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Autore Discussione: FRANCESCO GUERRERA.  (Letto 50780 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Dicembre 18, 2010, 05:16:53 pm »

18/12/2010

I gattopardi del bonus a Wall Street


FRANCESCO GUERRERA*

Nella New York pre-natalizia, addobbata a festa con le luci abbaglianti, le piste da pattinaggio e l’albero di Natale al Rockefeller Centre, ci sono poche oasi di pace. Una passeggiata sulla Quinta strada si trasforma subito in uno slalom affannato tra le nazioni unite del turismo – italiani e spagnoli, ovviamente, ma anche cinesi, russi, indiani e brasiliani – e residenti esasperati dal passo lento dei vacanzieri in cerca di saldi. Per trovare un po’ di calma, bisogna allontanarsi dal caos di Gap, Abercrombie & Fitch e persino Tiffany, gioielleria storica ormai alla portata di molti, e dirigersi verso la più austera Park Avenue.

E’ qui, tra i grattacieli delle banche, i ristoranti storici come il Four Seasons (dove una bistecchina costa 48 dollari), e la sensazione palpabile che l’isola di Manhattan galleggi su un fiume di denaro, che Wall Street viene a fare shopping. A Park Avenue, gli executives in cerca di regali per mogli e amanti devono suonare il campanello prima di entrare dai gioiellieri – non siamo mica da Tiffany qua - quando vedono un dipinto di Miró in una galleria d’arte non chiedono mai se è originale, e se hanno bisogno di un’auto, la scelta è tra Maserati e Ferrari.

Queste settimane prima di Natale sono di solito caldissime per i venditori di beni di lusso a New York perché banchieri e operatori di Borsa incominciano a spendere i principeschi bonus di fine anno. L’altro giorno, grazie ad un amico banchiere che mi ha dato appuntamento a Park Avenue anziché in ufficio, sono riuscito ad infiltrarmi in questo «material world» di cui cantava Madonna e scriveva Tom Wolfe nel «Falò delle Vanità». Mentre ci spostavamo da negozio a negozio – io chiedendo i prezzi e tentando di mascherare la mia sorpresa, lui comprando oggetti unici come fossero figurine Panini – ho avuto l’impressione netta che i grandi spendaccioni di Wall Street quest’anno siano meno scatenati del solito. Non erano solo gli sguardi di gran sollievo delle signorine dietro il bancone quando il mio amico tirava fuori l’American Express ma anche l’aria meno spavalda di altri avventori ben vestiti.

Un piccolo sondaggio di commercianti d’alto bordo (se avete bisogno di affittare uno yacht nei Caraibi, ho tutti i numeri che contano) ha confermato l’impressione iniziale. Dopo un anno così-così, l’industria finanziaria attingerà da una cornucopia di denaro più piccola del solito. Nel 2009, Wall Street sorprese un po’ tutti – e fece arrabbiare Washington – con la decisione di ripristinare bonus astronomici un anno dopo una crisi epica che aveva fatto perdere il posto di lavoro a milioni di americani. Quella mossa all’epoca fu giustificata dal fatto che gli utili delle varie Goldman Sachs, JPMorgan e Merrill Lynch erano aumentati e che i banchieri dovevano essere remunerati almeno quanto gli investitori (assente da quella spiegazione era il fatto che la crescita degli utili era dovuta in gran parte ai bassissimi tassi d’interesse, non al genio delle banche).

Quest’anno però, gli utili sono in calo, la ripresa economica rimane anemica e un americano su dieci è disoccupato. Che fare con i bonus? La domanda ha due risposte: quello che Wall Street farà e quello che dirà di aver fatto. Incominciano dalla seconda. Le banche diranno, anzi, stanno già dicendo, all’opinione pubblica e ai politici che i bonus quest’anno crolleranno del 20-30 per cento. E’ una cifra eclatante che dovrebbe dimostrare che, dopo gli eccessi del passato, Wall Street ha finalmente imparato la lezione: non di solo bonus vive il banchiere. La storia dei «tagli» alle buste paga fa buon gioco alle banche, soprattutto in un momento in cui il Congresso e le authority di settore stanno riscrivendo le regole del gioco della finanza. Se, come disse il presidente Obama, la Casa Bianca è l’ultimo bastione tra i banchieri e il linciaggio, rimpicciolire i bonus di un terzo dovrebbe placare le masse e ridimensionare un pochino i signori del capitalismo.

Io, però, aspetterei un attimo prima di mandare la Caritas a Park Avenue. E’ vero che, in media, i bonus caleranno dai livelli altissimi del 2009 ma la parola chiave qui è «in media». Senza andare a disturbare Trilussa e i suoi mezzi polli, va detto che nessuno a Wall Street guarda alla media-bonus. Quello che conta sono i pagamenti individuali ed è qui che, come si dice in inglese, il «diavolo è nei dettagli». Dire che i bonus calano del 30 per cento in un anno in cui gli utili saranno anch’essi giù del 30 per cento più o meno, non dimostra assolutamente che Wall Street sta «sconfiggendo la cultura dell’eccesso» come mi ha detto un banchiere l’altro giorno.

La vera cifra da controllare è la percentuale dei ricavi che viene pagata in stipendi e bonus. Per decenni, quel numero è stato fisso intorno al 50 per cento, ovvero i banchieri e gli operatori si sono presi metà di tutto quello che le loro aziende hanno guadagnato durante l’anno. Se, come credo, quella percentuale rimane la stessa – e la sola cosa che cala sono le cifre assolute perché le banche hanno fatto meno soldi nel 2010 – la famosa «riforma» di Wall Street sarà ridotta ad una magia finanziaria. L’altro modo in cui le banche possono ridurre il costo totale dei bonus pur pagando benissimo le loro «star» è di dividere la torta tra meno persone. Le tendenze darwiniane dell’industria finanziaria in questo aiutano: la tradizione di Wall Street è che un calo nei ricavi è quasi sempre seguito da licenziamenti. Meredith Whitney, uno dei migliori analisti finanziari in America, ha predetto di recente che tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 le grandi banche statunitensi elimineranno 80.000 posti di lavoro – un calo del 10 per cento da aggiungere alla flessione dell’8 per cento negli anni della crisi. Per quelli che rimangono, un bonus da nababbo è pressoché garantito. Il che, a ben guardare, spiega sia l’uso a raffica della carta di credito da parte del mio amico, che un lavoro a gennaio ce l’avrà, sia la cautela dei rivenditori di beni di lusso. Le grande vendite di diamanti e yacht potrebbero essere solo rimandate a quando le banche decideranno chi resta e chi va. Per scrivere del «cambiamento» di Wall Street, forse non ci vuole Tom Wolfe, ma Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

*Francesco Guerrera
è il caporedattore finanziario
del Financial Times a New York
Francesco.guerrera@ft.com

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8211&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #16 inserito:: Dicembre 25, 2010, 06:23:05 pm »

24/12/2010 (7:39)  - IL NUOVO ANNO

Ripresa e declino

È l’America nuova

I disoccupati caleranno, ma anche il ruolo mondiale degli Usa

FRANCESCO GUERRERA

Cari amici vi scrivo/ così mi distraggo un po'/ ma siccome siete molto lontani/ più forte vi scriverò».
Con tante scuse a Lucio Dalla, l'anno che verrà porterà più di una trasformazione all'economia americana e al ruolo degli Stati Uniti nella finanza mondiale. A differenza di Paul Gascoigne, il grande incompiuto del calcio inglese che una volta disse: «Previsioni non ne ho mai fatte e non ne farò mai», questi sono i miei pronostici per il 2011.

L’economia Usa
Il paziente sta dando segnali di vita. Dopo un anno terribile in cui la disoccupazione è salita quasi al 10 per cento e la ripresa è stata stentata, la crescita nel prodotto interno lordo americano è accelerata negli ultimi tre mesi del 2010, grazie alle esportazioni e una buona stagione di vendite pre-natalizie. Il prolungamento degli sgravi fiscali dell’era Bush decretato di recente dall’amministrazione Obama dovrebbe contribuire a tonificare l’economia nel 2011. Bisognerà vedere se le aziende e i consumatori vorranno spendere i 374 milardi di dollari regalatigli dall'ufficio tasse. Ma è quasi sicuro che almeno una parte dello stimolo fiscale verrà riciclato nell’economia reale attraverso consumi e investimenti, soprattuto se la Federal Reserve rispetterà le promesse e terrà i tassi d'interesse bassi fino al 2012.

La buona nuova è che la crescita del Pil americano sembra essere uscita dalle sabbie mobili del 2-2.5 per cento - un livello insufficiente per trascinare l’economia Usa fuori dalla crisi - in cui è rimasta per gran parte del 2010. Nel 2011 dovremmo vedere un più normale 3-3.5 per cento, una buona piattaforma per ridurre la disoccupazione e istigare la ripresa.

Il commercio estero
Occhio al dollaro e alla Cina. Gli alti funzionari del Tesoro americano si infuriano alla minima menzione di una politica del «dollaro debole», ma la realtà è che le strategie monetarie della Federal Reserve - tassi d’interesse bassissimi e grandi iniezioni di denaro nei mercati - hanno avuto l’effetto di spingere in giù la valuta.

Obama e i suoi non si lamentano più di tanto, visto che una divisa più «leggera» aiuta le esportazioni in un momento in cui il commercio estero è uno dei fari dell’economia americana.

Il problema, finora, è stato che le continue crisi nel Vecchio Continente hanno fatto crollare l’euro più del dollaro, facendo aumentare i prezzi dei beni e servizi americani in vendita nell’Unione Europea. I garbugli fiscali dell’Ue non si risolveranno per un po’, e il dollaro rimarrà forte, troppo forte, nei confronti dell’euro nel 2011.

In questo momento, gli Usa avrebbero bisogno della Cina, ma Pechino non ha nessuna intenzione di rivalutare lo yuan nel breve termine. Il fiasco del G20 a Seul, con il fallimento clamoroso del tentativo americano di creare una coalizione euroasiatica per costringere la Cina a muoversi, è destinato a ripetersi nel 2011. La Cina ha ormai un profilo internazionale e una potenza economica - aumentata dal fatto che è padrona di una bella porzione di debito Usa - che le permette di ignorare i diktat degli Stati Uniti. Nel match con Pechino nel 2011, Washington può sperare al massimo in un pareggio.

Wall Street e i mercati
Ora si paga. Dopo aver contribuito alla Grande Recessione del 2007-2009, le grandi banche si troveranno di fronte ad un conto salato nel 2011. Nuove regole del gioco in America ed Europa eroderanno gli utili e ridurrano i bonus da re Mida degli anni passati.

L’industria finanziaria diventerà più piccola (meno impiegati, meno prestiti e meno aerei privati), meno redditizia e, si spera, meno arrogante. Uno dei risultati negativi della rivoluzione del dopo-crisi sarà che le banche ridurranno la liquidità a disposizione di società e cittadini, facendo rallentare la ripresa. Ma, vista l’antipatia della gente comune nei confronti di Wall Street, i politici sulle due sponde dell’Atlantico non sembrano preoccupati da questa eventualità.

Attenzione, però, alla capacità delle banche d’affari di «reinventarsi». In momenti di difficoltà, questi camaleonti della finanza hanno dimostrato di essere capaci di creare prodotti e servizi che hanno aumentato gli utili, salvo poi mettere a repentaglio l’economia mondiale. Basta ricordarsi l’esempio delle famigerate obbligazioni riempite di mutui «subprime» per capire che le «innovazioni» di Wall Street non sono sempre salutari.

La rielezione di Obama
Dipende quasi tutto dalla disoccupazione. Se rimane intorno al 10 per cento, le chances di un Obama-2 nel 2012 sono pressoché nulle. Ma Sarah Palin e gli esponenti di punta di un partito repubblicano che si sta spostando sempre più a destra sanno bene che, prima o poi, il mercato del lavoro ricomincerà a tirare. Se la ripresa continua e le aziende ritornano ad investire, l’economia americana potrebbe tranquillamente creare più di 2 milioni di posti di lavoro l’anno prossimo, facendo calare il tasso di disoccupazione sotto il 9 per cento.

Le voci di corridoio nella Casa Bianca dicono che, se la percentuale dei senza lavoro sarà intorno all’8 per cento alla fine del 2011, la rielezione del Presidente sarà cosa fatta, anche se i repubblicani candidano «Gesù bambino», come mi ha detto un consigliere di Obama l’altro giorno. Sarà pure vero, ma aumentare così tanti posti di lavoro in un frangente così fragile è più facile a dirsi che a farsi.

Il ruolo mondiale
In inglese si dice: «Less is more» - il meno è più - e questo dovranno sperare gli americani che stanno diventando sempre più comprimari sul palscoscenico dell’economia e della finanza mondiale. L’ascesa di Paesi emergenti - la Cina ma anche l’India e il Brasile - è ormai incontenibile e l’asse AmericaEuropa, che è stato la trave portante dell’economia mondiale nel dopoguerra, è stato indebolito dalla crisi finanziaria Usa e i disastri economici europei.

L’America del 2011 sarà sospesa tra il pirandelliano e il kafkiano: in cerca di un nuovo ruolo in un mondo che non tollera più una sola superpotenza economica e consapevole che il suo declino, anche se lento, è inarrestabile.

God Bless America...

Caporedattore finanziario del «Financial Times» a New York francesco.guerrera@ft.com

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/201012articoli/61721girata.asp
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« Risposta #17 inserito:: Gennaio 22, 2011, 05:41:39 pm »

22/1/2011
 
Obama chiede un salvagente all'industria
 
 
FRANCESCO GUERRERA
 
Il Presidente americano e il capo della General Electric, cestisti di buon livello ai tempi dell’università (l’uno guardia, l’altro pivot), dovranno tentare di trasformare l’uno-contro-uno tra governo e aziende in uno schema vincente per l’economia americana. L’assist di Obama è arrivato ieri con la nomina di Immelt a capo del gruppo di consiglieri economici della Casa Bianca - uno dei gabinetti più importanti della presidenza. Il cambio della guardia tra Paul Volcker, ottuagenario ex governatore della Federal Reserve, e Immelt, un 54enne brillante che guida una delle più grandi aziende del mondo da ormai un decennio, è molto più di un salto generazionale.

Volcker è il passato sia della politica economica americana sia della presidenza Obama. Immelt è il presente e, almeno a quanto spera l’ala Ovest della Casa Bianca, il futuro. La scelta del capo della «GE», che una volta mi confessò di aver sempre votato per il partito repubblicano, è in parte figlia di opportunismo politico da parte di Obama. Un presidente che è famoso per aver detto a un gruppo di signori di Wall Street: «Io sono l’ultimo bastione tra voi e le forche», e che ha utilizzato il disastro ambientale causato da BP nel Golfo del Messico per attaccare l’avidità spietata del capitalismo senza rete, è andato a scegliere uno dei più grandi capitani di industria come consigliere economico.

Non per la prima volta nel corso della presidenza Obama, la retorica ha dovuto cedere il posto alla Realpolitik. Le frecciate al veleno tra la Casa Bianca e gli abitanti dei piani buoni dei grattacieli di New York, Chicago e Los Angeles hanno creato un clima di ostilità che ha danneggiato l’amministrazione e fatto poco o nulla per la crescita economica. Con le elezioni del 2012 all’orizzonte, i grandi imprenditori e i banchieri di Wall Street hanno incominciato a finanziare i repubblicani, abbandonando il Presidente che avevano tanto amato nella campagna elettorale del 2008. La Casa Bianca ha bisogno di Immelt e degli altri membri del club del grande business non solo per rivitalizzare l’economia ma anche per rinvigorire la presidenza. Per Immelt il nuovo ruolo, anche se part-time, è l’occasione ideale per uscire dall’ombra di Jack Welch, il suo leggendario predecessore che è sinonimo degli anni d’oro di «GE». I paragoni tra Jack e Jeff sono sempre stati difficili per il pupillo, soprattutto quando Welch andò in tv a dire che avrebbe «sparato» a Immelt se gli utili di GE non fossero saliti.

Ma che tipo di consigliere sarà Immelt? Ed è questo un segno che l’amministrazione, ormai disperata e senza idee, ha deciso di delegare la gestione dell’economia ai capitani di industria? Conosco Immelt da quando era un giovanotto di belle speranze a capo della divisione farmaceutica di GE e abbiamo spesso parlato di questioni macro-economiche. Come molti leader aziendali, ha idee chiare e forti esposte con la verve e l’ottimismo di un venditore porta a porta. Nel 2006, in un’intervista, Immelt si lanciò in un attacco violento contro la politica economica degli Stati Uniti. «Abbiamo fatto un errore clamoroso - mi disse - abbiamo creato un’economia della ciambella, con una concentrazione del settore terziario sulle due coste e niente in mezzo. Senza l’industria manifatturiera, gli Usa non possono essere una potenza economica». Parlava, chiaramente, di azioni che avrebbero aiutato GE, un impero manifatturiero i cui prodotti vanno dai frigoriferi ai motori per i Boeing 747, ma le sue ricette economiche sono interessanti quanto interessate.

Con i consumatori americani ancora in choc dopo la crisi finanziaria, saranno le esportazioni di beni manifatturieri a dover trainare il Paese fuori dalla recessione. Una volta insediato, Immelt spingerà per una re-invenzione dell’economia americana con investimenti e sgravi fiscali per le aziende che producono «cose che si possono toccare» - come mi disse una volta - e meno favori ai venditori di servizi finanziari e film di Hollywood. Obama l’ha detto chiaro e tondo al presidente cinese Hu Jintao questa settimana: «Vi vogliamo vendere aerei, vi vogliamo vendere macchine e vi vogliamo vendere software». Su questo, il playmaker e il centro sono sulla stessa lunghezza d’onda.

*caporedattore finanziario del Financial Times a New York
francescoguerrera@ft.com 

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8322&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #18 inserito:: Marzo 05, 2011, 04:43:20 pm »

5/3/2011

FRANCESCO GUERRERA

Warren Buffett ha il colpo in canna. Miliardario ma con abitudini e passioni da americano medio, il leggendario investitore ha utilizzato una metafora balistica per illustrare la sua brama per nuovi acquisti di società. «Il mio fucile da caccia è carico ed ho il dito sul grilletto», ha scritto la settimana scorsa agli azionisti della Berkshire Hathaway, vecchia azienda di camicie trasformata dal genio di Buffett in un conglomerato gigantesco che va dalle assicurazioni alle caramelle. L’ottantenne santone del capitalismo americano non si è fermato lì. La lettera – scritta, come tutti gli anni, dalla sua casetta di Omaha, una città senz’anima sperduta nelle pianure del Nebraska – contiene una professione d’amore per l’America. Stanco di sentirsi dire che il cuore dell’economia mondiale si sta spostando ad Est e Sud, e infastidito dal refrain degli «esperti» sul lento ma irreversibile declino degli Stati Uniti, il figlio più famoso del Nebraska – un vero patriota, che odia viaggiare ed ama hamburgers e CocaCola – si è sbilanciato.

«I giorni migliori dell’America sono nel futuro», ha detto, aggiungendo che il suo Paese «straripa» di opportunità di investire e far soldi. Così tante opportunità che l’«Oracolo di Omaha» ha promesso che quando premerà il grilletto, la sua preda sarà quasi sicuramente un’azienda made in Usa. Quando Buffett parla, il Gotha dell’economia e della finanza ascolta. E quando Buffett parla di un futuro roseo per l’America, sono in molti a volergli credere. Imercati, Wall Street, la Casa Bianca, Silicon Valley ed investitori di mezzo mondo: la lista di chi ha interesse a che l’America si riprenda dalla crisi e ritorni ad essere il motore dell’economia mondiale è lunga e parla molte lingue. I segni della rinascita – i «verdi germogli» della crescita, come gli americani amano chiamarli – ci sono eccome. Grazie all’interventismo radicale (e costoso) della Federal Reserve e del governo, la Grande Recessione del 2007-2009 non si è trasformata nella Grande Depressione del 1929-1939. Invece delle file per comprare il pane, i senzatetto sotto i ponti, e bambini scalzi per le strade, l’America del 2011 si preoccupa del ritorno dei bonus per i banchieri, quale macchina comprare e quante carte di credito bisogna avere nel portafogli. Sono settimane che cerco di andare a cena con un mio amico che fa l’agente immobiliare per case di lusso a New York – immobili che valgono almeno 2 milioni di dollari – ma lui non fa altro che rimandare perché ha troppe case da vendere (almeno così dice).

I mercati riflettono questi sentimenti positivi. Il Dow Jones Industrial Average – l’indice guida della Borsa di New York – è raddoppiato negli ultimi due anni e, anche dopo il tonfo causato dai tumulti nel Medio Oriente, è ben al di sopra dei livelli toccati prima del crollo di Lehman Brothers – il punto più buio nel tunnel della crisi finanziaria. Anche l’economia reale sta dando segnali di vita. Dopo anni passati ad angustiarsi sul pericolo di un lungo periodo di ristagno economico stile-Giappone, i banchieri centrali della Fed parlano già di come la ripresa stia aumentando il rischio d’inflazione, di come presto verrà il momento di alzare i tassi di interesse e ritirare le dosi da cavallo di stimolo monetario amministrate dalle zecche di Stato nel dopo-crisi. Persino alla Casa Bianca si respira un’aria più tranquilla. La settimana scorsa ho parlato con la mia cartina di tornasole, un alto funzionario del Tesoro che è uno dei più cupi e pessimisti degli uomini di Obama. Mi aspettavo i soliti lamenti sul fatto che la disoccupazione rimane ancora altissima, mettendo a rischio le chance di rielezione del Presidente nel 2012. Ma invece di «Mr Doom» – il signor Tragedia, l’affettuoso soprannome che ho dato alla mia fonte – ho trovato un tipo rilassato e sorridente pronto a giurare che «tutto si sta muovendo nella direzione giusta»: una ripresa economica robusta che riduce il tasso di disoccupazione dal 9-10 per cento attuale verso quel mitico 8 per cento a cui mira l’amministrazione per rassicurare le classi medie e vincere le elezioni.

Come se non bastasse, l’Apple ha presentato il nuovo iPad – il simbolo scintillante delle capacità creative e di marketing del capitalismo americano, la prova «concreta» che, come mi ha detto un eccitatissimo capo di Wall Street, «America is back», gli Usa sono tornati al top. Se tutta questa euforia sembra assurda vista dall’Europa, vale la pena notare che gli Stati Uniti non sono il vecchio continente. Il bene più importante dell’economia americana non è la forza del dollaro, o la potenza finanziaria di New York e nemmeno i muscoli monetari della Federal Reserve ma l’ottimismo, puerile forse ma quasi illimitato, della sua classe imprenditoriale e di parte della popolazione. Le parole di Buffett, l’esaltazione per l’iPad 2 («Ha due macchine fotografiche!», mi ha detto un amico quasi in preda a convulsioni), la spavalderia del mio Mr Doom non sono solo emozioni fine a se stesse. Hanno un’applicazione pratica nell’attività economica. Vi risparmio i dati sui brevetti, i numeri d’ingegneri e d’invenzioni che sono uscite tra l’Atlantico e il Pacifico - comunque molto di più che dalla vecchia Europa e persino dalla rampante Asia.

Per capire come l’ingenuità anche un po’ ridicola della psiche americana possa aiutare l’economia basta guardare Google, una società che è diventata il potere dominante di internet in soli dodici anni, Facebook, che di anni ne ha solo sei, ma anche General Electric, un «dinosauro» dell’industria che è rimasto competitivo grazie alla capacità di rinnovarsi, dalle lampadine di Thomas Edison alle turbine nucleari di oggi. La vera questione, però, è se questo desiderio, indiscutibile, forse innato, di cambiare senza paura di fallire basterà a far risorgere l’economia più grande del pianeta. Se i ragazzini con brufoli e computer potranno far fronte al declino vero e tangibile di industrie manifatturiere un tempo enormi, alla riluttanza di consumatori bruciati dalla crisi a spendere, ed alla forza inesorabile dei flussi globali di commercio che spingono merci da Est ad Ovest e denaro nella direzione opposta. Persino Ge, l’azienda americana per eccellenza il cui amministratore delegato è il super-consigliere di Obama in materie economiche, ormai deriva più della metà degli utili lontano dalla patria. Di fronte a sfide epocali come queste, non sono sicuro che il fucile da caccia di un ottantenne signore di Omaha sia l’arma giusta.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times a New York.

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« Risposta #19 inserito:: Marzo 20, 2011, 03:30:24 pm »

20/3/2011

I cigni neri in volo sul dopo-crisi

FRANCESCO GUERRERA

Gli eventi, caro ragazzo, gli eventi».
La risposta del primo ministro britannico Harold McMillan quando gli fu chiesto quale fosse la paura più grande di uno statista è la didascalia perfetta per le immagini terribili e commoventi delle ultime settimane.

Dalla Tunisia al Bahrein, dall’Egitto al Giappone, gli statisti, i mercati e la gente comune sono stati costretti a riconoscere che di fronte alle rivoluzioni naturali o umane, le previsioni e le precauzioni possono poco o nulla. I «cigni neri» – gli eventi rari e imprevedibili per cui nessuno sa come prepararsi identificati da Nassim Nicholas Taleb nel suo best-seller «The Black Swan» – hanno aperto le ali sul Medio Oriente e l’Asia, offuscando certezze economiche e politiche che in troppi avevano dato per scontate.

Nelle ultime ore, è apparso un nuovo cigno nero: la risposta militare delle potenze dell’Ovest al regime libico - una mossa impensabile solo un mese fa - che apre un nuovo capitolo nella storia tormentata delle relazioni tra occidente e Medio Oriente e di cui nessuno oggi può prevedere gli sviluppi e le ripercussioni economiche e sociali.

Scrivo queste righe dalla California del Sud, all’ombra di una delle centrali eoliche più grandi del mondo, un groviglio di pali e rotori che torreggiano sul deserto che circonda Palm Springs. Questo miracolo d’ingegneria sarebbe dovuto essere l’inizio della fine della petrolio-dipendenza per l’economia Usa. L’energia pulita e sicura del vento avrebbe dovuto permettere agli americani di continuare a guidare macchine enormi, lavare e asciugare i panni quattro volte a settimana e riempire mega-freezer con tonnellate di cibo congelato, ma senza le tensioni politiche causate dall’oro nero e le molte paure legate all’atomo. Ma di fronte ai tremori politici del Medio Oriente e alla violenza, prima sismica ora nucleare, nelle isole nipponiche, questi giganteschi mulini a vento sembrano essere stati concepiti da Cervantes: un monumento alla futilità, un mausoleo del fallimento per le politiche energetiche di presidenti e congressi.

Le proteste della Tunisia, le voci di Piazza Tahrir e gli spari del regime libico hanno attraversato l’oceano con gran rapidità, andando a colpire il portafogli di Joe Blog – il signor Rossi made in Usa. Le interruzioni nell’erogazione del greggio libico e il timore che la febbre di democrazia possa contagiare altri grandi produttori hanno avuto un effetto immediato: il prezzo del petrolio è balzato di quasi il 20 per cento in poche settimane e la benzina è salita alle stelle.

A differenza dell’Europa, dove le tasse attenuano il legame tra prezzo di mercato e costo alla pompa, in America la relazione è quasi perfetta. Nei primi tre mesi del 2011, il prezzo del carburante è aumentato di più un quarto e questa settimana, il costo medio di un gallone di benzina ha raggiunto un nuovo record – uno choc per un sistema economico ed uno stile di vita che tracanna petrolio.

In un Paese in cui le lunghe distanze e il benessere diffuso hanno fatto dell’automobile un accessorio indispensabile per milioni di persone, un’impennata di tal genere ha ripercussioni serie sull’economia reale. Persino nella California «verde», dove le autovetture «ibride» sono una presenza costante sulle autostrade a otto corsie, la gente è preoccupata. «Mica posso smettere di guidare», mi ha detto un tassista all’aeroporto di Palm Springs, prima di aggiungere uno sconsolato «piove sempre sul bagnato».

Non ha tutti torti. Dal punto di vista economico, le convulsioni del Nord-Africa e Medio Oriente stanno avendo un effetto sproporzionato sui consumatori americani.

I prodotti petroliferi rappresentano solo un terzo delle spese in materia di energia per le aziende ma due terzi delle bollette dell’americano medio (oltre alla benzina, Joe Blog deve anche comprare petrolio per riscaldare la sua casetta a schiera). Un americano medio che, vale la pena ricordare, è stato tartassato dalla crisi economica e sta ancora soffrendo per il collasso del mercato immobiliare e l’alto tasso di disoccupazione.

Non è un caso che a marzo l’indice della «fiducia economica» dei consumatori rilevato dall’Università del Michigan sia crollato ai livelli più bassi degli ultimi sei mesi. Anche gli economisti sono preoccupati. Senza un ritorno di fiamma del consumo, che rappresenta il 60 percento del Pil americano, il rischio di un deragliamento della ripresa del dopo-crisi aumenta. A questi livelli – con il prezzo del petrolio intorno ai 110 dollari al barile – gli esperti pensano che l’economia rallenterà un pochino ma non moltissimo, riducendo la crescita economica nel 2011 dal 3 a il 2.8 percento.

Ma il vero pericolo per l’America e il resto dell’economia mondiale si chiama Arabia Saudita e forse anche Iran - due dei più grandi produttori di greggio. Una rivolta democratica in quei due Paesi sarebbe un «cigno nero» di proporzioni epiche. Alcuni grandi banchieri di Wall Street con cui ho parlato, ma che non vogliono fare predizioni pubbliche per paura di creare panico, sussurrano che, in quel caso, il prezzo del petrolio potrebbe raggiungere i 200 dollari al barile quasi immediatamente.

Le conseguenze sarebbero devastanti, e non solo per gli Stati Uniti. Un balzo nel costo dell’energia farebbe sprofondare l’economia mondiale nella «stagflazione» – il mostro a due teste in cui la recessione è accompagnata da inflazione rampante. Va detto che per ora questo scenario non è certo, e nemmeno probabile, ma il fatto stesso che i signori del denaro di New York ne parlino come un’eventualità è prova della fragilità dell’attuale congiuntura economica.

Invece di rimbalzare con vigore da due anni di crisi finanziaria, i Paesi-guida dell’economia mondiale continuano ad incespicare su ostacoli imprevisti e non facilmente trattabili, dalle paure sul debito di Grecia, Spagna e Portogallo all’elettro-choc del petrolio. In altri tempi, le lobby del grande business americano non si sarebbero lasciate scappare l’occasione per spingere il Congresso ed il presidente Obama verso il nucleare – una forma di energia che Washington ha tentato di evitare a tutti i costi dopo la catastrofe nella centrale di Three Mile Island del 1979 in cui una nube radioattiva ricoprì un pezzo della Pennsylvania.

Ma le notizie provenienti dal Giappone rendono l’energia atomica una «non-starter» – una «falsa partenza» nel gergo spietato della politica americana. Anzi, l’industria americana è indirettamente coinvolta nelle vicende giapponesi visto che i reattori semi-distrutti dalle acque della tsunami portano il marchio della General Electric – il faro del settore manifatturiero Usa.
Il mondo del dopo-crisi è un posto inquieto dove l’insicurezza economica e l’instabilità politica sono destinate a regnare. Almeno fino a quando i cigni neri non intoneranno il loro canto finale.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times a New York francesco.guerrera@ft.com

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« Risposta #20 inserito:: Aprile 03, 2011, 10:46:42 am »

3/4/2011 - ECONOMIE VULNERABILI

Il secondo terremoto del Giappone

FRANCESCO GUERRERA

Non c’è voluto molto prima che le scosse di assestamento del terremoto giapponese arrivassero a Shreveport, un cittadone squallido nel profondo Sud degli Stati Uniti.
Mentre i team di salvataggio nipponici cercavano superstiti e raccoglievano corpi tra le rovine di paesi distrutti dalle onde assassine, Shreveport ha aggiunto il suo nome alla lunga lista delle vittime della devastazione nipponica.

È qui, nell’hinterland paludoso della Louisiana, ad anni luce di distanza dal jazz e dai bar a luci rosse di New Orleans, che la General Motors produce molti dei suoi «pick-up trucks», i furgoncini con portabagagli scoperti tanto amati dagli americani.
È forse meglio dire «produceva», visto che l’impianto è chiuso da dieci giorni a causa della penuria di componenti provenienti dal Giappone.

I bene informati nell’industria automobilistica dicono che il motivo per cui la Gm sta tenendo a casa i 2000 e passa operai di Shreveport è la mancanza di un pezzo che misura il flusso d’aria nei motori. La Hitachi è il leader mondiale di questi sensori e la fabbrica a Nord di Tokyo che li produce è stata danneggiata dal terremoto.

E così, senza il know-how nipponico, i motori made in Usa che alimentano il sogno americano di libertà a quattro ruote non sanno nemmeno se hanno abbastanza aria per respirare - benvenuti nel mondo «globalizzato».

L’industria automobilistica non è la sola a guardare con ansia verso le isole nipponiche.
I produttori di gadget elettronici - compreso l’iPad, la nuova coperta di Linus per banchieri, avvocati e affini -, l’intera industria dell’acciaio, e persino venditori di beni di lusso come Tiffany, la gioielleria resa famosa da Audrey Hepburn, potrebbero perdere miliardi di dollari in fatturato nel dopo-terremoto.

La finanza le sue perdite le sta contando già, con compagnie d’assicurazione di mezzo mondo che dovranno pagare almeno una parte dei 200 miliardi di dollari necessari a ricostruire il Nord del Giappone.

I profeti della globalizzazione ci avevano rassicurato citando «The World is Flat», il best-seller di Thomas Friedman, che ormai il mondo era diventato «piatto» (con buona pace di Galileo...). Che l’esplosione nel commercio tra nazioni non più divise da guerre e distanze incolmabili avrebbe aumentato gli utili di aziende capaci di approfittare del progresso della tecnologia e dei trasporti.

E che la vita del consumatore sarebbe diventata più facile e meno costosa grazie all’«outsourcing», il processo di «delocalizzazione» in cui i prodotti vengono fabbricati nel Paese a più basso costo per poi essere esportati in tutto il mondo.

Non è che queste predizioni rosee non si siano avverate, anzi. Basta andare in un Wal-Mart, il supermercato statunitense che è un santuario del consumo a poco prezzo, per vedere i frutti della globalizzazione: carrozzine cinesi, T-shirt vietnamite e ombrelli cambogiani condividono le mensole con icone americane come la Coca-Cola, le Barbie e i film della Disney.

Quello che i proseliti della globalizzazione si sono dimenticati di aggiungere, però, è che un mondo così piatto - in cui merci e capitali si muovono liberamente intorno al pianeta - è molto più vulnerabile a crisi sia naturali che finanziarie.

Dei «contagi» finanziari sappiamo già molto, basti ricordare che gli effetti della bancarotta di Lehman Brothers, la banca d’affari americana, nel 2008 furono globali: ne soffrirono tutti, dai mercati asiatici alle banche regionali tedesche agli investitori di piccolo taglio del Minnesota.
Ora, il caso di Shreveport dimostra che le ripercussioni economiche di un disastro naturale seguono lo stesso copione, riecheggiando rapidamente a migliaia di chilometri di distanza.
Non è un caso che Tiffany, che deriva quasi un quinto del fatturato vendendo brillanti, collane e l’idea platonica di lusso «all’occidentale» ai giapponesi, abbia già detto che gli utili nei primi tre mesi dell’anno saranno meno di quanto predetto dagli analisti di Wall Street. Nel 1961, quando Audrey Hepburn fece la sua famosa colazione davanti alle vetrine del negozio newyorchese e Tiffany vendeva quasi tutta la sua mercanzia negli Usa, una mossa del genere sarebbe stata impensabile.

La realtà è che, nonostante un decennio di crescita zero, il Giappone produce quasi il 10 per cento del Pil mondiale e rimane una fonte fondamentale di componenti, e consumatori, per molte industrie.

I dirigenti di aziende elettroniche, con cui ho parlato di recente, sono in bilico tra il fatalismo e la paura.

Il Giappone, con la sua tradizione di eccellenza nell’ingegneria elettronica, è responsabile per il 60 per cento della produzione mondiale di «wafer» di silicio, un ingrediente fondamentale dei «chip» che sono in computer, iPad e videogiochi.

Per ora non c’è panico a Silicon Valley, in parte perché molte società hanno scorte di componenti che dovrebbero bastare per un po’ di settimane.

Ma nessuno sa cosa accadrà nei prossimi mesi, soprattutto perché i produttori giapponesi hanno rivelato poco o nulla sulla situazione delle loro fabbriche. Come mi ha detto un dirigente di una società di elettronica americana che ha un fatturato di miliardi di dollari: «Qui viviamo alla giornata. Non escludo di dover chiudere bottega per un paio di settimane se le parti incominciano a mancare».

Il dirigente non ha notato, o forse non ha voluto notare, la crudele ironia della situazione: il motivo per cui società di tutti i tipi, dalla Apple alla Gm, hanno giacenze così limitate - settimane invece di mesi o anni - è dovuto a un sofisticatissimo sistema di gestione delle scorte inventato proprio in Giappone, dalla Toyota.

Il sistema «just-in-time», che permette alle aziende di comprare componenti e produrre beni «appena in tempo», cioè solo quando sono richiesti da rivenditori e consumatori, è stato copiato da tutti perché riduce costi e sprechi.

Come la globalizzazione, però, la geniale idea della Toyota ha i suoi difetti, soprattutto in periodi di altissimo stress produttivo come quelli che stiamo vivendo, quando la mancanza di scorte mette a rischio vendite e posti di lavoro.

Purtroppo, o forse per fortuna, la globalizzazione soffre dello stesso problema che Winston Churchill identificò per la democrazia: non è perfetta, ma è meglio delle alternative.
Tornare indietro, a un’epoca di protezionismo, commercio anemico e prezzi alti per consumatori e aziende, non è né realistico né auspicabile.

Ma la prossima volta che uno dei fanatici della globalizzazione intona un peana al «mondo piatto», vale la pena ricordargli i sensori di Shreveport e poi magari cantargli anche una filastrocca che i bambini anglosassoni imparano alle elementari: «Un chiodo mancò e il ferro di cavallo fu perso / Il ferro di cavallo mancò e il cavallo fu perso / Il cavallo mancò e il cavaliere fu perso / Il cavaliere mancò e la battaglia fu persa / La battaglia mancò e il regno fu perso».

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« Risposta #21 inserito:: Aprile 16, 2011, 04:20:20 pm »

16/4/2011

Wall Street si riconcilia con l'America

FRANCESCO GUERRERA

Carl Levin ha i lineamenti da giudice. Con la fronte alta, i capelli bianchi con il riporto e il naso aquilino, il senatore del Michigan sembra essere stato concepito da Hollywood per il ruolo dell’inquisitore burbero e implacabile. Negli ultimi due anni questo veterano della politica - è al Congresso dal 1978 - ha recitato la sua parte sul prestigioso palcoscenico di Washington, indagando Wall Street e le cause della crisi finanziaria. Capo dell’autorevole comitato investigativo del Senato i cui ampi poteri furono usati sia da Joseph McCarthy per la sua caccia alle streghe comuniste negli Anni 50 sia da Robert Kennedy per attaccare la mafia un decennio dopo, Levin ha interrogato, arringato e deriso i grandi della finanza americana. Ero nell’auletta strapiena lo scorso aprile quando, in uno scontro memorabile, Levin chiese a Lloyd Blankfein, il capo della temutissima Goldman Sachs, sei volte di fila se non fosse vero che la banca d’affari avesse «scommesso» i suoi soldi contro i propri clienti. Sotto lo sguardo marmoreo di un’aquila americana, Blankfein, accigliato e sudante, cercò disperatamente di non dare ragione all’astuto politico che lo scrutava da sopra i suoi occhiali a mezzaluna.

Questa settimana, il lavoro del comitato Levin ha finalmente dato i suoi frutti: un rapporto di più di 600 pagine, con quasi 5000 pagine di appendici e grafici. L’obiettivo di questo mostro cartaceo è semplice: dare un nome, una faccia o quantomeno un indirizzo e una ragione sociale ai responsabili del peggiore tracollo finanziario del dopoguerra. A quattro anni dallo scoppio della bolla immobiliare statunitense, l’identità delle vittime è ben nota: i lavoratori, proprietari di case e investitori che hanno perso denaro e posti di lavoro, e i contribuenti che hanno dovuto pagare il salatissimo conto. Ma dei colpevoli non si sa granché. Gli amministratori delegati di società fallite - come la Lehman Brothers, l’Aig e la Bear Stearns - sono disoccupati e un po’ meno ricchi di prima. Gli azionisti che hanno comprato banche dalle finanze ballerine senza studiarne i bilanci hanno visto i loro investimenti fare la stessa fine della neve al sole. E i cittadini incauti che hanno mentito sul loro reddito per ottenere mutui che non avrebbero mai potuto ripagare hanno dovuto abbandonare le loro ville e vendere i televisori a schermo piatto. Ma queste sono cause quasi «naturali» del disastro.

La risposta legale e giudiziaria, invece, è stata pressoché assente. E’ vero che la Goldman Sachs ha dovuto pagare 550 milioni di dollari per risolvere accuse di frode da parte dell’authority di mercato americana, ma una multa del genere non è gran cosa per una società che l’anno scorso ha avuto entrate di quasi 40 miliardi di dollari. Regole e leggi sono state cambiate ma nessuno è andato in galera, anzi: molti dei pezzi grossi di Wall Street sono rimasti negli uffici d’angolo dei loro grattacieli e né i regolatori né i politici hanno fatto mea culpa. Un mio amico avvocato la chiama «la Immacolata Recessione» - una crisi che ha vittime ma non carnefici. Su questo punto Levin e i suoi hanno fatto un ottimo lavoro. Le 600 e passa pagine non sono proprio «Guerra e Pace» ma la narrativa che ne emerge è avvincente. E’ come un thriller alla Hitchcock dove niente è come sembra. I testi sacri di finanza ci avevano detto che il ruolo del sistema bancario è di ridistribuire risorse finanziarie dai risparmiatori agli investitori e alle aziende per oliare gli ingranaggi dell’economia. Ma le banche del rapporto Levin fanno tutt’altro. L’obiettivo dei banchieri e degli operatori che popolano il tomo dei senatori è fare soldi a ogni costo, anche se ciò vuol dire mettere a repentaglio gli utili dei clienti, la reputazione delle loro banche e, come ora sappiamo, la salute economica del Paese.

L’inchiesta dimostra che gli «incentivi finanziari» - frase molto amata da economisti che vogliono lasciare il libero mercato decidere le regole del gioco e la remunerazione dei banchieri - erano tutti sbagliati. Invece di spingere i vari attori del sistema bancario a considerare le conseguenze delle loro azioni sul benessere della loro società - se non «della» società - e sul lungo termine, l’insistenza di Wall Street su bonus annuali e legati solamente agli utili di reparti specializzati ha creato una cultura egoistica e del breve termine. Ognuno per sé e nessuno per tutti. I risultati sono ben noti: investitori convinti a comprare prodotti di cui non hanno bisogno, banche che usano i propri soldi per investire contro i loro stessi clienti, l’invenzione di titoli e obbligazioni sempre più complessi e meno comprensibili. Il bello del rapporto Levin è che i nomi li fa, eccome: Goldman Sachs, Deutsche Bank e le agenzie di credit rating Moody’s e Standard & Poor’s sono, loro malgrado, i protagonisti di questa tragedia all’americana, con comprimari di lusso a Wall Street, Francoforte e nella City di Londra. La domanda che a New York e a Washington si fanno un po’ tutti è: «What now?», «Ora che succede?». Levin ha già detto che presenterà il rapporto al ministero di Giustizia, che ha il potere di lanciare indagini giudiziarie e concludere il lavoro iniziato dai senatori. Wall Street, però, sembra rilassata.

I banchieri di Goldman con cui ho parlato si dicevano rincuorati dal fatto che Levin è l’ultimo ostacolo prima di tornare alla «normalità» di fare soldi al riparo da occhi indiscreti. Un signore di Wall Street mi ha preso in giro quando insistevo a chiedergli cosa sarebbe successo. «Ma tu non sei italiano?» mi ha detto. «Non l’hai letto il Gattopardo?». Forse ha ragione lui. Persino il presidente Obama - lo stesso presidente Obama che un paio d’anni fa chiamò i capi di Wall Street nell’ufficio ovale e gli disse che lui era l’unica barriera tra le banche e «i forconi» - ha fatto pace con l’industria finanziaria. Con un occhio ai fondi da raccogliere per la campagna elettorale del 2012 e un altro al fatto che, per far risorgere l’economia, le banche devono ricominciare a prestare denaro a consumatori e aziende, la Casa Bianca ha fatto capire che la guerra con Wall Street è finita. E forse lo Zeitgeist del momento con un’economia in ripresa e la disoccupazione in calo - e l’innato ottimismo della psiche americana faranno sì che il Paese riuscirà a dimenticare il passato e a guardare al futuro senza la catarsi di processi e punizioni.

Ma prima di chiudere questo capitolo di storia americana, vale forse la pena ricordarsi di Ferdinand Pecora, un emigrato di Nicosia, vicino ad Enna, che divenne famoso come il grande inquisitore del dopo Grande Depressione. Come Levin, Pecora e la sua commissione interrogarono Wall Street e scrissero pagine e pagine per spiegare la crisi del 1929. All’epoca, però, le parole di Pecora non rimasero lettera morta. La sua inchiesta divenne una delle travi portanti dell’architettura del capitalismo americano, dando vita a leggi e regole che crearono le basi per decenni di espansione economica Usa e trasformarono New York nel centro mondiale della finanza. Se un emigrante siciliano è stato capace di rompere con il gattopardesco desiderio di non cambiare nulla dopo una crisi devastante, un Presidente il cui slogan era «sì, si può!» dovrebbe essere capace di fare lo stesso.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times a New York.
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« Risposta #22 inserito:: Aprile 19, 2011, 04:53:37 pm »

19/4/2011

Sono finite le scorciatoie

FRANCESCO GUERRERA

Per capire la decisione da parte di Standard&Poor’s di cambiare il suo giudizio sul debito Usa da «stabile» a «negativo», immaginate un alpinista che scala il Mount Rushmore e prende a scalpellate il nasone di pietra di Abramo Lincoln o le basette di George Washington. Di per sé il gesto non è né gravissimo né irreparabile, ma il suo valore simbolico va ben al di là del danno pratico.

I mercati azionari, che di simbolismo e impulsi vivono, questo l’hanno capito subito e sono crollati non appena appresa la notizia che S&P aveva peggiorato il suo giudizio sulla posizione fiscale degli Stati Uniti per la prima volta nella storia.

L’oro, il bene rifugio per eccellenza in momenti difficili per l’economia più grande del pianeta, è balzato a un nuovo record mentre il dollaro è calato. La reazione degli investitori è comprensibile: il sistema finanziario globale del dopoguerra è basato sull’assioma che il debito del governo statunitense è «a rischio zero» - lo Zio Sam prima o poi paga sempre ciò che deve - e che il dollaro verrà sempre accettato come moneta di scambio nell’economia mondiale.

Le parole di S&P hanno fatto incrinare entrambi i pilastri, erodendo la fiducia dei mercati nel modello economico americano.

Dal punto di vista tecnico, la decisione di S&P è semplicemente un ammonimento: se gli Usa non riducono il loro enorme deficit fiscale e debito pubblico prima del 2013, c’è una possibilità su tre che l’agenzia di rating ridurrà la sua valutazione di «tripla A» - il più alto punteggio per il debito sovrano - per gli Usa. Ma quando si parla di debito e deficit in America - la questione politica più ostica e discussa del momento - nulla è tecnico, e l’avvertimento di S&P è riverberato come un tuono a Washington.

Un po’ come la situazione in Italia prima dell’avvento dell’euro, i partiti politici sanno benissimo che la situazione fiscale è insostenibile ma non hanno la volontà, il coraggio politico e l’esperienza economica per risolvere velocemente la situazione.

Leggere i dati è da film dell’orrore (lo si potrebbe chiamare «Nightmare su Wall Street»). Tra il 2003 e il 2008 il deficit pubblico del governo Usa è fluttuato tra il 2 e il 5 per cento del Pil, più alto di molti altri Paesi con la «tripla A». Nel 2009, però, si è gonfiato fino a raggiungere l’11 per cento del Pil - una cifra astronomica. Per finanziare queste spese enormi, il governo americano si è ipotecato un po’ tutto, vendendo titoli del Tesoro come se fossero caramelle: negli ultimi tre anni il debito pubblico americano è raddoppiato, raggiungendo quota 9000 miliardi.

Il fatto che la metà di queste cambiali siano in mano a investitori stranieri, soprattutto la Cina e il Giappone, non fa altro che aumentare l’ansia degli americani sul declino del loro stile di vita e il loro ruolo come padri-padroni del capitalismo mondiale.

Il dilemma del governo americano non è insolubile. Anche uno studente al primo anno di economia sa che per ridurre il deficit bisogna tagliare le spese e alzare le tasse. E negli ultimi giorni sia l’amministrazione Obama sia l’opposizione repubblicana hanno proposto pacchetti di azione che dovrebbero ridurre il deficit di più di 4000 miliardi nel prossimo decennio.

Ovviamente, i due piani evitano scrupolosamente di parlare di tasse - l’equivalente del cianuro per un politico di Washington - e si limitano a vaghe promesse di misure di austerità.

Il problema è che, in materie economiche, ai politici ormai non crede più nessuno. Non i mercati, non gli investitori e, a partire da ieri, non le agenzie di rating. Dopo anni di errori economici e fiscali, le belle parole sui tagli alle spese non bastano più.

L’unica speranza è che la mossa di S&P faccia capire ai potenti di Washington che questa volta bisogna fare sul serio, come anche alcuni Paesi della Vecchia Europa sembrano aver imparato.

La ricetta non è complicata ma potrebbe essere indigesta: o tagli alla sanità, alle pensioni e alla sicurezza sociale - con il rischio che, senza un minimo di «Welfare State», i poveri statunitensi diventeranno ancora più poveri; o aumenti seri delle tasse, soprattutto su quell’1 per cento della popolazione che controlla più del 40 per cento della ricchezza del Paese, una mossa non facile per politici che si vogliono far rieleggere.

«Our back is against the wall», «Abbiamo le spalle al muro», mi ha detto un vecchio marpione della finanza ieri, e ha perfettamente ragione: il bello e il brutto della situazione americana è che non ci sono più scorciatoie.

Il tempo per la retorica politica è scaduto. L’economia americana e il sistema finanziario mondiale non si possono permettere più frane sul Mount Rushmore.

*Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times a New York

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« Risposta #23 inserito:: Maggio 01, 2011, 05:37:51 pm »

1/5/2011

Gli Usa al bivio della crisi

FRANCESCO GUERRERA

Tra un matrimonio reale britannico e la prospettiva, anch’essa reale, di un italiano al timone della zona euro, questa settimana non ha lesinato occasioni storiche.

L’America ci ha messo del suo. In un mercoledì che verrà ricordato per anni, il pubblico Usa ha assistito allo straordinario e deprimente spettacolo di un Presidente costretto a mostrare il suo certificato di nascita per convincere i suoi concittadini che è uno di loro, e alla prima conferenza stampa di un governatore della Federal Reserve nei 97 anni di vita della banca centrale americana.

Ammetto subito che, con protagonisti come Will & Kate, Mario Draghi, e un documento su carta verde in cui si legge «Barack Hussein Obama - nato ad Honolulu», Ben Bernanke deve fare da comprimario. Ma sarebbe un errore trascurare le parole pacate del barbuto ex professore con il compito più arduo di Washington: pilotare l’economia americana fuori dalle paludi della recessione verso la ripresa ma senza risvegliare lo spettro dell’inflazione.

E’ vero che per i tre quarti d’ora in cui ha risposto a domande, forse un po’ troppo ossequenti, di giornalisti americani e stranieri, Bernanke è riuscito nel suo obiettivo di dire poco e nulla. «Ben Bernanke ha fatto storia, non notizia» è stato il commento dei media o, come ha detto il manager di un hedge fund in un’e-mail che è stata girata a mezza Wall Street: «BB sta per Brilliantly Boring - fantasticamente noioso». Ma il desiderio da parte del capo della Fed di «esporsi» e spiegare le sue decisioni ogni tre mesi va ben al di là delle parole di questa settimana.

La «glasnost» di Bernanke è l’ammissione che, dopo una crisi che ha tolto posti di lavoro, case e soldi a milioni di americani, i poteri economici devono scendere dalle torri d’avorio e confrontarsi con i mercati, il Congresso, e persino la gente comune. Il momento è opportuno. La politica monetaria americana è a una giuntura cruciale che determinerà il percorso dell’economia nazionale e mondiale nei prossimi anni, e forse decenni. Dopo aver risuscitato un Paese che era sull’orlo del collasso, evitando che la Grande Recessione del 2007-2009 si trasformasse nella Grande Depressione degli Anni 30, Ben Bernanke e i suoi devono decidere se è venuto il momento di smettere la terapia-choc.

I tassi di interesse super-bassi e le enormi iniezioni di capitali utilizzati dalla Fed per stimolare l’economia nel dopo-crisi hanno avuto l’effetto sperato: il Pil americano aumenterà di più del 3 per cento nel 2011 - una crescita non spettacolare ma di rispetto, che dovrebbe continuare a ridurre l’alto tasso di disoccupazione Usa. In economia, però, tutto ha un costo. I banchieri centrali il terzo principio della dinamica lo sanno a memoria: «Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria».

In questo caso la reazione degli investitori alle politiche monetarie «rilassate» della Fed (e della Bce) è stata quella di usare i miliardi di dollari pompati nei mercati dai governi per comprare beni e azioni come se fossero a una svendita di Macy’s. Dall’argento al cotone, dal rame al caffè - i prezzi delle «commodities» sono saliti alle stelle. L’oro ormai si vende a 1500 dollari l’oncia - un record storico, mentre il petrolio è cresciuto di più di un terzo quest’anno - una bolla finanziaria con contenuti più nobili, soffici e aromatici, ma non certo meno pericolosi, delle solite azioni e prestiti. Per i banchieri di Washington e Francoforte, ma anche Pechino e Mumbai, queste scosse dei prezzi significano una cosa sola: il denaro a costo zero «creato» dai governi per combattere la crisi sta facendo nascere le condizioni per un attacco di inflazione.

Una delle poche notizie fornite da Bernanke mercoledì è stata la predizione che i prezzi al consumo negli Usa potrebbero salire al di sopra del «magico» 2 per cento - lo spartiacque che divide l’inflazione «buona» che aumenta stipendi, ricavi e investimenti da quella «cattiva» che riduce la crescita economica.

«Helicopter Ben» - il soprannome di Bernanke da quando scrisse un pamphlet accademico consigliando ai governi di combattere le recessioni gettando denaro alla popolazione dagli elicotteri - ha un altro problema. Per far fronte alla crisi, le zecche di Stato hanno lavorato a doppi turni, stampando miliardi di dollari e creando un circolo vizioso in cui il troppo denaro fa deprezzare la valuta e aumenta il pericolo di inflazione: non è un caso che nei 45 minuti di conferenza stampa di Bernanke il dollaro sia calato ai livelli più bassi in quasi tre anni.

L’inazione fiscale di politici troppo vicini alle elezioni per prendere decisioni impopolari - come per esempio alzare le tasse - per tagliare l’enorme debito pubblico americano mette la Fed in una posizione quasi impossibile. Per i vecchi patiti di fumetti, paragonerei la situazione alla striscia satirica di Andy Capp, con le autorità monetarie nei panni di Flo, la moglie disperata che ha tre lavori per sbarcare il lunario, e il Congresso e l’amministrazione Obama nel ruolo di Andy, il marito inutile e disoccupato.

Il dilemma di Bernanke è come districarsi da una serie di aiuti eccezionali, che hanno costretto la Fed a invischiarsi nei mercati finanziari come mai nella sua storia, ma senza compromettere la ripresa economica. Le mie fonti a Washington parlano di misure graduali: a giugno la Banca centrale terminerà un programma in cui ha comprato 600 miliardi di dollari di buoni del Tesoro americano per tenere i tassi d’interesse bassi; nei mesi seguenti la Fed penserà a vendere i due triliardi di buoni del Tesoro e titoli «tossici» che ha comprato da investitori e banche durante la crisi. E tra un po’, magari nel 2012, Bernanke alzerà i tassi di interesse per tarpare le ali all’inflazione.

E’ una strategia che non fa una grinza in teoria, ma che sembra non avere notato i movimenti convulsi dei mercati e la fragilità di alcuni settori dell’economia, soprattutto i consumatori e il tartassatissimo mercato immobiliare. Né, tanto meno, il fatto che mercati emergenti come la Cina stanno già combattendo con l’inflazione e potrebbero «esportarla» negli Usa con movimenti di capitali e merci. Sospeso tra l’«esuberanza irrazionale» degli investitori, per usare la famosa frase del suo predecessore Alan Greenspan, e il pericolo di una ricaduta nella recessione, Bernanke è a un bivio impervio e imprevisto. Se fossi stato a Washington mercoledì, avrei alzato la mano e chiesto semplicemente: «Che fare adesso, governatore?».
 
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times a New York.

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« Risposta #24 inserito:: Maggio 15, 2011, 10:50:39 am »

15/5/2011

L'America nella palude immobiliare

FRANCESCO GUERRERA

Tu non vivi in America, vivi a New York». Trovai la frase, urlata da un amico in un affollatissimo bar di Soho nel corso di un’accesa discussione economica, offensiva - uno schiaffo retorico per ricordare allo straniero che non sarà mai in grado di penetrare i misteri del suo Paese adottivo. Rimasi a bocca aperta, capace solo di pagare il conto, salutare freddamente l’interlocutore e perdermi nella notte quasi primaverile. Mi ci vollero tre isolati tra le vecchie fabbriche ora trasformate in boutique d’alta moda e loft di lusso per capire che aveva ragione.

L’epicentro dell’economia americana non è nei grattacieli di Manhattan, nei grandi magazzini della Fifth Avenue o nei computer portatili dei banchieri di Wall Street.
Il commercio e la finanza di New York sono le arterie che facilitano la circolazione di capitali e merci ma il cuore pulsante dell’economia-guida del pianeta si trova nei sobborghi monotoni e senz’anima di Detroit, Atlanta, Sacramento e le mille altre città di un continente che si ostina a credersi nazione. Il mio amico ed io guardavamo nel posto sbagliato. La vera ripresa Usa non si può trovare in un bar pieno di yuppies nel quartiere più chic di Manhattan. Per sentire il polso dell’economia americana bisogna suonare il campanello delle casette a schiera, contare i cartelli «for sale» nei giardinetti ormai trascurati delle villette di periferia e chiedere ai lavoratori quanti soldi hanno per sbarcare il lunario.

Senza un ritorno di fiamma del mercato immobiliare, gli Stati Uniti saranno condannati ad anni di crescita anemica, con consumatori che non hanno i mezzi per ricominciare a spendere e società che non hanno i ricavi per ricominciare ad assumere. L’economia è il vero nemico di Barack Obama in vista delle elezioni del 2012 – un incubo molto più spaventoso dei fenomeni da baraccone che il partito repubblicano gli metterà contro.

Quando ho chiesto ad uno dei consiglieri del Presidente di elencare le tre priorità della Casa Bianca per il 2011 si è irrigidito e mi ha risposto: «Case, case, case». L’uomo del Presidente fa bene a preoccuparsi: le notizie dal fronte immobiliare non sono incoraggianti. Mentre altre parti dell’economia americana come il settore manifatturiero ed, ovviamente, la finanza sono rimbalzate bene dalla crisi e stanno crescendo a livelli non visti da anni, il mercato delle case è ancora nella recessione. Il prezzo medio di un immobile negli Usa è sceso del 3 per cento tra gennaio e marzo, il più grande calo trimestrale dalla fine del 2008, quando eravamo in piena crisi, secondo dati usciti questa settimana. E questa è solo la media: in posti come Detroit, Atlanta e Minneapolis, i prezzi delle case sono scesi di più del 15 per cento negli ultimi tre mesi, secondo Zillow.com, un sito di compravendite immobiliari.

Il tonfo ha scioccato gli esperti che pensavano che, dopo più di due anni di deprezzamento, il grande crollo del mercato immobiliare Usa stesse per finire. Secondo Paul Dales di Capital Economics, i prezzi delle case potrebbero calare di un altro 10 per cento quest’anno – il doppio di quanto lui stesso prevedesse prima di vedere gli ultimi numeri.

La notizia è veramente clamorosa perché non c’è mai stato un periodo nella storia degli Stati Uniti in cui le case siano state cosi convenienti. Non solo i prezzi sono calati per 57 mesi di fila, ma i tassi d’interesse sono praticamente zero - un regalo in un Paese in cui quasi tutti i mutui sono a tasso fisso – e ci sono milioni d’immobili sul mercato a causa della crisi. Eppure nessuno compra. Le case a più basso prezzo dai tempi di George Washington e Benjamin Franklin e nessuno compra. Come è possibile?
Gli economisti possono spiegare solo parte del problema, la psicologia e le scienze politiche dovranno fare il resto.
Sul fronte economico, la ripresa americana ha, fino ad ora, fatto pochissimo sul piano dell’occupazione. Esportazioni e finanza – i due motori della crescita Usa – non hanno creato abbastanza posti di lavoro ed il tasso di disoccupazione è al 9 per cento, molto più alto della media e, soprattutto, ben al di sopra di dove dovrebbe essere a questo punto del ciclo.
La mancanza di assistenza sociale – in America il «welfare state» è considerato una follia europea – crea un circolo vizioso in cui la disoccupazione, o anche semplicemente la paura di perdere il posto, rende impossibile l’acquisto di case. Questo, a sua volta, scoraggia altri consumi e frena l’economia, aumentando la disoccupazione e così via. Il governo e le banche ci hanno messo del loro.

Invece di cominciare una riforma seria e decisiva del mercato immobiliare, che per decenni è stato falsato da sussidi di Stato e condoni fiscali, l’anno scorso l’amministrazione ed il Congresso decisero di introdurre un’agevolazione fiscale temporanea. Il risultato è stato prevedibile: le vendite delle case sono aumentate un pochino nei mesi in cui l’esenzione era in vigore per poi crollare rovinosamente alla fine della vacanza fiscale. Le banche in questo non aiutano.

Bruciate dalla crisi – in cui hanno perso migliaia di miliardi di dollari su prestiti che non vennero mai ripagati - le istituzioni finanziarie ci stanno andando con i piedi di piombo, negando mutui anche a chi se li può permettere. La riluttanza delle banche è comprensibile ma contribuisce all’impasse del mercato delle case e riduce l’effetto positivo dei tassi super-bassi. Il dilemma per la Federal Reserve è che prima, o poi, avrà bisogno di alzare i tassi - per evitare una caduta libera del dollaro e l’inizio di una spirale inflazionistica – ma lo stato di coma del mercato immobiliare rende una decisione del genere praticamente impossibile. Lo spettro della stagflazione – crescita zero e inflazione – che si pensava debellato nel dopo-crisi sta ritornando a tormentare le notti di politici e banchieri centrali. Come tutti i fantasmi, anche questo passa per i muri e si nasconde nelle case. Sia in America che a New York.

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« Risposta #25 inserito:: Maggio 22, 2011, 10:05:38 am »

22/5/2011

L'oste e il rating del vino

FRANCESCO GUERRERA

Non c’è furia all’inferno pari a quella di una donna derisa». Quando scrisse questo famoso verso, Wiliam Congreve, poeta inglese del ’600, non aveva chiaramente visto la reazione dei governi alle agenzie di rating.

Con prevedibile furore, il Tesoro italiano ha risposto per le rime al pessimismo della Standard&Poor’s sulla situazione politica e fiscale del Paese. Al taglio dell’«outlook» – le previsioni della S&P sul debito pubblico - il ministro Tremonti ha opposto un attacco alla credibilità della rating agency.

«Le valutazioni espresse e confermate nei giorni scorsi dalle principali organizzazioni internazionali sono molto diverse da quelle espresse oggi da Standard&Poor's», ha tuonato il Tesoro in un comunicato. È una tattica non nuovissima - basta chiedere ai governi di Grecia, Portogallo e Spagna - ma che può funzionare visti i dubbi dei mercati sull’attendibilità di S&P, Moody’s e Fitch, le tre società americane che dominano il mondo del rating. Le memorie di Wall Street, della City e persino di Piazza Affari sono corte ma la maggioranza di banchieri ed operatori ricorda bene gli errori clamorosi delle Big Three del rating negli anni prima della crisi.

Imbambolate da melliflui banchieri e attaccate al denaro che potevano guadagnare nel boom del credito a poco prezzo del 2005-2007, S&P e le sue concorrenti «coronarono» miliardi di dollari di obbligazioni piene di mutui subprime con le loro «triple A».

Protetti dal massimo rating possibile, investitori creduloni si buttarono sulle «collaterized debt obligations» – i famigerati Cdo – senza pensarci un secondo. L’idea, venduta dalle banche e comprata dalle agenzie di rating – era che l’alchimia di queste obbligazioni era tale che il rischio di bancarotta era praticamente nullo nonostante il fatto che gran parte dei mutui fossero in mano a gente povera con lavori precari. La complicità delle agenzie di credito in questa menzogna contribuì all’esplosione del mercato dei Cdo e convinse i mercati che fosse possibile trasformare la spazzatura in oro. Quando i Cdo si rivelarono per quello che erano – prodotti «tossici» che perdono soldi a palate non appena i prestiti non vengono ripagati – la valanga della crisi coprì tutti, dai fondi pensione della California, alle landesbanken tedesche, agli hedge funds di Manhattan.

Magari non proprio tutti. Le agenzie di credito sono sopravvissute completamente intatte, con gli stessi problemi e conflitti d’interesse di prima della crisi. Negli Usa, i politici hanno provato a regolarle un pochino meglio, ma né la legge Dodd-Frank, la bibbia della finanza del dopo-crisi, né la Securities and Exchange Commission, l’authority di settore, sono riusciti ad andare al di là di sforzi velleitari ed inefficaci. Il fatto che agenzie come S&P stiano tenendo banco sui problemi del debito europeo è prova tangibile della loro continua influenza sulla finanza mondiale.

Un banchiere che ho chiamato questa settimana – dopo l’ennesimo tentativo fallito da parte della Sec di controllare le agenzie di rating – non riusciva quasi a parlare per la rabbia. «Wall Street è stata crocifissa e questi qua continuano a fare come gli pare», è stato il suo commento quando è finalmente riuscito a formulare una frase.
La realtà è che anche se i mercati non si fidano delle agenzie di rating, non ci sono molte alternative. I fondi pensione non hanno né le risorse né l’esperienza per analizzare ogni obbligazione che comprano e devono quindi basarsi sui giudizi di agenzie esterne.

Nonostante qualche sforzo da parte di imprenditori come la mia amica Meredith Whitney, un’analista di valore che sta per lanciare la sua credit rating agency, il «triopolio» di S&P, Moody’s e Fitch rimane pressoché intatto, conferendo alle Big Three enorme potere. Il problema più grave, però, non è il monopolio da parte delle tre grandi ma il conflitto d’interessi che è al centro del loro business. Il fatto che le agenzie di rating siano pagate dalle società, banche e governi che emettono le obbligazioni è semplicemente inaccettabile. È assurdo che il Congresso americano si sia «dimenticato» di questo fatto quando ha scritto più di 2000 pagine di nuove regole del gioco finanziario con Dodd-Frank.

Se c’è un filo conduttore per gli avvenimenti della crisi è la presenza di incentivi perversi: i mutui a tassi troppo bassi, la paga dei banchieri, il corto-termismo degli investitori. Il modo in cui S&P and company vengono pagate è l’incentivo più perverso di tutti. Bisogna dire che questo conflitto d’interessi si manifesta più spudoratamente nel caso delle obbligazioni societarie, in parte perché i governi non pagano le agenzie di credito granché ed in parte perché i dati economici su cui le agenzie basano i rating nazionali sono abbastanza oggettivi. Ma il principio è lo stesso: se gli investitori non vogliono pagare i rating, non possono aspettarsi giudizi imparziali da agenzie il cui stipendio è pagato dagli emettitori. Quando si chiede all’oste se il vino è buono, non ci si può lamentare di una brutta sbronza la mattina dopo.

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« Risposta #26 inserito:: Giugno 20, 2011, 08:37:57 am »

19/6/2011

Banche-regole, il paradosso di Wall Street

FRANCESCO GUERRERA

Montgomery Street, nel centro di San Francisco, è molto lontana da Wall Street. A separare le due strade non sono solo migliaia di chilometri - la larghezza di un continente che si ostina a chiamarsi nazione - ma anche le differenze culturali di un Paese in bilico tra due coste con costumi quasi antitetici. Chi ha bisogno di esempi può recarsi al numero 420 di Montgomery Street, il quartier generale della Wells Fargo, una delle banche piu grandi d’America.
Invece delle hall grandiose con pavimenti di marmo e Warhol sulle pareti che sono di rigore tra le banche d’affari di New York, il visitatore entra in una cameretta dal soffitto basso dominata da una diligenza di quelle che si vedono solo nei film western - mancano solo i cavalli pieni di polvere e magari un John Wayne che si avvicina lentamente con la mano sulla pistola.

Il cocchio – restaurato con gran cura – è il simbolo delle origini della Wells Fargo, la banca della febbre dell’oro, fondata nel 1850 per portare lingotti su lingotti dalla California alla costa Est e riportare indietro denaro e provvigioni. Un mezzo di trasporto d’altri tempi per un mondo finanziario d’altri tempi - un’America bambina in cui le banche avevano una funzione precisa e di fondamentale importanza per l’economia: far crescere l’ex-colonia inglese. Se fossero vivi oggi, Henry Wells and William Fargo – i padri fondatori della Wells e della cugina American Express – farebbero fatica a riconoscere il sistema bancario moderno.

Dopo essere stata responsabile, almeno in parte, per una crisi che ha spinto il Paese ed il resto del mondo sull’orlo della Depressione la finanza americana, è al centro di una battaglia socio-politica che determinerà il futuro dell’economia Usa. Il dilemma è ben noto anche alla vecchia Europa dove la tragedia greca mette le banche ancora più a rischio dei loro rivali sull’altra sponda dell’ Atlantico.

Da una parte, i politici, l’opinione pubblica e i regolatori vogliono punire le banche per gli atti imprudenti e sconsiderati commessi nel boom che ha preceduto la crisi (la lista è nota: mutui ad interessi altissimi chi non aveva soldi, rischi folli con le derivate, irregolarità contabili per coprire le perdite, fallimenti rovinosi ecc.). Come disse il Presidente Obama ai capi di Wall Street non molto tempo fa: «Ricordatevi che io sono l’ultimo baluardo tra voi e la forca». Ma il desiderio di far giustizia, di «vendicare» i milioni di americani che hanno perso casa e lavoro e rendere il sistema finanziario più sicuro si scontra con un fatto semplice ma scomodo: senza le banche, gli Usa non possono ritornare a crescere.

Le nuove leggi, le regole più dure, i controlli più severi sulla paga dei banchieri sono reazioni giustificatissime e, anzi, tardive, al terremoto finanziario del 2007-2009. Ma i loro effetti collaterali – meno profitti per le banche, meno prestiti a consumatori ed imprese, meno crescita economica – non possono essere dimenticati. Jamie Dimon, il capo della JPMorgan Chase, un gigante bancario che è emerso dalla crisi più forte di tutti, l’ha persino ricordato a Ben Bernanke, il capo della Fed la settimana scorsa. Di fronte alle telecamere, Dimon, che i peli sulla lingua non li ha mai avuti, ha preso il microfono ed ha fatto una domanda-minaccia al banchiere centrale più potente del mondo: «Direttore, lei ha paura come me che il fanatismo dei regolatori verrà visto come la ragione per cui le banche, le società ed il mercato del lavoro non stanno ancora crescendo?». Bernanke ha glissato sulla domanda retorica e impertinente di un capo di Wall Street che ha perso l’occasione di star zitto, ma la verità è che gli argomenti di Dimon sono logici.

La ripresa stentorea dell’economia americana nel dopo-crisi ha messo a nudo il patto faustiano che ogni paese capitalista fa con il suo sistema bancario: per far funzionare l’economia, le grandi banche ricevono un trattamento preferenziale e la garanzia, implicita, che verranno salvate dal governo quando si trovano nei guai. Uno dei signori di Wall Street me l’ha detto chiaro e tondo questa settimana, con tipica spavalderia: «Questi politici o ci fanno o ci sono: noi siamo il sistema nervoso dell’economia: senza di noi non si muove un tubo». E’ una posizione arrogante e un po’ volgare – un ricatto morale e finanziario che le banche fanno al Paese: «Vi daremo i soldi per crescere ma solo se ci proteggete sempre e comunque». E’ vero che, dopo un breve ritorno di fiamma subito dopo la fine della crisi, le banche stanno facendo fatica a far soldi – in parte perché le nuove regole del gioco hanno limitato il loro raggio d’azione e in parte perché l’economia è debole e non c’é molta domanda per i loro prestiti.

Un amico analista ha sintetizzato il recente crollo nelle azione di banche piccole e grandi, dicendo semplicemente «Il mercato pensa che Wall Street abbia più valore da viva che da morta». Ma la domanda da farsi non è se le banche stiano soffrendo, nei loro mercati od in Borsa. Quello che conta è capire se lo sforzo legislativo e normativo degli ultimi due anni sia riuscito a ridurre il rischio di un’altra crisi rovinosa. La risposta, purtroppo, è no – nonostante il calo negli utili e nelle azioni di molte banche.

Il paradosso di questa partita di poker tra Washington e Wall Street è che il governo ha più bisogno di istituzioni finanziarie che non viceversa. Anche in questi tempi abbastanza bui, le banche sono riuscite a far soldi e a dirottare metà degli utili nelle buste paga dei propri dipendenti. Il governo, invece, appare impotente - paralizzato da una campagna presidenziale che durerà più di un anno e prigioniero di un debito pubblico così stratosferico da non permettere grandi spese per rivitalizzare l’economia.

La «bottom line», la morale della favola, è che lo Zio Sam non si può permettere di attaccare le banche, di distruggere uno dei motori di un’economia che è in folle. Come avevano senz’altro capito Henry Wells and William Fargo, una diligenza senza cavalli non va molto lontano.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

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« Risposta #27 inserito:: Luglio 01, 2011, 11:33:27 pm »

1/7/2011

Gli errori Usa salveranno l'Europa

FRANCESCO GUERRERA

Ad Everett, un’idillica cittadina a quaranta chilometri da Seattle, nessuno dei 104.000 cittadini sembra preoccuparsi della crisi in Grecia. Gli scontri violenti tra polizia e dimostranti nelle strade di Atene, la tensione sempre più alta tra governi europei e le paure dei mercati finanziari non riecheggiano nelle strade linde e pinte di questo paesino nel Nord-Ovest degli Usa, dove un tempo girarono Twin Peaks, il film di David Lynch.

Forse, però, gli abitanti di Everett dovrebbero prestare più attenzione alla Grecia e alle sorti dell’euro. Soprattutto quando vanno a pattinare sul ghiaccio o ad ascoltare un concerto. Grazie alle contorsioni della finanza globale, la pista di pattinaggio e l’auditorium di Everett sono stati finanziati dalla Dexia, una banca franco-belga che potrebbe soffrire perdite enormi su miliardi di obbligazioni greche.

Ricapitoliamo: una cittadina sperduta degli Stati Uniti dipende da una banca francese e belga che dipende dalla salute economica di un Paese a migliaia di chilometri di distanza che a sua volta dipende da un accordo politico ed economico tra 17 nazioni e la Banca Centrale Europea.

Benvenuti nella finanza internazionale - come il famoso Hotel California di cui cantavano gli Eagles, una volta entrati non si esce più.

Negli Usa, il caso-Everett non è unico.

Dai licei californiani alle scuole di New York e persino O’Hare, l’enorme aeroporto di Chicago, i tentacoli di banche europee che avevano ambizioni più grandi delle loro competenze legano ormai inesorabilmente le economie sulle due sponde dell’Atlantico. «Siamo tutti greci ora», mi ha detto un banchiere l’altro giorno, e non stava scherzando: la globalizzazione di flussi di capitali e di commercio fa sì che i tremori di Atene si risentano a Wall Street e in molte altre strade, stadi del ghiaccio e sale concerti degli Stati Uniti.

Negli Usa, la tragedia greca e i suoi effetti sull’economia reale del Paese sono ingombranti ricordi della crisi finanziaria di due anni fa – un flashback da incubo come nei film di David Lynch. Sostituite Lehman Brothers alla Grecia, la Federal Reserve alla Bce e Citigroup e Goldman Sachs alle varie Société Générale, Dexia e Deutsche Bank, e la situazione è quasi identica: un Paese sull’orlo del precipizio, un’economia mondiale che guarda con il fiato sospeso ed investitori che corrono verso le uscite nonostante le parole melliflue di politici e banchieri centrali.

La ferita di Lehman – l’enorme banca d’affari che andò in bancarotta nel 2008 paralizzando il sistema finanziario mondiale – non si è ancora cicatrizzata nei corridoi del potere di Washington e nei salotti buoni di Wall Street. Molti degli autori di quell’errore costosissimo – gli uomini e le donne che decisero di rifiutare aiuti di Stato per Lehman, mettendo a repentaglio l’economia del pianeta – sono ancora nelle stanze dei bottoni. Tim Geithner, il capo della Fed di New York ai tempi della crisi, è ora ministro del Tesoro, Ben Bernanke rimane a capo della Fed, i super-avvocati e grandi banchieri di Wall Street come John Mack, il capo della Morgan Stanley e Lloyd Blankfein di Goldman Sachs sono ancora tutti lì. E ricordano bene le conseguenze dei loro atti – o non-atti - in quel weekend di fuoco a metà settembre del 2008 e non hanno nessuna intenzione di riviverlo con la colonna sonora in greco moderno ed i sottotitoli.

Il paradosso delle relazioni UsaEuropa in questo momento così difficile è che gli americani si sentono in grado di dare consigli agli europei proprio perché commisero svarioni clamorosi durante la «loro» crisi.

Chiaramente, le autorità americane non la vedono così. Dal loro punto di vista, il fatto che le loro azioni abbiano evitato (di poco) un’altra Grande Depressione va celebrato e preso ad esempio per altri.

E’ questa arroganza intellettuale (e memoria selettiva degli eventi del 2008) che la settimana scorsa ha portato Geithner ad alzare il telefono rosso e chiamare i colleghi europei per esortarli a darsi una mossa, a non procrastinare gli aiuti alla Grecia e alle banche europee. «Abbiamo esperienza di queste situazioni», mi ha detto un alto funzionario del Tesoro americano. «Sappiamo benissimo cosa fare e gli europei stanno tentennando». L’ultima frase è l’unica cosa vera che ha detto. Il «triangolo delle Bermude» Bruxelles-Parigi-Francoforte ha bloccato ogni decisione sulla crisi greca, lasciando il Paese e gli investitori in mare aperto. Qualsiasi cosa succeda ora, è ormai troppo tardi per salvare la Grecia dal default e da anni di durissime riforme fiscali ed instabilità sociale. Di fronte alla latitanza dei governi, hanno deciso i mercati – basta guardare a quanto il governo di Atene deve pagare in interessi sul suo debito.

La vera battaglia ormai è salvare l’euro evitando il contagio dalla Grecia al Portogallo e all’Irlanda e, ancora peggio, alla Spagna e all’Italia. E’ questo che spaventa davvero gli investitori e dovrebbe fare venire i brividi a cittadini da Everett a Eboli.

L’America ha qualcosa da offrire agli sfortunati governanti europei: i suoi errori in tempo di crisi. Ricordarsi dei ritardi e tentennamenti dell’amministrazione Bush, della Fed e del Congresso (che fece crollare i mercati quando bocciò la prima versione della Tarp, l’iniezione di 700 miliardi di dollari per salvare le banche) potrebbe aiutare Bruxelles e Francoforte a prendere atto della situazione ed agire.

L’azione in questo caso consisterebbe nell’aprire i cordoni della borsa, salvare la Grecia dalla bancarotta con un fondo europeo e convincere banche ed investitori a rinegoziare le obbligazioni che possiedono. Non costerà poco, ma l’alternativa – il non fare niente mentre la situazione diventa impossibile negli altri Paesi a rischio – è molto più cara.

Se c’è una lezione che gli Usa del 2008 possono impartire all’Europa del 2011 è che l’ottimismo non è una buona politica durante una crisi finanziaria. Bisogna sempre aspettarsi il peggio quando ci sono miliardi in gioco, soprattutto se, come nel caso della Grecia, la pazienza degli investitori è ai minimi termini.

Come gli abitanti di Everett sanno bene, pattinare su un ghiaccio troppo sottile non è una buona idea.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.
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« Risposta #28 inserito:: Luglio 26, 2011, 11:19:29 am »

26/7/2011

La finanza più cauta della politica

FRANCESCO GUERRERA

Il banchiere stava cercando le parole giuste per comunicare la sua frustrazione nei confronti della classe politica americana ma senza offendermi. «Beh – disse alla fine, quasi imbarazzato - siamo ormai in una situazione… un po’…. all’italiana, ecco».

Sarà forse perché l’avevo disturbato di domenica per chiedergli un parere sulla paralisi nei negoziati sul debito Usa, ma il paragone non era proprio un complimento.

L’America come l’Italia: una nazione dove il caos politico ed il «corto-termismo» della classe dirigente stanno contagiando l’economia, mettendo a rischio la fiducia dei mercati e separando sempre di più il Paese reale dai governanti.

L’ultimo dramma di Washington è il braccio di ferro tra repubblicani, democratici e la Casa Bianca su come e quanto alzare il «tetto» del debito pubblico americano prima della scadenza del 2 agosto. La battaglia è sui numeri, ma la sostanza è concreta. Senza un aumento del tetto, che in questo momento è di 14,3 triliardi di dollari, il governo federale non potrà pagare gli stipendi dei dipendenti, le pensioni e le bollette mediche per i poveri e gli anziani.

E c’è di peggio: se non c’è un accordo prima del 2, lo Zio Sam andrà in «default», smettendo di pagare gli interessi su obbligazioni del Tesoro che sono in mano un po’ a tutti: dai fondi pensioni per pompieri e insegnanti al governo cinese.

Un default da parte degli Stati Uniti potrebbe avere conseguenze devastanti sulla finanza mondiale, distruggendo la credibilità dei beni del Tesoro americano – uno dei pochissimi «safe havens», i porti sicuri in cui gli investitori attraccano in tempi di tempesta.

Se non mi credete, chiedete pure al Fondo monetario internazionale. Il guardiano dell’economia mondiale, generosamente finanziato dal governo Usa, ieri non ha usato perifrasi per spiegare la situazione.

La sfiducia dei mercati nei confronti del debito americano – ha detto l’Fmi nella sua diagnosi annuale dell’economia americana - «potrebbe portare ad effetti negativi enormi ed universali».

In realtà, il danno è già stato fatto: lo spettacolo turpe di un Congresso impegnato solo a proteggere gli interessi di partito (non alzare le tasse per i repubblicani, non tagliare le spese per i democratici) e di un presidente Obama indeciso e non decisivo, ha già portato le agenzie di affidabilità creditizia a minacciare un downgrade, un declassamento del debito Usa anche se le varie fazioni dovessero raggiungere un accordo questa settimana.

Il declassamento non è cosa da tecnici. Una bocciatura degli Stati Uniti da parte delle agenzie di credito segnalerebbe ai mercati che nemmeno una superpotenza con l’economia più grande del mondo può essere considerata senza rischi – un verdetto che fa venire i brividi agli investitori.

Come mi ha detto il capo di uno dei colossi dei fondi d’investimento nel weekend, «nei prossimi giorni, Washington qualcosa deciderà e probabilmente eviterà un default. Il problema è che un accordo dell’ultima ora potrebbe non essere abbastanza per sfuggire ad un costossissimo downgrade”.

L’aspetto forse più grave nella saga del debito americano è che si sarebbe potuto facilmente evitare. A differenza della situazione sull’altra sponda dell’Atlantico – in cui Paesi come Grecia e Irlanda non avevano proprio più soldi –, l’America non ha problemi di liquidità.

Il «tetto» sul debito e i negoziati per rinnovarlo sono un artificio della politica, inventato nel 1917 quando gli Usa intervenirono nella Prima guerra mondiale e il Congresso introdusse un meccanismo per impedire al Presidente di spendere fondi pubblici senza consultarsi con il Parlamento.

E’ vero che il debito americano si sta gonfiando in maniera sproporzionata rispetto alla crescita economica, ma il potere degli Stati Uniti sui mercati mondiali e la credibilità (fino ad ora, almeno) delle sue politiche finanziarie permettono all’America di farsi finanziare dagli investitori come e quanto vuole.

La «crisi» del debito è quindi solo una crisi di una classe politica che ha saputo almeno otto mesi prima che il Tesoro americano avrebbe esaurito i fondi il 2 agosto. Ma invece di aprire discussioni serie, Obama e i baroni del Congresso hanno preferito ignorare la realtà fino all’ultimo, per poi strumentalizzarla con un occhio alle elezioni presidenziali del prossimo anno: un approccio veramente «italiano».

«Gli europei staranno pensando che siamo pazzi», mi ha detto un funzionario della Federal Reserve, la banca centrale americana. «Loro hanno una crisi vera e noi ci siamo messi a danzare sul baratro per scelta».

I mercati fino ad ora hanno risposto in maniera molto, forse troppo, composta.

Anche ieri, dopo il nulla di fatto del weekend, la borsa di New York ha perso un pochino di terreno, ma non tanto da far pensare al panico. I mercati delle obbligazioni sono un po’ più nervosi, ma anche lì non ci sono segnali di paura inconsulta.

Il che, però, non vuol dire che gli investitori rimarranno immuni alle convulsioni di Washington. L’errore più stupido da parte di Obama e dei leader repubblicani e democratici sarebbe di dare per scontata l’acquiescenza dei mercati.

Uno dei miei primi maestri – un vecchio marpione del giornalismo finanziario britannico – era solito paragonare la fiducia dei mercati ad una vasca da bagno in un hotel di lusso: l’acqua c’è ed è tanta, ma basta un piccolo errore, un gesto sbagliato, per far saltare il tappo e farla scomparire.

I politici americani questo lo dovrebbero sapere, visto che sono passati meno di tre anni dal fallimento della Lehman Brothers, un evento che tolse l’acqua, e pure l’ossigeno, all’economia mondiale.

Dopo una crisi devastante causata dalla miopia delle banche, sembra quasi che Washington voglia prendersi la rivincita, creando un pandemonio che rischia di minare le fondamenta della finanza globale. Ed in questo caso i mercati, spesso accusati di avere la memoria corta, sembrano essere più lungimiranti dei politici.

Siamo ormai nel bel mezzo di una partita di roulette russa, ed ogni ora che passa senza un accordo è un nuovo colpo alla fiducia degli investitori nel bastione del capitalismo mondiale.

Per il bene di tutti, speriamo che Washington impari da Roma anche l’arte del compromesso e dell’arrangiarsi a tutti costi.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario  del Wall Street Journal a New York. Francesco.guerrera@wsj.com
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« Risposta #29 inserito:: Agosto 04, 2011, 09:54:21 am »

4/8/2011 - OBAMA - L'ECONOMIA

L'anno più importante sarà quello che verrà

FRANCESCO GUERRERA

Il presidente della speranza appare sempre più disperato. Preso nella morsa di un’economia moribonda ed un Congresso incontrollabile, Barack Obama festeggia mezzo secolo di vita con poco champagne e molte preoccupazioni. Lo spettacolo indecoroso della scorsa settimana, in cui Washington è riuscita ad evitare un catastrofico default solo in zona Cesarini, non ha aiutato l’immagine di un leader che non sembra più in grado di controllare il dibattito politico ed economico. L’anno più importante per Obama sarà quello che verrà.

Gli uomini del Presidente stanno guardando con nervosismo alle elezioni del 2012, spaventati che l’incubo di una sconfitta - un’eventualità considerata impossibile mesi fa - possa diventare realtà. Le sorti di Obama sono legate quasi interamente all’economia. Con una disoccupazione ancora altissima, un mercato delle case boccheggiante e il pericolo che la crisi europea possa esacerbare la situazione oltreoceano, la prognosi non è affatto buona. Uno stimolo fiscale - la risposta di Obama dopo la crisi del 2007-2008 - non sembra possibile vista l’ostilità degli agguerritissimi repubblicani, che controllano metà Congresso, ad ogni misura di spesa. A meno di un miracolo economico, le speranze dei fan del Presidente risiedono nell’incapacità del partito repubblicano di scegliere candidati credibili e nel talento oratorio immenso di Obama, che dovrebbe tornare utile in campagna elettorale.

Vincere le elezioni però non sarà tutto. Un trionfo nel 2012 non cancellerà le domande poste sia da destra che da sinistra ad un presidente enigmatico e poco ideologico. Che tipo di leader sarà Obama II? Il condottiero sicuro e capace che riuscì nel compito impossibile di riformare la sanità americana e regolare Wall Street a pochi mesi dal suo arrivo alla Casa Bianca? O il presidente indeciso e tentennante degli ultimi mesi ? Solo un uomo potrà rispondere a questi quesiti.

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