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Autore Discussione: FRANCESCO GUERRERA.  (Letto 50653 volte)
Arlecchino
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« Risposta #75 inserito:: Giugno 26, 2016, 12:13:34 pm »

L’Europa perde Londra, il mondo ora è in bilico
Arginare il contagio diventa la priorità di Bruxelles.
Intanto il Regno Unito cerca una nuova identità, tra la relazione con gli Usa e i rischi finanziari

25/06/2016
Francesco Guerrera

Si dice che nei giorni prima dello storico referendum britannico, la regina Elisabetta chiedesse a tutti gli invitati a Buckingham Palace: «Mi dia tre ragioni perché la Gran Bretagna deve rimanere in Europa». 

Ma nel segreto dell’urna, di ragioni i sudditi della regina non ne hanno volute sentire. Hanno votato con la pancia e non con la testa, scioccando il mondo, sconvolgendo i mercati e rivoluzionando il sistema politico britannico.

«Non posso credere che l’abbiano fatto. Non posso credere che l’abbiano fatto», continuava a ripetere un amico banchiere alle quattro e mezzo di mattina di ieri, quando è diventato chiaro che la Brexit aveva vinto non solo su chi voleva rimanere in Europa ma anche sui sondaggi, gli scommettitori e gli strapagati trader della City.

«All change», come si dice sui treni inglesi arrivati al capolinea. Scendete tutti, qui si cambia. Il mondo non sarà più lo stesso. Lo ha detto Angela Merkel con tipica sincerità: «Non ci stiamo a raccontare storie: il voto inglese è uno spartiacque per l’Europa». E non solo per l’Europa. Le scosse del terremoto innescato dal fuggi fuggi di milioni di britannici dall’Unione Europea si risentiranno a Washington e New York a Pechino e in Australia.

Ma incominciamo da Bruxelles e le grandi capitali europee, che nelle prossime ore dovranno decidere come reagire a questo schiaffo pesante da parte della Gran Bretagna. 

Porgere l’altra guancia, in questo caso, non sembra un’opzione. Nei corridoi del potere europeo la più grande preoccupazione in questo momento è evitare il contagio di Brexit. E il modo migliore per farlo è far vedere che chi esce dall’Ue soffre. Che la Gran Bretagna non si merita nessuna concessione speciale.

 
Già Marine Le Pen ha chiesto un referendum su «Frexit». In paesi come l’Italia, la Spagna che va alle urne domenica, e la stessa Germania, si respira un tossico mix di rabbia delle classi medie che si sentono «derubate» dalla crisi economica, paura dell’immigrazione, e profondo malcontento nei confronti di un’élite politica considerata incapace, insensibile o corrotta (o tutte e tre).

Il problema per Bruxelles e la Merkel, per Renzi e Rajoy è che le strutture istituzionali europee sono così distanti dai cittadini che sarà difficilissimo cambiare le opinioni della gente. Quando i richiami alla democrazia e al «sogno» di una federazione europea vengono dai palazzoni del quartiere europeo di Bruxelles, dai ministeri di Roma o dalle cancellerie federali tedesche, non è sorprendente che la gente guardi altrove.

«I burocrati e i leader politici sanno quello che devono fare ma non riescono a farlo. Non sono in contatto con la popolazione», mi ha detto un diplomatico britannico ieri. 

Almeno da oggi i politici europei ormai sanno la fine che faranno se continuano a ignorare le proteste che vengono dalle strade delle città più povere, dalle periferie delle metropoli e dalle fabbriche in crisi.

Faranno la fine di David Cameron, il primo ministro britannico, anzi, ex primo ministro britannico, il cui mandato è finito di fronte al Numero 10 di Downing Street in un bagno d’ignominia. Alla fine la colpa è sua, per aver scommesso sul referendum e perso. Per non aver capito da che parte tirava il vento politico del suo paese.

UN PAESE ALLA DERIVA 

Cameron se n’è andato lasciando il galeone britannico senza timoniere. Per i prossimi tre mesi, assisteremo a uno scontro feroce tra varie fazioni del partito conservatore per prendere il comando del partito e del Paese. 

E mentre le «grandi belve» del partito conservatore, come i vari Boris Johnson, Theresa May e Michael Gove amano chiamarsi, si scannano, il paese andrà alla deriva. «L’evento più disastroso nella storia della Gran Bretagna dalla fine della seconda guerra mondiale», lo ha chiamato il mio vecchio collega Martin Wolf, di solito un pacato commentatore economico per il Financial Times.

 UN NUOVO RUOLO 

La posizione della Gran Bretagna nel mondo cambierà. Per secoli, il paese è stato ancorato a qualcosa di molto concreto: prima l’Impero, poi il Commonwealth delle colonie e, più di recente, l’Ue. Ora è in balia di se stesso. Ammiccherà agli Stati Uniti ma Obama ha già detto che la famosa «relazione speciale» non si estende a preferenze tariffarie o di commercio. E non credo che una presidente Clinton, e nemmeno un presidente Trump, possa cambiare idea, soprattutto se gli europei mettono pressione.

Per non scivolare in un circolo vizioso di protezionismo la Gran Bretagna potrebbe appoggiarsi alle vecchie colonie del Commonwealth ma l’India, l’Australia e compagnia vogliono esportare prodotti e persone nel Regno Unito, non certo rimpiazzare il mercato unico europeo, quel mare di 500 milioni di persone e 19 triliardi di dollari di Pil pronto a comprare beni e, soprattutto, servizi dai britannici.

Già, la grande economia britannica fondata sui servizi, un epitome del capitalismo moderno, digitale e non «appesantito» da industrie vecchio-stampo. Che succederà a questi venditori di servizi una volta che l’Europa erige barriere economiche e tariffarie? Bastava farsi un giro nella City, il fornitore principale dei servizi made in Britain, ieri per toccare con mano la paura. 

Gli alti funzionari delle banche già sussurrano che dovranno spostare migliaia di posti di lavoro da Londra a Dublino, Francoforte o Parigi perché l’Ue non gli permetterà di operare in Europa se non sono nell’Ue. Il ragionamento non fa una grinza ma farà malissimo a un’economia inglese che deriva quasi il 10% del Pil dai signori e dalle signore del denaro. Un amico banchiere a New York già pronosticava ieri, a meno di 12 ore dai risultati del voto, che la Grande Mela avrebbe fregato a Londra «la corona di capitale mondiale della finanza».

Parlando di mele, però, attenzione perché l’America non è senza peccato. Il successore di Obama dovrà prendere una decisione che nessun Presidente americano ha dovuto prendere nell’era moderna: scegliere tra l’Europa e la Gran Bretagna come «alleato favorito». Da una parte c’è la relazione militare con uno dei pochi paesi che ha un esercito forte e la voglia di usarlo. Che è stato a fianco degli americani in tutte le guerre e gli interventi esteri del passato recente, anche quando ne ha pagato molto in termini di vite umane e carriere politiche (basta chiedere a Tony Blair sull’Iraq). 

Nell’altro angolo, c’è il partner commerciale più importante per gli Usa, un’Unione Europea che ha il potere economico per trainare l’economia mondiale e un mercato per assorbire prodotti e servizi fatti negli Stati Uniti: dalla tecnologia di Google alle turbine nucleari della General Electric.

 
Alla fine, e lì che si giocherà la partita: sulla relazione di amore e odio tra l’Ue che è stata snobbata e la «nuova» Gran Bretagna in cerca d’identità e amici nel mondo. Gli Azzeccagarbugli della burocrazia di Bruxelles dicono che ci vorranno almeno due anni per negoziare i dettagli della Brexit. Per scrivere da capo una nuova storia economica, geopolitica e sociale tra 27 paesi che tenteranno di stare insieme e un’isola che ha deciso di andarsene per conto suo senza pensare tanto alle conseguenze.

IN CERCA DEL LIETO FINE 

Saranno mesi e anni di passione. La storia potrebbe avere un lieto fine: un mondo «multipolare» in cui l’«Anglosfera» Gran Bretagna-Usa convive in maniera proficua con una rinvigorita Ue e le forze emergenti dell’Est e del Sud del mondo.

Ma potrebbe anche finire male. «Io e te vedremo la guerra durante le nostre vite», mi ha detto il mio amico banchiere ieri mattina dopo essere atterrato alla fine di un lungo volo. Al momento, ho attribuito il commento al fuso orario, alla confusione del dopo-voto, alle emozioni di una notte referendaria incredibile. Ma dopo Brexit, il mondo è in bilico.

 La mappa del Telegraph che mostra la spaccatura del voto: nelle zone blu ha vinto il “remain”, in quelle rosse il “leave” 

Francesco Guerrera è il condirettore e caporedattore finanziario di Politico Europe 

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Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2016/06/25/esteri/leuropa-perde-londra-il-mondo-ora-in-bilico-fzLuTgTaCKVXy53XmIZzHM/pagina.html
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« Risposta #76 inserito:: Ottobre 15, 2016, 07:21:22 pm »

Il boomerang della sterlina sulla Brexit

13/10/2016
Francesco Guerrera

«Le possibilità di sconfitta non ci interessano affatto. Per noi, non esistono». Servirebbero le parole della Regina Vittoria per aiutare la povera sterlina durante il divorzio in corso tra Regno Unito ed Europa.  

Era dai tempi proprio della vecchia regina che la moneta inglese non era caduta così in basso nei confronti delle valute dei partner commerciali britannici. Dal 1848, per essere precisi.  

E ci vorrà tutto la «stiff upper lip», il labbro rigido simboleggiato dalle parole di Vittoria, per superare la bufera economica scatenata dall’addio britannico all’Unione Europea.  

Le monete sono un po’ come le linee aeree nazionali. Non è obbligatorio che siano forti ma quando lo sono, l’orgoglio nazionale ci guadagna. E in questo momento, la sterlina è in caduta libera. È già ai livelli più bassi in più di trent’anni nei confronti del dollaro, vale meno di un euro in molti sportelli di cambio della Gran Bretagna (anche se il cambio ufficiale è ancora intorno a un euro e undici centesimi), e i trader continuano a dire che la valuta britannica continuerà a scendere.  

Il motivo è chiaro. Le parole dure della prima ministra Theresa May («La Brexit vuol dire Brexit», dice sempre la nuova dama di ferro) fanno pensare ai mercati che la rottura con l’Ue sarà netta, senza accesso al famoso mercato unico e con conseguenze pesanti per l’economia britannica.  

A dire il vero, c’è a chi un po’ di svalutazione non dispiace. Le società che esportano per esempio - ed è per questo che l’indice azionario-guida Ftse 100 sta andando bene - quelle che si fanno pagare in euro e dollari e, ovviamente, i turisti europei, asiatici e americani.  

Sono stato ad Harrods di recente e il lussuoso grande magazzino di Londra sembrava il Maracanà quando gioca il Brasile. Ma invece dei tifosi un po’ trasandati carioca, nello stadio dello shopping c’erano le signore francesi stile Catherine Deneuve, le ragazze giapponesi che non riescono a non ridere, e le mogli di petrolieri arabi nascoste dietro a veli impenetrabili. Tutte pronte a usare le loro potenti divise per comprare vestiti, profumi e gioielli quotati in tartassati pound.

 
I fautori del Brexit amano sentire storie di shopping e di stranieri e hanno ragione: le spese dei turisti, i loro pasti e notti alberghiere aiuteranno l’economia britannica. Ed è senz’altro vero che le esportazioni saliranno grazie alla sterlina debole.  

 Ma non sarà abbastanza. I numeri non mentono: il Regno Unito ha un disavanzo commerciale notevole, ovverosia, importa più di quello che esporta.  

 Una moneta debole non è una buona cosa in queste condizioni perché aumenta i prezzi delle importazioni, gonfia l’inflazione e riduce il potere di acquisto dei consumatori. E le esportazioni non possono colmare il margine perché sono meno di un terzo del prodotto interno lordo inglese, il resto è consumo, investimenti e altre attività che non sono aiutate da una moneta debole.

Mark Carney il capo della Banca d’Inghilterra ha più volte ammonito, con una bella citazione di Tennesse Williams, che un’economia che dipende dalla «gentilezza degli altri» è sempre a rischio.  

 Per ora, i rischi sono contenuti perché i flussi di capitale verso il Regno Unito sono molto forti, grazie al fatto che Londra è un centro mondiale della finanza. Ma cosa succederà dopo la Brexit, soprattutto se sarà una «Hard Brexit», la Brexit dura preferita dalla May?  

 La banca centrale e il Tesoro britannico sono molto preoccupati anche perché non hanno lo strumento fondamentale per combattere speculatori e fautori della sterlina debole: i tassi d’interesse devono rimanere bassi per stimolare l’economia britannica.

 Si dice che Winston Churchill avesse scritto le parole immortali della Regina Vittoria su un pezzo di carta che consultava spesso nelle ore più buie della Seconda guerra mondiale. Carney e May si dovrebbero far portare carta e penna.  

 Francesco Guerrera è condirettore e caporedattore finanziario di Politico Europe.  
fguerrera@politico.eu e su Twitter: @guerreraf72.  

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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/13/cultura/opinioni/editoriali/il-boomerang-della-sterlina-sulla-brexit-0qlo5dshVvn41NC9XPUjbP/pagina.html
« Ultima modifica: Gennaio 09, 2017, 06:06:11 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #77 inserito:: Febbraio 23, 2018, 12:48:26 pm »

Dallo stallo tedesco all’Ungheria xenofoba.
Tutte le crepe Ue che spaventano i mercati

La crescente instabilità rischia di allontanare gli investitori

Pubblicato il 23/02/2018

FRANCESCO GUERRERA
LONDRA

Il pericolo-Italia ritorna a spaventare l’Europa. A lanciare l’allarme è stato Jean-Claude Juncker in un’esternazione che ha fatto scalpore a Roma, innervosito Bruxelles e fatto paura ai mercati. 

Il presidente della Commissione europea si è detto preoccupato dello «scenario peggiore» nel dopo-elezioni, «cioè un governo non operativo in Italia». È un bell’eufemismo per spiegare la paura che aleggia nei corridoi del potere dell’Unione Europea e tra i trader delle banche d’affari. Dopo mesi in cui le varie, troppe, fazioni politiche avevano rassicurato alleati, investitori e connazionali che il 4 marzo non avrebbe portato al caos, è arrivato Juncker a guastare la festa. 

Ma l’Italia non è l’unica mina vagante nel panorama politico europeo. Il Vecchio Continente è pieno zeppo di governi, Paesi e partiti «non operativi», a dirla con Juncker. Facciamo due passi in Europa: Polonia e Ungheria sono in mano a regimi reazionari e beceri che trattano l’Ue come uno zerbino; il governo austriaco è puntellato dai militanti di estrema destra del Partito della Libertà, grande fautore di Vladimir Putin.

Nel Regno Unito, Theresa May traballa sul ponte del Titanic targato Brexit, mentre in Spagna Mariano Rajoy sta facendo l’impossibile per non soccombere alla forza centrifuga della Catalogna. Per fortuna che c’è la Germania. No, un momento. La locomotiva storica dell’Ue è paralizzata dal voto dei social-democratici su una «Grande Coalizione» che non sembra grande a nessuno. 

Una sfortunata coincidenza storica vuole che i risultati di quel plebiscito verranno rivelati poco prima delle elezioni italiane, creando un mix potenzialmente esplosivo per politica e mercati. Persino in Francia, la luna di miele dell’enfant prodige Macron sta per finire. 

La buona notizia, per il momento, è che l’economia dell’Ue è in condizioni decenti – thank you, Mr Draghi – e che gli altri grandi blocchi non stanno proprio benissimo, certo non gli Usa dilaniati dal trumpismo. Ma siamo ormai alla fine di un periodo di (relativa) tranquillità europea che dura da anni – dalla fine della crisi dell’euro nel 2012, passando per l’inizio dell’enorme stimolo della Banca centrale europea tre anni fa, fino alla rispettabile crescita economica attuale. Checché succeda nelle urne italiane, nel ballottaggio tedesco o nel ventre del partito conservatore inglese, stiamo per entrare in un periodo di turbolenza: l’intervento di Juncker è l’avviso del pilota ad allacciare le cinture di sicurezza. Come spesso accade, saranno i mercati a decidere se questo sia l’inizio di una nuova crisi europea o un semplice momento-no in un’Unione che fa dell’inquietudine la sua ragione d’esistere.
La dicotomia è ovvia e preoccupante: i politici amano l’incertezza perché è solo negli interstizi dell’incertezza che trovano lo spazio per compromessi e accordi. Gli investitori odiano l’incertezza perché non gli permette di calcolare con precisione i propri ritorni. E quando gli investitori non possono divinare il futuro, vendono. Basta guardare allo spread tra obbligazioni italiane e tedesche: dopo i commenti di Juncker, è salito di quasi il 4 per cento, un rialzo allarmante, soprattutto perché la Germania non è in salute perfetta. 

Gli ottimisti dicono che Juncker e i mercati stanno esagerando. Anzi, sostengono che sia positivo che le paure escano fuori adesso. Se i vari risultati sono migliori delle aspettative, gli investitori ritorneranno in massa a comprare beni ed obbligazioni dell’Ue. Non è certo impossibile. Warren Buffett, il più grande investitore del mondo, consiglia sempre di essere «avidi quando gli altri sono timorosi e timorosi quando gli altri sono avidi». E so di un gestore di hedge fund che sta comprando un po’ di tutto, allettato dai prezzi bassi e dalla convinzione che le cose miglioreranno sia in Italia sia in Germania.

Un banchiere della City mi ha persino detto che le parole di Juncker sono un classico caso di psicologia dei contrari: parlare del peggio per farsi sorprendere dalla realtà. Speriamo abbia ragione. Per il momento, chi guarda verso l’orizzonte europeo vede una nuvola a forma di stivale.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/02/23/esteri/dallo-stallo-tedesco-allungheria-xenofoba-tutte-le-crepe-ue-che-spaventano-i-mercati-rXyXkg8iu9EH4UKjVpH1dM/pagina.html
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« Risposta #78 inserito:: Maggio 26, 2018, 06:06:36 pm »

Quei timori che insidiano i risparmi

Pubblicato il 23/05/2018

Francesco Guerrera

«Giuseppe who?» «E chi è questo Giuseppe?» Lo stato di allerta dei mercati sull’Italia inizia dalla domanda fatta da banchieri, operatori e azionisti. Il nome di Giuseppe Conte è sulla bocca di tutti ma sempre con il punto interrogativo alla fine. 

Noi emigranti a Londra o New York ci barcameniamo, rispondendo che no, non è parente dell’allenatore del Chelsea, che, anzi, è un giurista abbastanza di spicco e che già in passato ci sono stati primi ministri tecnocratici (Lamberto Dini, Carlo Azeglio Ciampi, Mario Monti). Ma, in realtà, nemmeno noi «addetti ai lavori» sappiamo granché sul probabile inquilino di Palazzo Chigi. 

La nuova coalizione del populismo ha già ottenuto un risultato: i mercati che avevano imparato ad ignorare il costante turnover di governi nostrani, ora sono ossessionati dalle nuove, sconosciute, figure nella stanza dei bottoni.

Non è solo questione di misteriose personalità. Il vecchio adagio è che le Borse odiano l’incertezza più delle cattive notizie. In questo momento, l’Italia sta somministrando entrambe ai mercati.

Partiamo dall’incertezza. Donald Rumsfeld, vecchio marpione della politica americana, amava parlare di «known unknows», le cose che sappiamo di non sapere. 

Nel caso dell’Italia, tali cose includono: la filosofia del candidato primo ministro, l’identità del ministro dell’Economia, i posti ministeriali dei due leader della coalizione e il livello di competenza di due partiti che non hanno mai governato assieme.

Non male per un Paese che ha un’economia traballante, un sistema bancario «reggimi che ti reggo», e il problema-immigrazione più’ grande d’Europa. «La risposta può essere una sola: vendo», mi ha detto un operatore di Borsa, echeggiando le parole di molti altri.

Non tutto è ignoto. Sappiamo, per esempio, il programma di governo, ora chiamato «contratto» per essere trendy. Ed è qui che all’incertezza si aggiungono le cattive notizie. 

«Con grande originalità, il programma combina le ambizioni di grande spesa della sinistra con i desideri di bassa tassazione della destra», ha tuonato Clive Crook, commentatore di Bloomberg.   

Non è un complimento. In un Paese in cui il debito pubblico è già al 130 per cento del Pil, mantenere le promesse di Lega e Cinque Stelle porterebbe a una conflagrazione economica simile ai vulcani delle Hawaii. 

E’ quel timore che ha provocato il crollo delle obbligazioni governative italiane di questa settimana (anche se ieri la situazione è migliorata un pochino). La vera paura degli investitori è la fine di un altro «contratto»: quello tra l’Italia, l’Unione Europea e la Banca Centrale Europea.

Il motivo per cui il famigerato spread è rimasto abbastanza tranquillo negli ultimi mesi, nonostante le tempeste politiche nostrane, è che il mercato considerava i politici italiani come teenager irresponsabili supervisionati da due genitori assennati: Bruxelles e Francoforte.

Le beghe italiane potevano essere ignorate perché, alla fine, c’era papà Mario Draghi ad aprire il portafogli, mamma Commissione Europea a tenere d’occhio i fondamentali economici e la governante Angela Merkel a fare una strillata quando era necessaria. Insieme, questo trio ha pure «salvato» un po’ di banche italiane da rottamare. Il soccorso ha infranto regole europee ma si sa che in famiglia a volte qualche strappo bisogna farlo.

Ora, la retorica della coalizione parla di separazione dall’ Europa, magari non nel senso di «Italexit», ma alla greca: Bruxelles dà ordini e noi li ignoriamo fino a quando non sarà troppo tardi. Ed è questo l’incubo degli investitori: che l’Italia esca da una tutela europea che ha garantito una (relativa) stabilità economica a dispetto della perenne instabilità politica.

Gli ottimisti rispondono che il nuovo governo non farà nulla di drastico, un cane che abbaia ma non morde. Per il momento, però, i mercati non vogliono scommettere su «Giuseppe who?».

*Direttore di Dow Jones Media Group a Londra 

Francesco.guerrera@dowjones.com  - Twitter:@guerreraf72 
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Da - http://www.lastampa.it/2018/05/23/cultura/quei-timori-che-insidiano-i-risparmi-u0WwvyHnCADFdA0vF8kDIK/pagina.html
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