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Autore Discussione: JACOPO IACOBONI. -  (Letto 62624 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Marzo 23, 2014, 05:15:51 pm »

Politica
20/03/2014 - intervista

Di Battista: il M5S sopra il 26% e possiamo sfondare il 30
Tour con i deputati sospesi: “Alle europee supereremo il risultato del 2013. Ma quale leader, nel 2018 non mi ricandiderò”

Jacopo Iacoboni
Inviato in VENETO

A che punto è il feeling della società italiana con il Movimento cinque stelle? Esiste a Milano un loro dato riservato (non un sondaggio) che li vorrebbe di nuovo molto alti, risulta anche ad Alessandro Di Battista? Romano di Prati, 35 anni, esuberante ma molto parco di interviste coi giornali, accetta di parlare mentre il treno lo porta a Modena, nuova tappa del tour dei deputati sospesi: «Io non conosco questo dato; ma le dico: ho elementi per credere che supereremo il risultato di febbraio 2013». 

Non è un po’ troppo? Di solito i politici abbassano l’asticella della previsione, così comunque vada dicono che hanno vinto. 

«Noi non abbiamo il problema del consenso, non vogliamo fare politica a vita. La mia speranza anzi è sfondare quota 30 per cento; ma credo che saremo comunque più alti del 25,5. A quel punto chiederemo al governo di dimettersi, e ai cittadini di circondare il Parlamento».

In base a cosa crede a questa soglia? È un atto di fede o una descrizione? 

«Da un anno facciamo delle agorà con i meet up. Prima venivano 30-40 persone, ora a Verona eravamo in 800 un lunedì sera, a Noale, un paesino veneto, ieri, 450. Non sono i numeri dello tsunami tour, è ovvio; ma stiamo seminando tanti piccoli tsunami. Da Roma ovviamente non si capisce».

L’altra sera lei diceva che tanti anni fa, parlando con suo padre, constatavate che la Lega era «nata rivoluzionaria, ma aveva fatto l’errore di entrare nelle spartizioni del sistema». Partite da nord est perché puntate a prendere molti voti in quell’elettorato deluso? 

«Il tour non ha questo significato, andremo anche a sud, o nelle isole. E poi parliamo a quell’elettorato, sì, ma siamo anche contro gli F35, una battaglia che piace molto a sinistra. Però - essendo sempre stato un antiLega - posso dire nelle piazze che la Lega delle origini era rivoluzionaria; quella prima della secessione, che era solo un modo per chiedere tanto per ottenere qualcosa».


Quello che fate voi sull’euro? 

«Noi no, non chiediamo tanto per ottenere poco. Semmai vogliamo alzare il livello dello scontro - sempre in maniera rigorosamente non violenta - perché è l’unico modo per ottenere risultati. Il salva Roma l’abbiamo stoppato perché li minacciammo di farli restare a votare nel weekend, e avevamo i voti per farlo. In Parlamento io ho provato a convincere tutti i deputati del Pd a votare con noi alcune cose, Civati, Moretti, Madia... tutti. Da Rodotà in poi. Dicevano “è il migliore, ma non possiamo votarlo perché lo proponete voi”. Ricordo che la Moretti, la sera di Prodi, piangendo, mi disse “ok, avete vinto voi, cosa dobbiamo fare?”. Poi votarono Napolitano. Votano contro le loro convinzioni perché vogliono fare politica a vita, e allora fanno autocastrazione. Noi non abbiamo questo problema. Dopo due mandati faremo altro, il che ci rende più liberi».

In Europa ora siete passati a una più mite richiesta: gli euro bond. 

«L’uscita dall’euro, come la mette la Lega, è uno slogan. Gli euro bond mi sembrano una via praticabile, ricordo che ne parlò Tremonti, non dispiacevano anche a sinistra, è davvero impossibile farli?».

Quindi niente uscita dall’euro? 

«Se la Germania non accetta gli euro bond, che esca la Germania. Né al Consiglio né alla commissione c’è il veto previsto, per esempio, all’Onu. Il voto tedesco vale quanto quello della Grecia. Sfidiamo Renzi, faccia una grande iniziativa europea su questo. Lui definisce “anacronistico” il 3 per cento, ma va da Merkel e non dice niente».

Lamentate che Renzi vi ruba dei temi, questo però dovrebbe porvi un problema politico, o no? 

«Per noi il problema non è chi si prende la paternità, è che Renzi poi quelle cose non le fa».

Qualche carta non la potevate andare a vedere? Magari le province, parzialmente tagliate? 

«In realtà non erano neanche tagliate a metà. Ed è così su tutto; i renziani erano contro gli F35, che però sono ancora lì; erano per la mozione elettorale Giachetti, che però non votarono; erano per l’amnistia, e poi sono diventati contro. Non sono credibili».

 

E i vostri errori? Lei è stato sospeso per quella scena con Speranza, se n’è pentito? 

«Riguardandomi ho capito che ero fuori giri, avevo perso il controllo, e non ne sono affatto contento. Ma la battaglia era giusta, quella la rifarei: ci hanno negato il riconteggio dei voti, violano le procedure della democrazia, e attaccano noi sulle forme. Diventa tutto un gioco comunicativo, spesso falsato. E lo dice uno che ha un sogno: fare il reporter. E lo farò, perché se la legislatura dura fino al 2018, io non mi ricandiderò».

E la tv? Dalla Bignardi, al di là delle polemiche, non è andata male. L’ha più sentita? 

«No. Ma non ce l’avevo con lei, ha fatto le domande che doveva, anche su mio padre. Quello che mi è dispiaciuto è aver visto poi il trattamento di totale gentilezza - eufemismo - riservato a Renzi».

@jacopo_iacoboni 

Da - http://lastampa.it/2014/03/20/italia/politica/di-battista-il-ms-sopra-il-e-possiamo-sfondare-il-cI4tgII5qfZehynwgcbTVN/pagina.html

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« Risposta #31 inserito:: Marzo 24, 2014, 04:59:53 pm »

Politica
20/03/2014 - intervista
Di Battista: il M5S sopra il 26% e possiamo sfondare il 30
Tour con i deputati sospesi: “Alle europee supereremo il risultato del 2013. Ma quale leader, nel 2018 non mi ricandiderò”

Jacopo Iacoboni
Inviato in VENETO

A che punto è il feeling della società italiana con il Movimento cinque stelle? Esiste a Milano un loro dato riservato (non un sondaggio) che li vorrebbe di nuovo molto alti, risulta anche ad Alessandro Di Battista? Romano di Prati, 35 anni, esuberante ma molto parco di interviste coi giornali, accetta di parlare mentre il treno lo porta a Modena, nuova tappa del tour dei deputati sospesi: «Io non conosco questo dato; ma le dico: ho elementi per credere che supereremo il risultato di febbraio 2013». 

Non è un po’ troppo? Di solito i politici abbassano l’asticella della previsione, così comunque vada dicono che hanno vinto. 

«Noi non abbiamo il problema del consenso, non vogliamo fare politica a vita. La mia speranza anzi è sfondare quota 30 per cento; ma credo che saremo comunque più alti del 25,5. A quel punto chiederemo al governo di dimettersi, e ai cittadini di circondare il Parlamento».

In base a cosa crede a questa soglia? È un atto di fede o una descrizione? 

«Da un anno facciamo delle agorà con i meet up. Prima venivano 30-40 persone, ora a Verona eravamo in 800 un lunedì sera, a Noale, un paesino veneto, ieri, 450. Non sono i numeri dello tsunami tour, è ovvio; ma stiamo seminando tanti piccoli tsunami. Da Roma ovviamente non si capisce».

L’altra sera lei diceva che tanti anni fa, parlando con suo padre, constatavate che la Lega era «nata rivoluzionaria, ma aveva fatto l’errore di entrare nelle spartizioni del sistema». Partite da nord est perché puntate a prendere molti voti in quell’elettorato deluso? 

«Il tour non ha questo significato, andremo anche a sud, o nelle isole. E poi parliamo a quell’elettorato, sì, ma siamo anche contro gli F35, una battaglia che piace molto a sinistra. Però - essendo sempre stato un antiLega - posso dire nelle piazze che la Lega delle origini era rivoluzionaria; quella prima della secessione, che era solo un modo per chiedere tanto per ottenere qualcosa».


Quello che fate voi sull’euro? 

«Noi no, non chiediamo tanto per ottenere poco. Semmai vogliamo alzare il livello dello scontro - sempre in maniera rigorosamente non violenta - perché è l’unico modo per ottenere risultati. Il salva Roma l’abbiamo stoppato perché li minacciammo di farli restare a votare nel weekend, e avevamo i voti per farlo. In Parlamento io ho provato a convincere tutti i deputati del Pd a votare con noi alcune cose, Civati, Moretti, Madia... tutti. Da Rodotà in poi. Dicevano “è il migliore, ma non possiamo votarlo perché lo proponete voi”. Ricordo che la Moretti, la sera di Prodi, piangendo, mi disse “ok, avete vinto voi, cosa dobbiamo fare?”. Poi votarono Napolitano. Votano contro le loro convinzioni perché vogliono fare politica a vita, e allora fanno autocastrazione. Noi non abbiamo questo problema. Dopo due mandati faremo altro, il che ci rende più liberi».

In Europa ora siete passati a una più mite richiesta: gli euro bond. 

«L’uscita dall’euro, come la mette la Lega, è uno slogan. Gli euro bond mi sembrano una via praticabile, ricordo che ne parlò Tremonti, non dispiacevano anche a sinistra, è davvero impossibile farli?».

Quindi niente uscita dall’euro? 

«Se la Germania non accetta gli euro bond, che esca la Germania. Né al Consiglio né alla commissione c’è il veto previsto, per esempio, all’Onu. Il voto tedesco vale quanto quello della Grecia. Sfidiamo Renzi, faccia una grande iniziativa europea su questo. Lui definisce “anacronistico” il 3 per cento, ma va da Merkel e non dice niente».

Lamentate che Renzi vi ruba dei temi, questo però dovrebbe porvi un problema politico, o no? 

«Per noi il problema non è chi si prende la paternità, è che Renzi poi quelle cose non le fa».

Qualche carta non la potevate andare a vedere? Magari le province, parzialmente tagliate? 

«In realtà non erano neanche tagliate a metà. Ed è così su tutto; i renziani erano contro gli F35, che però sono ancora lì; erano per la mozione elettorale Giachetti, che però non votarono; erano per l’amnistia, e poi sono diventati contro. Non sono credibili».

 

E i vostri errori? Lei è stato sospeso per quella scena con Speranza, se n’è pentito? 

«Riguardandomi ho capito che ero fuori giri, avevo perso il controllo, e non ne sono affatto contento. Ma la battaglia era giusta, quella la rifarei: ci hanno negato il riconteggio dei voti, violano le procedure della democrazia, e attaccano noi sulle forme. Diventa tutto un gioco comunicativo, spesso falsato. E lo dice uno che ha un sogno: fare il reporter. E lo farò, perché se la legislatura dura fino al 2018, io non mi ricandiderò».

E la tv? Dalla Bignardi, al di là delle polemiche, non è andata male. L’ha più sentita? 

«No. Ma non ce l’avevo con lei, ha fatto le domande che doveva, anche su mio padre. Quello che mi è dispiaciuto è aver visto poi il trattamento di totale gentilezza - eufemismo - riservato a Renzi».

@jacopo_iacoboni 

Da - http://lastampa.it/2014/03/20/italia/politica/di-battista-il-ms-sopra-il-e-possiamo-sfondare-il-cI4tgII5qfZehynwgcbTVN/pagina.html
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« Risposta #32 inserito:: Marzo 27, 2014, 06:29:36 pm »

26/03/2014

"Noi, il popolo"
Renzi, il M5S e l'accusa (pericolosa) di populismo a chiunque "non è come noi"


In Gran Bretagna c'è un modo di dire che descrive meglio di ogni altro la situazione dell'Italia 2014 - non solo politica: "Alcolista è il mio nemico che beve; io sono un amante del vino".
Populisti sono sempre gli altri, in Italia. Ma è un'etichetta che, specie quando viene brandita alla cieca in politica, dice poco o nulla.

D'accordo, non c'è osservatore della domenica, peone del Parlamento o passante di twitter che in questi giorni (mesi, e forse negli ultimi anni) non abbia dato del populista a qualcuno. Certo a Berlusconi e alla Lega, tuttavia pare di ricordare che L'Unità, quotidiano del Pd, apostrofò Renzi stesso - il loro futuro leader, e non ci voleva molto a capirlo - come "fascistoide" e "populista"; eravamo non più di due anni fa (anzi meno). Il Movimento cinque stelle è populista per definizione. Si sprecano le analisi all'ingrosso che chiamano "populista" il voto al Front National in Francia; l'espressione "ondata populista" è diventata così corriva che non si capisce neanche più bene cosa voglia dire. E' chiaro, già solo per via negativa, che affibbiare questa etichetta a cose tanto diverse - e spesso francamente opposte - la squalifica totalmente come categoria ermeneutica (il che è autoevidente), ma persino come ascia di battaglia politica. Eppure.

"Populista". Renzi fa due tweet nei quali annuncia che occorre tagliare gli stipendi dei top manager - sacrificio sacrosanto persino oltre il rendimento economico delle aziende che dirigono - e gli danno del populista. Scrive che con il ddl sulle province si risparmieranno 3000 indennità ai politici - non un granché, ma già qualcosa - e la cosa viene spesso commentata come populista, molte volte all'interno del suo gruppo parlamentare. Sostiene di non voler più perdersi in mediazioni infinite con Confindustria e sindacati - i "corpi intermedi" al servizio degli interessi parziali che rappresentano- ma di voler parlare "direttamente" alle famiglie, e quell'avverbio fa quasi scandalo, “direttamente" non vorrà mica dire saltando le mediazioni della democrazia rappresentativa? Non sia mai. Sacrilegio.
 
"Popolo" è effettivamente categoria sfuggente, se ce n'è una. C'è il tetro Volk della Germania anni trenta, che davvero echeggia ancora in Europa col suo carico di violenza, razzismo, xenofobia, antisemitismo, visione di devastanti "società integrali". Ma c'è anche il "Noi, il popolo" della Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti, che Judith Butler in un bellissimo saggio considera "il fondamento" delle democrazie, non la sua antitesi o negazione. Ogni elaborazione teorica di una sinistra-sinistra contemporanea (da Badiou a Zizek) si colloca esattamente in questa costellazione, a meno di non voler seguire invece le teorizzazioni anti-populiste della sinistra dei raffinati filosofi D'Alema e Camusso. Il meglio del pensiero anarco-libertario (David Graeber, uno dei testi sempre citati dal mondo Occupy americano) ha fatto a pezzi questa accezione negativa di "popolo", portandola semmai a coincidere con la nozione - più elastica e fluttuante, ma mai demonizzata, di "cittadinanza attiva", o di "democrazia radicale", o "democrazia" tout court. Eppure di fronte a ogni tentativo di ascolto del "popolo" nelle prassi politiche, scatta inesorabile l'accusa di populismo. E' vero, l'ascolto può avvenire in forme a volte anche molto sbracate, o palesemente pericolose; e non tutte le élite paiono da mandare al macero, semmai a volte il problema italiano è che le élite in Italia non sono abbastanza élite, per cultura, merito, capacità di servizio al di là di interessi corporativi o di casta. Nondimeno l'equivalenza popolo = populismo è uno dei pessimi arnesi dei senza argomenti, che oltretutto si mostrano incapaci di cogliere i veri elementi pericolosi quando ci sono (e in alcuni casi ci sono), dei "popoli". Quell'equazione - verrebbe da dire - è lei sì, davvero, populista nel senso peggiore.
 
Com'è ovvio, in qualsiasi passaggio della teoria politica moderna non è così. In Machiavelli - tanto per citare alcune radici di fondo - il "bene comune" è ostacolato - in linea fondativa - dagli appetiti delle oligarchie, più che dalla fame o dall'impreparazione del popolo. John McCormick - uno dei più acuti studiosi del tema - mostra benissimo, prendendo spunti dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, come la nozione di "anti-populismo" sia anzi diventata lo strumento usato classicamente (cioè senza tempo) dalle élite per conservare i propri interessi di (piccolo) gruppo a scapito di quelli delle "moltitudini" (termine per lo più posteriore, ma qui rende l'idea). Per Machiavelli esistono casi in cui, legittimamente, le élite possono essere contestate - a volte anche per via istituzionale, il che è assai interessante, pensando all'esperienza del renzismo oggi - e il caso che cita più volentieri è la repubblica romana. Machiavelli, semmai, critica tutta una filiera opposta che vede nel popolo - e nel concetto stesso di "democrazia", dall'Etica Nicomachea a Guicciardini - un elemento deteriore che avvicina le organizzazioni degli stati alle tirannie, non alla libertà. Piccolo particolare: questa equivalenza popolo-populismo è il topos di un pensiero politico quello sì conservatore.
 
Naturalmente la discussione sarebbe lunga, né può essere esaurita certo qui; ma almeno un dubbio che l'accusa di "populismo" sia citata a sproposito ce lo possiamo far venire, sia nella polemichetta politica spiccia, sia nel dibattito teorico. Per l'incoerenza e la radicale diversità dei soggetti ai quali la si applica; ma anche - appunto - perché si tratta di un'accusa partorita in un contesto teorico "ideologico", potremmo dire con una forzatura linguistica successiva, cioè è un'accusa che serve all'interno di un discorso politico preciso: di conservazione e mantenimento degli status quo. Guarda caso, proprio come oggi. Dai del populista a ogni richiesta di cambiamento che arriva dal basso della società, e avrai cristallizzato tutto. O almeno crederai di.
 
Neanche una settimana prima delle elezioni politiche del 2013, il Pd di Bersani chiuse la sua trionfale campagna elettorale con un grande evento tipico della sua "filosofia politica" di questi anni: il congresso dei socialisti europei a Torino. Coi buoni uffici di D'Alema ("ormai passo la maggior parte del mio tempo") all'estero, con Bersani incoronato in prima fila come sicuro premier per assenza di alternative, col videomessaggio sontuoso e compunto (ma anche parecchio obliante dei desiderata della società francese) di le president Hollande, col discorso fieramente antipopulista di Martin Schultz, con l'effervescente simpatia di Elio Di Rupo, insomma, con tutti questi sapidi ingredienti fu preparata la zuppa della lettura tipo del centrosinistra italiano recente, ossia: noi come unico argine europeista "contro il dilagare del populismo". Inutile osare osservare - allora - che forse molto di quel "populismo" era già in quel momento (e chissà da quanto) ingrossato in realtà da ex elettori delle sinistre europee; inutile anche solo lasciarsi attraversare dal sospetto che questa lettura della realtà fosse foriera di disastri elettorali. La differenza adesso (non è una differenza da poco) è che il capo del centrosinistra italiano ha fiutato- e anzi, lo evoca lui stesso da Palazzo Chigi - il rischio di un "devastante tsunami" in Europa, se si batte questa pista di cieca demonizzazione. Sarà vero, falso, ci crede per convinzione, per mera convenienza? E questo rischio lo si fronteggerà dando del populista a chiunque sia fuori dal perimetro delle nostre, magari forbite, convinzioni storico-politiche? O al limite pensando che tagliare lo stipendio di Moretti forse non meriti la stessa definizione di certi atti xenofobi alla periferia di Parigi, legittimati dal Front National?


Noi naturalmente non lo crediamo, sicuramente non andrà così, il centrosinistra farà tesoro dei suoi errori - per quanto linguisticamente ripetuti e politicamente ciclici. Sarà impossibile che si finisca come nella barzelletta: il popolo non ci vota? Che problema c'è, cambiamo il popolo.

twitter @jacopo_iacoboni

da - http://lastampa.it/2014/03/26/blogs/arcitaliana/noi-il-popolo-9J1dfDgulHGuL7NSLmIL3J/pagina.html
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« Risposta #33 inserito:: Aprile 06, 2014, 06:12:18 pm »

Politica
02/04/2014

Brunetta, l’alfiere stizzito dei forzisti anti-Renzi
L’ex ministro dà voce a quella parte del partito che vuole tirare un po’ sul prezzo delle riforme per acquistarle in seguito a condizioni più vantaggiose. O se fosse invece solo il sogno del renzismo, che non riesce ad afferrare, a incollerirlo?

Jacopo Iacoboni

Da qualche giorno chi segue anche le piccole cose della politica italiana avrà notato un singolare imbizzarrimento dell’ex candidato del Pdl a sindaco di Venezia, ex socialista ed ex ministro berlusconiano, contro l’attuale premier. Uno che ancora nel luglio 2011, del Renzi sindaco, diceva «avercene, di gente come lui», e che anche nei giorni successivi al patto Renzi-Berlusconi sulle riforme, aveva aperto più di uno spiraglio al neopremier. 

L’ultima scena invece, abbastanza divertente, bisogna ammetterlo, è accaduta in mattinata in tv ad Agorà, e è sintomatica, Brunetta che prima ha svolto un severissimo ragionamento contro Renzi, «è il terzo presidente che non viene fuori da elezioni politiche, dopo Monti e Letta, è figlio di una stagione anomala che ha poco a che fare con le regole democratiche, dopo Renzi ci può essere un altro Renzi, se stiamo alle congiure di palazzo... Renzi ha vinto solo delle finte primarie di partito». A quel punto il dibattito è proseguito, ma l’ex ministro, sentendosi trascurato («posso intervenire, ehiii...non parlo come gli altri, signor conduttoreeee?») ha preso e se n’è andato stizzito.

E tuttavia la sua stizza - sempre assai godibile televisivamente - non è una novità di oggi. E’ da qualche tempo che Brunetta ha assunto un po’ il ruolo - conferito ad hoc nel centrodestra? autoassegnato? - di alfiere degli anti-Renzi del Cavaliere. Se Verdini tratta con la Boschi, Brunetta chiama Renzi demagogo, “sembra voler contrastare demagogia e populismo con altrettanta demagogia e altrettanto populismo. Veramente siamo sconcertati”. Il premier vanta il ddl costituzionale approvato dal consiglio dei ministri? Brunetta si inalbera subito perché «noi vogliamo la riforma del Senato, del bicameralismo, del titolo V, vogliamo il premierato, l’elezione diretta del capo dello Stato, ma di questo vediamo ben poco nelle bozze presentate». Renzi spiega che l’obiettivo è portare la disoccupazione sotto il dieci per cento? Ecco Brunetta, che bolla il suo dire come «ridicolo e patetico».

E se fosse davvero come la vede Brunetta - un Renzi che “risponde al populismo col populismo”, uno Stranamore che “bluffa”, che «le spara grosse», che “farebbe meglio a farsi scrivere «esternazioni migliori dai suoi ghost writer» («ne aveva di bravi ai tempi delle sue numerose campagne elettorali») - certo non potrebbe trovarsi di fronte antagonista più speculare: un proteiforme, divertentissimo e poliedrico professionista della battuta, dai “fannulloni” della pubblica amministrazione ai “poliziotti panzoni” al “culturame” che devasta l’Italia. Insomma: Brunetta che ribalta se stesso.

 Esistono due opzioni, allora, e sarà il futuro immediato a chiarircele: Brunetta ha l’incarico di dar voce a quella parte di Forza Italia che tira un po’ sul prezzo delle riforme per acquistarle poi a condizioni più vantaggiose. O magari, semplicemente, il Professore - sulla cui “statura” professorale ironizzò persino Monti, per non dire di Tremonti - ha qualcosa di psicologico contro il renzismo, lo specchio di quella rupture che lui da sempre sogna, senza riuscire - sicuramente per colpa degli altri - ad acciuffarla mai.

Da - http://lastampa.it/2014/04/02/italia/politica/brunetta-lalfiere-stizzito-dei-forzisti-antirenzi-712fOxD9MZqcPIhUp0mTtN/pagina.html
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« Risposta #34 inserito:: Aprile 13, 2014, 05:31:58 pm »

Politica
12/04/2014

Riforme, Bersani sposa la protesta dei professori
L’ex segretario: “Scelte non comparabili con le democrazie”

Jacopo Iacoboni

«Di Matteo Renzi mi piace molto l’energia, la voglia; un po’ meno una certa sbrigatività. Uno nello stesso tempo, con la stessa rapidità, può fare una cosa giusta o una cosa sbagliata». Anche profondamente sbagliata.

E di cose sbagliate Renzi ne sta facendo, secondo Bersani. Pierluigi è tornato. Ieri ha registrato un lunga conversazione con Enrico Mentana per Bersaglio mobile. La tesi di fondo è forte, una bocciatura solenne, il «combinato» delle riforme di Renzi va cambiato tanto, «se vogliamo essere comparabili con le democrazie occidentali». Non è che i professori della «svolta autoritaria» dicano cose diversissime.

Da quando è tornato in pista dopo l’operazione, l’ex segretario del Pd è così, con Renzi. Non c’è nulla da fare. In questa fase ha pronunciato valutazioni del tipo «altro che complotto, Renzi ringrazi il gruppo parlamentare»; oppure, «visto che ho salvato il cervello per un pelo, non è che lo consegno ad altri»; o in tv da Fazio venti giorni fa: «Renzi è bravo, crea movida. Ma avrà bisogno di tutti». Movida, sì: più o meno come un tipo da discoteca.

E ora rieccolo in tv, a dire sostanzialmente tre cose al premier. La prima, citando Veltroni (e Crozza, che lo ispira sin dai tempi dello smacchiamo): «Lo dico serenamente, pacatamente: la legge elettorale così com’è non va. Il combinato di riforma elettorale e del Senato rischia di consegnare a qualcuno col 24, 25 per cento governo, presidente della Repubblica, giudici costituzionali. Va molto cambiata, se vogliamo essere comparabili con le democrazie occidentali». Non siamo molto lontani dall’appello dei «professoroni». Tra l’altro il M5S («una totale inutilità», a suo dire) «se è la seconda forza, o di qua o di là rischia di vincere al ballottaggio. Ragioniamoci». Poi però, non del tutto conseguente, Bersani auspica che il ddl Chiti sul Senato «venga ritirato, meglio fare emendamenti»; per Renzi, è buona notizia. 

Resta però tra i due una fortissima distanza antropologica (eufemismo). Ogni cosa di questa performance lo svela, anche le frasi colorite stile-tacchino sul tetto, «uno non può essere ubriaco del proprio io, se fai politica ti metti in un noi. Se c’è una cosa per cui questo governo non brilla è l’umiltà». La terza tesi è «se qualcuno beve l’acqua oggi, il merito è anche di chi ha scavato il pozzo». Insomma, e questa è forse la più paradossale: se Renzi è lì è (anche) per merito mio. Bersani usa ripetere «ora torno a dire la mia, ma non chiedo posti»; una posa che D’Alema assume in un altro modo («passo ormai la maggior parte del mio tempo all’estero»), ma la sostanza quella è. Si sentono padri del partito. Solo che D’Alema al momento ha un (provvisorio) appeasement col segretario. Bersani no. Coscienza critica. Sana voce del dibattito interno. Non provate a chiamarlo «rosicone».

Da - http://lastampa.it/2014/04/12/italia/politica/riforme-bersani-sposa-la-protesta-dei-professori-IgdxjoY1EJAKF1MGksBSyN/pagina.html
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« Risposta #35 inserito:: Giugno 14, 2014, 10:23:15 pm »

12/06/2014

Lo strano caso del "martire" Mineo

Sono - chi legge quello che scrivo e dico in giro lo sa - un totale cultore del dissenso, cresciuto col mito del vecchissimo “manifesto”, che si schierava contro il Pci (” Praga è sola”) quando il Pci era una cosa seria, nutrito di un’idea libertaria e totalmente orizzontale della politica (e del giornalismo), amante di tante storiche battaglie radicali, disposto per questo a sostenere le giovani promesse della politica, e semmai a romper le scatole quando si realizzano.

Detto questo, pensando all’ultimo caso-Mineo scoppiato nel Pd, non credo che un partito (e neanche un Movimento, lo scrissi a proposito dei dissidenti del M5S che tanto entusiasmavano, strumentalmente, i media) possa lasciare una scelta decisiva per la sorte, sua e del suo leader, nelle mani di un dissenziente. Tanto più in una Commissione parlamentare, giacché chi è eletto è lì per conto di un partito, e di questo deve tenere conto. Persino più che in aula. E’ chiaro che in una Commissione non solo si rappresenta se stessi, ma un pacchetto di propri colleghi.

Naturalmente penso che sia stato uno sbaglio sostituire così Mineo. Matteo Renzi poteva e doveva convincerlo, persuaderlo, telefonargli, chiedergli anche - con sensibilità politica che lui e il ministro Boschi non hanno avuto - di votare secondo la linea del partito sulle riforme, posto che poi sarebbe potuto tornare alla sua posizione critica un secondo dopo, forse anche nel voto in aula. Non mi pare che Renzi sia sprovvisto di doti seduttive, no? Le doveva esercitare, faticosamente, anche con Mineo, magari pensando - tra sé e sé; senza dirlo - “che noia dovermi sorbire questa conversazione”. Questo Renzi non l’ha fatto, dando l’impressione brutale di una cacciata. Ma un Paese non è come il consiglio comunale di Firenze; dovrebbero vigere logiche lievemente più sofisticate, e in definitiva democratiche.
 
Adesso l'affare s’ingrossa (diceva quello), per l’autosospensione dei 14 senatori critici del Pd. Io non credo che l’autosospensione sia una cosa particolarmente seria, mi pare anzi una protesta abbastanza infantile; segnala però che c’è un potenziale problema; vedremo (anche se io non lo penso) se i 14 sono disposti a portarlo alle estreme conseguenze.

Bisogna infine far notare una cosa: Renzi era da tre giorni in Oriente, nell'esotica Saigon della rue Catinat di Graham Greene, e nella pulsante Pechino dell'Art district Dashenzi; e il gruppo parlamentare ha puntualmente ripreso a ballare. L’uomo del 41 per cento dal popolo è poi piuttosto infilabile e scoperto nella gestione del gruppo e del partito. Mineo - giova oltretutto ricordarlo - non è Rosa Luxemburg, ma un eccellente giornalista e direttore Rai eletto per volontà di Pierluigi Bersani nella gestione precedente del Pd.
 
twitter @jacopo_iacoboni

da - http://lastampa.it/2014/06/12/blogs/arcitaliana/lo-strano-caso-del-martire-mineo-TT41CegRRi92qTb0rFMAhJ/pagina.html
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« Risposta #36 inserito:: Giugno 25, 2014, 05:33:18 pm »

25/06/2014
Le doppie aperture incrociate nel primo streaming in cui si parla

Per quanto sempre un po' ingessato, questa volta lo streaming è stato - per la prima volta - politicamente interessante. E il motivo è semplice. Nessuno dei due interlocutori si è limitato a ripetere il principio d'identità (come Gertrude Stein di "una rosa è una rosa è una rosa"), nessuno ha ripetuto la sua proposta e basta, a scatola chiusa, ma tutti e due hanno provato a fare un passetto ulteriore. Dopodiché, com'è ovvio, non è affatto detto che si approdi a qualcosa. Ma ci sarà un nuovo incontro. Un minimo filo c'è. Sta a entrambi - se vogliono, se possono, se ne sono capaci, e se ci sarà un incastro di condizioni - tesserlo e giocarlo.
 
Insomma, lontani i tempi dei tragici Roberta Lombardi e Vito Crimi davanti a un titubante e altrettanto imbarazzante Bersani; archiviata l'incolore esibizione di Letta - democristianamente magistrale, a suo modo, ma politicamente sterile perché inerte; molto distante anche la performance aggressiva di Grillo contro Renzi, col fondatore del M5S che neanche faceva parlare il rivale,  e l'altro che esordiva anche lui assai teso dicendogli "non voglio chiedervi nulla", ecco: stavolta i due interlocutori si sono parlati. Al di là di alcune punzecchiature reciproche (tutte piuttosto nella norma, niente di che) Renzi si è attestato su questa proposta, se qui non si sbaglia: un correttivo alla legge elettorale è indispensabile per garantire la governabilità. Il correttivo migliore - di effetto molto più sicuro del Toninellum - è il doppio turno. E su questo il Pd non tratta. Detto questo, spiega Renzi nel punto politicamente fondamentale, "noi non abbiamo paura delle preferenze".

E Di Maio, che non se la cava malaccio davanti a un politico con più esperienza di lui, non solo chiude l'incontro domandando "allora possiamo discutere sul tema delle preferenze?", ma dice anche "noi non siamo contro i doppi turni"; frase che onestamente va persino oltre i dibattiti e le polemiche recenti - anche dentro il gruppo dirigente del Movimento - sul fatto (poi confermato dalla linea tenuta oggi da Di Maio) che il punto dell'incontro era questo: le preferenze. Di Maio poi ha fatto bene a illustrare che il M5S non si arrocca sul sistema delle preferenze negative, ma il punto per loro è trovare un sistema che eviti ai partiti di imbarcare politici e amministratori corrotti, come troppo spesso accaduto al Pd. Ed è comprensibile l'orgoglio con cui ha ricordato i diecimila candidati incensurati del M5S. Condizioni prepolitiche, si dirà; che però hanno un valore che sarebbe sbagliato sottovalutare. E che proprio Renzi è parso non sottovalutare. 

Interessante tra l'altro, e da sottolineare, che Renzi sia andato personalmente al colloquio: non era affatto scontato né dovuto. Al di là di due o tre momenti di inutile esuberanza (per esempio quando ha chiamato i due interlocutori "Ric e Gian"), la sua presenza e il suo atteggiamento vanno letti come un atto di rispetto verso il mondo M5S, un atto che ha cercato di creare il terreno per un colloquio, non per gli insulti. Paradossalmente, è come se in questo momento nel Pd i renziani (e non solo, penso alla Moretti) siano assai più sprezzanti, nella vittoria, verso gli sconfitti cinque stelle, di quanto non lo sia il vero vincitore, e cioè il segretario Pd.
 
Dunque il matrimonio si farà? Alt. Troppo presto per dirlo. Le preferenze sono assai ostacolate da Berlusconi, l'altro soggetto tuttora in campo.
E sono ostacolate da tutta la pubblicistica di destra, che riconoscerete nei resoconti in modo semplice: sono quelli che scriveranno che non è successo niente, che l'incontro è stato inutile, che aveva e avrà solo un fine propagandistico, e che titoleranno "Renzi chiude al Democratellum". Sono quelli che sognano la democrazia del "punto e basta", la democrazie dell'"è così, e stop". Può darsi che abbiano ragione, e Renzi sia come loro. Qui si parte da un'altra ipotesi: che Renzi cerchi una strada, tutta sua, discutibile quanto volete, ma di democrazia; se è vera questa ipotesi, questo incontro non è parso inutile: anzi, segna una svolta notevole anche per il M5S. Ovvio che poi nessuno può giurare - con questi chiari di di luna - che qualcosa vada in porto.
 
twitter @jacopo_iacoboni

da - http://www.lastampa.it/2014/06/25/blogs/arcitaliana/le-doppie-aperture-incrociate-nel-primo-streaming-politico-GJrC8dTJG5trI67JU6zPxM/pagina.html
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« Risposta #37 inserito:: Luglio 11, 2014, 11:54:19 pm »

Politica
10/07/2014
Riforme, si allunga sempre più la lista dei mal di pancia
Chi sono, e cosa vogliono, tutti i potenziali no trasversali a Renzi-Berlusconi

Jacopo Iacoboni

Se si prova a fare una piccola fotografia, partito per partito, di quale sia la compattezza e la tenuta del “patto sulle riforme” - legge elettorale e Senato, principalmente - l’immagine che viene fuori è uno scenario quasi libanizzato. Non solo ci sono improvvisi distinguo - o, come minimo, precisazioni sostanziali, come quella della Lega - ma anche dentro i partiti principali i dissidenti sono tanti. Sia in Forza Italia, sia nel Pd. Facciamone una mappa ragionata. 

Il partito del Cavaliere 
In Forza Italia restano 22 (0 secondo diversi calcoli 23) dissidenti che chiedono tuttora a Berlusconi di rinviare l’incardinamento della riforma in aula, e hanno scritto una lettera su questo. Li guida l’ex direttore del tg1, Augusto Minzolini, gli altri firmatari della protesta interna sono Aracri, Alicata, Bonfrisco, Bruni, Compagnone, D’Ambrosio Lettieri, D’Anna, Falanga, Fazzone, Liuzzi, Longo, Iurlaro, Milo, Pagnoncelli, Perrone, Ruvolo, Scavone, Sibilia, Tarquinio, Zizza, Zuffada. (D’Anna e Milo, sono i due parlamentari di Gal scesi in campo con i dissidenti forzisti). Ma, al di là dei documenti espliciti, potrebbero essere anche di più, i senatori. C’è chi, chiedendo l’anonimato, racconta: «Di fatto gli unici due veri sostenitori del pacchetto Italicum-Senato sono rimasti Gasparri e ovviamente Romani». Tutti gli altri senatori sarebbero, chi con più forza, chi moderatamente, contrari. Non significa che Berlusconi non possa alla fine convincerli, ma questo dà l’idea dell’ampiezza delle difficoltà. Il ragionamento comune di diversi senatori forzisti è: «Questa legge elettorale sicuramente avvantaggia Renzi e penalizza Forza Italia. Per i suoi interessi, Berlusconi sacrifica i nostri».

Il Pd 
Nel partito democratico un’area di 15-20 parlamentari potrebbe essere in vario modo contraria a votare sì alle riforme di Renzi. E lo va dicendo da tempo in ogni sede, sostanzialmente guidata da Vannino Chiti, ma nutrita anche delle forti perplessità di uomini come l’ex segretario Pierluigi Bersani. Questo gruppo di perplessi si è palesato in diverse occasioni, dal caso Mineo al ddl Chiti, e viene fuori quasi a ogni tornate della vicenda recente del patto Renzi-Berlusconi. L’ultima è la volontà renziana di accelerare a tutti i costi. «Sulla modifica del calendario abbiamo scelto di non partecipare al voto. Da due mesi quelli del Pd accusati di frenare non toccano palla in commissione Affari Costituzionali. Eppure il testo di riforma del Senato non è ancora pronto. Del Titolo V si è discusso solo in modo sommario, il nodo dell’elezione del Presidente della Repubblica non è stato risolto. C’é da chiedersi chi freni, in realtà, e perché Renzi non lo dica chiaramente». Lo scrivono i senatori del Pd Vannino Chiti, Erica D’Adda, Nerina Dirindin, Maria Grazia Gatti, Felice Casson, Paolo Corsini, Francesco Giacobbe, Sergio Lo Giudice, Claudio Micheloni, Corradino Mineo, Walter Tocci, Renato Turano. Ai perplessi si può aggiungere il nome di Massimo Mucchetti. «Ora però la Conferenza dei Capigruppo non concede neppure 24 ore di tempo per leggere un testo di riforma ampiamente modificato da quello base - proseguono i senatori - e che ancora non c’è nella sua versione definitiva, prima di portarlo in aula. Scelta discutibile e assai poco comprensibile. Tuttavia non siamo stati noi, neppure oggi, a frenare. Per questo non ci siamo uniti alle opposizioni che, con buone ragioni, hanno votato contro la proposta di calendario».

A questi si aggiungono le perplessità extra Senato: deputati dell’area di Pippo Civati, che parla di riforme sbagliare e “renzicentriche”. Oppure altre figure, come quella di Miguel Gotor, bersaniano della primissima ora, di professione storico, assai apprezzato da Giorgio Napolitano, che ha svolto soprattutto due critiche. Una è il rapporto che c’è tra il nuovo senato e l’Italicum per come è uscito dalla camera: «Quando abbiamo votato quel testo ancora non sapevamo come sarebbe stato il nuovo Senato. Oggi stiamo lavorando a un Senato di secondo grado e non è possibile che la sola camera politica, l’unica a cui sarà demandato l’indirizzo di governo e la sola depositaria della fiducia, sia composta da nominati. In questo modo si rischia una deriva oligarchica della democrazia italiana che va contrastata perché il disegno di Verdini e Berlusconi non può essere il nostro». Il secondo problema sollevato da Gotor riguarda l’elezione del Presidente della Repubblica. «Bisogna evitare - dice il democratico assai legato a Bersani - che il detentore del premio di maggioranza possa con soltanto 26 senatori eleggere da solo il capo della Stato»

La Lega 
Dubbi e critiche stanno spuntando anche nell’area dei senatori leghisti, che pure - con Roberto Calderoli - hanno partecipato attivamente all’accordo, e anzi, cercando di conquistare un canale preferenziale con Renzi, rispetto a Forza Italia. Calderoli - che fino a oggi aveva semmai sempre manifestato una grande perplessità sul fatto che Forza Italia avrebbe davvero, alla fine, rispettato il patto - adesso è lui a esporre una serissima riserva, che ha contribuito a far slittare all’inizio della prossima settimana almeno l’incardinamento del testo in aula. Alla Lega non piaceva che il meccanismo di elezione di secondo grado dei senatori, affidato a un criterio proporzionale rispetto ai consigli regionali, diventi di fatto una non-elezione tout court, che riduce al massimo i partiti medio piccoli, rafforzando le segreterie medio grandi. «La mia perplessità - spiega Calderoli - nasce non per l’elezione ma per la non elezione dei senatori. Si può scegliere l’elezione diretta o l’elezione indiretta, ma il punto è che non c’è più l’elezione indiretta. E ciò in democrazia è inaccettabile». È lui tra l’altro, ricordiamolo, l’inventore del Porcellum, la più discussa legge (elettorale) della storia politica recente. Risultato, l’emendamento verrà prontamente riformulato.

Il Ncd 
Della maggioranza di governo, anche il partito di Alfano esprime da giorni un forte malessere. Se Gaetano Quagliariello va avvisando dall’inizio della settimana che «l’Italicum così com’è non lo votiamo», ora anche Andrea Augello, che segue la materia per conto del partito, mostra che «tutto il gruppo» condivide quella preoccupazione della Lega. Dice Augello che «si rischia di creare un vincolo ai consiglieri regionali che saranno predeterminati nella scelta dei futuri senatori in base alle percentuali di proporzionalità». Un’ulteriore spoliazione della capacità elettiva dei cittadini.

I numeri ballerini 
È assai difficile farne, naturalmente, perché variano sensibilmente in base ai diversi gradi di dissenso. Chi sarà disposto a spingersi fino alle estreme conseguenze? Fino alle critiche arrivate da Lega (e Ncd, nonostante Romani giuri che con Alfano sia tutto rientrato), l’accordo di Renzi con Forza Italia e Lega avrebbe consentito di superare la maggioranza assoluta di 160 voti abbastanza facilmente. Più difficile raggiungere quella dei due terzi (230 voti). Tra i dissidenti, quelli disposti ad andare fino in fondo nel no sarebbero 16 senatori del Pd, due di Per l’Italia (Mario Mauro e Tito Di Maggio), uno del Ncd (Antonio Azzolini), più il socialista Enrico Buemi. Difficile quantificare l’area-Minzolini: il malumore è diffuso e riguarda 23 senatori, come si diceva su; ma i duri, gente disposta a osare davvero il no a Berlusconi, potrebbero essere la metà. A questi, tuttavia, potrebbero aggiungersi defezioni - dopo la battaglia di Calderoli e, almeno parziale, del Ncd - da settori della Lega (che ha 15 senatori in tutto), e del partito di Alfano (33 senatori). Insomma, la maggioranza per le riforme potrebbe assottigliarsi, nella peggiore (ma realistica) ipotesi, a una maggioranza semplice, ottenuta peraltro sul filo.

DA - http://www.lastampa.it/2014/07/10/italia/politica/riforme-si-allunga-sempre-pi-la-lista-dei-mal-di-pancia-Vr3mvxrzXw0t8woeYxRxXK/pagina.html
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« Risposta #38 inserito:: Luglio 16, 2014, 05:49:28 pm »

Politica
13/07/2014

La sfida di Civati
“Una sinistra aperta Matteo guida da solo”
Anche Landini e Barca al convegno del “dissidente”


Jacopo Iacoboni
INVIATO A LIVORNO

Non sono mai stati amici. Hanno sempre avuto idee lontane, ma per un po’ hanno fatto un tratto di strada parallelo; poi erano troppo diversi. Adesso però la distanza è tragica, a volte più umana che politica: cos’è successo tra Giuseppe Civati e Matteo Renzi? D’Alema e Veltroni non avrebbero mai rotto così.

«C’è un fortissimo disagio, da parte mia. Ma niente, assolutamente niente di personale, lo giuro. Lo so, sono stato duro, paragonandolo al primo Craxi, ma volevo dargli un segnale. Che lui non ascolterà. 

Il Pd non può essere il partito di un uomo solo al comando, qui - se passeggi tra questi ragazzi - al Partito della Nazione di Renzi non crede nessuno, è solo un elastico, che Renzi usa come vuole. A un dialogo con me ha preferito uno con Franceschini e la Finocchiaro».

Diranno che «rosica». Ok, è una lettura; ma è banale, non coglie le ragioni altrui: Giuseppe Civati è a Livorno, dove ha messo su una sua «Leopolda» - chiamarla così è ingeneroso, e troppo riferito a Renzi. Il «Politicamp» è in realtà un’esperienza di campeggi politici che va avanti da anni, tra Reggio Emilia, Albinea, ora Livorno, ma quest’anno ha un sapore quasi rifondativo: Civati sostiene che Renzi per il metodo somiglia al primo Craxi, ha parlato di «clima fascisteggiante», cose tremende, insomma. La realtà è che vorrebbe innanzitutto essere ascoltato un po’, spostare il partito su una politica più «di sinistra», «o anche solo più democratica», perciò ora sta iniziando un percorso politico che punta a una «nuova sinistra, perché Renzi non lo è». Non lo è mai stato, sostiene Civati, ma ora di più. Una battaglia che oggi è dentro il Pd; domani chissà. «Mi do sei mesi di tempo».

Perciò, cosa che va notata, sono passati qui a Livorno Fabrizio Barca, «sono qui per ascoltare tante idee, anche per litigare», insomma, per fare politica; e soprattutto Maurizio Landini, che nonostante la simpatia personale con Renzi, al Politicamp ha detto «secondo me bisognerebbe pensare a rimettere in campo un’iniziativa che metta insieme il mondo del lavoro e il tema della Costituzione; a me personalmente avere un Senato non elettivo non convince». Potrebbe essere un perno di questa area (molto più lui che un Vendola un po’ perso). E’ venuto anche Filippo Taddei che - scherza Civati - «adesso è un po’ preso in mezzo tra me e Renzi, poverino...». Di certo questa sfida sarà «politico-culturale, perché so benissimo che nei numeri parlamentari pesiamo poco, sette deputati e sette senatori, di cosa ha paura Renzi? Eppure mi tiene fuori da tutto, non so neanche cosa succede nell’ufficio di presidenza...».

Non si parlano da tempo. Quand’è stato l’ultimo contatto? «All’indomani della formazione del governo mi scrisse un messaggino dicendo “però potevi stare al gioco”, seguito da un emoticon con la faccina della delusione». La democrazia del whatsapp ci seppellirà, assieme alla solitudine del leader? «Mi dicono che non è solo un problema mio, non parla con suoi strettissimi collaboratori, è in totale isolamento». Qui vorrebbero un «partito inclusivo» o, come dice Barca, «uno sperimentalismo democratico». «Invece Renzi - lamenta Civati - risponde ormai a ogni critica con una violenza inaudita. Prima era un outsider, oggi ogni sua cosa ha un peso enorme, e i renziani poi la enfatizzano ulteriormente, spesso maldestramente... per non dire del merito, sbagliatissimo, di queste riforme: passi per l’Italicum, ma il Senato è tremendo...».

Vero? Falso? Questa è la sua verità; anche se Civati conosce i rapporti di forza. «Dentro non peso nulla, finché non ci saranno nuove elezioni. Potevamo costruire un percorso insieme, anche un patto generazionale. Non è stato così perché lui non l’ha voluto». Eppure, passeggiando qui al Cage Theatre di Livorno, tra i pini di questo campo politico, si ha come la sensazione che sinistra dovrebbe essere anche una forma di apertura reciproca, queste chiacchierate di militanti, magari a vuoto, questi slogan per ragazzi («Meno spread più felicità», «meno bugie più laicità», «meno destra più sinistra», o in definitiva: «E’ possibile»), al limite pure i libri impietosamente accostati (nei banchetti c’è quello di Civati, di Fassina, di Berlinguer... e pure dello psicanalista Fagioli), o meglio le ragazze coi vestiti a righe. «Se si blinda tutto, siamo finiti», sostiene Civati. Gufo, rosicone; oppure no.

Da - http://lastampa.it/2014/07/13/italia/politica/la-sfida-di-civati-una-sinistra-aperta-matteo-guida-da-solo-q1hxu5FMAjkCe52gz8uLoO/pagina.html
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« Risposta #39 inserito:: Agosto 09, 2014, 05:32:04 pm »

Da Romani alla segretaria di Silvio Baci e abbracci in aula della Boschi
Ma Bersani fu massacrato per le foto con la mano sulle spalle di Alfano
L’abbraccio di Bersani. 18 aprile 2013: Bersani cinge il segretario del Pdl Alfano; si sta votando il capo dello stato

09/08/2014
Jacopo Iacoboni

Quando Bersani fu fotografato con la mano sulla spalla di Angelino Alfano - una sequenza ingenua, il giorno del voto su Franco Marini candidato al Quirinale, il 18 aprile 2013 - fu massacrato da tanti, se non proprio tutti. Si scrisse, come minimo, che era una cosa inopportuna, un grave errore politico e comunicativo, un suicidio, forse. Marini tra l’altro non passò, era un accordo che non piaceva a tantissimi elettori e militanti del Pd. Era chiamato «l’inciucio», e quella foto ne rimase - al di là degli stessi errori del segretario di allora - il simbolo.

In questi ultimi due giorni, è vero, a Palazzo Madama si abbracciano tutti, e s’ingrigiscono le differenze. È come se si fosse a una festa di laurea, ma non è una festa di laurea, è l’approvazione - in prima lettura - di una riforma del Senato discussa, piaccia o meno. Protagonista è Maria Elena Boschi, non solo perché è lei il ministro per le riforme ma perché - intelligente, giovane, per di più bella - è stata fin dalla sua nomina il bersaglio di odiosissimi attacchi, personali, a volte a sfondo orrendamente sessista. Dunque non ha l’attenuante di «non saperlo»: Boschi sa che quand’è in aula è continuamente osservata, spiata, fotografata. Su alcune cose si muove con estrema cautela, le parole, per esempio: quando parla in aula ci sono centinaia di immagini che la ritraggono con la mano davanti alla bocca. Lo fa al telefono, non esiste un suo fuorionda, nulla. Ma le immagini...

Le immagini di queste ore sono un patatrac, per l’idea originaria del renzismo, quella della prima Leopolda. Boschi la sera di giovedì era già ritratta in numerose fotografie - le peggiori - abbracciata sorridente con Maria Rosaria Rossi, la segretaria di Silvio Berlusconi, una che non ha nessun ruolo particolare nel percorso parlamentare del disegno di legge costituzionale. E invece quelle foto immortalano le due che si cingono la schiena, si sussurrano qualcosa all’orecchio, sorridono. La Rossi è spesso a favor di telecamera sul banco del ministro, questo va detto, è chiaro che a Berlusconi questa foto fa comodo; a Renzi un po’ meno. Eppure ieri si è continuato. È vero, andavano tutti da lei, non lei da loro; abbracci con Scalfarotto, Finocchiaro, Delrio, e ci mancherebbe, con Quagliariello, Ncd, con Paola Pelino, la senatrice dei confetti. Sorrisi con Razzi. Carraro e Schifani famelici intorno. E tanti baci e abbracci con Paolo Romani - il capogruppo di Berlusconi in Senato. Foto che poi restano.

 

Nulla di male, ma il renzismo riteneva di muoversi con maggiore abilità nelle pieghe della comunicazione, dieci immagini contano più di un presunto testo scritto del Patto del Nazareno. Chi andrebbe a leggere quel patto? Le foto di smac smac, invece, le vedono tutti. Di Renzi non troverete un’immagine di uno dei suoi tre incontri con Berlusconi. Il premier lo sa, che quella foto girerebbe a vita, si moltiplicherebbe su Internet, sarebbe quella LA verità. Una condanna persino più dei fatti.

«Se mai l’inciucio aveva bisogno di un’immagina chiave, simbolica, di una rappresentazione addirittura scultorea - osservò Filippo Ceccarelli su Repubblica, il giorno dell’abbraccio Bersani Alfano - eccola. Densa di commedia e di dramma. Quelle mani, quelle braccia, quelle due pelate, quei sorrisetti. I corpi non mentono».

Sì, non mentono. A volte, una stretta di mano è già troppo.

Da - http://www.lastampa.it/2014/08/09/italia/politica/da-romani-alla-segretaria-di-silvio-baci-e-abbracci-in-aula-della-boschi-rbqgwjcZwRPMvBGMdALgwJ/pagina.html
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« Risposta #40 inserito:: Settembre 16, 2014, 05:55:10 pm »

Lotti sale ancora. Il “Signor No” di Matteo ora ha tutte le chiavi
Solo lui può suggerire a Renzi cosa non fare.
Influente, schivo, ha sorpassato Delrio e Carrai

15/09/2014

Jacopo Iacoboni

C’è solo una persona che conta davvero, nell’attuale mondo di Matteo Renzi, uno che ha il potere di dirgli di no, di suggerirgli cosa non si può fare, di segare avversari interni e far crescere magari altri. C’è solo uno che, per quanti «no» dica al premier, alla fine Renzi stesso non solo accetta ma - è cosa non nota - ha soprannominato «il signor No». Tutti sanno del soprannome pubblico di Luca Lotti, «lampadina», pochissimi del vero soprannome: «il signor No».

Luca Lotti è un uomo che parla poco coi giornalisti, già questo indice di intelligenza e mente ferma. Quando nel 2013 gli chiesero se Letta doveva sentirsi preoccupato da una leadership Renzi nel Pd, rispose «assolutamente no. Fossi in lui sarei contento perché avrei un Pd più forte che mi sostiene e che mi sollecita». La crudezza senza ostentazione di frasi così è però unita a una riservatezza senza nessuna spacconeria, che invece tanti renziani si consentono, credendosi (senza esserlo) simili a Renzi. Lotti no. “Il Lotti” - come lo chiamavano a Firenze quand’era capo di gabinetto del sindaco - non sbraca mai. C’è di più: il Lotti gestisce potere vero.

Se Maria Elena Boschi è la «prima della classe», se Dario Nardella a Firenze ha una pacca sulla spalla per tutti («di cosa hai bisogno?») e - sindaco al posto di quella che era la prima scelta, Stefania Saccardi - si sogna futuro Renzi, alla Festa dell’Unità di Firenze la folla più grande è stata per Lotti (sia rispetto a Nardella, sia rispetto a Boschi ieri sera). Una folla che venerdì sera è andata davvero a baciargli la pantofola: tutti, dal militante all’aspirante renziano, a chiunque sperasse di ottenere un’attenzione, non si vuol dire un contratto nello staff di Palazzo Chigi, si prostravano. Del resto tutta la faccenda dello staff è passata materialmente - e non solo - da lui (e grazie a Lotti si sta infine sbloccando, considerando che mai un team del premier era stato senza contratti per più di sessanta giorni). Se «Franco» è lo storico segretario factotum di Renzi, è Lotti che tiene le chiavi politiche e apre e chiude porte (e Franco resta a Firenze). A Roma raccontano sia stato Lotti - lui naturalmente negherebbe - a decretare un declassamento di Delrio: uno «fratello minore», l’altro «fratello maggiore», come li chiama Renzi: ma il minore qui vince.

Se però chiedi di Lotti, tutti si zittiscono. In un ambiente dove tutti chiacchierano e twittano e whatsappano troppo, non solo Lotti lo fa poco, ma pochi hanno voglia di parlare di lui: Lotti può stopparli, dunque è una specie di tabù nel nuovo potere: il più freddo e il più bravo. Se ci fosse Frank Urquhart-Underwood - il personaggio di House of Cards - nel renzismo, sarebbe lui.

È capace di polso durissimo. Quando la riforma del Senato stentava, racconta un senatore che Lotti scrisse un sms a Zanda, «se succede ancora andiamo a votare a ottobre». Quando Sel superò la soglia di critiche tollerata (a fine luglio) Lotti avvisò «se continuano così non si fanno alleanze locali». Ha 33 anni - gli anni di Cristo, biondo come lui - ma sa essere fermo, lucido e a fuoco come gli altri del gruppo, mal per loro, no.

Se Bonifazi dice «L’Unità rinascerà», si vedrà. Se lo dice Lotti (l’altra sera a Firenze: «Ci siamo presi un po’ di tempo perché vogliamo dare una mano»), è tutto diverso: si sta muovendo con imprenditori. All’Ilva appare Renzi, ma è Lotti vicino a una soluzione. Sui nomi, può far passare degli ignoti, come il sindaco di Montelupo, Paolo Masetti, nuovo delegato nazionale alla Protezione Civile dell’Anci: un ruolo che può «romper le scatole» all’Agenzia del Demanio, affidata a Roberto Reggi. Su Mps, è lui che ha mediato.

Eppure pochi sanno apparire giovani e «diversi» dal resto del renzismo. Lotti non mette quelle camiciazze bianche, Lotti si veste coi jeans scuri e il golfino, blu o nero. Lotti è biondo, e con gli occhiali neri (stile Oakley) ha un suo perché. Lotti per rinsaldare l’amore con la moglie le compra una pagina di pubblicità sul quotidiano locale per dirle auguri il giorno del compleanno. Lotti, figlio di un dirigente di banca, è diventato quasi più potente di Marco Carrai, l’amico imprenditore di Renzi, non suo amico a sua volta. Anzi, forse senza «quasi».

Da - http://lastampa.it/2014/09/15/italia/politica/lotti-sale-ancora-il-signor-no-di-matteo-ora-ha-tutte-le-chiavi-A9X2DypN6uP20XNHJqfyZO/pagina.html
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« Risposta #41 inserito:: Ottobre 16, 2014, 11:18:08 pm »

10/10/2014
Il M5s oggi, per uscire dal cul de sac bisogna individuarlo
Il grande tema finora eluso al Circo Massimo: l'onda anticasta è servita solo a spianare la strada a Renzi?

Il Movimento cinque stelle non può considerarsi un fenomeno finito, affatto. Chi lo dice sbaglia prospettiva.
Ma sbaglierebbe anche chi volesse nascondersi dietro un dito celando - innanzitutto a se stesso - i problemi che ha.
 
Si tratta di un errore assai frequente in queste ore al Circo Massimo, il luogo dove, per dirla con una deputata e storica militante, "vogliamo scattare un po' una fotografia di ciò che siamo stati finora, e che saremo in futuro". Il Movimento ha incassato infatti le sue vittorie, su battaglie culturali che anzi rivendica fin troppo poco - da quella, generalissima, anticasta, che ha davvero imposto il mood politico di questi anni, ad altre, particolari; per esempio le proposte come il taglio dell'Irap, o gli interventi "sociali" di cui anche Renzi comincia a parlare, per esempio il "salario minimo" (Grillo parla di "reddito di cittadinanza", che è cosa diversa, ma siamo nell'ambito del medesimo problema percepito). Nondimeno, se si pensa al M5s oggi si pensa a una forza che viene percepita - e un po', bisogna dirlo, si percepisce - all'angolo, nella "fase più difficile della sua storia", come riconoscono anche militanti come Taverna e Roberta Lombardi. E si pensa a un'opposizione che perde, non riesce a incidere, a frenare un po' la corsa dell'uomo solo al comando nel partito unico italiano.
 
Grillo al Circo Massimo ha parlato dei "pregiudizi di un'informazione malata". E ha continuato a dire "noi avevamo vinto le elezioni, abbiamo preso il 25 per cento, eravamo il primo movimento politico d'Italia, Napolitano doveva darci l'incarico". Una frase che però tradisce una fissità politica e un'incapacità di uscire dalla spirale di "ciò che non è stato, e avrebbe potuto". La realtà è che Napolitano quell'incarico non l'ha dato ma - se non si sbaglia - mai l'avrebbe dato a loro. Questo è uno dei pezzi del problema. Farebbero innanzitutto bene a chiedersi anche: perché?

Il senso di inadeguatezza dimostrato è pari, in effetti, alla bontà di tante battaglie (i costi della politica, per dirne una) e molti temi posti, e certamente della mobilitazione orizzontale che le ha generate. Ma la sensazione è che - con Grillo che fa un (mezzo) passo indietro, e Casaleggio indebolito da un serissimo problema di salute - il M5s non sia ancora in grado di camminare da solo senza i due fondatori.

I critici prevenuti, i media militari, o i semplici disinformati, hanno spesso favorito o avallato una rappresentazione del M5s come ostaggio di Grillo e Casaleggio. La realtà - con tutti gli errori commessi dai due - è che invece il problema attuale è proprio un Movimento in cui Grillo e Casaleggio ci sono di meno, e nessuno è in grado di esercitare analoga influenza. Grillo può scherzare sull'investitura a Luigi Di Maio; il quale piace davvero assai come fedele esecutore al gruppetto milanese che ruota intorno a Davide Casaleggio, il figlio di Gianroberto.


Ma Di Maio - comunque lo si giudichi - ha un problema evidente, per diventare perno di tutti: che, appunto, non piace a moltissimi, del gruppo parlamentare o della militanza storica, o perché non li scalda, o perché appare loro troppo - diciamo così - "democristiano" e voglioso di autopromozione in solitaria. La realtà è questa.

Anche per questo motivo, probabilmente, Grillo frena adesso su investiture. E sottolinea che Renzi "ha perso quattrocentomila iscritti in un anno". Il problema eluso, però, è che Renzi ha molti più voti e, soprattutto, ha drenato proprio a loro il cuore della battaglia anticasta e anti-élite. Paradossale, per un premier così ben insediato al Potere, e abbracciato da tanti poteri. Ma è stato furbo, e loro molto meno: diciamo che gli ha fregato il copyright (non importa, qui, se per portarlo a termine o tradirlo).
 
Il M5s naturalmente mastica amaro su questo Potere renziano. Ma dovrebbe realizzare questo punto, per una vera ripartenza: domandarsi perché, dopo aver alzato l'onda della rivolta contro gli establishment, se l'è fatta scippare finendo di fatto a spianare la strada all'avversario: il premier anti-establishment amato dagli establishment.
 
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da - http://www.lastampa.it/2014/10/10/blogs/arcitaliana/il-ms-oggi-per-uscire-dal-cul-de-sac-bisogna-capirlo-dZpkiCiKxTXx5TRf5eJ5cP/pagina.html
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« Risposta #42 inserito:: Ottobre 19, 2014, 05:00:57 pm »

Jacopo Iacoboni

Lo storytelling non c’è più. La narrazione, insomma, quell’idea di «raccontare la politica» di cui Matteo Renzi s’è così tanto innamorato da infilarla in ogni discorso, non avrà più alla Leopolda la sua icona più riconosciuta, l’uomo che ha insegnato il concetto all’attuale premier. Alessandro Baricco.

Chi ha domandato a Baricco si è sentito rispondere «mi è impossibile andare», una frase che comunque sia comunica il senso di una stagione che s’è conclusa. Proprio lo scrittore è l’autore di alcune delle idee, e dei discorsi più noti, dell’epopea Renzi. Fu Baricco, in una Leopolda ormai passata - gli anni ruggenti della promessa di rupture - a dire, barbarico: «La sinistra della mia generazione ha mosso i suoi pezzi sempre per seconda, ha giocato sempre coi neri, di rimessa. Voi invece - raccontò a una platea estasiata, nel discorso in assoluto più cliccato e ascoltato del 2011 - dovete muovere per primi, chi muove per secondo diventa conservativo, vuole fare la patta, è molto difficile che giochi per vincere. La sinistra in cui sono cresciuto io, oggi è ciò che di più conservativo c’è in questo paese». La sensazione è che questa speranza di rottura della conservazione, di ricerca del merito, di scelta della squadra dei migliori, sia un po’ affievolita, diciamo così.

Una Leopolda senza Baricco è più o meno come un Napoli senza Cavani (e non si vede un Higuain alle porte); ma quella dello scrittore non sarà l’unica assenza che siamo in grado di raccontare. Non ci sarà neanche la scoperta più promettente dell’anno scorso, quell’Andrea Guerra che, da ad a Luxottica, ha portato in questi anni l’azienda a essere la prima italiana per esportazioni, ha siglato le intese con Google, prima di andare via nella nuova, frizzante gestione Del Vecchio. Guerra al telefono ragiona così: «La Leopolda era un fantastico strumento di marketing, che funzionava bene in quanto tale. Ma che marketing puoi fare quando sei ormai al governo? Al governo devi fare le cose, e basta».

Inutile addentrarsi in bilanci definitivi, troppo poco è ancora il tempo che è stato concesso a Matteo Renzi. Ma il segno di una qualche perplessità lo si coglie, in giro. Accanto a Guerra l’anno scorso emerse un personaggio che colpì molto chi era lì, una giovane donna col nome da uomo: Andrea Marcolongo. Fece un discorso ipnotico, con uno slogan che molti ricorderanno, «siamo un’Italia cresciuta a pane e sciatteria». Diplomata a pieni voti alla Holden, con un ottimo futuro già avviato nell’editoria, colpì a tal punto che Renzi la volle nella sua squadra, e è stato così che Marcolongo ha finito a lavorare come unica ghostwriter del premier per tutto l’ultimo anno, quello delle primarie e delle europee (tra le sue tante invenzioni anche tutte le citazioni nei discorsi renziani, da Dave Eggers a Murakami, provengono da lei). Anche lei quest’anno non ci sarà.

Se ne vanno sempre i migliori. Un’assenza sicuramente di notevole peso sarà quella di Cosimo Pacciani. I non cultori della materia diranno: e chi è Cosimo Pacciani? Uomo di finanza, ma forse prima ancora intellettuale, grande e vero amico di Renzi dai tempi del liceo (il Dante di Firenze, che hanno frequentato insieme, anche se Pacciani è lievemente più grande), oggi - dopo una carriera rapidissima in Credit Suisse e Royal Bank of Scotland - è approdato all’Esm, il Fondo salvastati, dove guida la sezione rischi. La percezione di un atteggiamento di disincanto è nitida. E certo non se ne può rallegrare il premier.

Un diverso tipo di uomo di finanza, Davide Serra, non ci sarà ma solo per impegni a Londra. E è stato generoso, ha donato alla Leopolda 2014 175mila euro.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/15/italia/politica/da-baricco-a-guerra-la-stagione-delle-assenze-alla-leopolda-di-governo-FeAm27hsHr0J4UIokVbdjM/pagina.html

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« Risposta #43 inserito:: Ottobre 19, 2014, 05:03:20 pm »

Da Serra a Landi e Romeo Ecco i finanziatori della Leopolda 2014
Al lavoro tre persone, Carrai, Lotti e Boschi

18/10/2014
Jacopo Iacoboni

C’è uno zoccolo duro, tra i finanziatori di Matteo Renzi, ma anche delle interessanti novità. Allora è molto utile spulciare una lista di finanziatori della prossima Leopolda.

Tecnicamente i finanziamenti sono indirizzati alla cassaforte di Renzi, la Fondazione Open. Di fatto la gestione dell’organizzazione materiale della Leopolda è integralmente nelle mani di tre persone, Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai, personaggio su cui varrà la pena tornare. Il finanziatore principale è Davide Serra, l’uomo di finanza per il quale Renzi si scontrò molto con Bersani durante le primarie del 2012, forse perdendole (quando l’allora segretario attaccò sull’amicizia di «quelli delle Cayman»). Serra, che alla Leopolda non dovrebbe esserci ma solo per impegni che non può differire a Londra, ha donato alla causa 175 mila euro. Il secondo finanziamento è quello di Guido Ghisolfi - proprietario dell’azienda chimica Mossi e Ghisolfi - e sua moglie, Ivana Tanzi (120 mila euro). La Gf Group, una grande azienda alimentare ligure, ha contribuito con 50 mila euro. Ma danno importi non piccoli (ventimila euro) anche piccole realtà come l’azienda immobiliare Blau Meer srl, o società come la torinese Simon Fiduciaria (ventimila euro), nel cui consiglio figura anche il nome di Giorgio Gori. Un finanziamento molto importante viene da Alfredo Romeo - imprenditori di Isvafim - processato, ma poi assolto, che ha donato 60 mila euro.

Naturalmente non contano soltanto le cifre versate, ma le caratteristiche e il peso di chi versa. Guido Roberto Vitale, un uomo di raccordo sempre importante negli ambienti finanziari milanesi, ha donato una piccola cifra, 5 mila euro, un attestato di simpatia per il premier. Non meno significativa la presenza tra i finanziatori di Fabrizio Landi (diecimila euro), vero nome forte del renzismo nella partita delle recenti nomine (lui, in Finmeccanica). Landi, fiorentino-genovese, ha fatto tantissime cose nella vita, compreso lavorare ai vertici di Esaote (di cui poi ha detenuto una piccola quota), e è considerato tra i pionieri del business biomedico in Italia. Ha rapporti rilevanti anche nell’establishment istituzionale italiano più alto, rapporti che possono aver giovato alla scalata di Renzi, che non pare più in rottura con quei mondi. Tra l’altro, per dire, dell’idea degli 80 euro in busta paga si parlava già in seminari con Landi e Yoram Gutgeld (e il banchiere Alessandro Profumo, che però non figura tra i finanziatori della Leopolda), prima che venisse messa in pratica. 

 Alla Leopolda hanno contribuito anche nomi come Carlo Micheli, figlio di Francesco, finanziere (anche della Premafin di Ligresti). C’è la Telit, l’azienda di telefonini. Ci sono Paolo Fresco e la signora Marie Edmée Jacquelin, che in due hanno offerto 45 mila euro, c’è Renato Giallombardo, uno degli esperti italiani in fusioni, acquisizioni, operazioni di private equity. C’è Jacopo Mazzei (diecimila euro), che oltre a aver avuto vari incarichi a Firenze è anche, last but not least, consuocero di Scaroni.

C’è, curiosità, un piccolissimo finanziamento (250 euro) anche di Antonio Campo dall’Orto, sicuramente il più geniale manager di tv in giro.

Naturalmente tutti questi sono nomi di finanziatori che, nei bilanci (pubblici) della Fondazione Open, hanno dato l’assenso a veder pubblicato il loro nome. Ne esistono sicuramente altri, se la cifra dichiarata ora è 1 milione 905 mila euro. Ah, alla Leopolda ha contribuito anche lei, la Maria Elena Boschi, con 8800 euro suoi: più del sindaco di Firenze Nardella (6600), ma meno del tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, che ha trovato per l’evento dodicimila euro.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/18/italia/politica/da-serra-a-landi-a-romeo-ecco-i-finanziatori-della-leopolda-3E6aAgH93KsdPvGVtlIeIL/pagina.html
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« Risposta #44 inserito:: Ottobre 26, 2014, 08:13:30 am »

La metamorfosi della Leopolda che prova a non tradire se stessa
I rottamatori al governo radunati a Firenze, tra amarcord e nuove sfide


25/10/2014
Jacopo Iacoboni
Inviato a Firenze

C’è la maglietta «gufi no grazie», una t-shirt bianca col loghino (rosso, i gufi sono rossi come la Cgil, oggi la controprogrammazione la fanno loro», sostiene Renzi). Ci sono i manifesti che prendono in giro tutti quelli che non hanno capito invenzioni geniali (per esempio il rock, «sarà passato di moda entro giugno», scrisse Variety nel ’55). C’è il carretto con Peppa Pig che fa lo zucchero filato ai bambini. Il menù della cena sociale «servito con stoviglie biodegradabili». Ci sono in arrivo cinque ministri, i cani anti-esplosivi all’entrata e tanta polizia all’uscita, un buffet sontuoso al confronto degli esordi, la faccia compiaciuta del Potere che ha sostituito quella incerta ma speranzosa dei ragazzi che furono. C’è un delegato della Fiom; e c’è Massimo Parisi, coordinatore toscano di Forza Italia e grande amico di Denis Verdini.

La Leopolda, che era un brand ma anche un progetto di marketing centrato sul rinnovamento, è oggi il luogo di una forza autocelebrativa, che si prevede eterna. Il rischio in questi casi è il manierismo. Prendete il palco. La bici smontata. I palloni da rugby. I vecchi palloni di calcio in pelle. La copia di Wired con Steve Jobs. Il microfono vintage (anche quest’anno). La voliera. Gli altoparlanti Anni Cinquanta. Il salvagente. Sovrabbondanza di segni, sovrabbondanza di potere. Renzi in serata dirà «il garage è un luogo dove si immagina il futuro, ma anche dove si raccoglie il passato, la macchina rotta. Mettete la seconda, ragazzi. Dal garage ripartiamo». La Big Tent, la Grande Tenda alla Tony Blair, in musica tiene insieme cose agli antipodi, i Vampire Weekend e gli U2 dell’ultimo, dimenticabile, Songs of Innocence.

La militanza di base è quella di sempre, tutti molto alla mano. Però qualcosa s’è perso. Vecchi amici se lo dicono, come la torinese Ilda Curti, una che c’era alle origini, e oggi no, che scrive a Ivan Scalfarotto, che c’è. «Sono in prima fila quelli che nel 2010 ci odiavano». E Ivan: «Ilda, con affetto, si occupano i posti lasciati vuoti da chi allora li occupava».

Contano i segni. E le facce. Oggi potrebbe apparire a sorpresa oggi il ceo di twitter, Dick Costolo. Apparirà sicuramente Fabio Volo, ma come inviato da Fabio Fazio per Che tempo che fa. Volo un po’ stile Iene, è chiaro che Renzi furbo com’è lo abbraccerà, sai che foto? Potenza nazionalpopolare: i due fenomeni della politica e delle vendite di libri pop, uno accanto all’altro. Roba alla Jovanotti.

Nei capannelli si chiacchiera. Dario Nardella in inglese renziano con Mike Moffo, strategist di Obama. Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd, parla dell’Unità e della scelta dell’editore Guido Veneziani: «Sì, pubblica rivista di gossip, ma che dobbiamo fare? Prima c’era Fago! Fa-go. Poeti non se ne sono presentati. C’erano anche Arpe, o una cordata dei Pessina». Alla fine s’è scelto Veneziani, i Miracoli (titolo di una sua rivista) possono tornare utili.

Renzi è arrivato tardi. Ha stracitato Baricco - che però ormai è lontano - «ci insegnò il coraggio». Ha celebrato le Leopolde del passato, e spiegato così il senso della Leopolda oggi, «serve a dire che noi non ce ne andiamo, ci siamo e ci saremo. Ho fatto il patto del Nazareno? Sì, ma quando siete perplessi, abbiate la soddisfazione che Minzolini, Razzi e Scilipoti non l’hanno votato. Non parlate male della Leopolda, le bandiere del Pd che non ci sono... è come parlare male di voi». Ha reinvitato Civati, «Pippo, ti aspettiamo sempre». Ha avuto accenni di iattanza con Bersani, «sapete, nel 2013 abbiamo non vinto». Ha sfottuto i politici presenti, vedendo qualche sedia vuota, «mettetevici subito, i politici appena vedono una sedia...». Come se non fosse lui a darle, oggi.

La “Mari”, Boschi, che doveva cedere il palco, era stata sempre lei ad aprire, nerovestita e sincera, «la nostra sfida è uscire di qui non con la soddisfazione di esserci rivisti, come i vecchi compagni di scuola, ma con nuovi progetti». Sentiva il rischio che tutto fosse una rimpatriata, regale amarcord per ciò che non è più.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/25/italia/politica/la-metamorfosi-della-leopolda-che-prova-a-non-tradire-se-stessa-5qRsgkHNVMFt4Py3sfkheL/pagina.html
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