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Autore Discussione: FRANCESCO GUERRERA.  (Letto 44980 volte)
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« inserito:: Febbraio 06, 2010, 11:47:50 am »

6/2/2010

Wall Street e la paura dell'oro
   
FRANCESCO GUERRERA

La nuova stella nel firmamento culinario newyorchese si chiama «Maialino» - una versione super-lusso di una trattoria «tipica» romana che ha aperto da poco a Gramercy Park Hotel. Fino a questa settimana, i banchieri d’affari Usa erano molto più interessati alla disponibilità dei tavoli al «Little Pig» che alla salute economica dei porcellini dei mercati finanziari - Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna - i quattro Paesi che sono stati soprannominati «Pigs» da operatori di mercato burloni.

Ma dopo il crollo delle Borse di giovedì, i padri-padroni di Wall Street hanno smesso di fare la fila per gli spaghetti cacio e pepe di Maialino e sono stati costretti a concentrarsi sui deficit straripanti, economie comatose e governi deboli dei «Pigs». Non c’è voluto molto per infrangere i sogni di isolazionismo dei finanzieri americani - l’illusione che i mercati d’Oltreoceano avrebbero potuto evitare l’enorme crisi fiscale del Vecchio Continente. Anzi, c’è voluto abbastanza poco: un governo portoghese che ha avuto problemi a vendere delle obbligazioni, delle brutte notizie sulla situazione economica spagnola e le solite paure sulla stabilità della Grecia, et voila, un rogna europea si è trasformata in un malessere transatlantico e globale (anche i mercati asiatici hanno sofferto giovedì e venerdì). «Come ai vecchi tempi», è stato l’ironico commento di uno dei banchieri protagonisti della crisi del 2007-2008 mentre guardava i mercati cadere a piombo e all’unisono su televisori pieni di luci rosse e operatori con le mani nei capelli.

In 48 ore, i «Pigs» sono diventati l’incubo di Wall Street: il Dow Jones Industrial, il barometro della borsa di New York, non aveva perso così tanti punti da aprile, il prezzo del petrolio è crollato del 5 per cento e pure l’oro - il bene-rifugio più amato dagli investitori - è colato a picco. La situazione è migliorata un pochino venerdì ma quasi tutti i mercati hanno continuato a vedere rosso. Questa proprio non ci voleva - né per l’economia americana, né per i mercati internazionali e tantomeno per le fortune elettorali di Obama e dei suoi democratici.

Un mio amico banchiere che è un fanatico del jogging, ha paragonato le vicissitudini dell’economia americana a una corsetta a Central Park. «Stai correndo, pensando ai fatti tuoi, e appena prendi un po’ di velocità, un greco (o portoghese, o spagnolo) salta fuori dai cespugli e ti sgambetta». Lo sgambetto europeo, in questo caso, potrebbe costare caro ai consumatori e lavoratori statunitensi. L’economia americana è riuscita ad evitare una replica della Grande Depressione degli Anni 30, grazie soprattutto alla decisione del governo Obama di spendere più di 700 miliardi di dollari per rivitalizzare settori ed industrie che erano stati distrutti dalla recessione.

Nonostante ciò, un americano su dieci è senza lavoro, il mercato edilizio rimane moribondo e i consumatori - la tradizionale locomotiva economica - non hanno né i soldi, né la voglia di spendere.

L’unica speranza per evitare un’inattività economica prolungata, tipo-Giappone, sta in un ritorno di fiamma della base industriale e manifatturiera attraverso le esportazioni. Non è un caso che Obama abbia promesso di recente di raddoppiare il volume dell’export americano nei prossimi cinque anni.

Il problema è che il crollo dei mercati, le paure «europee» degli investitori internazionali e la prospettiva di una lunga recessione nell’Unione Europea, stanno trasformando il dollaro nella super-moneta del dopo-crisi. La divisa americana sta passando di record in record nei confronti del povero euro, rendendo i beni e i servizi made in Usa più cari e meno appetibili per le aziende e i consumatori dell’Ue, il più importante «trading partner» per gli Stati Uniti.

E non finisce qui. Le convulsioni dei mercati azionari e di materie prime sono molto preoccupanti per la stabilità del sistema finanziario americano e mondiale. Per me, il comportamento dell’oro è veramente molto strano.

La teoria - e fino a questa settimana anche la prassi - è sempre stata che l’oro tendere a salire di prezzo in tempi bui perché gli investitori cercano la sicurezza di un bene che non dipende dai mercati azionari e dai tassi di interesse. Questa volta, invece, l’oro ha perso più del 4 per cento del suo valore in pochi giorni.

Il sospetto - e la paura - degli operatori è che il repentino cambiamento di direzione dei mercati abbia messo in seria difficoltà un grande «hedge fund», o ancora peggio, una banca centrale, costringendoli a vendere le loro riserve d’oro a prezzi stracciati. Fino a ora non ci sono prove, ma l’esplosione di un hedge fund - o anche solamente il pericolo di un’esplosione - potrebbe avere effetti devastanti sul resto dei mercati.

Ma anche se la caduta dell’oro è una correzione «tecnica» (la scusa degli operatori quando non hanno spiegazioni plausibili) le vicissitudini degli ultimi due giorni hanno dimostrato che sarà complicatissimo per governi e banche centrali tenere a galla i salvagenti che hanno aiutato i mercati durante la crisi.

Negli ultimi mesi, il dibattito in America è stato sul «quando» la Federal Reserve e il Tesoro avrebbero dovuto smettere di pompare denaro nel sistema finanziario e lasciare i mercati e le banche liberi di interagire come prima della crisi.

Gli avvenimenti degli ultimi giorni hanno cambiato le carte in tavola. La domanda non è più «quando» ma «se» il governo debba tagliare il cordone ombelicale coi mercati, almeno per i prossimi mesi - una decisione difficile che potrebbe a sua volta ritardare o diluire la ripresa economica.

In tempi come questi, sono solito consultare la più ottimista fonte che ho - un banchiere anziano che ne ha passate di tutti i colori ed è uno che vede quasi sempre il bicchiere mezzo pieno. L’ho chiamato giovedì sera e invece del solito tipo chiacchierone e contento, l’ho trovato taciturno e pensieroso. «Non mi piace. Non mi piace proprio», mi ha detto, «stai in guardia che la crisi non è finita».

francesco.guerrera@ft.com
da lastampa.it
« Ultima modifica: Maggio 15, 2010, 12:28:29 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 18, 2010, 03:02:37 pm »

18/2/2010

Wall Street non rinuncia ai suoi Martini
   
FRANCESCO GUERRERA

Mi ricordo ancora l’espressione di totale incredulità sulla faccia del banchiere americano. Eravamo in un grattacielo di Hong Kong durante il grande boom prima della crisi e stavamo festeggiando il suo bonus principesco con cocktail dai prezzi stratosferici. Al quarto Martini, smise di parlare di sé (avvenimento raro tra i maghi della finanza) e mi chiese: «Did the newspaper look after you this year?» («Il giornale si è preso cura di te quest’anno?») - domanda che nel codice di Wall Street significa: che bonus hai preso?

Quando gli spiegai che i giornalisti non ricevono mega-pagamenti a fine anno, che questa tradizione esiste solo tra banchieri, operatori di borsa e affini, spalancò la bocca ma non riuscì ad emettere nemmeno un suono (un altro momento quasi unico per chi segue le grandi banche). Dopo pochi instanti, mi guardò sbigottito e con un filo di voce disse: «Ma allora, perché fai questo lavoro?».

Volevo rispondere «perché mi piace», ma sapevo che non avrebbe capito. Nessun banchiere di successo avrebbe capito. Per riuscire nel mondo crudele e darwiniano della finanza anglosassone bisogna essere spinti da un unico motivo: fare soldi. E non un po’ di soldi, quanti ne basterebbero a una persona «normale» per vivere bene e senza problemi finanziari. Assolutamente no, la molla per i grandi padroni della finanza è la prospettiva di guadagnare milioni e magari miliardi. Ladies and gentlemen, benvenuti a Wall Street, la strada dove ognuno ha un prezzo ma nessuno offre uno sconto.

Fino allo scoppio della crisi, questa mentalità - e il sistema finanziario che aveva creato - è stata uno dei motivi-chiave dell’enorme successo delle banche americane e della loro supremazia nel resto del mondo.

Lasciando da parte le considerazioni morali, è facile capire come la prospettiva di guadagni da nababbi abbia potuto creare un circolo virtuoso che ha fatto ricchi i banchieri, le loro aziende e gli investitori. Funziona così: la promessa di bonus a sei cifre spinge i banchieri e gli operatori a «vendere» sempre più prodotti e servizi a clienti, aumentando gli utili per le banche. Gli azionisti, a loro volta, sono contenti perché utili elevati si trasformano quasi sempre in valori azionari in crescita e dividendi rispettabili.

Il motivo per cui questa febbre dell’oro ha contagiato l’America più di ogni altro Paese - ed ha spinto le sue banche al top dell’industria mondiale - è culturale. A differenza della tradizione calvinista e puritana dell’Inghilterra e della Germania e del retaggio cattolico di Italia e Spagna, il nuovo continente non si è mai fatto scrupoli nell’esaltare la ricchezza personale, anzi l’ha assunta a stile di vita con la creazione e la divulgazione del «Sogno Americano».

È così che quando Lloyd Blankfein, il capo della Goldman Sachs, «guadagnò» 68 milioni di dollari tra contanti e azioni nel 2007 - anno di utili miliardari per la sua banca - la reazione degli opinionisti, e pure della gente, fu: «Che male c’è?» (Per la cronaca, la reazione degli altri banchieri fu: «Siamo sottopagati...»).

Non fosse stato per la crisi e la «Grande Recessione» che l’ha seguita, questa predilezione per incentivi monetari esorbitanti sarebbe probabilmente continuata per anni e anzi già cominciava ad essere copiata da qualche banca internazionale (come Deutsche Bank e Ubs) i cui grandi manager non volevano sentirsi da meno dei colleghi americani.

Ma come nei «Vestiti nuovi dell’imperatore» - la fiaba di Andersen - il tumulto devastante degli ultimi tre anni ha messo a nudo tutti i difetti di uno schema di remunerazione che, a ben guardare, è più una roulette russa che un sistema per ottenere il meglio da banchieri e banche.

Innanzitutto, pagare bonus di milioni in contanti alla fine di ogni anno incoraggia banchieri e operatori a rischiare tutto su scommesse a breve termine - le stesse che hanno portato le banche e l’economia mondiale sull’orlo dell’abisso. Non solo, ma la propensione delle banche a dirottare metà dei loro redditi alla remunerazione dei banchieri - una percentuale incredibile se paragonata ad altre industrie - è tollerabile dagli investitori solo negli anni «buoni». Quando una banca come Morgan Stanley, che non ha avuto utili nel 2009, ha deciso di pagare i banchieri come se fosse ancora nel boom, gli azionisti si sono giustamente ribellati.

Ma il vero problema è l’opinione pubblica. Le operazioni di salvataggio lanciate dal governo statunitense, che hanno messo a rischio miliardi di dollari «pubblici» per salvare le banche proprio mentre la disoccupazione stava crescendo e l’economia entrava in recessione, hanno intaccato la fede del cittadino medio nell’«American Dream».

È difficile spiegare a chi non vive in America il cambiamento drammatico e repentino nell’atteggiamento della gente, dei politici e dei sindacati nei confronti di Wall Street. Certe volte, quando scrivo di questi argomenti per il Financial Times, mi sembra di mandare dei dispacci dal fronte di una nuova guerra di classe.

Perfino un tipo pacato come il presidente Obama si è messo ad attaccare i bonus chiamandoli «osceni» e ricordando ai signori della finanza che lui non è stato eletto per aiutare un gruppo di «fat cats» (i gatti grassi - l’insulto riservato ai «ricconi»).

Lo scalpore ha già dato dei risultati. Il signor Blankfein si è fatto dare un bonus di «solo» 9 milioni di dollari per il 2009 in azioni nonostante il fatto che gli utili della Goldman abbiano superato quelli del 2007. E tutte le banche americane hanno pagato gran parte dei bonus in azioni invece che contanti - un tentativo di legare la paga dei banchieri al futuro a lungo termine dell’azienda.

La questione, però, è se le banche fanno sul serio o se questi cambiamenti sono solo una risposta a caldo alle critiche dei politici. I primi segnali non sono proprio incoraggianti: un paio di capi di banche di Wall Street mi hanno già sussurrato nell’orecchio che l’anno prossimo tenteranno di ripristinare il culto dei grandi bonus.

Se lo faranno, avranno sprecato un’occasione storica di cambiare in meglio l’industria finanziaria americana. Un sistema di remunerazione che pagasse salari decenti ma non esorbitanti in contanti e bonus più grandi in azioni avrebbe due vantaggi fondamentali per le banche: ridurre i costi, aumentando gli utili a disposizione degli azionisti (che in questo caso includerebbero anche i banchieri); evitare che i politici, esortati da un’opinione pubblica in rivolta, prendano misure drastiche che potrebbero colpire il bene più importante dell’industria finanziaria: i cervelloni stakanovisti che ci lavorano. Non sono ottimista di natura ma spero davvero, un giorno, di alzare un costosissimo Martini per brindare a una riforma di questo tipo invece che al grasso bonus di un banchiere.

francesco.guerrera@ft.com
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 06, 2010, 11:29:27 am »

6/3/2010

Le 7000 banche che possono salvare l'America

   
FRANCESCO GUERRERA
NEW YORK

Merchant Street è un vialone nel centro di Honolulu a due passi dal mare ma lontano dalle spiagge gremite di turisti accaldati e surfisti abbronzati.

A parte gli uomini di affari del posto, sono in pochi a sapere che al numero 130 della «strada del mercante» c’è il quartiere generale della Bank of Hawaii, una delle più antiche negli Stati Uniti e, da un certo punto di vista, una delle più importanti. Con le altre 7.000 piccole e medie banche d’America, la Bank of Hawaii è un ingranaggio fondamentale nel motore dell’economia statunitense.

Non è un refuso: ho scritto proprio settemila. Nessun Paese, nemmeno la Cina dove il partito limita il numero di banche per controllarle meglio, ha un sistema finanziario così ramificato come l’America. Senza l’aiuto dei banchieri di Honolulu e dei loro colleghi di Pittsburgh, Cincinnati, Albuquerque e di ogni altro angolo remoto di un Paese che è quasi un continente, la più grande economia mondiale non sarà in grado di riprendersi dallo shock della crisi. Se la Bank of Hawaii e le sue rivali negli altri 51 Stati non prestano denaro a consumatori e imprese, risvegliando le attività produttive dal loro lungo torpore, il tasso di disoccupazione rimarrà elevato, il Pil smetterà di crescere e il sogno americano si trasformerà nell’incubo di un ristagno economico paragonabile al Giappone degli ultimi decenni.

Per chi vive a New York ed è immerso nella cosiddetta «alta finanza» è facile dimenticarsi di un semplice fatto messo a nudo dalle vicende degli ultimi due anni: la locomotiva della ripresa americana dovrà fare una fermata a Merchant Street prima di passare per Wall Street.

Dove la Germania ha le piccole società del «Mittelstand» e l’Italia una miriade di imprenditori locali, l’America ha un universo bancario così capillare e frammentato che i suoi membri vanno dalla Bank of America, che da sola controlla il dieci per cento dei depositi bancari, a centinaia di «community banks», banche di quartiere con una filiale e una decina di impiegati. Questa anomalia americana in campo finanziario deriva da condizioni geografiche - la necessità di offrire servizi a un Paese immenso con enormi differenze da zona a zona - e storiche - sin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, gli americani hanno avuto una passione sfrenata per il federalismo e un’antipatia cronica per istituzioni centralizzate, sia private che pubbliche.

Alcune banche, che oggi sono dei giganti nel settore, sono cresciute proprio perché sono riuscite a espandersi oltre i loro confini naturali. Quando gli avventurieri del Far West «conquistarono» l’Ovest, furono le carrozze blindate a cavalli dell’American Express e della Wells Fargo (che ha ancora un vecchio cocchio come logo) a mandare i loro pochi risparmi alle famiglie che erano rimaste sulla costa orientale. Altre, come la Bank of America, sono il prodotto di fusioni tra banche regionali. Ma la maggioranza del sistema finanziario, che è tuttora considerato il più sofisticato e complesso del mondo, è composta da istituzioni di credito locali, troppo piccole per interessare alla grande stampa o agli investitori.

Ed è proprio per questo che, durante la crisi, mentre i mercati, i giornali e i politici si occupavano delle sorti di «Citigroup» e «Goldman Sachs», quasi nessuno si è accorto che la recessione paralizzava il sistema nervoso dell’economia americana. Strette tra perdite enormi su carte di credito e mutui, e prestiti mai ripagati da società locali (soprattutto le imprese di costruzioni distrutte dalla débâcle del mercato immobiliare), molte banche sono state costrette a scegliere tra inattività e morte.

Gli ultimi dati ufficiali - usciti la settimana scorsa - mettono i brividi. La quantità di prestiti fatta dalle banche americane è crollata del 7% nel 2009 - il più grande calo annuale dal 1942, subito dopo la Grande Recessione. Ma c’è di peggio. Il numero delle istituzioni considerate ufficialmente «a rischio» di bancarotta dalla Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’Authority di settore, è balzato a 702 negli ultimi tre mesi, il livello più alto negli ultimi 16 anni.

La fonte che più stimo su questo argomento - un avvocato che lavora nel settore bancario da più di trent’anni - ha promesso di pagarmi una cena da «Per Se», il ristorante più caro di New York, se il numero di banche che falliranno nel 2010 non supera le 140 che sono andate in malora l’anno scorso.

«Il settore delle piccole e medie banche è come una macchina senza freni che accelera verso il baratro», mi ha detto l’altro giorno nel suo ufficio con vista sulla Statua della Libertà. «A meno di un miracolo, non la si può fermare».

Forse ha esagerato un po’ per compiacere un giornalista in cerca di una citazione. Alcune banche, come per esempio la «Bank of Hawaii», stanno benissimo, in parte perché non hanno mai fatto prestiti o dato mutui a tassi altissimi al famigerato «subprime sector» - gente così povera da non avere i soldi per ripagare i prestiti. «Non ho mai capito come una banca potesse fare soldi a lungo termine con quel tipo di prestito», mi ha detto Allan Landon, il capo della Bank of Hawaii un po’ di mesi fa, una logica che non fa una grinza ma che è stata l’eccezione, non la regola, tra le banche americane.

La maggior parte delle istituzioni si è fatta sedurre dalle sirene del «fast buck», la chimera del fare tanti soldi velocemente attraverso prestiti al settore subprime e società locali senza grandi mezzi. In realtà, se si trattasse solo di vedere un centinaio di piccole banche andare in bancarotta, un’economia come quella Usa sarebbe in grado di assorbire il colpo senza soffrire più di tanto. Il problema è che questo è proprio il momento in cui lo Zio Sam ha bisogno di tutte le 7.000 banche per trascinare il Paese fuori dalla recessione.

Con Obama che lancia pacchetti stimolo da centinaia di miliardi di dollari, la banca centrale che tiene i tassi bassissimi e un settore imprenditoriale che dice di volere investire dopo anni di vacche magre, l’unica cosa che manca è un sistema bancario in buona salute per «passare» i soldi dal governo e la Federal Reserve a consumatori e imprese.

Non c’è bisogno d’essere nei box della Ferrari per sapere che nessun motore - né economico, né meccanico - può funzionare se la trasmissione è rotta.

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 17, 2010, 10:23:08 am »

17/3/2010

Wall Street non è Las Vegas
   
FRANCESCO GUERRERA
La prima volta non si scorda mai. E io non dimenticherò la mia prima volta al trentunesimo piano del grattacielo della Lehman Brothers. Era prima del Natale 2006. Sotto di noi brillava una Times Square illuminata a giorno, un luna park dai colori abbaglianti. Nel salotto buono della Lehman, i capi della banca d’affari stringevano mani a giornalisti e clienti, sorridevano a signore eleganti strizzate nei vestiti neri di Vera Wang e confabulavano a bassa voce con politici e portaborse.

Il boom di Wall Street sembrava destinato a non finire, come i canapé all’aragosta e lo champagne pregiato. I «Christmas parties» della Lehman erano famosi nel bel mondo newyorchese. «Non te lo perdere. Vale la pena», era stato il consiglio di un collega più anziano, vero esperto nell’arte del mangiare e bere a sbafo. Al centro della stanza, vidi Dick Fuld, il padre-padrone della banca che aveva pilotato da poco nel «bulge bracket» – il circolo esclusivo dei potenti della finanza fino ad allora dominato da Goldman Sachs, Morgan Stanley e Merrill Lynch.

Mi feci spazio tra la folla di gente arrivata e arrivista fino a quando fui faccia a faccia con «il Gorilla» – un soprannome che Fuld si era meritato negli anni in cui aveva terrorizzato rivali e colleghi con un’aggressività che aveva fatto scalpore persino nel mondo della finanza americana. Il mio obiettivo era chiedergli se fosse vera la voce che lo voleva vicino alla pensione. Dopo anni passati a lavorare venticinque ore su ventiquattro, con un patrimonio da nababbo e una reputazione incredibile, era plausibile che il gorilla volesse scendere dall’albero. Fuld – un tipo basso ma muscoloso, naso aquilino, occhi piccoli e penetranti – mi guardò per un attimo, in silenzio, e poi disse: «Dumb question», domanda cretina, prima di girare i tacchi e scomparire tra i suoi ospiti. Purtroppo per Fuld, non ci saranno più feste al trentunesimo piano e le domande – cretine o meno – presto verranno poste da giudici e pubblici ministeri.

Due anni dopo quel party, la Lehman è diventata la più grande azienda a fallire nella storia degli Stati Uniti, la vittima più famosa di una crisi finanziaria senza uguali. «Vittima» è quello che pensavano un po’ tutti prima della settimana scorsa, quando un taciturno avvocato di Chicago – tal Anton Volukas - ha pubblicato un rapporto-bomba sulla bancarotta della Lehman. Le 2200 pagine uscite dalla penna di Volukas, a cui la corte e i creditori hanno chiesto di indagare sulle cause e sulle responsabilità del fallimento, sono più un romanzo giallo che un rapporto legale. Sul banco degli imputati del «Lehmangate» siedono non solo Fuld e i suoi ma l’intera classe dirigente di Wall Street negli anni prima della crisi. Dopo aver raccolto 350 miliardi di pagine di documenti interni della Lehman e aver interrogato centinaia di testimoni, l’avvocato di Chicago è arrivato ad una conclusione, semplice ma esplosiva: la morte della Lehman è stata causata dalla Lehman stessa. Con una pazienza da certosino e uno stile letterario alla Erle Stanley Gardner, il creatore di Perry Mason, Volukas ha spiegato che il fallimento di una banca che aveva resistito a crisi e recessioni per 158 anni è stato provocato dal suo desiderio sfrenato di fare soldi. A qualsiasi costo. Dalla speculazione edilizia a «derivatives» complesse, la Lehman metteva a rischio i fondi di clienti ed azionisti per non «lasciare soldi sul tavolo» – un detto di Wall Street che, non a caso, è preso in prestito dagli scommettitori di Las Vegas.

Quando, verso la fine del 2007, la convulsione dei mercati e la recessione hanno messo in difficoltà questo gigante dai piedi di argilla - una banca che sopravviveva solo grazie a prestiti a corto termine – la Lehman ha cominciato ad ispirarsi a Machiavelli. Con una politica del «fine giustifica i mezzi», i grandi finanzieri rinchiusi nel grattacielo di Times Square si sono inventati «Repo 105», un trucchetto contabile che ha permesso alla banca – secondo il rapporto – di nascondere circa 50 miliardi di dollari proprio prima di pubblicare gli utili trimestrali.

Uno stratagemma niente male, visto che spostare una somma del genere fuori bilancio ha consentito alla Lehman di presentare risultati che hanno tenuto a bada i mercati e le agenzie di credito e ritardato il suo fallimento di molti mesi. Il problema è che Fuld e i suoi non rivelarono mai alle authority, agli azionisti, o, Dio ne guardi, alla stampa, il «segreto» del loro successo.

Per Volukas – e i creditori che hanno perso miliardi quando Lehman andò in malora – questo potrebbe essere un reato ed è sufficiente per chiedere ai giudici di indagare su Fuld, tre «chief financial officers» della Lehman e la società contabile Ernst & Young. I quattro accusati ed E&Y hanno negato ogni responsabilità e spetterà ai tribunali decidere chi ha torto e chi ha ragione.

Per il mondo finanziario, però, il risultato finale non è tanto importante. Quello che conta è la condanna di un modo di fare business - aggressivo, rischioso, ossessionato dai profitti a breve termine - che era stato preso a modello da banche americane e internazionali. Lehman (e la sua rivale Bear Stearns) sono fallite perché hanno spinto questo «business model» oltre ogni limite, ma la verità è, per dirla con Mozart, che Così Facevan Tutte (le banche). Alcune più, alcune meno, naturalmente, ma non è una scusa. Prima o poi, banche che giuravano (e tuttora giurano) di avere a cuore solo gli interessi di clienti e azionisti, dovranno ammettere che la loro passione per il denaro facile (e la prospettiva di bonus multimilionari) le ha spinte a mettere a rischio tutto: le loro società, la loro industria e perfino l’economia mondiale.

La bancarotta di Lehman è anche la bancarotta morale di Wall Street. La mattina dopo la pubblicazione del rapporto Volukas, il capo di una delle più grandi banche d’America mi ha detto: «Ho quasi vomitato quando l’ho letto. Sono disgustato da noi, dal nostro settore». Lo scandalo Enron – anche quello basato su conti fittizi e fuori bilancio – portò una rivoluzione nel codice legale delle compagnie americane nel tentativo di aumentare i rischi e le punizioni per i falsi in bilancio. Il Lehmangate offre un’opportunità simile ma per un settore ancora più importante: la finanza, che è la conditio sine qua non per lo sviluppo economico.

Le riforme possibili sono tante ma la domanda fondamentale che Wall Street e l’amministrazione Obama si devono porre è semplice: come estirpare la mentalità di Las Vegas da Wall Street e creare un settore finanziario che cresca e faccia soldi senza essere una bomba ad orologeria per l’economia mondiale? Non so cosa ne pensi Mr. Fuld, ma a me questa non sembra una domanda cretina.

francesco.guerrera@ft.com
da lastampa.it
« Ultima modifica: Maggio 01, 2010, 10:22:20 am da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 17, 2010, 04:45:46 pm »

17/4/2010

Ma l'America è già ripartita
   
FRANCESCO GUERRERA

Le ultime vicende della finanza americana sembrano tratte da «Thriller», il video di Michael Jackson. Immaginate la scena: è notte fonda in una deserta Wall Street. Da tombini vuoti e grattacieli bui incominciano ad apparire delle strane figure, società-zombie che si pensavano perdute per sempre. Dopo mesi nell’aldilà sono ritornate tra i vivi, grazie alla generosità dei contribuenti statunitensi.

La tenue luce della luna ci permette di riconoscere alcune facce note. C’è la Citigroup, il gigante bancario che il governo americano ha tenuto a galla con 45 miliardi di dollari, la General Motors che andò in bancarotta dopo aver sperperato i soldi dello Zio Sam, e perfino l’Aig - la società di assicurazioni più grande e temuta del mondo che crollò come un castello di carte nel 2008. Non tutti questi morti viventi sono in grande forma. La Goldman Sachs, per esempio, che fu una delle prime banche a ripagare gli aiuti federali e a ritornare a guadagnare utili stratosferici, è braccata da regolatori e politici. Solo ieri, la Securities and Exchange Commission – l’authority del settore – ha accusato la Goldman di frode, dicendo che nascose delle informazioni importanti ad investitori che comprarono uno dei suoi prodotti «subprime» (complicatissime obbligazioni «costruite» con mutui sulle case dei poveracci).

Goldman ha negato tutto ma l’attacco della Sec è durissimo perché accusa la più famosa banca di Wall Stret di essere al centro del sistema marcio e corrotto del subprime che ha portato alla crisi. I grandi banchieri con cui ho parlato ieri pomeriggio erano in stato di choc e non uno era pronto a scommettere contro la mia previsione che Lloyd Blankfein, il potentissimo capo della Goldman, potrebbe essere silurato nei prossimi giorni.

Ma a parte la Goldman, gran parte del resto del settore finanziario è in forte ripresa. Forse non è un caso, ma la Pasqua è passata da poco e nei salotti buoni di New York e Washington non si fa altro che parlare della resurrezione di aziende che erano state date per morte. La Citi sta per annunciare il primo utile trimestrale in due anni e le azioni hanno preso il volo da quando il Tesoro americano ha detto che venderà la sua quota del 27 per cento. La Gm già parla di ripagare i 6,7 miliardi ricevuti dai cittadini americani, mentre il capo dell’Aig sta tentando di convincere il governo a liberare l’azienda dal giogo di una partecipazione azionaria dell’80 per cento. L’amministrazione Obama non ha perso l’occasione per mettere in imbarazzo i cosiddetti esperti (me incluso) che avevano predetto che il governo federale avrebbe perso quasi tutti i soldi spesi nel fare la respirazione bocca-a-bocca all’economia Usa. Gli esperti del Tesoro hanno fatto sapere che il costo dell’operazione-salvataggio non ammonterà a più di 89 miliardi di dollari perché gran parte degli aiuti sono stati, o saranno, ripagati con interessi. Ottantanove miliardi non sono pochi, ma la cifra è ben al di sotto dei 250 miliardi predetti dal governo un anno fa, e meno dell’uno per cento del Pil americano (tanto per dare un’idea, il crollo delle casse di risparmio negli Anni 80 costò ai consumatori americani più del 3 per cento del Pil). Come ha fatto il governo Obama a trasformare un probabile tracollo economico in una bazzecola, una postilla in fondo al bilancio annuale di Usa Inc.?

I fan del Presidente già gridano al miracolo e raccontano di un team - il segretario del Tesoro Tim Geithner, il super-consigliere Larry Summers, il capo della Federal Reserve Ben Bernanke - che ha acciuffato l’America sull’orlo del baratro economico e l’ha guidata con tranquillità verso la salvezza. In realtà il Presidente e gli altri abitanti dell’ala Ovest della Casa Bianca sono stati un po’ bravi e molto fortunati. Gli aiuti immensi distribuiti dai governi Bush e Obama ai settori più deboli dell’economia americana - investimenti diretti ma anche tassi d’interesse bassissimi e prestiti a poco prezzo - hanno creato un circolo virtuoso che pochi avrebbero pronosticato due anni fa. Le dosi da cavallo di medicine made in Washington hanno salvato l’economia da una recessione che sembrava destinata a diventare un ristagno economico stile Giappone. La ripresa ha, a sua volta, permesso alle imprese di ricominciare a investire e ad assumere impiegati, alle banche di fare soldi finanziando queste attività e ai consumatori di ritornare nei negozi.

I mercati hanno fiutato il cambiamento di aria e si sono messi a tirare - questa settimana l’indice-guida della Borsa di New York ha toccato il punto più alto dal settembre del 2008 - aumentando gli utili di banche d’affari che comprano e vendono titoli e obbligazioni. Come ama dire il leggendario investitore Warren Buffett, «a rising tide lifts all boats» - quando sale, la marea solleva tutte le barche - ed è così che le onde della ripresa americana hanno aiutato perfino società che erano naufragate come la Citi, la Gm e l’Aig. Alla fine il risultato è quello che conta, e in questo caso il risultato è positivo non solo per l’America ma per noi tutti: l’economia statunitense sta crescendo e il sistema bancario più importante del mondo è ancora in piedi. Tanto di cappello ai signori dell’ala Ovest. Però prima di lanciarci nei panegirici a Obama, Geithner e Summers vale la pena ricordarsi che lo stesso programma di aiuti sarebbe potuto finire male, anzi malissimo.

Se l’economia non avesse risposto alla terapia-shock di interessi a tasso zero, aiuti senza precedenti a istituzioni finanziarie e consumatori, e interventi mastodontici nei mercati, le autorità statunitensi avrebbero messo a repentaglio il futuro del Paese con un deficit fiscale sempre più enorme, un Pil che non cresce e un tessuto sociale corroso dalla disoccupazione alle stelle. Per fortuna, l’economia e la base aziendale - le grandi multinazionali ma anche le piccole e medie aziende che sono l’asse portante dell’imprenditoria Usa - hanno risposto, riaccendendo gli impianti, chiedendo prestiti alle banche e vendendo prodotti ai consumatori sia in America che all’estero. Per spiegare il successo dell’operazione architettata dal team Obama bisogna chiamare gli psicologi, non gli economisti. La differenza tra recessione e ripresa è stato il fatto che i mercati, le aziende e i consumatori ci «hanno creduto» - sono tornati a lavorare nella speranza che, come dicono a Broadway, «it will be alright on the night» (andrà tutto bene in prima serata). L’ottimismo quasi panglossiano degli americani è uno dei tratti caratteriali più disprezzati da noi europei - soprattutto negli ambienti cinici e duri della finanza e dei grandi affari (e pure, diciamolo, del giornalismo).

Anche il culto del successo individuale e l’etica spartana del lavoro - due capisaldi del «sogno americano» che ancora anima le speranze e gli obiettivi di gran parte degli Stati Uniti - sono spesso considerati alieni, quasi di cattivo gusto, nel Vecchio Continente. Portate all’eccesso, queste caratteristiche americane sono controproducenti - e la crisi degli ultimi due anni è un esempio perfetto di un disastro globale causato dal desiderio sfrenato e arrogante di un popolo che si sentiva in diritto di vivere al di sopra dei propri mezzi senza riguardo per le conseguenze. Allo stesso tempo però l’ingegnosità di un Paese giovane con una classe imprenditoriale a cui piace rischiare (chi aveva sentito parlare di Google 15 anni fa?) e una forza lavoro flessibile e molto mobile si è rivelata l’arma vincente per un’economia ferita quasi a morte.

Vista dall’America, col suo sistema sanitario da terzo mondo, immense disparità tra ricchi e poveri, e un mondo del lavoro che sembra sia stato progettato da Stakhanov, la piccola Europa sembra spesso un’isola felice. Ma basta guardare la tragedia greca della crisi della zona euro per capire che, in questo caso, l’America è riuscita ancora una volta a dar torto agli scettici e a far meglio dei Paesi sull’altra sponda dell’Atlantico.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Financial Times a New York.

Francesco.guerrera@ft.com

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« Risposta #5 inserito:: Maggio 01, 2010, 10:20:52 am »

1/5/2010

Wall Street, la regola dell'immoralità

FRANCESCO GUERRERA


Memorizzate questa data: il ventidue giugno dell’anno 2007 – il giorno in cui Wall Street fece cadere il velo e mostrò il suo aspetto più becero e meschino.

Alle 16,32 di quel fatidico pomeriggio, Tom Montag, all’epoca uno dei dirigenti della Goldman Sachs, mandò un’email ad un collega nella prestigiosissima banca d’affari.
Montag, come tutti i grandi banchieri, era presissimo e la sua missiva consisteva di una sola riga: «Ragazzi, l’Obbligazione Lupo è stata proprio merdosa». Quelle sette parole inglesi potrebbero diventare il motto di un modo di interpretare l’alta finanza che è stato una delle cause dell’implosione dell’economia mondiale e dell’enorme crisi di fiducia nel settore bancario.

Vi risparmio la descrizione della complicatissima Obbligazione Lupo: vi basti sapere che si trattava di un titolo pieno di mutui «subprime» che crollò in valore dopo pochi mesi quando gli indigenti debitori smisero di pagare. Il dettaglio fondamentale, però, è che la Goldman vendette un miliardo di dollari di queste obbligazioni a investitori - intascando milioni in commissioni - nonostante l’opinione scatologica del Signor Montag.

Ma non è finita. Grazie alle investigazioni di un gruppo di agguerritissimi senatori americani, sappiamo che la Goldman non solo creò e smistò un prodotto «sospetto», ma ci scommise pure contro, comprando dei contratti che le garantivano dei pagamenti ogni volta che il titolo perdeva valore.

Per ricapitolare: mentre gli investitori in Timberwolf stavano rimettendoci centinaia di milioni di dollari (uno dei fondi d’investimento andò persino in bancarotta), la Goldman ci guadagnava di suo. Altro che Lupo: i cervelloni della banca d’affari quell’obbligazione l’avrebbero dovuta chiamare Squalo.

Bisogna dire che la condotta della Goldman non è illegale – anche se la società è stata accusata di frode dall’authority americana per un’altra obbligazione molto simile a Lupo (Goldman nega quelle accuse). Anzi, i banchieri della Goldman non si stancano mai di ripetere che non hanno mai avuto nessun dovere di dire ai clienti quello che pensano dei titoli che gli vendono.

In questo hanno ragione: nel mondo della finanza americana «caveat emptor» è una delle regole immutabili. I fondi d’investimento che si sono fatti azzannare dall’Obbligazione Lupo sarebbero dovuti stare più attenti a quello che compravano. Ma alla luce degli eventi epocali del 2007-2009, una spiegazione strettamente legale non basta più. Dopo aver partecipato a follie finanziarie che sono costate miliardi di dollari e milioni di posti di lavoro, la domanda da porre a Wall Street è di natura morale, non legale. È etico per una banca mettere i propri interessi al di sopra di quelli dei suoi clienti? È giusto per un venditore mettere in vetrina prodotti che sa che sono marci? Per Goldman - e molte altre banche - la risposta è sì. Se i clienti vogliono un prodotto, loro glielo vendono - per una bella commissione - senza tante remore e crisi di coscienza, salvo riservarsi il diritto di fare dei soldi scommettendoci contro.

Per gran parte della gente e la classe politica la risposta è no. Come ha detto il senatore repubblicano John Ensign, che di scommesse se ne intende visto che viene dal Nevada, durante un’udienza parlamentare con dirigenti della Goldman questa settimana: «Las Vegas si dovrebbe offendere quando viene paragonata a Wall Street: a Las Vegas gli scommettitori conoscono le loro probabilità di vittoria, voi invece manipolate le probabilità a partita in corso».

Un casinò truccato dove il banco vince sempre. Se questa è l’immagine del sistema finanziario più grande e sofisticato del mondo, non bisogna essere uno dei geni matematici che hanno inventato Timberwolf per capire che Wall Street ha un problema serio.
Un problema che non scomparirà da solo e certo non viene risolto dallo spettacolo a cui ho assistito martedì: 11 ore di colloquio tra capi della Goldman e senatori e nemmeno una traccia di pentimento nelle facce o nelle parole dei banchieri.

Lloyd Blankfein, l’amministratore delegato della Goldman che nel 2007, l’anno di Timber-wolf, si portò a casa 68 milioni di dollari, l’ha detto chiaro e tondo ai senatori che protestavano che una banca che vende prodotti con una mano e scommette con i suoi soldi con l’altra è al centro di gravi conflitti d’interesse. «Non ci vedo nulla di male», ha detto martedì. Ogni crisi finanziaria ha le sue vittime e i suoi carnefici e la Grande Recessione degli anni 2007-2009 non fa eccezione. Le vittime le conosciamo bene: gli americani medi convinti che i prezzi delle case non sarebbero caduti mai, che avere sette carte di credito, quattro macchine e cinque televisori fosse normale e che il «sogno americano» di prosperità infinita non si sarebbe mai infranto.

I carnefici sono anch’essi molti e molto noti (una classe politica, spronata dal banchiere centrale Alan Greenspan, che s’innamorò della deregulation; agenzie di credito che chiusero gli occhi; e investitori accecati dalla chimera dei soldi facili). Ma se le banche continuano a negare l’evidenza saranno le uniche a pagare per colpe non tutte loro. L’ostinazione e l’arroganza di un banchiere milionario che dice: «Non c’è niente di male» non aiuta né la sua banca né un settore che, al momento, è meno rispettato dei venditori di auto usate (e perfino dei giornalisti...).

Le riforme stanno arrivando a grande velocità con un bel carico di populismo acchiappa-voti - non è un caso che le accuse di frode contro Goldman siano state annunciate proprio quando l’amministrazione Obama stava avendo difficoltà a convincere i repubblicani a passare la legge che ridisegnerà il sistema finanziario Usa.

La «regola Volcker» - che prende il nome dal vecchio capo della Federal Reserve e proibisce alle banche di usare fondi propri per comprare e vendere titoli e investire in società - sarà sicuramente approvata e banche come la Goldman (ma anche rivali come la Morgan Stanley e la JPMorgan) dovranno dire addio a miliardi di utili. E forse è questa la soluzione più giusta ai problemi di Wall Street: lasciare dei soldi sul tavolo - come dicono i banchieri quando non riescono ad estrarre la commissione più alta possibile da un cliente - e in cambio evitare misure draconiane e punitive che potrebbero mettere a rischio il futuro di uno dei settori più importanti dell’economia statunitense.

Abbandonare i mercati rischiosi ma redditizi di prodotti complessi ed esotici, dei titoli tipo Timberwolf e delle scommesse con i propri soldi non sarà facile per banchieri, banche e investitori che si sono abituati a utili altissimi e bonus principeschi.

Il «ritorno al futuro» - al ruolo di banche come intermediarie di flussi monetari tra compratori e venditori piuttosto che protagoniste di azioni finanziarie con capitale proprio - non sarà facile soprattutto perché questi tipi di servizi non sono molto remunerativi. L’alternativa però è essere al centro del tifone del dopo-crisi - identificati come colpevoli da una classe politica che è praticamente obbligata ad infierire sui banchieri e le loro società per soddisfare la sete di sangue di un pubblico arrabbiato. Dopo tanti anni di caveat emptor, sarebbe utile per Wall Street adottare la regola del «caveat venditor».

*Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Financial Times a New York.
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« Risposta #6 inserito:: Maggio 02, 2010, 11:05:18 am »

1/5/2010

Wall Street, la regola dell'immoralità
   
FRANCESCO GUERRERA


Memorizzate questa data: il ventidue giugno dell’anno 2007 – il giorno in cui Wall Street fece cadere il velo e mostrò il suo aspetto più becero e meschino.
Alle 16,32 di quel fatidico pomeriggio, Tom Montag, all’epoca uno dei dirigenti della Goldman Sachs, mandò un’email ad un collega nella prestigiosissima banca d’affari.
Montag, come tutti i grandi banchieri, era presissimo e la sua missiva consisteva di una sola riga: «Ragazzi, l’Obbligazione Lupo è stata proprio merdosa». Quelle sette parole inglesi potrebbero diventare il motto di un modo di interpretare l’alta finanza che è stato una delle cause dell’implosione dell’economia mondiale e dell’enorme crisi di fiducia nel settore bancario.

Vi risparmio la descrizione della complicatissima Obbligazione Lupo: vi basti sapere che si trattava di un titolo pieno di mutui «subprime» che crollò in valore dopo pochi mesi quando gli indigenti debitori smisero di pagare. Il dettaglio fondamentale, però, è che la Goldman vendette un miliardo di dollari di queste obbligazioni a investitori - intascando milioni in commissioni - nonostante l’opinione scatologica del Signor Montag.

Ma non è finita. Grazie alle investigazioni di un gruppo di agguerritissimi senatori americani, sappiamo che la Goldman non solo creò e smistò un prodotto «sospetto», ma ci scommise pure contro, comprando dei contratti che le garantivano dei pagamenti ogni volta che il titolo perdeva valore.

Per ricapitolare: mentre gli investitori in Timberwolf stavano rimettendoci centinaia di milioni di dollari (uno dei fondi d’investimento andò persino in bancarotta), la Goldman ci guadagnava di suo. Altro che Lupo: i cervelloni della banca d’affari quell’obbligazione l’avrebbero dovuta chiamare Squalo.

Bisogna dire che la condotta della Goldman non è illegale – anche se la società è stata accusata di frode dall’authority americana per un’altra obbligazione molto simile a Lupo (Goldman nega quelle accuse). Anzi, i banchieri della Goldman non si stancano mai di ripetere che non hanno mai avuto nessun dovere di dire ai clienti quello che pensano dei titoli che gli vendono.

In questo hanno ragione: nel mondo della finanza americana «caveat emptor» è una delle regole immutabili. I fondi d’investimento che si sono fatti azzannare dall’Obbligazione Lupo sarebbero dovuti stare più attenti a quello che compravano. Ma alla luce degli eventi epocali del 2007-2009, una spiegazione strettamente legale non basta più. Dopo aver partecipato a follie finanziarie che sono costate miliardi di dollari e milioni di posti di lavoro, la domanda da porre a Wall Street è di natura morale, non legale. È etico per una banca mettere i propri interessi al di sopra di quelli dei suoi clienti? È giusto per un venditore mettere in vetrina prodotti che sa che sono marci? Per Goldman - e molte altre banche - la risposta è sì. Se i clienti vogliono un prodotto, loro glielo vendono - per una bella commissione - senza tante remore e crisi di coscienza, salvo riservarsi il diritto di fare dei soldi scommettendoci contro.

Per gran parte della gente e la classe politica la risposta è no. Come ha detto il senatore repubblicano John Ensign, che di scommesse se ne intende visto che viene dal Nevada, durante un’udienza parlamentare con dirigenti della Goldman questa settimana: «Las Vegas si dovrebbe offendere quando viene paragonata a Wall Street: a Las Vegas gli scommettitori conoscono le loro probabilità di vittoria, voi invece manipolate le probabilità a partita in corso».

Un casinò truccato dove il banco vince sempre. Se questa è l’immagine del sistema finanziario più grande e sofisticato del mondo, non bisogna essere uno dei geni matematici che hanno inventato Timberwolf per capire che Wall Street ha un problema serio.
Un problema che non scomparirà da solo e certo non viene risolto dallo spettacolo a cui ho assistito martedì: 11 ore di colloquio tra capi della Goldman e senatori e nemmeno una traccia di pentimento nelle facce o nelle parole dei banchieri.

Lloyd Blankfein, l’amministratore delegato della Goldman che nel 2007, l’anno di Timber-wolf, si portò a casa 68 milioni di dollari, l’ha detto chiaro e tondo ai senatori che protestavano che una banca che vende prodotti con una mano e scommette con i suoi soldi con l’altra è al centro di gravi conflitti d’interesse. «Non ci vedo nulla di male», ha detto martedì. Ogni crisi finanziaria ha le sue vittime e i suoi carnefici e la Grande Recessione degli anni 2007-2009 non fa eccezione. Le vittime le conosciamo bene: gli americani medi convinti che i prezzi delle case non sarebbero caduti mai, che avere sette carte di credito, quattro macchine e cinque televisori fosse normale e che il «sogno americano» di prosperità infinita non si sarebbe mai infranto.

I carnefici sono anch’essi molti e molto noti (una classe politica, spronata dal banchiere centrale Alan Greenspan, che s’innamorò della deregulation; agenzie di credito che chiusero gli occhi; e investitori accecati dalla chimera dei soldi facili). Ma se le banche continuano a negare l’evidenza saranno le uniche a pagare per colpe non tutte loro. L’ostinazione e l’arroganza di un banchiere milionario che dice: «Non c’è niente di male» non aiuta né la sua banca né un settore che, al momento, è meno rispettato dei venditori di auto usate (e perfino dei giornalisti...).

Le riforme stanno arrivando a grande velocità con un bel carico di populismo acchiappa-voti - non è un caso che le accuse di frode contro Goldman siano state annunciate proprio quando l’amministrazione Obama stava avendo difficoltà a convincere i repubblicani a passare la legge che ridisegnerà il sistema finanziario Usa.

La «regola Volcker» - che prende il nome dal vecchio capo della Federal Reserve e proibisce alle banche di usare fondi propri per comprare e vendere titoli e investire in società - sarà sicuramente approvata e banche come la Goldman (ma anche rivali come la Morgan Stanley e la JPMorgan) dovranno dire addio a miliardi di utili. E forse è questa la soluzione più giusta ai problemi di Wall Street: lasciare dei soldi sul tavolo - come dicono i banchieri quando non riescono ad estrarre la commissione più alta possibile da un cliente - e in cambio evitare misure draconiane e punitive che potrebbero mettere a rischio il futuro di uno dei settori più importanti dell’economia statunitense.

Abbandonare i mercati rischiosi ma redditizi di prodotti complessi ed esotici, dei titoli tipo Timberwolf e delle scommesse con i propri soldi non sarà facile per banchieri, banche e investitori che si sono abituati a utili altissimi e bonus principeschi.

Il «ritorno al futuro» - al ruolo di banche come intermediarie di flussi monetari tra compratori e venditori piuttosto che protagoniste di azioni finanziarie con capitale proprio - non sarà facile soprattutto perché questi tipi di servizi non sono molto remunerativi. L’alternativa però è essere al centro del tifone del dopo-crisi - identificati come colpevoli da una classe politica che è praticamente obbligata ad infierire sui banchieri e le loro società per soddisfare la sete di sangue di un pubblico arrabbiato. Dopo tanti anni di caveat emptor, sarebbe utile per Wall Street adottare la regola del «caveat venditor».

*Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Financial Times a New York.
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 15, 2010, 12:28:55 pm »

15/5/2010

È meglio rileggere Frankenstein

FRANCESCO GUERRERA

I dieci minuti da brivido vissuti dalla Borsa di New York la settimana scorsa sono una storia degna delle penne di Franz Kafka, Agatha Christie e Mary Shelley: un giallo surreale che ha messo a nudo i difetti di un sistema che tutti pensavano quasi perfetto.
I fatti sono noti. Un bel pomeriggio primaverile, l’indice Dow Jones ha perso il 10% prima di rimbalzare in maniera altrettanto violenta e chiudere in lieve perdita.

Il problema è che, a dieci giorni da quel crollo improvviso, nessuno è riuscito a rispondere alla domanda che uno dei miei colleghi mi ha posto non appena ho messo piede in ufficio dopo un pranzo di lavoro alle 14,31 di quel fatidico giovedì 6 maggio. «Come mai?».

Investitori grandi e piccoli, da Syracuse nello Stato di New York a Siracusa in Sicilia, hanno perso miliardi di dollari quando il più grande mercato azionario del mondo si è trasformato in un enorme yo-yo ma il governo americano, le banche d’affari e gli operatori di Borsa ancora non sanno cosa sia successo.

Un veterano dei mercati americani, la cui voce ancora tremava a raccontare il giovedì nero, ha fatto un’analogia interessante e preoccupante. «Pensa che cosa succederebbe se le autorità non dicessero assolutamente nulla dopo un incidente aereo: questo silenzio istituzionale è terrificante». I soliti ben informati parlano di un errore grossolano di un operatore con «le dita grasse» – uno che voleva vendere un po’ di azioni e ha scritto «miliardi» invece di «milioni» sulla tastiera. Altri danno la colpa ai super-computer che dominano le Borse americane ed europee, cervelloni che comprano e vendono titoli ad una tale velocità che nessun essere umano li può frenare. Gli pseudo-psicologi, invece, parlano dell’insicurezza cronica di mercati che per mesi hanno dovuto digerire le cattive notizie provenienti dalla Grecia e altri Paesi del vecchio Continente.

Ma anche se tutte queste ragioni fossero vere, la Borsa di New York dovrebbe avere regole ed infrastrutture che non le permettono di comportarsi come un adolescente con la passione per il bungee-jumping. La vera perdita subita dai mercati americani è molto più grave dei passivi finanziari di migliaia di investitori. In quei 600 secondi di fuoco, la Borsa più famosa del mondo ha perso il diritto ad essere il faro del capitalismo internazionale, il metronomo che batte il tempo per l’economia mondiale.

Prima o poi, le perdite del Dow, del Nasdaq e la miriade di piccole Borse che sono colate a picco in quei dieci pazzi minuti verranno recuperate. La legge del mercato è simile alle storie d’amore raccontate da Lucio Battisti quando cantava, in Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi, di «discese ardite e risalite/ su nel cielo aperto/ e poi giù il deserto/ e poi ancora in alto/con un grande salto». L’unica certezza nel mondo arcano della compravendita di azioni è che un mercato ribassista – o «mercato dell’orso» nel gergo anglosassone – è sempre seguito dal mercato «del toro», in cui gli indici salgono e gli investitori guadagnano, e viceversa.

Perdere la faccia, però, per una Borsa che dipende dalla fiducia di investitori e operatori è un po’ come perdere la verginità: non si può più tornare indietro. Come ha detto Larry Tabb, uno dei santoni dell’analisi finanziaria made in Usa: «Non è tanto che non sappiamo esattamente cosa sia successo ma che sappiamo fin troppo bene che la liquidità di mercati che pensavamo solidi e robusti è evaporata in un battibaleno».

E se le Borse di Londra, Hong Kong e Tokyo – le grandi rivali di New York - pensano di poter approfittare delle disgrazie altrui, si sbagliano di grosso. La débâcle di Wall Street ha avuto ripercussioni in tutto il mondo (persino il petrolio, quotato a Londra, è sceso velocemente quel giovedì pomeriggio) ed investitori che sono stati bruciati sul mercato-guida non si sposteranno sicuramente su Borse più rischiose e meno liquide.

Gli operatori newyorchesi, quantomeno quelli seri e intelligenti, hanno capito subito la gravità della situazione. Le mie spie nella sede del New York Stock Exchange (Nyse) – il palazzone neo-classico che domina l’angolo tra Wall Street e Broad Street sulla punta di Manhattan – mi hanno detto che il baccano caotico della sala di contrattazione si è trasformato in un silenzio di tomba quando il Dow è incominciato a crollare. Nelle sedi delle banche d’affari, operatori che ne hanno viste di tutti i colori sono rimasti sbalorditi. «Non c’era nulla da fare: sono rimasto lì, con la bocca aperta, fissando uno schermo che è diventato tutto rosso», mi ha detto uno dei più esperti traders di una banca americana. In quindici anni di giornalismo finanziario su tre continenti non mi era mai capitato di sentire una confessione d’impotenza così sincera e disperata.

Il motivo per cui gli operatori sono passati da protagonisti a spettatori delle convulsioni del mercato è dovuto alla rivoluzione tecnologica e strutturale delle Borse americane negli ultimi decenni. L’invenzione di computer sempre più potenti ha trasformato il modo in cui gli investitori interagiscono con i mercati. Fino alla metà del XX secolo, la Borsa di New York ha funzionato più o meno come era stato deciso nel 1792 nell’«Accordo del Platano» – il patto tra 24 brokers riuniti sotto un albero vicino a Wall Street che creò il nucleo del primo Stock Exchange.

L’avvento dei super-computer ha fatto sì che il mercato fosse in grado di trattare molte più azioni, molto più velocemente e a prezzi così bassi (il costo-base di una transazione è passato da una media di 12 cents a meno di 1 cent) da permettere a milioni di risparmiatori di giocare in Borsa. La «democratizzazione» del mercato è avvenuta a spese degli operatori. Se le casalinghe del Wyoming potevano comprare General Electric e Ibm dalla camera da letto con un click del mouse, che bisogno c’era di tutti quei signori in giacche sgargianti che urlavano numeri e sgomitavano di fronte a un tabellone pieno di cifre? E così, negli ultimi dieci anni, gli esseri umani – i rumorosi, costosi e fallibili esseri umani - sono stati esclusi dal tourbillon finanziario che chiamiamo mercati. Oggigiorno, più del 90 per cento degli ordini eseguiti al New York Stock Exchange sono automatizzati.

Allo stesso tempo, i prezzi relativamente bassi delle nuove tecnologie hanno facilitato la nascita di mercati alternativi al vecchio Stock Exchange. Banche d’affari hanno creato «stagni scuri» – mini-borse che permettono ai loro clienti di comprare e vendere azioni in privato senza rivelare il prezzo ai loro rivali. Altri operatori di mercato – come il Nasdaq, che un tempo era dedicato a società di tecnologia e telecomunicazioni – hanno approfittato del progresso tecnologico per offrire azioni trattate sul Nyse.

Il risultato è stato una frammentazione che rende praticamente impossibile – a regolatori, investitori e operatori – avere una visione completa dei mercati. Nel 2009, solo il 13 per cento del volume di mercati è passato attraverso il Nyse.

Come se non bastasse, la possibilità di fare soldi (moltissimi soldi) usando computer per sfruttare piccole discrepanze di prezzo tra un mercato e l’altro ha spinto generazioni di laureati in matematica e fisica a creare algoritmi complicatissimi da applicare alla compravendita di titoli. La velocità con cui questi fondi «algos» agiscono li ha trasformati nei re del mercato. In un giorno normale, questi investitori senza faccia e senza una strategia chiara muovono circa due terzi del volume dei mercati americani.

La mancanza di regole comuni tra tutti questi attori è una delle ragioni del crollo del 6 maggio. A differenza del Nyse, per esempio il Nasdaq non ha un meccanismo per «rallentare» il mercato quando gli indici calano – una differenza che ha permesso ad investitori che volevano vendere a tutti costi di disfarsi di titoli a prezzi bassissimi. E mentre gli operatori del Nyse sono obbligati a ricevere ordini in tutte le condizioni, gli «algos» possono ritirarsi dal mercato in momenti di crisi – un fattore che ha fatto evaporare la liquidità ed esacerbato la caduta del Dow.

La confluenza quasi miracolosa di tecnologia e cervelloni (sia computerizzati che umani) ha portato dei vantaggi immensi ai mercati Usa, contribuendo alla crescita del settore bancario americano e consolidando la posizione di New York come capitale della finanza mondiale. Ma ha anche dato origine un sistema così astruso e complesso che è impossibile da sorvegliare e che non può essere fermato quando diventa ingestibile. Come con la crisi dei mutui subprime, la passione di Wall Street per creare prodotti nuovi e lucrativi ha creato un mostro che i suoi stessi artefici non sono più in grado di controllare.
Invece di fissare quegli schermi verdi e rossi, gli operatori dovrebbero rileggersi «Frankenstein» – il capolavoro della Shelley – al più presto.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Financial Times a New York.
francesco.guerrera@ft.com

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« Risposta #8 inserito:: Maggio 29, 2010, 12:44:58 pm »

29/5/2010

Robin Hood all'attacco delle banche

FRANCESCO GUERRERA

I pendolari della metropolitana di New York sono abituati a mendicanti e matti ed è raro che abbandonino giornali e iPod per prestare attenzione alle scene disperate del mondo sotterraneo della «subway». Ma un signore di mezza età che si è alzato nel mezzo della carrozza l’altro giorno mi ha colpito. L’ho notato non solo per gli occhiali da sole – indossati quasi in segno di sfida, o disprezzo, per i viaggiatori che passano parte della loro vita nel buio di stazioni fetide e tunnel obsoleti. A differenza del solito sottobosco newyorchese, questo personaggio non ha chiesto nulla ai nomadi della linea F. Anzi, ha fatto loro un’offerta di lavoro. «Siamo una società di guardie giurate - ha detto -. Cerchiamo gente che ha più di 18 anni e in buona forma fisica. Se volete lavoro, datemi il vostro nome». Prossima fermata, un posto da buttafuori: ecco il sogno americano del dopo-crisi. Dopo aver preso due o tre nomi, si è seduto accanto me e, vedendomi in giacca e cravatta, ha tratto le sue conclusioni.

«Un banchiere eh? Tu senz’altro devi cambiare lavoro». La mia risposta – che non lavoro a Wall Street e che fare il metronotte non è la mia passione – non l’ha convinto. «Voi banchieri – ha continuato imperterrito - avete distrutto questo grande Paese. Distrutto». Duecento miglia a Sud dell’isola di Manhattan, i politici di Washington stavano lavorando per placare il malcontento dello sconosciuto con gli occhiali da sole – e milioni di altri americani – con una legge che rivoluzionerà le regole del mondo finanziario americano. Dopo mesi di negoziati e contrattazioni, la Camera e il Senato stanno per raggiungere un compromesso su uno statuto che dovrebbe essere firmato dal presidente Obama all’inizio di luglio. I dettagli della legislazione – un tomo di più di mille pagine – fanno venire il mal di testa anche agli esperti ma il tono non lascia spazio ad interpretazioni. Dopo quasi dieci anni di deregulation sfrenata (sostenuta, paradossalmente, da gente come Larry Summers che ora è il più potente consigliere di Obama in materie economiche), le prossime oscillazioni del pendolo normativo andranno a colpire il settore bancario e i portafogli dei signori della finanza. «Più piccola, meno remunerativa e meno rischiosa», è stata la risposta di una mia fonte quando gli ho chiesto che tipo di Wall Street avremo con la nuova legge.

Una Wall Street dove istituzioni finanziarie non usano i propri fondi per scommettere contro i loro clienti, dove la creazione di prodotti sempre più complicati e incomprensibili è scoraggiata e dove il Gordon Gekko del film di Oliver Stone «Wall Street», quello che dice «l’avidità è buona, l’avidità è giusta» non è più il modello di generazioni di banchieri e operatori. Con milioni di americani senza lavoro – gli economisti parlano di una crescita permanente del tasso «naturale» di disoccupazione perché molti dei posti scomparsi durante la crisi non ritorneranno mai più –, un mercato immobiliare ancora in pieno caos, e una classe media traumatizzata dai debiti eccessivi degli anni grassi, non c’è da stupirsi che l’amministrazione e il Congresso vogliano fare i Robin Hood. Prendere ai ricchi banchieri per aiutare i poveri consumatori è una strategia comprensibile e legittima per prendere voti e difendersi dalla critica che la classe politica è colpevole di aver lasciato fare banchieri senza scrupoli e investitori bramosi quello che gli è parso per anni.

E non c’è dubbio che il settore finanziario – soprattutto la cosiddetta «alta finanza» dei derivati esotici e bonus rabelesiani – debba essere ridimensionato e punito per avere gonfiato una bolla che ha messo a rischio l’economia mondiale. Avendo avuto l’onore (ed onere) di aver raccontato sia il boom del credito gratis e dei mutui facili, sia la crisi finanziaria e la Grande Recessione che l’ha seguita, vi assicuro che l’arroganza, l’egoismo e l’ottusità di banchieri ed investitori sono state cause fondamentali del disastro del 2007-2009. Il problema per il Congresso – e per i politici europei come i tedeschi che vogliono imitare la linea dura degli americani – è che il settore finanziario è un ingrediente fondamentale di ogni ricetta di ripresa economica. A differenza di altri settori, la cui partecipazione alla crescita produttiva è un optional (se le esportazioni non tirano ci pensano i consumatori o i servizi ecc. ecc.), le banche sono la conditio sine qua non per un ritorno di fiamma dell’economia mondiale.

Sono almeno nove secoli (dal Medio Evo, quando i crociati avevano bisogno di fondi per le loro conquiste) che il settore finanziario si è interposto tra chi i soldi li ha (i risparmiatori, gli investitori) e chi ne ha bisogno (le società, i governi). Un mio compagno di università – che ora è professore di finanza a Yale – ha paragonato la relazione tra le banche e il resto dell’economia ai discorsi che facevamo dopo essere stati lasciati da una delle nostre ragazze. «Usavamo sempre l’adagio: “le donne: è difficile vivere con loro, è impossibile vivere senza di loro”», mi ha ricordato, non senza imbarazzo da entrambe le parti. Obama si trova nella stessa situazione: se la nuova legge impedisce alle banche di fare soldi e prestare denaro a consumatori e società, a soffrirne non saranno solo i banchieri sovrappeso col gessato e il sigaro cubano (di contrabbando) ma anche gli operai della General Motors e gli impiegati di McDonald’s. Purtroppo, quando il settore bancario ha il raffreddore, il resto dell’economia ha una febbre da cavallo. Le banche questo lo sanno e ci marciano. Durante i lunghi mesi di preparazione per la legge, ogni volta che il settore finanziario era contro una nuova regola del gioco, urlava che la nuova misura avrebbe ristretto la disponibilità di prestiti e fondi a consumatori e piccole e medie aziende.

L’altra linea d’attacco di Wall Street – ancora più scandalosa - era che una legge anti-banche avrebbe sfavorito l’America e permesso all’Europa – con le sue regole lassiste e governi complici – di usurpare New York e diventare il centro finanziario mondiale. La realtà è che attaccare il settore finanziario per gli eccessi degli ultimi decenni non metterebbe a rischio né l’economia americana né la supremazia di New York. La disonestà intellettuale delle perorazioni delle banche e dei loro amici a Washington sta nell’equiparare servizi-base (come ricevere depositi e fare prestiti) con l’alchimia dei derivati e altri intrugli inventati più per fare soldi che per ridistribuire fondi ad attività produttive. Fare di tutta l’erba un fascio, e proclamare che le banche sono intoccabili perché svolgono un ruolo vitale nell’economia è solo un modo per salvaguardare privilegi e comportamenti che hanno contribuito al caos degli ultimi anni. La cartina di tornasole per la nuova legge sarà proprio questa: se le nuove regole distingueranno tra banche come strumenti di trasmissione di risorse produttive e banche come venditrici di speculazione fine a se stessa. Tra pochi giorni la cacofonia di gruppi di pressione, capi della finanza e politici in cerca di voti, cesserà. C’è solo da sperare che quando Barack Hussein Obama scriverà il suo nome sulla prima pagina della nuova normativa, le bottiglie di champagne nei grattacieli di Wall Street rimangano chiuse.

*Caporedattore finanziario del Financial Times a New York
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 31, 2010, 08:26:39 am »

31/7/2010

Le banche ammalate di paura

FRANCESCO GUERRERA

Immaginate la scena. Un giornalista finanziario decide che è venuto il momento di comprare casa a New York e si reca in banca a chiedere un mutuo. Dopo i controlli di rito (stipendio, tasse, altri beni ecc.), la signorina ritorna con il sorriso sulle labbra e un’offerta che lascia il reporter, un tipo che di solito è molto loquace, senza parole. «Buone notizie», dice. «Le possiamo offrire un ottimo prodotto: un mutuo option ARM». Pausa per la traduzione: gli option ARM sono stati le bombe al napalm della crisi finanziaria: hanno fatto terra bruciata dovunque siano arrivati. ARM sta per adjustable rate mortgage: un mutuo il cui tasso varia col tempo. La caratteristica dell'option ARM era che il cliente aveva l'opzione di pagare il minimo indispensabile all'inIzio del contratto salvo poi pagare tassi molto più alti negli anni seguenti. Negli Usa della Grande Depressione del 2007-2009, questo tipo di prestito immobiliare è diventato famigerato perché ha costretto milioni di americani ad abbandonare le proprie case. Il problema degli ARM era che avevano un tasso d’interesse bassissimo per i primi diciotto mesi, che poi saliva vertiginosamente in anni successivi: un giochino che funziona se i prezzi delle case e il mercato del lavoro continuano a tirare, ma che porta dritti alla rovina appena l’economia si ferma.

Opinionisti di ogni specie (il sottoscritto incluso) hanno deplorato l’immoralità di un mutuo che ha attratto i consumatori meno esperti con il tasso introduttivo allettante solo per stangarli dopo un anno e mezzo. «La signorina chiaramente non legge i giornali, non guarda la televisione e non ha nemmeno fatto attenzione al mio biglietto da visita», pensa il giornalista sempre più infuriato. Ma mentre la poverina prova a spiegare i vantaggi dell’option ARM, leggendo la brochure scaricata sul computer, il cronista finalmente ci arriva: la banca offre un mutuo del genere sapendo benissimo che verrà rifiutato. Dopo aver inondato il mercato con prestiti a basso costo – e aver pagato con perdite enormi quando la bolla è scoppiata - le banche americane non vogliono più offrire soldi a consumatori e società per paura di non rivederli mai più. La fifa dei grandi banchieri sta avendo un effetto dirompente sull’economia americana. Non sono solo i giornalisti che non possono comprare appartamenti. Le aziende non possono né investire nel presente assumendo impiegati, né nel futuro comprando nuove macchine. E i consumatori se ne stanno a casa, con meno carte di credito e ancora meno voglia di comprare. Un imprenditore che conosco – uno della Silicon Valley che ha lanciato e venduto quattro società grazie ai prestiti delle banche – ha paragonato l’economia americana a un motore ingrippato: senza i prestiti a lubrificarli, i pistoni del consumo e della produzione non possono ripartire. Le cifre non lasciano dubbi. La Keefe Bruyette & Woods, una società di analisi, ha calcolato che negli ultimi tre mesi le grandi istituzioni finanziarie americane hanno ridotto il volume di prestiti del 5 per cento rispetto al 2009: un calo incredibile se si pensa che di solito le banche aumentano i prestiti di anno in anno. Il seguitissimo sondaggio trimestrale della Federal Reserve è stato ancora più deprimente: quando le autorità monetarie hanno chiesto a tutte le banche d’America se avevano stretto o allentato i criteri per avanzare un prestito, la maggioranza ha ammesso di aver limitato l’accesso al credito. I numeri celano una reazione naturale ed umana da parte dei banchieri. Dopo l’ingordigia che ha portato a perdite enormi e al crollo economico, arriva il digiuno del dopo-crisi. La parabola biblica dei sette anni di vacche grasse e i sette anni di vacche magre è pertinente in questo caso. Ed è vero che una parte dei consumatori e anche del mondo aziendale è ancora in stato di choc e non ha nessuna intenzione di chiedere soldi alle banche. Il mio amico Mike Mayo, uno dei veterani dell’analisi finanziaria Usa, calcola che solo il trenta per cento dei prestiti accordati dalle banche è utilizzato al momento. Molto meno della media storica del 40-45 per cento. Questa è una realtà che fa buon gioco ai banchieri, soprattutto quando i politici li accusano di non fare abbastanza per far risorgere l’economia. La risposta immediata di un vecchio marpione come John Gerspach, il finance director della Citigroup, alla mia domanda sul calo dei prestiti è stata proprio questa: «Non vuole giocare nessuno. Sono tutti seduti in panchina», mi ha detto. «Non ci sarà tanta domanda per i prestiti fino a quando non si dissipa l’incertezza sul futuro dell’economia». Sarà anche vero, però è troppo facile per le banche scrollare le spalle e dire che non è colpa loro.

La realtà è che la crisi dei prestiti e la flaccidità dell’economia hanno lo stesso rapporto che esiste tra l’uovo e la gallina: senza l’una non c’è l’altra e viceversa. Il fatto che la mentalità da casinò degli ultimi anni sia stata sostituita da prudenza da parte sia delle banche, sia dei consumatori è senz’altro uno sviluppo positivo. Ma senza soldi non si può fare soldi e lo spettro di una stagflazione stile-Giappone diventa sempre più vero per l’economia americana. Non è un caso che Ben Bernanke, il capo della Fed, abbia smesso di fare l’ottimista e abbia ricominciato a parlare di una nuova serie di stimoli monetari per rivitalizzare il Paese. E, con le elezioni del Congresso a Novembre, non c’è dubbio che Barack Obama stia già preparando una nuova dose di stimoli governativi. Se il settore privato non ci mette del suo, starà a Washington riempire il vuoto, con buona pace di quelli che si preoccupano del deficit enorme e delle tasse alte. La ritrosia delle banche a prestare soldi, che tra l’altro non sono neanche loro ma dei risparmiatori, ha messo a nudo il paradosso vissuto dall’America sin dalla fine della crisi. Un Paese che, per tradizione e storia, aborre l’intervento del governo e delle autorità centrali; una classe imprenditoriale che ha basato il suo successo economico sull’individualità e un milieu sociale che ha fatto dello spirito d’avventura un simbolo culturale esportato in tutto il mondo (grazie a Hollywood), sono stati costretti ad andare a mendicare sulle scale della Casa Bianca. Senza il governo (il «Big Government» tanto odiato da Repubblicani e fautori del libero mercato), oggi Wall Street sarebbe in bancarotta, il settore automobilistico sarebbe sparito e l’economia sarebbe in caduta libera. Senza le entrate delle tasse (un altro incubo dei nemici delle «intrusioni» statali nell’economia), la disoccupazione sarebbe al trenta per cento e le aziende avrebbero perso gran parte del mercato interno per prodotti e servizi. Alla fine, un giornalista finanziario può continuare a restare in affitto a New York senza grandi danni, ma il sogno Americano di un capitalismo «puro» e isolato da questioni sociali non è più di casa negli Usa del 2010.


Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times a New York.

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« Risposta #10 inserito:: Agosto 27, 2010, 08:56:57 pm »

27/8/2010

Wall Street, il regista è Hitchcock
   
FRANCESCO GUERRERA

Il film della ripresa economica americana doveva essere una storia edificante di caduta e risurrezione tipo «Rocky», ma gli avvenimenti degli ultimi giorni l’hanno trasformato in un giallo. Secondo il copione hollywoodiano scritto da mercati, politici e banchieri centrali dopo la crisi, ormai dovremmo già essere nel secondo tempo, nel mezzo del clamoroso ritorno di fiamma di una nazione temprata da difficoltà senza pari. Ma dopo un’estate di mosse politiche maldestre, dati catastrofici e mercati nervosissimi, la più grande economia del mondo si trova ingarbugliata in una trama alla Hitchcock, dove niente è quello che sembra e il pericolo è sempre dietro l’angolo.

Ricapitoliamo i fatti. Martedì mattina, per colazione, gli operatori di Borsa a New York hanno dovuto digerire la notizia-bomba che le vendite delle case sono crollate di più del 27 per cento a luglio, il peggiore risultato in 15 anni.

La frana del settore immobiliare è arrivata quando Wall Street aveva appena finito di assorbire la decisione-choc della Federal Reserve di ricominciare a intervenire nei mercati finanziari, cinque mesi dopo aver gridato ai quattro venti che l’economia non aveva più bisogno di tali stimoli artificiali. I banchieri centrali hanno tentato di spiegare la mossa come una bagatella tecnica, una manovra di routine per tenere i tassi di interesse bassi e facilitare la ripresa, ma i mercati non hanno abboccato.

Gli investitori hanno scaricato i titoli azionari come se fossero materiali tossici, leggendo la mossa come un segnale che Washington è preoccupatissima per le sorti della ripresa. I mercati erano già in stato di fibrillazione da quando Ben Bernanke, il capo della Fed, aveva confessato al Congresso che la congiuntura economica è «insolitamente incerta», e le ultime vicissitudini hanno avuto un peso determinante per spingere il Dow Jones Industrials, l’indice guida, sotto il livello chiave dei 10.000 punti. Come mi ha detto uno dei grandi «fund manager» della costa Ovest, un tipo che ha studiato ad Harvard che di solito parla come un libro stampato: «Siamo proprio fregati. Se neanche Bernanke sa cosa fare, siamo proprio fregati».

Il mio amico di Los Angeles ha ragione a perdere la calma. Lo stillicidio di brutte notizie sta aumentando le probabilità del famigerato «double dip», il doppio tuffo nella recessione. Perfino ottimisti inveterati come David Wyss, il capo economista Standard & Poor’s, ora predicono un lungo periodo di ristagno economico à la japonaise. Altro che giallo hitchcockiano, se continua così, la saga dell’economia americana si trasformerà in Nightmare on Main Street con Bernanke nel ruolo di Freddy Krueger. Il dilemma è semplice ma non di semplice soluzione. Ogni Paese caduto nelle sabbie mobili della recessione ha bisogno di una forza trainante che lo trascini sulla terraferma, ma l’America di oggi non ha né trattori né locomotive a disposizione. I consumatori, che costituiscono circa il 70 per cento del Pil statunitense, mancano all’appello per ovvi motivi: hanno pochi soldi e ancor meno voglia di spenderli.

La caduta vertiginosa nelle vendite delle case nonostante il fatto che i tassi dei mutui siano a livelli bassissimi e che il governo abbia lanciato non meno di otto programmi di stimoli per incoraggiare gli acquisti, è veramente preoccupante. A meno di un miracolo, il mercato immobiliare americano è sull’orlo del «doppio tuffo» - un altro calo dei prezzi da aggiungere al crollo del 30 per cento visto durante la crisi. Con le case al ribasso e la disoccupazione intorno al 10 per cento, i consumatori rimarranno fuori dal gioco per parecchio tempo.

L’onere della ripresa dovrà dunque ricadere su altri due attori economici: il settore privato e quello pubblico. Le aziende e le banche non stanno male: gli ultimi risultati trimestrali sono stati positivi, i conti sono in nero e le esportazioni tirano. Il problema è che il mondo dell’industria è ancora in una posizione di difesa, anzi catenaccio: tagliare costi e non spendere nemmeno un centesimo più del dovuto. I capi aziendali con cui parlo utilizzano sempre lo stesso refrain: gli investimenti e gli acquisti arriveranno solo quando l’economia migliora - un discorso sensato in teoria ma contraddittorio in pratica, visto che la congiuntura non migliorerà se gli investimenti non si materializzano. A meno che... A meno che lo Stato non arrivi su un cavallo bianco a salvare l’economia sparpagliando miliardi di dollari freschi di zecca.

Una soluzione keynesiana - spendere adesso, tassare dopo - sembrerebbe ideale in questo frangente e non certo aliena alla mentalità di centro-sinistra di Barack Obama e i suoi. L’amministrazione ha già speso più di 700 miliardi di dollari per far ripartire l’economia e quasi tutti gli uomini del Presidente vorrebbero fare di più. Purtroppo, però, la realtà politica non lo permette. Con i Democratici in gravissima difficoltà nella campagna elettorale per le elezioni parlamentari di novembre, una nuova ondata di spese governative accompagnata dall’implicita promessa di tasse più alte in futuro, sarebbe un assist perfetto per i Repubblicani.

Obama potrebbe avere mano più libera dopo le elezioni, ma dipenderà da quanti seggi vinceranno i suoi avversari, soprattutto gli esponenti della corrente estremista di Sarah Palin. Il federalismo rampante degli Usa consentirebbe ai governi locali di soppiantare Washington nel ruolo di stimolatore dell’economia, ma molti Stati sono con l’acqua alla gola e devono tagliare i costi al più presto per evitare la bancarotta (anzi, visto che abbiamo parlato di cinema, la California di Schwarzenegger in bancarotta già ci è andata).

Rimane ovviamente la Fed. Un paio di alti funzionari con cui ho parlato questa settimana mi hanno accusato di essere un «profeta del disastro», ricordandomi che la Banca centrale ha molte frecce al suo arco per evitare una ricaduta nella recessione o un ristagno stile Giappone. E’ vero che la Fed può esercitare un controllo quasi totale sui prezzi di titoli, azioni e altri beni finanziari e ha le risorse per comprare mutui, obbligazioni e perfino titoli azionari qualora volesse immettere liquidità nei mercati. Ma è anche vero che la Fed, come tutte le banche centrali, ha poteri limitati sulla domanda economica - la voglia di consumatori, aziende e governi di spendere invece di risparmiare - ed è proprio questo che all’America manca oggi.

Forse l’unica soluzione sarebbe ristampare quei poster dell’esercito americano durante le guerre mondiali con una piccola chiosa sotto la faccia arcigna del vecchio signore. «Lo Zio Sam ha bisogno di te... e dei tuoi soldi».

Francesco Guerrera è il capo redattore Finanza del Financial Times a New York.
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« Risposta #11 inserito:: Settembre 16, 2010, 10:23:24 am »

16/9/2010

Lehman, crisi da non sprecare

FRANCESCO GUERRERA

Un venerdì pomeriggio di due anni fa, John Thain, l’amministratore delegato della Merrill Lynch era nel suo ufficio che sbrigava le ultime pratiche prima del weekend quando squillò il telefono. In linea c’era un funzionario del governo statunitense con un messaggio conciso ma chiaro: «Si faccia trovare al quartier generale della Federal Reserve di New York tra un’ora». Thain è un veterano di Goldman Sachs, è stato persino capo della Borsa di New York e non è facilmente impressionabile. Ma quel giorno, capì subito la gravità della situazione: i signori della finanza si dovevano riunire d’urgenza nella sede della Banca Centrale perché la Lehman Brothers, una delle più grandi banche d’affari del mondo, era in fin di vita.

«Di telefonate del genere ne ho ricevute pochissime nel corso dei miei trent’anni a Wall Street - mi raccontò dopo -. E non hanno mai portato buone notizie». Thain aveva ragione. Nel breve spazio di un weekend d’autunno, il settore finanziario e l’economia mondiale furono colpiti da un terremoto da cui devono ancora riprendersi. I miliardi di fondi spesi dai governi per stimolare la crescita, i nuovi limiti sul capitale delle banche stabiliti questa settimana a Basilea, e, soprattutto, l’odio viscerale della gente comune per i nababbi della finanza, sono tutti figli di quei due giorni che cambiarono il mondo.

Quando Thain e gli altri titani di Wall Street uscirono dal palazzo-bunker della Fed quella domenica sera, la Lehman era morta, uccisa da perdite esorbitanti sul mercato immobiliare e consegnata alla storia come la più grande bancarotta di sempre. Aig – il gigante delle assicurazioni – dovette essere salvato dai contribuenti americani con 180 miliardi di dollari. E perfino Goldman, Morgan Stanley e Citigroup furono costrette a prendere soldi dal governo Usa per rimanere a galla. (Anche Merrill scomparsa, comprata dalla Bank of America, che licenziò Thain dopo pochi mesi).

Ma il tonfo di Lehman echeggiò ben oltre i grattacieli di New York. Lo choc nei mercati provocò un blocco quasi totale del commercio internazionale, con investitori ed aziende paralizzati dalla paura di perdere soldi. Mi ricordo bene il panico nella voce di un vecchio amico che mi chiamò da Hong Kong, uno dei porti-chiave per il transito di merci tra continenti, il lunedì dopo il weekend di Lehman. Disse semplicemente: «Le navi-container sono ferme. Non capisco. Sono... ferme».

A ventiquattro mesi di distanza, le navi sono salpate e i mercati hanno superato le paure del dopo-Lehman. Parlamenti e banche centrali stanno cambiando le regole del gioco per impedire alle banche di trasformare ancora una volta l’economia mondiale in una roulette russa i cui proiettili vanno a colpire i posti di lavoro e il tenore di vita degli innocenti. E Wall Street e la City di Londra stanno svecchiando le loro classi dirigenti, nella speranza che una nuova generazione introduca valori e comportamenti meno venali e più morali di quella precedente.

La crisi come atto catartico – un male doloroso ma necessario per purificare un settore finanziario vittima dei suoi successi ed eccessi. E’ un’idea allettante, come i discorsi melliflui di politici e banchieri che ci dicono che ora va tutto bene, che le esplosioni del 2007-2009 non accadranno mai più grazie al nuovo sistema finanziario che stanno progettando.

La realtà, purtroppo, è più complessa. L’attivismo politico del dopo-crisi ha fatto del bene, su questo non c’è dubbio. Costringere le banche a mettere fine ad operazione rischiose e fini a se stesse – come la compra-vendita di titoli con i propri soldi che è stata messa fuori legge negli Usa – e mantenere alti livelli di capitale - come da accordo di Basilea - sono senz’altro sviluppi positivi. Il problema è che gran parte delle riforme introdotte sia nel vecchio che nel nuovo continente curano i sintomi, non le cause, del male.

Quando gli Stati Uniti si trovarono in una situazione simile negli Anni 1930, il governo prese misure drastiche, passando la famosa legge «Glass-Steagall» che separò le banche d’affari dalle casse di risparmio. L’erezione di quel muro tra investitori e risparmiatori fece sì che Wall Street non avesse accesso ai soldi di Main Street e non fosse quindi in grado di utilizzarli (e sperperarli) in attività ad alto rischio.

Nel mezzo secolo seguente – fin quando le banche convinsero il Congresso ad abolire la «Glass-Steagall» - la speculazione e il desiderio di fare soldi rimasero le raisons d’être dei professionisti del mercato, ma senza mettere a repentaglio il benessere dell’americano medio. La recente ondata di nuove regole non comporterà nessun cambiamento fondamentale né nella struttura delle istituzioni finanziarie né nei comportamenti dei loro capi e questo è molto preoccupante. Il ripristino di una separazione netta alla «Glass-Steagall» è forse impossibile vista la complessità delle banche moderne. Ma governi e regolatori avrebbero potuto fare di più. Molto di più.

Un paio di esempi. Se, come sembra, una delle cause della crisi è stato il fatto che il pagamento annuale dei bonus ha creato una mentalità a breve termine tra i banchieri, si sarebbe potuto obbligare le aziende a pagare gli alti dirigenti in azioni che possono essere vendute solo quando vanno in pensione. E perché non decidere che le banche non possono prestare i depositi dei piccoli risparmiatori a hedge funds e altri operatori di mercato? La verità è che, nonostante l’antipatia dei cittadini per la classe finanziaria, le banche sono riuscite a persuadere i politici che misure più radicali le avrebbero danneggiate e messo a rischio la ripresa economica. E visto che i governanti sono anch’essi vittime di una mentalità a breve-termine (la prossima elezione, la prossima intervista ecc, ecc), le lamentele dei banchieri hanno trovato terreno fertile. Vikram Pandit, che, come capo della Citigroup, è un esperto in materia di disastri, mi ha detto di recente: «A crisis is a terrible thing to waste» – Sprecare una crisi è terribile. Lui parlava di altro, ma quella frase dovrebbe essere inscritta su tutti gli edifici governativi di New York, Washington, Basilea e Bruxelles.

*Caporedattore finanziario del Financial Times a New York.
francesco.guerrera@ft.com

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« Risposta #12 inserito:: Settembre 25, 2010, 08:37:12 am »

25/9/2010

Le cifre nascondono la tragedia americana
   
FRANCESCO GUERRERA

Niente da fare». «Comincio a crederlo anch’io». Le battute iniziali di Estragone e Vladimiro, i due anti-eroi di «Aspettando Godot», illustrano perfettamente la situazione economica americana. La banca centrale, il presidente Obama e il Paese intero si sarebbero dovuti rallegrare questa settimana quando gli esperti governativi hanno finalmente dichiarato la fine ufficiale della recessione 2007-2009.

Lunedì, il Comitato per la Datazione dei Cicli Economici (un nome di cui Beckett e Kafka sarebbero stati fieri...) ha deciso che il periodo di flessione economica iniziato nel 2007 è finito a giugno dell’anno scorso. Il che significa che l’economia più grande del mondo è in ripresa da più di un anno – un fatto che un Presidente alla ricerca disperata di voti per le elezioni di mid-term e una Federal Reserve desiderosa di rispondere ai suoi critici non si sarebbero dovuti far scappare.

Ma invece dei fuochi d’artificio, le ragazze pon pon e Madonna che canta l’inno nazionale in diretta sulla Cnn, Washington ha risposto ad un annuncio che sarebbe dovuto essere la fine di un periodo nero con un silenzio spettrale. Il motivo è semplice: la ripresa in America non c’è o se c’è non si vede. E né governo né Fed possono fare granché per stimolarla. Un’analisi troppo pessimista? Il solito giornalista che si innamora delle brutte notizie perché fanno più scalpore? Guardiamo i fatti. Stando alle stime ufficiali, la recessione che abbiamo appena vissuto è stata la più lunga dai tempi della Grande Depressione degli Anni 30.

In 18 mesi d’inferno, più di sette milioni di persone sono state licenziate mentre il prodotto interno lordo è crollato del 4 per cento (quattro volte di più che nella recessione degli Anni 90, per esempio). La disoccupazione, il crollo dei prezzi delle case, e la mancanza di uno Stato sociale decente hanno fatto sì che il patrimonio netto dell’americano medio sia crollato di più del 20 per cento. Per avere un’idea degli effetti psicologici di una tale distruzione di ricchezza, prendete il vostro conto in banca, dividetelo per cinque e sottraete quella cifra dal totale. Ora pensate al futuro vostro e dei vostri cari: paura?, paranoia? disperazione? – tutti sentimenti che hanno attanagliato milioni di americani nell’ultimo anno e mezzo.

Obama parla di speranza, Ben Bernanke, il capo della Fed, promette nuovi stimoli e le banche continuano a dire che i soldi per i prestiti ci sono. Ma la realtà è che per la gente comune, la Grande Recessione del 2007-2009 è stata una tragedia immensa e inaspettata. I dati economici non la dicono nemmeno tutta. L’ultimo censimento della popolazione americana ha rivelato che 4 milioni di persone sono cadute in povertà nel 2009, portando il totale a 44 milioni. Nel Paese dove tutti vogliono l’iPad, i ristoranti servono porzioni enormi e il governo spende centinaia di miliardi in guerre lontane, un cittadino su sette vive con meno di $10.830 dollari l’anno – il reddito minimo per non essere considerati poveri. Per i bambini, le cifre sono ancora più gravi: uno su cinque vive in condizioni d’indigenza.

In questa America grassa, potente e arrogante, ogni neonato ha una fiche da giocare sulla roulette della vita in cui c’è una probabilità del 20 per cento di perdere tutto. Vista la situazione, non è un caso che la Casa Bianca e la Fed non abbiano scritto comunicati stampa trionfalistici per celebrare la fine della recessione. Come ha detto un anziano signore a Obama durante un incontro tra il Presidente e la gente comune, «a dirle la verità, sono esausto. Sono esausto di difendere lei, la sua amministrazione e gli slogan di cambiamento per cui ho votato. Sono molto deluso dalla situazione». Delusione ed esaurimento – due condizioni che non si addicono all’America rampante degli anni del boom, l’America dell’ottimismo e degli immigrati, delle luci di Hollywood e dei banchieri ingelatinati di Wall Street.

La Grande Recessione ha spinto questo Paese verso l’abisso e non sarà facile risalire la china. Anche la storia non sembra essere dalla parte di una ripresa repentina. In passato, a crolli economici seguirono periodi di crescita altissima, il frutto di un rimbalzo quasi naturale nelle attività di aziende e i consumatori. Questo effetto yo-yo – astinenza seguita da ingordigia – non si è materializzato questa volta, in parte perché la recessione è stata più lunga e più severa. Il mio amico Neal Soss, un veterano dell’analisi economica che ora lavora per Crédit Suisse, spiega l’anomalia con un giochino di parole: «Abbiamo evitato la Grande Depressione ma abbiamo una deprimente ripresa».

Per spiegare la situazione ci vogliono gli psicologi, non gli economisti. Le attività produttive sono in atrofia, anche quando i soldi ci sono, perché il Paese è traumatizzato dalla recessione. Le società americane si tengono circa 1.800 miliardi di dollari nelle loro casseforti – un record assoluto – ma hanno paura di investirli in infrastrutture o acquisizioni di altre aziende. E i consumatori, anche quelli benestanti, stanno imitando i giapponesi-formichine, risparmiando ogni centesimo invece di spenderlo. Ma se il problema è davvero psicologico, i signori di Washington possono fare ben poco, soprattutto quando i tassi d’interesse sono già bassissimi, il governo ha speso 780 miliardi di dollari per stimolare l’economia senza grandi risultati, e le elezioni di novembre paralizzeranno l’attività legislativa per mesi. L’economia americana probabilmente eviterà il temutissimo «doppio tuffo» – la ricaduta nella recessione – ma ci vorrà del tempo prima che ritorni a navigare con il vento in poppa. Per ironia della sorte, lo stesso giorno in cui il governo Usa ha determinato la fine della recessione, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha predetto che il tasso di disoccupazione americano rimarrà elevato fino al 2013. L’occupazione è la trave portante della ripresa: senza lavoro, i consumatori non consumano e le aziende non possono produrre più di tanto.

Se l’Ocse ha ragione, ci vorranno almeno due anni prima che l’economia americana si liberi del retaggio della recessione. I politici e i banchieri fanno bene a ricordarci che sarebbe potuto succedere di peggio, che senza gli interventi massicci del governo in settori come la finanza e le automobili staremmo vivendo in una replica della Depressione. La stasi economica del 2010 è senz’altro meglio della crisi del 1930. Ma il ristagno di un Paese che è solito dominare e trainare il resto del mondo non è una condizione positiva, soprattutto per i 44 milioni di poveri. Estragone e Vladimiro lo sanno fin troppo bene: aspettare qualcuno, o qualcosa, senza sapere se e quando arriverà, fa male allo spirito.

*caporedattore finanza del Financial Times a New York.

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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 31, 2010, 10:32:26 pm »

31/10/2010

Pignoramenti, motore della crescita

FRANCESCO GUERRERA

Jeff Horton è una vittima improbabile dell’ultima scossa del terremoto del mercato delle case americano. Trentatreenne distinto che lavora nel settore dell’alta tecnologia in Florida, il signor Horton ha un bello stipendio, due macchine e un conto in banca rispettabile. I suoi problemi incominciano sulla soglia di casa. Il crollo dei prezzi durante il disastro economico del 2007-2009 ha fatto sì che la casetta di Jeff - a Orlando, non lontano da Disneyland - ormai valga circa 100.000 dollari meno di quando la comprò prima della recessione. Non avendo nessuna speranza di recuperare i soldi spesi, questo uomo taciturno e un po’ timido si è dato al «crimine»: ha smesso di pagare il mutuo, tenendosi i 2200 dollari al mese che avrebbe dovuto dare alla banca.

In tempi normali, Horton sarebbe stato sloggiato dopo meno di un anno e la banca avrebbe subito rimesso la casa sul mercato. Ma gli Usa del 2010 non vivono tempi normali e Jeff è ancora a casa. Anzi pensa che ci resterà almeno altri sei mesi. «Non sono stupido», ha detto a una mia collega. «Vivrò qui gratis fino a quando la banca non si riprende la casa».

Jeff e le centinaia di migliaia di americani che, per disperazione o ripicca, hanno deciso di infrangere la legge e non pagano più il mutuo possono vivere sonni tranquilli: il sistema immobiliare made in Usa è talmente marcio che le banche non hanno né i mezzi né la volontà per cacciarli di casa.

Nelle ultime settimane, proprio quando i mercati si stavano tranquillizzando, il settore finanziario è stato colpito da una nuova piaga: dalla crisi delle case alla crisi dei pignoramenti. Uno dopo l’altro, grandi istituti di credito quali la Bank of America e la JP Morgan Chase hanno dovuto sospendere centinaia di migliaia di pignoramenti dopo aver «scoperto» che le loro procedure non erano legali. Le banche hanno ammesso di aver chiesto agli impiegati di firmare centinaia di migliaia di documenti con i dettagli delle persone da cacciare (nome, cognome, importo del mutuo ecc.) senza controllarne la veridicità. Sembra una bega tecnica, ma in America si tratta di un’infrazione molto grave perché questi pezzi di carta vanno presentati in tribunale dove il giudice decide se permettere alla banca di prendersi la casa.

Lo scandalo dei «robo-signers» - i firmatari a mitraglia - ha raggelato gli ardori dei mercati per il settore finanziario, facendo precipitare le azioni delle banche. Nelle ultime due settimane 17 miliardi di dollari sono evaporati dal valore di mercato della Bank of America, il più grande istituto di credito negli Stati Uniti. Gli investitori hanno ragione a essere preoccupati sia per i costi - rivedere 102.000 documenti, come dovrà fare la BofA, non è gratis - sia per le ramificazioni giuridiche di questa débâcle. I procuratori generali in 40 Stati hanno già annunciato un’inchiesta congiunta e anche le autorità federali hanno incominciato a muoversi.

Persino Jamie Dimon, l’agguerritissimo capo della JP Morgan, ha ammesso che le banche saranno costrette a pagare multe abbastanza salate alla fine di questa crisi. Ma le conseguenze di questo imbroglio vanno ben al di là di multe e azioni e coprono tre fronti importantissimi per il benessere del Paese.

Innanzitutto, il blocco dei pignoramenti arriva in un momento poco propizio per la boccheggiante economia americana. La ripresa dipende dalla salute dei consumatori, ma senza un ritorno di fiamma nel settore immobiliare la gente comune non metterà mano ai portafogli. Una delle speranze di economisti e politici era che le case abbandonate da padroni senza soldi per il mutuo ritornassero sul mercato a prezzi ragionevoli, dando la possibilità ai compratori di approfittare di tassi d’interesse bassissimi.

Uno degli effetti più perversi della crisi è che il «settore dei pignoramenti» è diventato un ingrediente fondamentale della crescita economica: una su tre delle case vendute negli Usa oggi è stata figlia di un pignoramento e più di 6 milioni di case in America sono al centro di azioni giudiziarie da parte delle banche, secondo il centro studi Core Logic. Se le banche non riescono a cacciare al più presto Jeff Horton e i suoi compari da case che ormai non pagano più, l’incubo di una stagnazione economica in stile Giappone diventerà sempre più realtà.

Per avere un’idea del problema, cinque anni fa ci volevano in media 302 giorni per completare un pignoramento. Oggi, anche prima della moratoria di BofA, JP Morgan e altri, ce ne vogliono 478. La colpa di questo disastro, però, non è certo di un ingegnere elettronico di Orlando o degli altri anonimi cittadini che si rifiutano di pagare il mutuo.

La disobbedienza economica degli Horton di questo mondo è la diretta conseguenza dell’ennesimo svarione di un sistema bancario che per anni è stato abbagliato dal desiderio di fare più soldi possibile il più velocemente possibile. Lo scandalo dei pignoramenti è l’ultimo anello nella catena della vergogna per le banche statunitensi. Ora possiamo tranquillamente dire che, nel settore immobiliare, i signori di Wall Street non hanno sbagliato molto - hanno sbagliato tutto. Hanno dato mutui principeschi a gente che non se li poteva permettere senza nemmeno controllare le buste paga; hanno preso quei mutui e li hanno trasformati in titoli «tossici» che hanno infettato l’economia mondiale; hanno chiesto miliardi di dollari ai contribuenti per coprire perdite sui titoli-Frankenstein da loro creati. E ora sappiamo che hanno usato sotterfugi e scorciatoie nel dopo-crisi, creando un altro mostro che non sanno come uccidere.

I grandi banchieri possono pure sostenere che «non c’è nessuna prova che abbiamo sfrattato gente che non se lo meritava», come mi ha detto Jamie Dimon di recente.
Ma, vista la situazione politica ed economica negli Usa, le prove non contano più di tanto. Il vero pericolo per le banche non sono gli investitori e nemmeno i procuratori generali, ma i politici di Washington. A differenza dell’ultima crisi - che era incentrata su concetti astrusi e fatti complicatissimi - in questo caso sarà facile per un parlamentare ambizioso - e persino un Presidente impopolare - attaccare le banche e minacciare altre leggi e regolamenti per controllarne gli eccessi. Basterà dire: «I ricchissimi padroni di Wall Street, salvati dai soldi dei cittadini americani, si sono messi a cacciare di casa dei poveri contribuenti senza nemmeno controllare i documenti».

Fin ad ora la Casa Bianca e il Congresso non hanno detto o fatto granché. Ma è quasi un caso, dovuto al fatto che la capitale è deserta in questi giorni con i politici sparsi per il Paese a fare campagna elettorale per le elezioni parlamentari di Midterm del 2 novembre.
Da mercoledì prossimo, però, la politica diventerà molto meno locale e molto più nazionale, con un Parlamento diviso tra repubblicani e democratici e un Barack Obama pronto a lanciare una controffensiva dopo la (probabile) batosta elettorale che patirà il suo partito. Sulla questione dei pignoramenti la scelta tra Jeff Horton e Jamie Dimon non è difficile per una classe politica alla ricerca dei responsabili per la stasi dell’economia.

francesco.guerrera@ft.com
Francesco Guerrera è il caporedattore
finanziario del Financial Times a New York

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« Risposta #14 inserito:: Dicembre 05, 2010, 12:31:35 am »

4/12/2010

L'Europa deve imparare dall'America

FRANCESCO GUERRERA

L’alto funzionario del Tesoro statunitense è ritornato bambino in un istante, chiudendosi la bocca con un’immaginaria cerniera e riaprendola solo per offrirmi un sorriso di scherno e la frase più odiata dai giornalisti: «No comment». Gli avevo semplicemente chiesto un parere sull’Irlanda e le convulsioni di un’Europa che sprofonda nelle sabbie mobili di una crisi economica sempre più seria.

Il silenzio-sberleffo della mia fonte cela preoccupazioni gravi all’interno dell’amministrazione di Barack Obama. Nei corridoi del potere di Washington non c’è sollievo agli stenti della zona euro nonostante le recenti tensioni tra i due blocchi culminate nel rifiuto di Germania e Francia di sostenere le posizioni Usa al summit del G20 sulle cure per l’economia mondiale.

In frangenti come questi, la schadenfreude (il piacere del male altrui) – parola tedesca adottata dalla lingua inglese – è un lusso che nessuno si può permettere. E non solo per altruismo.

Gli uomini del Presidente – quelli senza zip sulla bocca – hanno paura di una «crisi di ritorno»: un malessere che, dopo essere nato in America e aver contagiato l’Europa potrebbe rimpatriare e distruggere l’anemica ripresa Usa. Se l’Europa, che nonostante i balzi giganti della Cina rimane il partner commerciale più importante per gli Stati Uniti, non ricomincia a tirare, gli sforzi americani per tenere il dollaro basso e stimolare esportazioni e crescita serviranno a poco. Invece di vendere merci e servizi al mondo, gli Usa si ritroveranno ad importare beni di cui non hanno proprio bisogno: la deflazione e la recessione made in Europe. Come mi ha detto un banchiere americano che si muove da decenni nel mondo del commercio estero, «Adesso bisognerebbe parafrasare il discorso di Kennedy a Berlino e dire; “Io sono irlandese... e spagnolo... e portoghese... e forse pure italiano”».

Il male comune, però, fa solo mezzo gaudio. Le angustie americane sono accompagnate da frustrazione per il modo in cui la zona euro e la sua banca centrale hanno affrontato i problemi prima della Grecia e poi dell’Irlanda. I signori del Tesoro non lo diranno mai in pubblico ma sono arrabbiati, e forse anche un poco offesi, dal fatto che i governanti europei sembrano aver imparato poco e niente dall’esperienza americana del 2007-2009. Una delle lezioni dell’ultima crisi è che temporeggiamenti, indecisioni e polemiche - la trinità che ha caratterizzato la risposta europea al crollo economico - non fanno altro che esacerbare i problemi e innervosire gli investitori. La Banca Centrale Europea e i ministri delle finanze della zona euro si dovrebbero rileggere i lanci di agenzia da New York e Washington del 29 settembre del 2008.

Quel giorno, poco dopo l’ora di pranzo, la Camera dei deputati Usa bocciò il pacchetto da 700 miliardi di dollari presentato dal governo Bush per comprare beni «tossici» dalle boccheggianti banche. La decisione-bomba fece tremare i mercati internazionali e l’economia mondiale per quasi una settimana – fino al nuovo voto che approvò le misure – e cambiò per sempre l’atteggiamento del mondo politico americano nei confronti della crisi.

Non più compromessi e lunghe discussioni ma «shock and awe» – la tattica militare dello «sciocca e impressiona» (che non ha funzionato in Iraq, ma questa è un’altra storia) ovvero spendere miliardi di dollari per convincere gli investitori, le banche e i cittadini che lo Zio Sam faceva sul serio. Nello spazio di poche settimane, il governo utilizzò 250 di quei 700 miliardi per ricapitalizzare una decina di banche, un’azione senza precedenti nella storia del Paese, e creò altri fondi speciali per comprare mutui, obbligazioni e persino case. Ricordo bene l’espressione tesa ma sicura sulla faccia di uno dei consiglieri di Tim Geithner, allora presidente della Federal Reserve di New York ed ora ministro del Tesoro, quando gli chiesi di riassumere la ricetta Usa per salvare il sistema finanziario. «Compriamo tutto. E se non basta compriamo di più», mi disse. E non stava scherzando. Fu una strategia rischiosa, criticata e probabilmente ingiusta – perché salvare Wall Street quando milioni di cittadini sono senza lavoro? – ma che si è rivelata fondamentale ad evitare il peggio: il passaggio da una recessione dura ma sopportabile ad una Grande Depressione come quella degli Anni 30. Al confronto, la strategia europea sembra più «divide et impera» che «shock and awe», almeno vista dall’altra parte dell’Atlantico.

La tragedia greca e quella irlandese hanno seguito copioni simili: rifiuto di ammettere la gravità della situazione da parte del governo locale, la Bce e l’Unione Europea; crollo della fiducia dei mercati; litigi tra Paesi guida e nazioni «periferiche»; aiuti di emergenza che mettono una pezza ma potrebbero non risolvere nulla nel lungo termine. Una diagnosi troppo negativa? Non secondo i mercati, che dopo il pacchetto-Irlanda hanno venduto euro come se piovesse e costretto Paesi come l’Italia, la Spagna ed il Belgio ad aumentare i tassi d’interesse sul loro debito.

Vecchi amici di Bruxelles con cui ho parlato per questo articolo mi hanno accusato di «voler fare l’americano» – di aver dimenticato le peculiarità e le idiosincrasie di un’Europa composta da nazioni sovrane. E’ vero che i Presidenti americani non sono esposti al fuoco incrociato di interessi nazionali quasi sempre divergenti – la Germania e la Francia e altri Paesi di peso hanno de facto potere di veto su qualsiasi decisione europea mentre la California non può bloccare gli aiuti di Washington alle banche della North Carolina. E non c’è dubbio che gli avvenimenti degli ultimi tre anni hanno dimostrato che nonostante la passione americana per il federalismo, nei momenti di crisi è il governo centrale ad intervenire con soldi e leggi. Ma le (molte) imperfezioni dell’Unione europea non possono essere addotte a scuse per l’incapacità di far fronte ad una crisi senza precedenti.

Non ci dimentichiamo che la creazione dell’euro e della Bce, una banca «centrale» come la Fed, avrebbe dovuto facilitare la cooperazione economica tra diversi Paesi, soprattutto nei momenti difficili. Fino ad ora, però, l’Europa non è stata all’altezza della situazione in parte perché le miriadi di interessi locali, politici e di facciata hanno fatto sì che i suoi governanti non siano stati in grado di riconoscere le due dure realtà imparate dal governo americano nel settembre di fuoco del 2008. In momenti di crisi, gli interlocutori più importanti sono i mercati - non l’opinione pubblica, non la stampa e non gli altri Paesi, ma gli investitori con il potere di fare o disfare economie intere. E i mercati non vogliono parole o lunghi incontri a Bruxelles o Washington ma azioni repentine, decisive ed efficaci. Come disse tanto tempo fa un pensatore, europeo non americano, «il fine giustifica i mezzi».

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Financial Times a New York.
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