia, lo possiamo dire con certezza, è stato chiesto di entrare nella giunta, con una carica di assessore alle partecipate. È difficile che finisca per fare quello, sarebbe troppo un downgrade, per uno che era stato già nominato capo di gabinetto. Ma insomma, la dinamica è chiara: l’asse che parte da Lombardi e trova sempre più ascolto in Di Maio non si fida della sua estraneità alla cordata. Frongia vicino alla Raggi rende Virginia troppo slegata; stessa ragione per cui Augusto Rubei, il candidato naturale designato a fare il portavoce, è stato calunniato dai nemici di Virginia. La contromossa Virgi non ce l’ha, a meno che non sia stata in un incontro a cena, sabato sera, Raggi-Di Maio. Da soli.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/07/04/italia/politica/il-manuale-cencelli-del-ms-la-corrente-lombardi-e-la-zona-grigia-contro-virginia-KBwvzSQ6Nj8BBkcylGLNHN/pagina.html
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« Risposta #62 inserito:: Luglio 12, 2016, 11:45:04 am »

Gli antisionisti, i complottisti, i filo-Hamas.
Le star della politica mediorientale grillina


Da Di Stefano a Sibilia, da Bernini a Vignaroli. Partendo dal leader “Dibba”

11/07/2016
Jacopo Iacoboni

Nel luglio del 2013, all’epoca della prima visita in Israele di una delegazione M5S, il neoeletto deputato del Movimento Manlio Di Stefano postò su facebook una suggestiva foto e, sotto, il commento: «Buongiorno Palestina». La foto però era Gerusalemme, non Ramallah.

Naturalmente quella missione fu assai diversa da quella di oggi; era una delegazione di neodeputati senza pressioni, quasi increduli di esser lì, anche allora c’era Manlio Di Stefano, e poi Stefano Vignaroli, Paola Carinelli e Maria Edera Spadoni. Quel viaggio segna un punto di partenza di una storia che in questi tre anni ha avuto diversi apici, la storia dei terzomondismi e della geopolitica mediorientale più spensierata che l’Italia recente ricordi. Nel Movimento cinque stelle, da molto prima dell’ascesa di Luigi Di Maio a candidato premier in pectore - con le conseguenti svolte sull’euro, sull’uso dei soldi, sulla tv, forse sul doppio mandato -, la politica estera è stata da sempre appaltata al gemello-rivale di Di Maio, Alessandro Di Battista, insediato nella commissione eteri, e a una cordata di parlamentari che non si sono fatti mancare ogni genere di spericolatezza verbale delle posizioni. Israele è spesso stato un loro bersaglio, ma si sono udite uscite scivolosissime sull’Isis, virtuosismi linguistici sull’Iraq, frasi non adeguatamente pesate su Hamas. 

Ogni viaggio è stato sempre al limite dell’incidente diplomatico, o ha tessuto relazioni che andranno indagate meglio (come la partecipazione recentissima, sempre di Di Stefano, al congresso di Putin a Mosca). Occasioni esterne, come una visita del Dalai Lama alla Camera, si sono tramutate in spunti teatrali per mostrarsi rivoluzionari: come quando, intrufolatosi con Alessio Villarosa al cospetto del leader tibetano, che smozzicò una frase sulla corruzione in Cina, Di Battista gli fece: «È lo stesso in Italia. Stiamo combattendo la stessa battaglia che fate voi». In favor di telecamera.

Di Battista, che in un ipotetico governo cinque stelle sarà il candidato alla Farnesina, conquistò i riflettori per un ragionamento di questo tenore sull’Isis: «Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche nonviolente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana». Il terrorismo, scrisse sul blog di Grillo, resta «la sola arma violenta rimasta a chi si ribella».

 Paolo Bernini, deputato noto per le prese di posizione contro le scie chimiche, disse al Corriere: «Io sono antisionista. Per me il sionismo è una piaga». Vignaroli comunicò: «Eccomi a Gerusalemme, città della pace dove l’uomo occupa, separa, violenta». La critica ai governi israeliani è scivolata, insomma, molto spesso in zone sdrucciolevoli. Nel luglio 2014 sempre Di Stefano e Sibilia presentarono un’interrogazione per chiedere l’interruzione delle commesse militari con Israele. Il primo dei due scrisse, sul blog di Grillo, un passaparola che spiega il conflitto israelo-palestinese attribuendolo tout court al sionismo: «Comprendere a fondo il conflitto israelo-palestinese significa spingersi indietro fino al 1880 circa quando, nell’Europa centrale e orientale, si espandevano le radici del sionismo». E sul sionismo Bernini assurse a vette complottiste: «L’11 settembre? Pianificato dalla Cia americana e dal Mossad aiutati dal mondo sionista», disse alla Camera. A chi di recente gli chiedeva se Hamas per lui è terrorista o no, Di Stefano ha risposto: «È una questione secondaria, in questo contesto. I militanti di Hamas dicono: preferiamo morire lottando che continuare a vivere in una gabbia. Per definirli come terroristi o meno dovremmo vederli in una situazione di libertà. Cosa che in questo momento non hanno».

Già nel 2014 i cinque stelle formularono varie proposte di interruzione dei rapporti commerciali fra Italia e Israele. Ieri si sono limitati a dire che «non facciamo accordi sui prodotti che vengono dalle colonie israeliane dei Territori». Luigi Di Maio pare assai distante da tutto questo, ma allora la visita è stata organizzata un po’ alla svelta, e qualcuno nel Movimento, con quei compagni di viaggio, gli ha teso uno sgambetto, lungo la via dell’accreditamento in Israele.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/07/11/italia/politica/gli-antisionisti-i-complottisti-i-filohamas-le-star-della-politica-mediorientale-grillina-KOlTnbsqX3LOpqSEQNB5zO/pagina.html
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« Risposta #63 inserito:: Luglio 18, 2016, 11:55:36 am »

Napoli e Roma, rivolta nel M5S.
Gli espulsi reintegrati: “Chiediamo l’assemblea nazionale”
Pizzarotti si sfoga coi suoi: inutile restare dove ti cacciano

18/07/2016
Jacopo Iacoboni
Roma

Ora gli espulsi del Movimento reintegrati a Napoli e guidati da Luca Capriello chiedono un’assemblea di tutti gli iscritti d’Italia. Lo annunceranno giovedì in conferenza stampa. «Vogliamo un’assemblea nazionale di tutti gli iscritti da tenersi a Roma dopo l’estate», spiega Roberto Motta, storico militante romano, ex braccio destro di Roberta Lombardi, l’uomo che ha collaborato a lungo alla stesura dei suoi testi di legge. Motta era uno di quelli che avevano preso alla lettera la storia del Movimento «assembleare e partecipativo», e per farla breve, dopo una serie infinita di scontri su tante vicende romane è stato infine espulso assieme a un’altra trentina di attivisti romani, prima delle ultime elezioni comunali (era uno che poteva entrare nella cinquina degli aspiranti sindaci). Altri due avevano fatto con lui il primo ricorso a Roma, ottenendo il reintegro sul portale. I romani sono difesi da Lorenzo Borrè, lo stesso avvocato dei napoletani: a Napoli il meet up era stato azzerato da Fico e Di Maio due giorni prima delle votazioni - trentasei espulsi, 23 dei quali hanno fatto ricorso. Ora tutti sono stati reintegrati dall’ordinanza del Tribunale. Insomma, a Roma e a Napoli i dissidenti si sono collegati. Hanno adesso vari strumenti per creare problemi giuridici, economici, politici al M5S centrale, la Casaleggio e il direttorio.

La risposta che preparano il direttorio (e Davide Casaleggio) è opposta: cogliere la palla per azzerare apertamente il Non-Statuto, dotandosi di uno statuto da “partito”, non da “movimento”, e sancendo anche de iure la metamorfosi (o tradimento di Gianroberto, dipende dai punti di vista) che raccontiamo da due anni.

Gli espulsi però attaccano. Motta sostiene: «Fico e la Lombardi non possono dire “valuteremo quali modifiche fare”, “risolveremo il problema senza aspettare i giudici”, perché il problema stabilito dal tribunale è proprio quel “noi”: chi è che risolverà, la Casaleggio? Il direttorio? Ma nessuno di questi soggetti, hanno detto i giudici, è titolato a prendere decisioni sulle espulsioni. Solo l’assemblea può decidere modifiche statutarie. E perciò noi ora vogliamo un’assemblea».

I ricorsi cominciano a moltiplicarsi: sono tutte micce che accenderanno precedenti giuridici, dopo quello di Napoli. C’è un ricorso a Bruxelles, due a Messina, cinque in Abruzzo, mentre da Parma Marco Bosi, capogruppo di Pizzarotti nel Consiglio comunale, è in contatto con l’avvocato di questa rivolta romano-napoletana. Pizzarotti è sul depresso, ai suoi ha detto «inutile restare in un Movimento che ti caccia», ma sa anche che le sentenze cominciano a favorirlo.

A Quarto una celebre espulsa, la sindaca ex M5S Rosa Capuozzo, si toglie vari sassolini dalla scarpa. Il Movimento la cacciò dopo averla messa alla gogna a corrente alternata e tardivamente, ma lei non è neanche indagata nella vicenda del presunto voto di scambio che ha lambito un consigliere grillino, e ora ci dice: «Il direttorio dovrebbe andare a casa, dopo questa sentenza. È un organismo che non è mai stato eletto e dovrebbe, invece, essere scelto dalla base, dagli associati». In realtà, spiega meglio l'avvocato Borrè, secondo il non-Statuto dell’associazione originaria (quella del 2009), all’articolo 4 si dice chiaramente che la democrazia «diretta e partecipativa» del Movimento non prevede «corpi intermedi», quale appunto il direttorio sarebbe. Di qui la possibilità che qualcuno ricorra anche contro Fico-Di Maio-Di Battista-Ruocco-Sibilia, mettendo tecnicamente fuorilegge la costola centrale del M5S. Capuozzo dice: «Non chiederò di rientrare in questo momento, perché il Movimento come è gestito ora è senza una democrazia veramente partecipata». Quella, di certo, non possono assicurarla ordinanze e sentenze. Ma altri - magari qualcuno dei parlamentari espulsi - potrebbero farlo.

Un’assemblea - che naturalmente mai si farà - sarebbe epocale. Sugli iscritti al Movimento non si hanno cifre certe; nel settembre del 2013 il blog parlò di 80mila iscritti certificati, e 400mila in tutto «in via di certificazione». Gianroberto Casaleggio confermò queste cifre a Imola nel 2015. Negli anni fondativi, quando in pochi vedevano ciò che stava nascendo, Casaleggio ripeteva come un mantra «il Movimento è le sue regole»: ma senza, cos’è?

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C-I gratuito Da - http://www.lastampa.it/2016/07/18/italia/politica/napoli-e-roma-rivolta-nel-ms-gli-espulsi-reintegrati-chiediamo-lassemblea-nazionale-wOlHeUFkHXhEIxWmbay5KK/pagina.html
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« Risposta #64 inserito:: Luglio 20, 2016, 05:19:49 pm »

Raggi frenata, a settembre incontrerà Renzi per ristrutturare il debito di Roma
Bilancio del primo mese della sindaca, accerchiata dai poteri della Capitale e dalle lottizzazioni dei suoi rivali nel Movimento


19/07/2016
Jacopo Iacoboni
Roma

Virginia arriva con la pioggia, si potrebbe dire parafrasando un grande romanzo di Alvaro Mutis. Nel senso che per vedere il cambiamento promesso in modo tanto roboante dal Movimento a Roma, se va bene, bisognerà attendere l’autunno. Se cambiamento arriverà. Il primo mese della Raggi sindaco è stato un tormento in primis per lei; è quasi come se lei - che ieri festeggiava anche il compleanno (a casa: mazzi di rose e niente feste su barconi sul Lungotevere) - non fosse ancora davvero partita.

LEGGI ANCHE Regole, complotti e welfare: l’Italia M5S nelle 514 proposte di legge 

Zero delibere all’attivo. La prima riunione vera di giunta che arriverà solo oggi (dedicata all’assestamento del bilancio; seguirà incontro con Tronca). Il reddito di cittadinanza, mega promessa elettorale, che ovviamente non si potrà fare a breve (prima bisogna, appunto, vedere bene il bilancio comunale). Raggi sta cercando di muoversi per incontrare Renzi e Padoan, e ottenere la collaborazione del governo sulla ristrutturazione del debito di Roma: una partita poco appariscente ma su cui si gioca tantissimo, e lei non è stata male.

La giunta è nata però con estrema fatica. Raggi ha subìto pressioni forti; interne, dal M5S, ed esterne: tutti, da Davide Casaleggio a Di Maio alla Taverna a Di Battista, le hanno piazzato uomini. Il suo capo di gabinetto designato, Daniele Frongia, è stato impallinato dalla Lombardi (Raggi ha resistito e l’ha messo vicesindaco). E allora la sindaca s’è impegnata a revocare la scelta di Daniela Morgante, che percepiva amica della Lombardi. Vittoria politica parallela al siluramento della Faraona dal direttorio romano; senonché proprio ieri la Lombardi è stata, con un elemento di farsa, rimpiazzata da Stefano Vignaroli; il compagno della Taverna.

Lombardi i suoi uomini nelle commissioni li aveva già piazzati, con un manuale Cencelli che La Stampa rivelò. E avrebbe almeno cinque consiglieri comunali suoi (oltre a tutta la capigruppo, il presidente De Vito, il capogruppo Paolo Ferrara, la segretaria Bernabei). Insomma, sul piano politico hanno sfibrato la Raggi, l’hanno accerchiata, esposta alla mercé delle pressioni. Lei stessa ha poi le sue, di relazioni: ha fatto nomine discutibili (il panzironiano Marra, vicecapo di gabinetto, che poi non è stato revocato), ma politicamente s’è anche difesa in maniera non scontata, ha cercato di rendersi autonoma in un brutto contesto. Questa è Roma, e il Movimento romano.
LEGGI ANCHE Appendino e lo strano asse con Chiamparino 

È inevitabile che le cose da fare siano passate in secondo piano. Al Colosseo sono riapparsi i camion bar (proficuo asset dei Tredicine che era scomparso con Marino; c’è stata anche un’infelice frase del neo assessore Meloni, uomo-Casaleggio, in favore di questi discussi ambulanti, poi parzialmente corretta). Gli odiosi centurioni paiono rinati. Raggi ha invece tenuto bene il punto contro lo sgombero di via Cupa, dove sono accampati i migranti del Baobab. In pessime condizioni, sì, ma il prefetto voleva mandarli via con la forza pubblica, alla destrorsa; Raggi s’è opposta, e ha fatto bene. Ma la soluzione non ce l’ha, e ha chiesto un tavolo al ministro dell’Interno. Sapete chi sia.

Sul piano mediatico ha avuto i successi maggiori, le tre mosse di comunicazione sono state intelligenti: andare a Tor Bella Monaca sull’onda di un video virale in cui dei bimbi giocavano in mezzo ai topi. Affacciarsi sul Lungotevere a far ripulire i cassonetti. Andare a Rocca Cencia. L’immagine è di una sindaca che non sta chiusa nella torre d’avorio, sta in mezzo alla gente, nelle periferie. Ottimo. Ma a Rocca Cencia c’è poi il problema di un impianto di smaltimento dei rifiuti che l’Ama non ha messo in condizione di funzionare bene, e tantissimi sono i malumori sulla neo assessora all’ambiente, Paola Muraro, che per dodici anni ha ricevuto ottime consulenze proprio all’Ama: è il nuovo che avanza o il conflitto d’interessi eterno all’italiana?

LEGGI ANCHE Regole, complotti e welfare: l’Italia M5S nelle 514 proposte di legge 

Su Acea l’idea del M5S era l’acqua pubblica. E Raggi questo voleva, compreso silurare il potente ad Alberto Irace, uomo stimato da Caltagirone. Sta vincendo invece la linea dell’assessore al Bilancio, Marcello Minenna, e di Di Maio, un appeasement con questa azienda, vera camera di compensazione del sistema-Roma. E a settembre dovrà iniziare una partita di nomine appetitose in tutte queste partecipate. C’è da sperare che Virginia arrivi con la pioggia.

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« Risposta #65 inserito:: Agosto 02, 2016, 05:05:22 pm »

Miccichè: così il M5S ha proposto un’intesa a Forza Italia in Sicilia
“Erano d'accordo a eliminare i ballottaggi se si supera il 35%”. Cancelleri: ho chiamato il capogruppo di Forza Italia, ma il patto ce l’hanno loro col Pd

02/08/2016
JACOPO IACOBONI

Quello che le parole di Gianfranco Miccichè descrivono è un’incredibile offerta di Patto siciliano. Il Movimento cinque stelle, acerrimo nemico di Forza Italia, telefona al partito di Berlusconi per chiedere di cogestire l’importantissima legge elettorale per eleggere i sindaci dei maggiori comuni sull’isola, un passaggio chiave nella costruzione del futuro assetto di potere in Sicilia. Ieri la legge è stata approvata in Commissione, con voto contrario del M5S, e rispedita adesso all’aula dell’Ars, l’assemblea regionale siciliana, che ha facoltà legislativa. Ma in realtà, dice Miccichè, il M5S era d’accordo per abolire - a certe condizioni - il ballottaggio. Cancelleri nega: «L’unica cosa vera è che ho chiamato il loro capogruppo. Gli ho solo chiesto che non mettesse la firma su una legge contro di noi, altrimenti arriviamo davvero al famoso 50 per cento più uno. Il vero patto ce l’hanno loro col Pd». Come stanno davvero le cose?
 
Proviamo a spiegare. «Cancelleri ha chiamato Marco Falcone, il nostro capogruppo all’Assemblea regionale siciliana, e proposto una specie di desistenza», sostiene Miccichè, che attualmente è commissario di Forza Italia sull’isola. «La verità è che il M5S a parole attacca ed è più puro dei puri, nella prassi tratta accordi su tutto e dappertutto». Secondo la sua versione, all’inizio della settimana scorsa Cancelleri - che non solo è la figura di spicco del Movimento siciliano, ma è anche, stando ai sondaggi, il favorito futuro governatore, e un amico personale di Di Maio - ha convenuto con Falcone che «una soluzione si può trovare, insieme, e senza danneggiare nessuno, senza farsi la guerra», per usare la frase di Miccichè. 
 
Il punto è decisivo. La legge elettorale siciliana attuale prevede il ballottaggio, e Forza Italia e il Pd si stanno attivando in maniera trasversale per abolirlo, «perché è chiaro che in un sistema tripolare il ballottaggio finisce per premiare quasi sempre la forza che sta tra sinistra e destra, cioè in Italia il Movimento Cinque stelle», spiega Miccichè. Il Movimento, ovviamente, andrà in tv dicendo «vogliono farci fuori» (a Roma già lo sta facendo Danilo Toninelli). In realtà stava trattando, e aveva una sua proposta. Poiché passare a un ballottaggio a tre sarebbe stato estremamente negativo per il M5S, visto che azzera il possibile effetto Parma del ballottaggio a due, l’idea su cui i cinque stelle stavano ragionando era eliminare il ballottaggio, ma solo se si fosse raggiunta una certa soglia.
 
«Il M5S era d’accordo a eliminare il ballottaggio solo se un candidato avesse superato la soglia del 35%», sostiene Miccichè. In Commissione è stata votata una bozza diversa: elimina il ballottaggio punto e basta, e fissa una soglia del 40 per cento per attingere al premio di maggioranza. Però Fausto Raciti, il segretario regionale del Pd, nel pomeriggio ha detto: «Soglia dei ballottaggi al 40%: la nostra proposta sulla riforma elettorale era e rimane questa». Quindi Cancelleri lo accusa: «Sconfessa i suoi deputati, che hanno votato un’altra cosa, l’eliminazione sic et simpliciter del ballottaggio». 
 
Morale: il M5S controaccusa Forza Italia e Pd, ma Forza Italia svela che i cinque stelle predicano bene ma razzolano come gli altri, proponendo intese politiche, peraltro normalissime, ma non per loro. Beppe Grillo, nell’ottobre 2012, dipinse sul blog Miccichè come il rappresentante tipo della politica morta, pubblicando un video in cui il candidato di Forza Italia parlava a una piazza vuota a Santa Caterina Villarmosa. «Gianfranco Miccichè è stato coordinatore siciliano di Forza Italia, deputato, sottosegretario e pure ministro. Ora si candida a presidente della Regione Sicilia. E lo fa arringando piazze vuote, animate solo da qualche contestatore, da un trespolo. Sotto al palco non c’è nessuno. Qualcuno avvisi Miccichè e lo accompagni dietro le quinte. Sarà un atto di grande umanità». Già il fatto che ora il Movimento telefoni a Forza Italia di Miccichè ha dell’incredibile: non erano morti?

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« Risposta #66 inserito:: Agosto 15, 2016, 06:52:52 pm »

Il principe delle discariche difende Muraro e la sindaca: “Nessun conflitto d’interessi”
Manlio Cerroni: “A Roma ho visto ben di peggio”

12/08/2016
Jacopo Iacoboni, Giuseppe Salvaggiulo

Manlio Cerroni è da decenni, di fatto, il monopolista dei rifiuti a Roma. Criticato, temuto, trasversale. L’”ottavo re di Roma”. La politica ha spesso avuto bisogno di lui, e ci ha trattato. La magistratura se ne è dovuta interessare numerose volte. Lui ha resistito a tutto. Naturale chiedergli, ora, cosa pensi del caso Muraro.

 Cerroni, il dibattito sui rifiuti in Consiglio comunale a Roma l’ha chiamato in causa, lei che ne pensa? 
«Era giusto che si facesse per un primo confronto. Mi auguro adesso che tutti si mettano al lavoro per trovare a breve le soluzioni necessarie».

 Sia il M5s, sia il Pd, sia la destra la tirano in ballo come “il ras dei rifiuti”, e tutti si rimpallano l’accusa di favorirla. Perché? 
«Io sono in questo campo da 70 anni e a vario titolo mi occupo dei rifiuti di Roma. Favori e aiuti? Sono io che ogni volta che mi è stato richiesto di intervenire con soluzioni tecniche ed operative non mi sono mai tirato indietro. Sull’epiteto “ras” capisco che i giornali amino i nomignoli. Mi chiedo solo come mai quando si parla o scrive di altri imprenditori, ovviamente anch’essi alle prese con vicende giudiziarie (per giunta ancora in corso) non si usino appellativi tipo “il ras del mattone” o “il boss della finanza creativa” e così via».

 Ma lei davvero si considera una salvezza, per Roma e i romani? 
«Se uso la parola “benefattore” o “salvezza” di Roma è senza intenti megalomani ma per rendere chiari i concetti. La discarica di Malagrotta che per 30 anni ha smaltito giorno e notte i rifiuti di Roma alle tariffe più basse d’Italia ha fatto risparmiare ai romani qualcosa come 2 miliardi di euro. Questa è la verità».

 Cosa pensa dell’assessora Muraro? L’ha mai conosciuta? Ha avuto modo di apprezzarla? 
«Sono decenni che lavora nei rifiuti. Certo che la conosco. È una professionista capace e apprezzata dagli operatori del settore sia pubblici che privati. Viene dai rifiuti e l’hanno messa a occuparsi del problema rifiuti forse in omaggio al brocardo “faccia ognuno il suo mestiere”».

 La Muraro sostiene che grazie a lei l’Ama ha risparmiato 900 milioni nel contenzioso con il Colari. È vero? 
«Ognuno di noi ha rappresentato convintamente le ragioni della sua azienda. E lei da consulente dell’Ama lo ha fatto per l’Ama. Come era giusto che facesse. Staremo a vedere, il tempo è galantuomo».

 Secondo lei Muraro è in conflitto di interessi? Dovrebbe dimettersi? 
«Ho visto, in questo Paese e in questa città, ben altri conflitti di interesse. Io questo conflitto non lo vedo anzi...»

Ha ragione la Muraro a dire che per risolvere il problema rifiuti a Roma bisogna usare il suo impianto tritovagliatore, che Ama non usa da mesi? 
«Come abbiamo scritto al ministro Galletti, io credo che vadano utilizzati tutti quegli impianti disponibili e funzionanti in grado di risolvere il problema drammatico della pulizia di Roma. Per togliere d’impaccio la dirigenza Ama, ho ceduto con un contratto di affitto di ramo di azienda la Stazione di Tritovagliatura di Rocca Cencia a un’altra società. Io, noi, non c’entriamo più».

 Rifiuti Roma, Muraro: “Da Regione massima collaborazione”

Quali erano i suoi rapporti con i vertici dimissionari di Ama, e cosa pensa delle loro scelte? 
«Fortini non era in grado operativamente di svolgere il compito di salvare Roma dall’emergenza. Ha bandito una gara europea per portare i rifiuti indifferenziati all’estero quando sapeva molto bene, o almeno mi auguro, che l’Ue dice che bisogna utilizzare gli impianti di prossimità».

 Qual è la sua opinione della sindaca Raggi? L’avrebbe votata, se fosse residente a Roma? Come si sta comportando sui rifiuti? 
«Credo che sia nella fase di rodaggio di chi vuole comprendere le cose prima di proporre soluzioni concrete a medio termine. I sindaci, in particolare quelli di Roma, si possono giudicare sul campo. E io i sindaci li ho visti, conosciuti e incontrati tutti».

 Cosa pensa più in generale del M5s? Alcuni suoi esponenti come l’onorevole Vignaroli provengono dai comitati civici contro Malagrotta: cosa ne pensa? 
«Si tratterà di vederli all’opera. E Roma in questo sarà una grande cartina al tornasole. Credo di non aver mai incontrato Vignaroli. Né adesso né quando era attivista del Comitato Malagrotta. E soprattutto non ho fatto con lui nessun incontro segreto».
Cerroni, un’ultima cosa: come va letta l’operazione Acea-Suez? Quali sono i suoi rapporti con Caltagirone oggi? 
«Posso solo dire che l’idea di coinvolgere Acea nella gestione dei rifiuti di Roma non è di questi giorni. Con l’ingegner Caltagirone ci siamo incontrati un paio di volte qualche anno fa per parlare di rifiuti. Non se n’è fatto nulla».
 
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« Risposta #67 inserito:: Ottobre 07, 2016, 08:41:08 pm »

La “struttura delta” della Casaleggio.
Ecco tutti i nomi e come funziona
Dal contratto imposto al M5S Roma fino alle webstar politiche: come l’azienda guadagna

11/02/2016
Jacopo Iacoboni

Diciamo che è la struttura delta della Casaleggio, uno staff nello staff. Al punto 4a del «contratto» con il candidato sindaco del M5S a Roma, Gianroberto Casaleggio ha inserito una delle clausole più importanti, che possono passare inosservate: «Lo strumento per la divulgazione delle informazioni e la partecipazione dei cittadini è il sito beppegrillo.it/listeciviche/liste/roma». Tradotto, tutto il traffico - anche video e social - deve passare dal blog. Ma chi gestisce in concreto questa “struttura” alla Casaleggio associati? 

La Stampa è in grado di raccontarlo millimetricamente. Mentre Grillo parla di «Rai fascista», la Casaleggio guadagna dai video di Rai, La7 e Mediaset, con un sistema semplice e perfettamente legale. Prima cosa: ancor prima del boom del M5S, la Casaleggio ha costruito una quindicina di - chiamiamole così - webstar, da Di Battista a Fico, gente con un milione di iscritti su facebook, che è tenuta a concedere di pubblicare ogni proprio video sul sito di Grillo. Se Dibba fa una performance dalla Gruber, la deve mettere sul sito di Casaleggio. I video non vengono caricati su youtube (che non accetta caricamenti con monetizzazione di video protetti da copyright), ma su un altro servizio di cloud storage di video, che non ha evidentemente ancora stipulato accordi con le tv italiane e le società di produzione. A questo servizio la Casaleggio paga una quota per ricevere in cambio dei ritorni pubblicitari dagli spot che partono prima del video, e dai banner (attraverso Adwords o altre piattaforme di monetizzazione pubblicitaria). Per ogni video caricato e visto la Casaleggio incassa in percentuale una quota stimabile fino ai mille euro e oltre per ogni video visualizzato almeno centomila volte (dati variabili). Cosa che a suo tempo fece infuriare moltissimi parlamentari M5S, che però non hanno mai avuto la forza di stoppare questo meccanismo.

Alla Casaleggio tre persone hanno tenuto in mano operativamente la cosa, nel corso di questi anni in varie fasi: Pietro Dettori, che gestisce anche gli account twitter di Grillo, e molto spesso è autore materiale dei post (Grillo incredibilmente lascia fare anche quando poco o nulla sa di ciò che viene scritto, anche delle uscite più tremende), figlio di un imprenditore sardo legato in precedenza a Casaleggio. Biagio Simonetta, un giornalista, esperto di new media. Marcello Accanto, un social media manager. E, ultima entry, Cristina Belotti, che si occupa della tv La Cosa, una bella ragazza cresciuta curiosamente alla più pura scuola del centrodestra milanese, la scuola di Paolo Del Debbio - lavorava nella redazione del suo programma - e arrivata alla Casaleggio attraverso il network dei fratelli Pittarello; soprattutto Matteo, fratello di Filippo, storico braccio destro di Casaleggio, un passato anche da boy scout. Belotti è diventata collaboratrice di Luca Eleuteri, uno dei soci della Casaleggio (l’altro è Mario Bucchich; da non molto si sono aggiunti il programmatore storico della Casaleggio, Marco Maiocchi, e un uomo di marketing che collaborava con Casaleggio già in Webegg, Maurizio Benzi).
I tre che gestiscono il blog e le pagine social della galassia Casaleggio controllano tutto il giorno il trend di viralità dei contenuti pubblicati, attraverso le analisi comparate dei dati (usano insights di facebook e Google analytics). Con l’incrocio semplicissimo di questi due strumenti, sanno in ogni momento quanto stanno guadagnando. Le webstar politiche fanno fare soldi all’azienda. Un berlusconismo 2.0.

C’è però un’altra cosa in cui i «ragazzi» eccellono, e Dettori è bravissimo, la profilazione. È un loro divertimento sapere: chi si collega a un video, da dove, con quale software, quale browser, qual è la sua età e i suoi interessi. Non è proprio The Circle di Dave Eggers - l’azienda è troppo piccola; quello è il sogno.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/02/11/italia/politica/la-struttura-delta-della-casaleggio-ecco-tutti-i-nomi-e-come-funziona-KjOs99jXDHs6JbhPBP5uAM/pagina.html
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« Risposta #68 inserito:: Novembre 05, 2016, 10:36:54 am »

L’abbraccio dei Cinquestelle con i due emissari di Putin
Il ruolo di Zheleznyak e Klimov tra internet, Russia Today e mondo grillino
La foto mostra la manifestazione per il Sì al referendum di sabato 29 ottobre.
Il sito Russia Today aveva spacciato la folla come manifestazione a favore del No


05/11/2016
Jacopo Iacoboni
Roma

Due dei più stretti collaboratori di Vladimir Putin sono al centro di legami con il M5S che passano anche attraverso siti internet filorussi molto critici con il governo italiano. Per ricostruire la vicenda bisogna partire dal 17 ottobre quando Rt, Russia Today, il network in lingua inglese finanziato dal governo russo - un’utenza globale di almeno un miliardo di persone - si è visto chiudere «dopo attenta valutazione» il conto detenuto nel Regno Unito presso la Natwest Bank, costola della Royal Bank of Scotland. La caporedattrice di Rt, Margarita Simonyan, twittò sarcastica: «Lunga vita alla libertà di parola». Il network la raccontò come una decisione ispirata dal governo inglese. La Duma annunciò - attraverso il vicepresidente Sergei Zheleznyak, del partito di Vladimir Putin, Russia Unita - che avrebbe chiesto formalmente spiegazioni al governo inglese. Analoga misura su Rt era stata presa nel 2015 dalla banca che il network utilizzava in precedenza, Barclays. 

Jonathan Eyal, condirettore del «Russian and European security studies» al Royal United Services Institute a Londra, ha dichiarato al New York Times: «Sono stati sollevati problemi riguardanti l’azienda e le sue fonti di finanziamento». Natwest, ha ipotizzato Eyal, «deve aver preferito la controversia legata alla chiusura dei conti piuttosto che avere un accordo con un business che potrebbe contenere denaro di incerta provenienza». Sputnik Italia, altro network dell’universo putiniano, raccontò la vicenda in modo completamente diverso mettendo l’accento sull’annuncio di Zheleznyak che la Duma avrebbe «aiutato il team legale di Rt a far valere i suoi diritti», invocando il Consiglio d’Europa e l’Onu.

In Italia la storia è passata inosservata, ma Zheleznyak è un personaggio ormai attivo sottotraccia anche nella nostra politica. Proveniente dalla pubblicità, sempre più influente (ha 46 anni) nel partito di Putin, inserito dall’amministrazione Obama in una blacklist che comprende politici e finanzieri che, per ricchezza o influenza, conducono attività pro Putin all’estero che gli Usa giudicano sospetta, Zheleznyak è uno dei due uomini - assieme al capo delle relazioni internazionali, Andrey Klimov, uomo di una generazione precedente - che sta facendo da sponda tra Russia e mondo-M5S.
I due hanno incontrato in più di un’occasione i deputati del M5S più addentro al dossier-Putin: Alessandro Di Battista e Manlio Di Stefano. Il viaggio di Di Stefano a fine giugno a Mosca è cosa nota. Ma almeno un incontro informale precedente era avvenuto a Roma. Lo racconta lo stesso Di Stefano. E un altro avvenne a marzo, durante una missione a Mosca descritta così da Di Battista: «Abbiamo avuto ottimi incontri», soprattutto su lotta alle sanzioni e terrorismo internazionale. Di Battista raccontò che «i russi hanno un ottimo apparato di intelligence, hanno esperienza e sono disposti a collaborare». Di Stefano, invece, notò tra l’altro quanto fosse cruciale la guerra mediatica: «Attraverso i media si alimenta una russofobia crescente per giustificare l’ingresso di nuovi Stati in Europa e nella Nato. Montenegro, Georgia e Ucraina ne sono un esempio». Particolare non trascurabile: Zheleznyak in passato è stato alto manager di News Outdoor Group, il più grande gruppo di raccolta pubblicitaria dell’Est Europa, con sedi a Mosca e Varsavia, un colosso che può far vivere o morire molti siti. Nel 2011 divenne capo della commissione della Duma per l’informazione, la comunicazione e la tecnologia. Nel 2013, allo scoppio dello scandalo della sorveglianza americana attraverso la Nsa, dichiarò al «Guardian» che la Russia doveva «accrescere la sua sovranità digitale indirizzando la crescita di Facebook e Twitter». Il «red web» (la rete internet filo Putin), e la propaganda negativa, ne sono logica conseguenza.

Il Movimento cinque stelle, affascinato dal mito dell’uomo forte, ma costruito sulla teoria delle reti, abbraccia quasi naturalmente Zheleznyak. Rt riserva grandi interviste ai cinque stelle (anche a Di Battista, servizio trionfale su Rt in lingua spagnola). Attacca Renzi esagerando la minima contestazione in Italia contro di lui, dipingendo il caos, o producendo autentiche bufale informative, fino a sollevare la recente protesta attraverso canali diplomatici italiani. Il network russo viene viralizzato spesso a partire da Tze Tze, il sito guida della galassia Casaleggio; ma spesso anche dalle propaggini più anonimizzate della macchina web filo M5S. In parallelo Sputnik Italia inanella, in pochi mesi, questa sequenza di servizi, impaginati come pura cronaca, tutti viralissimi nel web filogrillino: «Renzi, cameriere di Europa e Usa»; «Sanzioni, voce agli imprenditori messi in ginocchio da Renzi»; «Renzi china la testa agli Usa»; «Vertice di Ventotene, tutto fumo e niente arrosto?». Varianti su Sputnik francese: «Le déficit de l’économie italienne peut être le début de la fin de l’Ue”. Account chiave pro M5S (alcuni dei quali spingono la propaganda fino a ipotesi di diffamazione) ricambiano: «La vittoria di Trump porterebbe una ripresa del commercio con la Russia, un miglioramento dell’economia italiana e europea». Un concetto assai caro anche al sito chiave che dà al M5S i contenuti da esibire per piacere a Mosca, «lantidiplomatico.it», che si distingue per il suo sostegno a Putin, Assad e Trump.

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« Risposta #69 inserito:: Novembre 05, 2016, 10:50:42 am »

Andrea Guerra: “Ora Matteo trovi il coraggio di fare un nuovo governo”
L’ex consigliere: “Il referendum può essere l’anno zero. Vincerà il Sì”
Da oggi fino al 6 novembre si svolgerà la settima edizione della Leopolda


04/11/2016
JACOPO IACOBONI
ROMA

«Il referendum e la legge di stabilità possono rappresentare l’anno zero di Matteo Renzi». Andrea Guerra è il manager che portò Luxottica a diventare la prima azienda esportatrice italiana. È stato un anno a Palazzo Chigi, consigliere economico di Matteo Renzi, ma Guerra è un atipico, oggi presidente esecutivo di Eataly, ma anche uno che alla Leopolda di quattro anni fa fece un discorso filosofico sulla «risonanza» che dobbiamo sentire dentro, citando il poeta Rilke, per creare qualcosa. Raramente interviene nel dibattito, ha accettato di farlo con La Stampa. 
 
Perché dice che se vincesse il No sarebbe un danno per l’economia? Qual è il nesso? 
«Intanto, basta vedere una lotta serrata nei sondaggi per osservare parallelamente aumentare il costo del denaro, gli spread, e quindi anche la non attrattività di investimenti italiani per gli stranieri. Il sì alla fine vincerà. Qui servirà la scossa, fino a immaginare una salita di Renzi al Quirinale e la creazione di una squadra nuova, meritocratica, agile e aperta al mondo. Alibi zero: diciotto mesi di lavoro intenso nella progettazione ed esecuzione di una Italia nuova più semplice, più forte e più giusta».
 
Come imprenditore come giudica questi anni di governo? 
«Renzi ha fatto cose ottime per gli imprenditori, adesso toccherebbe a loro raccogliere la sfida. Decontribuzioni, ammortamenti di ogni genere, il Jobs Act… non hanno più alibi. Adesso se l’Italia si ferma e non ci sono investimenti sufficienti, la responsabilità è di una classe imprenditoriale non pronta, che non si apre al mondo, non ama rischiare o investire».
 
Detto da lei fa impressione. Li conosce. 
«Le racconto il caso della mia scelta di unirmi al gruppo di Eataly. Ho scelto una società italiana con vocazione globale, una società imprenditoriale aperta e curiosa, con un marchio già riconosciuto e rispettato in tutti gli angoli del mondo. Una risposta al “non si può”. Ho sempre scelto questo tipo di sfide perché più dell’Italia amo il mondo. M’invitano tantissime imprese italiane a parlare ai loro dirigenti. Ascoltano questa mia idea affascinati, poi il capo mi dice: “Guerra, lei ha detto delle cose bellissime, ma non le faremo mai”».
 
Dov’è che Renzi ha sbagliato, in questi due anni? 
«Lo guardo in prospettiva: serve meno solitudine e più diversità, nelle scelta delle persone che avrà intorno. Renzi vive, non per colpa sua ma per difendersi da Roma, chiuso a Palazzo Chigi. Anche in questo tocca buttare giù i muri: aprirsi a più persone, più mondo esterno anche dentro i palazzi. Deve rottamarci definitivamente, tutti noi, e avere a che fare con la sua generazione, senza subire il fascino degli anziani dei media, dell’impresa, dei presunti salotti buoni della finanza».
 
Come mai per il No votano soprattutto i giovani? Renzi non dovrebbe chiedersi soprattutto questo? 
«Il Pd, come del resto tutti i partiti consolidati, ha perso la capacità di parlare ai ragazzi sotto i 25 anni. È un partito che si è anche allontanato da tutto quel mondo di terzo settore - penso a Emergency del mio maestro Gino, a Slow Food del geniale Carlin Petrini, a Libera - che inizialmente era suo, e adesso magari interloquisce di più con il M5S. Ho l’impressione che in tanti giovani italiani prevalga un atteggiamento di sfiducia, anche aggressiva, a volte. Sono totalmente “anti”. È su questo che dobbiamo scavare. Sicuramente il ventennio berlusconiano, da un punto di vista culturale e di rispetto delle istituzioni, lo pagheremo ancora a lungo».
 
I Cinque stelle questo atteggiamento l’hanno alimentato senza innocenza, non trova? 
«Il M5S, gliene va dato atto, ha capito per primo i canali attraverso cui parlare a questa fetta di giovani, e a questa rabbia: i social e quel tipo di viralità. Ha saputo trovare delle persone: per esempio, perché una Chiara Appendino non è finita nel Pd? Ma andrebbe denunciata con più forza la deriva di bugie e anche di istigazione all’odio con cui la loro macchina web sta facendo propaganda; e in maniera non casuale, costruita a tavolino. Non penso sia irreversibile. Renzi ha ancora un fortissimo appeal su molti. E per la prima volta, accanto all’elettore di sinistra deluso che conosco da anni, compresi tanti miei amici, si sta creando anche quella dell’elettore cinque stelle deluso».
 
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« Risposta #70 inserito:: Novembre 08, 2016, 10:44:10 am »

L’Antidiplomatico, così un sito divulga la linea filo-russa del M5S
Nato dall’uomo dello staff di Di Battista.
Tra i collaboratori fissi spunta Achille Lollo


Pubblicato il 08/11/2016
Ultima modifica il 08/11/2016 alle ore 07:39
JACOPO IACOBONI

Non avendo pronta una chiara linea geopolitica, e un network sperimentato di interlocutori, la politica estera del Movimento cinque stelle della prima fase, tra la nascita (2009) e lo Tsunami tour (2012-2013), s’è sempre risolta nelle visite - più o meno estemporanee - di Beppe Grillo alle ambasciate. L’ambasciata tedesca, quella americana, il consolato americano, cominciarono a manifestare anni fa curiosità per questo «comedian» trasformatosi in agitatore politico di folle. Volevano capire. Annusavano. Alla vigilia delle elezioni del 2013 sollevarono un caso le parole pronunciate il 13 marzo dall’ambasciatore Usa David Thorne al liceo Visconti, a Roma: «Voi giovani siete il futuro dell’Italia. Voi potete prendere in mano il vostro Paese e agire, come il Movimento 5 Stelle, per le riforme e il cambiamento». Grillo esultò. Vergò sul blog un post trionfale: «L’ambasciatore Usa e il M5S». Poi però le cose sono drasticamente cambiate. Negli ultimi due anni ha cominciato a farsi strada, nel M5S, un mantra totalmente opposto, «la Russia non è un nemico». La chiave della loro geopolitica è diventata via via la richiesta di abolire le sanzioni contro Mosca. Gli incontri, parallelamente, si sono spostati dal livello teatrale di Grillo alle ambasciate a un livello più prosaico ma confidenziale: quello degli imprenditori, o dei colonnelli Alessandro Di Battista e Manlio Di Stefano. Due a Mosca, e poi a Roma, con personaggi chiave del partito di Putin, uno dei quali assai discusso. È in questa fase che diventa di riferimento, nel divulgare la linea, un sito, L’Antidiplomatico.
 
Nonostante neghi un’inclinazione filo-Putin, L’Antidiplomatico descrive bene il legame culturale sempre più stretto tra cinque stelle e propaganda di Mosca. Basta leggere gli ultimi dieci articoli in cui, direttamente o indirettamente, si parla del leader russo. «Oliver Stone: Trump è pericoloso, ma cosa vi fa pensare che Hillary non lo sia?». «Come mai i giornalisti diffamano Putin e non indagano sull’immenso patrimonio accumulato da Bill e Hillary Clinton?». «La Russia annuncia una tregua umanitaria ad Aleppo» (parentesi: Aleppo viene paragonata storicamente alla battaglia di Stalingrado, un grande classico della propaganda russa attuale). «Il ministro della Difesa russo: “È tempo che l’Occidente definisca se lottare contro i terroristi o contro la Russia”». «Putin: “Mi piacerebbe avere in Russia la macchina di propaganda in mano agli Usa». E via così. La Clinton non riscuote certo, eufemismo, la loro simpatia.
 
Lantidiplomatico.it è registrato a nome di Alessandro Bianchi, un giovane pescato nelle reti della sinistra radicale romana, poi diventato il più stretto collaboratore di Alessandro Di Battista, e utilizzato dal M5S anche per la commissione esteri della Camera. Bianchi, la settimana scorsa, non ha risposto quando La Stampa l’ha contattato. Con lui c’è una redazione agile di collaboratori; il principale dei quali, Fabrizio Verde, ha le stesse origini politiche, più altre due persone.
 
Le firme fisse non colpiranno i lettori giovani; ma i meno giovani sì: nel colophon della rivista online tra i soli quattro «collaboratori assidui» compare Achille Lollo, alla cui biografia L’Antidiplomatico scrive, assai stringato: «Corrispondente di Brasil de Fato in Italia, curatore del programma TV “Quadrante Informativo” e colonnista del “Correio da Cidadania”». Altrove sul sito Bianchi aggiunge: «È stato direttore delle riviste Naçao Brasil e Conjuntura Internacional». L’ex militante di Potere Operaio - per diciott’anni latitante in Brasile, e prima dieci anni in Angola, condannato per il rogo di Primavalle appiccato alla casa dei Mattei in cui morirono un bambino di 10 e un ragazzo di 22, figli del segretario della sezione missina di quel quartiere romano - è oggi libero cittadino, dopo la prescrizione della pena.
 
In questo milieu matura il sito che in questi mesi sta vedendo lievitare i suoi accessi, e l’influenza tra i parlamentari cinque stelle che si occupano di geopolitica.
 
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« Risposta #71 inserito:: Novembre 18, 2016, 09:44:52 am »

Ecco la cyber propaganda pro M5S. La procura indaga sull’account chiave
Algoritmi, false notizie, bufale.
Palazzo Chigi denuncia per diffamazione

Pubblicato il 16/11/2016
Jacopo Iacoboni

Beatrice Di Maio è una star del web pro M5S. Si muove nel territorio della propaganda pesante, che in tanti Paesi - per esempio la Russia di Putin, assai connessa al web italiano filo M5S - dilaga. Nella sua attività, Beatrice si è lasciata sfuggire alcuni tweet che delineano ipotesi di reati come calunnia e diffamazione; o vilipendio alla presidenza della Repubblica. È stata denunciata alla Procura di Firenze dal sottosegretario a Palazzo Chigi Luca Lotti, come provano alcuni documenti. Ma chi è esattamente Beatrice Di Maio, e ha qualcosa a che fare con la Casaleggio o la comunicazione ufficiale M5S? 

Sarà la magistratura a dire se esiste una cyber propaganda pro M5S

Si tratta di un account twitter pro M5S dedicato a una demonizzazione anti-Pd, senza disdegnare puntate contro il Quirinale. Beatrice ha 13.994 follower, è un top mediator, dentro un social network relativamente piccolo. Tweet e post di account analoghi diventano virali in Facebook attraverso un sistema di connessioni, nel caso di Beatrice dall’andamento artificiale dentro cui è inserita, alimentando un florido business pubblicitario, legato al flusso di traffico.

LEGGI ANCHE L’Antidiplomatico, così un sito divulga la linea filo-russa del M5S 

Insomma, Beatrice non è un account casuale. Scrive cose gravissime sulla presidenza della Repubblica: «Per alcuni il silenzio è d’oro... quello di Mattarella è d’oro nero!». E sotto, una foto del Quirinale con il tricolore e la bandiera della Total. Inutile sottolineare l’accostamento ingiurioso, Mattarella non è stato lambito dall’inchiesta lucana. Beatrice twitta «il governo trema. Da Potenza agli aeroporti inchiesta da paura. Renzi: “Io non mi fermo”» e sotto, una foto di Charlot che scappa all’impazzata. Ma Renzi non è mai stato indagato in Basilicata nell’inchiesta su Temparossa.

 Beatrice posta una foto della Boschi e, sopra, un tweet «Boschi, lezione alla Oxford University. “The amendment is on the table”. Hashtag: #Total #LaCricca #quartierino». Avvicinando emotivamente il nome Boschi a Total e a quartierino si suggerisce che Boschi sia al centro di un giro di tangenti legate a Total e allo scandalo petrolio: ma anche questo è un falso. 

LEGGI ANCHE La propaganda russa all’offensiva anti-Renzi. E il web grillino rilancia 

Oppure: «#intercettazioni, Guidi: “Ho le foto di Delrio coi mafiosi”», e sotto, nel tweet, la foto di Delrio con Renzi, Boschi, Lotti. Se dicessero cose così giornali o tg, pagherebbero ingenti risarcimenti per diffamazione. Quei tweet hanno suggerito questi falsi, e la struttura in cui Beatrice è interconnessa li ha diffusi; nella logica del «ciò che siamo capaci di rendere virale prima o poi diventa vero agli occhi di chi vogliamo convincere». Twitter, nonostante numerose segnalazioni, non ha finora ritenuto di chiudere l’account.

Perché rivolgere attenzione, anche giudiziaria, a quello che potrebbe essere un comune troll, o un militante anonimo? Perché Beatrice si muove dentro quella che è configurata come una struttura: a un’analisi matematica si presenta disegnata a tavolino secondo la teoria della reti, distribuita innanzitutto su Facebook (dove gravitano 22 milioni dei 29 milioni di italiani sui social), e - per le élite - su Twitter. 

Ha un andamento assai ingegnerizzato. Su Facebook, la rete è costituita da un numero limitato di account di generali (da Di Maio e Di Battista a Carlo Martelli, figura virale importante, in giù) e - tutto attorno - da una serie di account di mediatori top e, aspetto decisivo, da pagine e gruppi di discussione che fanno da camera di risonanza. In basso vi sono semplici attivisti o fake di complemento: gli operai. Immaginate una mappa geografica: gli snodi (hub) sono le città e i villaggi, fortemente clusterizzati (aggregati a grappoli); i mediatori e soprattutto i connettori sono le strade. Naturalmente, una rete così recluta anche tanti attivisti reali, che non possono vedere l’architettura, assorbiti dalla pura gravità dei nodi centrali: la struttura si mimetizza con l’attività spontanea come un albero in una foresta. Eventuali falsi e calunnie, ovunque generate, si viralizzano, venendo spostati dal centro alla periferia, anonimizzati, quindi meno denunciabili.

LEGGI ANCHE L’abbraccio dei Cinquestelle con i due emissari di Putin 

L’account di Beatrice ha di volta in volta vari ghost. «Ghost», nell’analisi matematica sui dati della parte pubblica di twitter, non significa ghostwriter, cioè persone che scrivono per lei; significa account «matematicamente indistinguibili» da lei secondo alcuni parametri come interazioni, contenuti, e meta dati di riferimento (il tempo in cui un certo account fa determinate cose). A luglio i «ghost» così intesi erano quelli di un ex candidato governatore M5S e di @BVito5s, Rottamiamo Renxit, account dedicato alla distruzione del premier. In seguito, @Teladoiolanius (contenuti di destra, anti-immigrati e pro Trump), @Kilgore (bastonatura di avversari, politici o giornalisti) e @AndCappe (account vicinissimo a @Marpicoll, a sua volta ghost di @marionecomix, account delle vignette grilline di satira pesante a senso unico), o di recente @_sentifrux (Sentinella), @carlucci_cc (Claudia) e @setdamper. Numerosi altri account chiave sono sempre matematicamente vicinissimi, sempre ricorrenti, prevalentemente anonimizzati, profondamente interconnessi tra loro. Svolgono ruoli precisi: chi è anti-immigrati, chi anti-Renzi, chi pro-Putin, chi pro-Trump, chi dedito alla bastonatura. La condivisione esatta dell’andamento dei metadati, e la spartizione palese dei ruoli, non si configurano, algoritmicamente, come casuali. C’è una centrale che gestisce materialmente questi account? La Procura si trova ora a indagare anche su questo. 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/16/italia/politica/palazzo-chigi-denuncia-laccount-della-cyber-propaganda-pro-ms-mOsOd6Vh4O8y4y0n4WrwlN/pagina.html
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« Risposta #72 inserito:: Novembre 26, 2016, 09:08:16 pm »

Nel mirino l’uomo di Casaleggio. Grillo: “Da noi chi sbaglia paga”
Bugani: “Una trappola”. L’autore dell’esposto: “Sapeva e mise il like”

Pubblicato il 24/11/2016
Ultima modifica il 24/11/2016 alle ore 07:06

JACOPO IACOBONI
TORINO

Nella storia degli indagati M5S per le firme a Bologna, inutile girarci intorno, è Massimo Bugani l’uomo politicamente nel mirino. È uno dei tre membri dell’Associazione Rousseau (assieme a Davide Casaleggio e all’europarlamentare David Borrelli). Ha un ruolo importante nella piattaforma informatica. È stimato da Casaleggio junior, che lo considera persona di fiducia. Bugani, ha osservato ieri, ritiene che ci siano «giochetti in corso contro di noi a Bologna», per colpire lui e direttamente Beppe Grillo e Davide Casaleggio; e si sfoga tornando a evocare anche il «sabotaggio». Grillo sul blog fa una difesa d’ufficio ma poi dice: «Anche qualcuno di noi a volte sbaglia, ma state sicuri che pagherà, come sempre è accaduto e come sempre accadrà»: un modo per fare quadrato, sì, ma non una difesa senza se e senza ma di nessuno. Segno di una differenza da cogliere, tra il fondatore e il giro di Davide Casaleggio. 
 
La tesi di Bugani è che «siamo caduti o in un banale errore o in una trappola tesa da ex esponenti del Movimento allontanati». La sua testimonianza è che «Marco (Piazza, il suo braccio destro indagato) è scrupolosissimo. Se è accaduto qualcosa è stato fatto in assoluta buona fede, senza che lui ne sapesse nulla, o per danneggiarlo». Dice che loro sono prontissimi ad andare dagli inquirenti. E minaccia querele contro i suoi accusatori politici. Piazza fa sapere che se c’è l’avviso di garanzia si autosospenderà.
 
Gli accusatori però non arretrano affatto, per la minaccia di essere querelati. Anzi. Stefano Adani, uno dei due che materialmente hanno presentato l’esposto, ci dice: «Innanzitutto non sono episodi isolati. Ne citiamo quattro. Il banchetto al Circo Massimo, dunque con autenticatore fuori Regione, cosa vietata dalla legge. Due episodi a Bologna, di cui uno al circolo (usa proprio questa parola, «circolo») Mazzini, dove si raccoglievano firme che venivano autenticate dopo: è vietato. E almeno un altro accaduto a Vergato, comune dell’Appennino bolognese, dove arrivò un autenticatore da un altro paesino». Bugani cosa c’entra? Risponde Adani: «Fa parte dell’esposto che Bugani sapesse di almeno una delle cose illegali avvenute: su Facebook gli scrisse un militante mandandogli la foto della sua firma al Circo Massimo, e Bugani mise il like. C’è lo screenshot, pubblicato da Radio Città del Capo due anni fa. Poi il like Bugani l’ha cancellato, sostenendo che il suo tablet era finito nelle mani di un collaboratore che era d’accordo con noi. Cosa ovviamente non vera». Toccherà naturalmente ai magistrati verificare chi abbia ragione, sarebbe un caso di «like a sua insaputa».
Potrebbe finire dunque anche il braccio destro di Casaleggio nelle indagini? Adani non vuole rispondere sui nomi del suo esposto, ma aggiunge un dettaglio: «Non ci sono solo i quattro indagati: gli episodi dell’esposto documentano anche altre persone. E pensare che noi anni fa a Bologna andavamo ai banchetti del Pd per verificare e contestarle a loro, le firme false; poi nel Movimento c’è chi si è messo a fare le stesse cose». C’è mai stato un incontro tra loro e Bugani o Piazza? «Glielo abbiamo chiesto, non ci ha mai risposto».
 
Bologna e l’Emilia sono terre fondative, dei cinque stelle. Terre di guerre interne, di storie brutte come la lapidazione sessista di Federica Salsi, o come quella di Giulia Sarti messa sotto attacco per le mail. Una terra di grandi divisioni dentro il Movimento, tra ciò che poteva essere e ciò che è stato. Favia versus Bugani su tutte, con Favia che finisce fuori, il volto delle origini, il pupillo di Grillo. Ora Favia ci dice: «Il gruppo di Bugani non può sperare di cavarsela con l’ingenuità o l’ignoranza: vi dico per certo che sono persone che conoscono benissimo le leggi sulla raccolta delle firme. Perché fanno queste cose? Per l’arroganza di chi si sente ormai potente e può tutto».
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/24/italia/politica/nel-mirino-luomo-di-casaleggio-grillo-da-noi-chi-sbaglia-paga-z2cRlIpbrQ6wnYbkXKucSM/pagina.html
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« Risposta #73 inserito:: Novembre 26, 2016, 09:13:45 pm »

Renzi: “Bisogna che vinca il Sì, in questo modo saremo più forti in Europa”
Il premier alla Stampa: “Se passa il No Berlusconi non troverà me al governo ma Grillo. Non importa cosa farò io dopo, ho 41 anni e nulla da aggiungere al mio curriculum”

Pubblicato il 26/11/2016
Ultima modifica il 26/11/2016 alle ore 09:32

Jacopo Iacoboni
Torino

«Se vince il Sì andremo in Europa con più forza a spiegar loro come fare su migranti, economia, e posti italiani a Bruxelles». Uscendo dalla redazione de La Stampa - dove ieri mattina ha risposto in una videointervista alle domande di Massimo Gramellini e dei lettori - Matteo Renzi parla di quella che è per lui la sfida cruciale del referendum del 4 dicembre, e il suo messaggio di fondo: se vince il No, dice, torneranno tecnocrati alla Mario Monti che vessano i cittadini, alzano le tasse, e rimettono il segno meno davanti ai dati del Pil. Se vince il Sì, secondo il premier, «l’Italia sarà più stabile e in grado di dettare condizioni all’Europa. Indicheremo una terza via, per rispolverare un’espressione clintoniana», e l’idea che espone in redazione è di sfuggire all’alternativa tra Trump e Angela Merkel, tra populisti e globalisti. «Il mondo in questo momento è dibattuto, con la Russia che sappiamo, con l’effetto Trump che aleggia, con la Brexit». In questo scenario lui vede uno spazio, un’opportunità, di far pesare una via italiana: «Noi siamo quelli che hanno fatto mettere agli atti, davanti alla Cancelliera, le perplessità sull’austerity». Oppure, per farsi sentire di più: «Noi diamo all’Europa venti miliardi tutti gli anni e ne prendiamo indietro dodici. Se di questi dodici ne lasci per strada una parte, hai vinto il premio Nobel per la stupidità. Mentre ci impegniamo a riequilibrare questo rapporto di venti a dodici, intanto ci siamo detti: spendiamo meglio questi dodici».

La «vera» Casta 

Ambizioni europee come queste passano ora, inesorabilmente, dal voto sul referendum costituzionale. Dopo questa aspra campagna elettorale, con accuse e controaccuse, cosa rispondere a un racconto che vorrebbe ormai il rottamatore nei panni del simbolo di una Casta? «Dicono a noi che siamo la Casta? Dall’altra parte, nel fronte del No, vedo un sistema che tiene insieme cinque ex presidenti del Consiglio: Monti, De Mita, Lamberto Dini, D’Alema e Berlusconi. Li riconosci dalla quantità di pensioni. Berlusconi dice: “Il giorno dopo ci sediamo al tavolo con Renzi”. No, il giorno dopo, ci trova Grillo e Massimo D’Alema, non il sottoscritto. Cinque ex premier che per anni ci hanno detto riforme e non le hanno fatte. Se gli italiani vogliono affidarsi a loro, prego, si accomodino». Lo scenario che prefigura, o lo spauracchio che agita, se preferite, è che se vincesse il No rischiamo un governo tecnico, «ma il governo tecnico non fa l’interesse dell’Italia, spiana la porta ad altri interessi, ad altre cose. Per questo serve la politica, un governo politico». 
Il No dell’Economist 

Il presidente del Consiglio non può non rispondere qualcosa sull’Economist, che ha scritto: «L’Italia dovrebbe votare No». Sa che quell’articolo viene cavalcato in rete, diventa virale, viene agitato come verità in terra dagli stessi che un paio d’anni fa strepitavano contro i giornali della finanza e dell’establishment: «Leggo che l’Economist parla di un governo tecnico, loro lo chiamano tecnocratico. Magari per l’Italia è meglio, io l’ultimo governo tecnico che ricordo, quello di Mario Monti, ha alzato le tasse e ha prodotto il segno meno sulla crescita. Il 2017 sarà cruciale per l’Europa, l’Italia deve avere una forte strategia europea e lo può fare solo un governo con solidità e stabilità, un governo politico. Un governo tecnico che dice “ce lo chiede l’Ue” non fa l’interesse dell’Italia ma di altri». 

I risultati del governo 

Qualche punto prova a rivendicarlo, anche rispondendo a domande come quella di Corrado Attili. «Tutto possiamo dire tranne che in due anni non abbiamo fatto niente». Ricorda quelli che a lui paiono meriti del suo governo: «Negli ultimi due anni il nostro debito è stabilizzato, al 132 per cento. È alto, troppo alto, ma non cresce più. Anzi l’abbiamo tagliato, di 43 miliardi. Lo so, vogliamo fare di più, ma mia nonna diceva che il meglio è nemico del bene». Inseguendo una perfezione mitica ci avvitiamo nell’inazione, quella che lui chiama la palude. Situazione che, a Gramellini che gli chiede dei limiti della riforma, riassume in una battuta: «Questo referendum è come un viaggio in autostop; ne avete mai fatti da ragazzi? È come se tu volessi andare da Roma ad Aosta, passa uno che ti offre un passaggio fino a Torino. Voi che fate, accettate o aspettate uno che vi porti ad Aosta?». Per dire che tante cose le avrebbe volute diverse anche lui, come gli domanda il lettore Giorgio Mari, «se avessi potuto fare da solo la riforma sarebbe stata diversa», ma il punto cruciale, il taglio dei costi e la fiducia data da una sola Camera, è per lui comunque fondamentale.

L’attacco al M5S 

Il Renzi di oggi ammette diversi errori, in questa fase sta evidentemente provando a ricucire un gap di umanità che s’era creato, e lui a un certo punto ha avvertito. Anche agli insulti sceglie di replicare con più ironia, o autoironia, o almeno ci prova: «Nella mia veste di scrofa ferita e di aspirante serial killer, da parte nostra dico che la nostra intenzione è di abbassare totalmente i toni dello scontro, anche perché va nel nostro interesse». Però sui tagli ai costi della politica e la doppia morale dei cinque stelle, va all’attacco: «Il M5S parla di riduzione degli sprechi, ma prende come noi i fondi per il gruppo parlamentare: al Senato noi abbiamo preso 30 milioni, loro 13. La differenza è che il M5S utilizza i fondi del gruppo al Senato per pagare la casa di Rocco Casalino, un loro dipendente. Capite? Pagano le bollette coi soldi dei fondi del Senato, è vietato». 
Per Torino, il premier elogia come la Regione di Sergio Chiamparino sta gestendo l’emergenza del maltempo; dice di aver incontrato «la sindaca Appendino», in uno spirito di collaborazione reciproca. Promette un intervento immediato per il maltempo, «i soldi ci saranno, ma bisogna spenderli bene». E sul Moi, le palazzine del villaggio olimpico da tempo occupate da famiglie di immigrati e profughi, assicura: «C’è massima disponibilità a sostenere un’iniziativa finalizzata a risolvere la situazione in modo... piemontese, quindi con grande sobrietà. Siamo disponibili a venire incontro alle esigenze delle istituzioni». 

«Se devo, me ne andrò» 

In definitiva, è un Renzi meno da selfie - anche se diversi ragazzi gliene chiedono, quando esce dalla Stampa, e lui non si sottrae - e più concentrato a far passare un messaggio conclusivo: l’Italia può essere importante, nella stagione Trump-Brexit, con la Russia sullo sfondo: «Abbiamo davanti il 4 dicembre un grande assist per segnare, cambiare l’Italia e anche l’Europa, o sparare la palla in tribuna. La mia sorte non è importante - risponde al lettore Fiora - non farò più l’errore di personalizzare; ma poi gli stessi che me lo rimproverano mi domandano continuamente “che cosa farò io?”. Rispondo così: non importa. Io ho 41 anni, ho fatto il sindaco della città più bella del mondo (Gramellini lo interrompe: “A parte Torino”), non devo aggiungere più nulla al mio curriculum. Non sto lì a vivacchiare, non sono adatto. Se dobbiamo tornare alle liturgie del passato, le riunioni di maggioranza con i tecnici, per la logica della palude, delle sabbie mobili tanti sono più bravi di me. Io sto se possiamo cambiare». Un sassolino dalla scarpa se lo toglie, senza nominare Enrico Letta: «Quando toccherà a me lasciare Palazzo Chigi, uno si gira, si inchina alla bandiera e sorride, non mette il broncio. Passerò la campanella con un sorriso e un abbraccio a chiunque sia perché Palazzo Chigi non è casa tua ma degli italiani».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/26/italia/speciali/referendum-2016/renzi-bisogna-che-vinca-il-s-in-questo-modo-saremo-pi-forti-in-europa-wfNl3YT8Y6HdaL6RwODrvI/pagina.html
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« Risposta #74 inserito:: Dicembre 11, 2016, 05:39:10 pm »


Lo sfogo di Renzi: ho perso la fiducia dei giovani. Lavorerò su di loro e sul web
La conversazione con Gramellini: “Non mi faccio incastrare. Mi ricandido alla segreteria sfidando D’Alema o chi metterà lui”
La poltrona
Ieri in tv il premier dimissionario Matteo Renzi ha rivendicato di aver lasciato la poltrona con stile, pur disponendo ancora della maggioranza in Parlamento

Pubblicato il 11/12/2016
Ultima modifica il 11/12/2016 alle ore 08:42

Jacopo Iacoboni
Roma

Una delle riflessioni che sta facendo Matteo Renzi in queste ore dopo la vittoria del No al referendum, e le sue dimissioni da premier, è semplice e difficilmente confutabile dati alla mano: ho perso perché ho perso la fiducia del voto dei giovani.

Ed è su questo terreno - ragiona - che m'impegnerò da oggi in avanti, fino alle elezioni, in qualunque momento ci saranno. Ricostruire comunità, riconquistare i giovani. Puntando anche molto sul web, come spiegheremo meglio più avanti.

Proprio lui, l’ex rottamatore, che comparve sulla scena scompaginando un apparato Pd stantio, ha poi totalmente perso freschezza, la guasconeria che l’aveva fatto sembrare così esterno al Palazzo, e così in grado di sintonizzarsi con una generazione nuova di italiani, s’è presto mutata nella percezione in arroganza. È stata una nemesi impressionante che Renzi finisse con l’essere identificato, a torto o a ragione (o, come spesso accade nella vita, in un mix di entrambe le cose), col simbolo di quella Casta che doveva combattere. Ma è andata così, è un fatto.

La riflessione renziana sui giovani l’ha raccontata ieri in tv Massimo Gramellini durante “Le parole della settimana”, riferendo di uno scambio al telefono, non un’intervista, semmai più un flusso di pensieri, con il presidente del Consiglio dimissionario. Seduto su uno sgabellino con accanto Serena Dandini e Fabio Volo, Gramellini ha raccontato alcune valutazioni interessanti, che vale la pena di riferire.

Innanzitutto Renzi rivendica di avere lasciato la poltrona con stile, pur avendo ancora in Parlamento una maggioranza, e di esserci rimasto male nel vedere politici ed editorialisti che maramaldeggiano in tv, invitarlo a tornarsene a casa. Uno spettacolo, possiamo aggiungere, del
tutto italiano, che colpisce sempre il potente in difficoltà, e tanto più quanto più il potente è (stato) forte (corollario: i primi ad accoltellare sono di solito personaggi dal potente beneficiati).

Contrariamente a quanto uno potrebbe credere, Renzi non è pentito di essersi lanciato nell’avventura del referendum - cosa che s’è rivelata fatale anche per la sua promessa di lasciare in caso di sconfitta. Negli ultimi giorni prima del voto l’allora premier aveva più volte ammesso l’errore di aver personalizzato la consultazione sulla riforma costituzionale, ma è anche vero che ogni volta che l’ammetteva gli tornavano a chiedere cosa avrebbe fatto in caso di sconfitta: insomma, s’è impiccato a una sua stessa frase. 

Eppure, è il ragionamento di Renzi, il mio errore più grosso è stata la riforma della scuola: non è riuscita come avrebbe voluto. Mentre il referendum a suo dire è stata una battaglia giusta perché le riforme erano necessarie, e lo dimostra la vicenda del Monte dei Paschi; Renzi di questo è totalmente convinto (la Bce proprio ieri l’altro ha negato qualsiasi proroga per la ricapitalizzazione, e dunque i 5 miliardi andranno trovati, probabilmente con l’aiuto dello Stato).

Sostiene il segretario del Pd che ci si è trovati, con la vittoria del No, in una situazione kafkiana: i senatori hanno votato la propria abolizione e sono stati rimessi in sella dai cittadini che li detestano. Scherzando, ha aggiunto: quando torno al governo, la prima cosa che faccio sarà nominare il Cnel, quello che non mi hanno fatto abolire. Scherzando ma chissà fino a che punto, si potrebbe chiosare: il «rimettersi in cammino» allude chiaramente a una rivincita, che però va costruita un po’ da lontano, e con un Pd non esattamente suo complice. Almeno, non tutto.

Renzi ha consegnato a Gramellini alcune riflessioni anche sugli aspetti più formali della crisi di governo che in queste ore il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dovuto dipanare, sul ruolo del Pd, ma anche su quello del suo leader. Molti suoi nemici hanno ipotizzato che il passo indietro fosse solo di facciata, o che Renzi si fosse dimesso nella speranza di restare lui dimissionario fino al voto, oppure con l’idea di accettare una plausibile ipotesi di reincarico. Gramellini ha raccontato invece di un premier uscente determinato: non mi faccio incastrare, gli ha detto. Do la campanella con un sorriso al mio successore, sia Gentiloni, Padoan, Godzilla o Jack lo Squartatore. Poi me ne torno cittadino tra i cittadini, senza stipendio né vitalizio. E mentre il nuovo governo Renzi senza Renzi governa, lui si ricandida alla segreteria del Pd, dove sfiderà D’Alema o l’uomo che lui gli metterà contro. Vinco e sparisco da Roma, ha spiegato Renzi, girando l’Italia fino alle elezioni politiche e allargando la squadra, come tutti mi avete chiesto. 

Renzi è convinto di avere con sé circa un terzo degli italiani: che non sarebbe poco - anche se non è esattamente il 40 per cento dei voti per il Sì che alcuni renziani, troppo ottimisticamente, s'intestano, ma è una base su cui impostare una rivincita. Nello scambio telefonico riportato ieri su Raitre, il discorso è andato a cadere inevitabilmente sui giovani, anzi, sull’accoppiata giovani più Internet (e social network). Renzi ha detto a Gramellini di avere perso il voto giovanile perché il Pd è assente dal web, e dunque lui nei prossimi mesi dedicherà tutte le sue energie a ricostruire una comunità digitale. 
Non sarà facile, si può aggiungere, senza mettere a fuoco anche cosa si vuole dire; e quanta cattiveria si è disposti a sprigionare nello spazio cyber, che non è più solo terra di promesse.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/11/italia/politica/lo-sfogo-di-renzi-ho-perso-la-fiducia-dei-giovani-lavorer-su-di-loro-e-sul-web-nf1I71Lwn1r9YdUfY8VsvJ/pagina.html
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