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Autore Discussione: Ghino di Tacco brigante e gentiluomo (pseudonimo con cui Bettino Craxi firmava)  (Letto 4108 volte)
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« inserito:: Gennaio 19, 2010, 05:22:58 pm »

Ghino di Tacco, brigante e gentiluomo

di FR

Ghino di Tacco, lo ricorderanno tutti, era lo pseudonimo con cui Bettino Craxi firmava i suoi corsivi sull’Avanti!, dopo aver assunto con orgoglio – in un gesto tipicamente craxiano – l’identità del brigante ghibellino cui Scalfari, per condannarlo, l’aveva paragonato. A Ghino il leader socialista dedicò un romanzo storico (Ghino di Tacco. Gesta e amistà di un brigante gentiluomo, pp. 141, Koiné, Roma 1999) che riserva qualche sorpresa e merita di essere (ri)letto oggi.

La storia è presto riassunta: figlio di Tacco, senese di fede ghibellina e, per questo, giustiziato dal Comune guelfo, Ghino decide di darsi alla macchia: per vendicare il padre, e per non disperderne l’eredità politica. Raduna intorno a sé una banda di ribelli ed espugna la rocca di Radicofani, ai cui piedi scorre la via Francigena, che conduce a Roma: Ghino impone il proprio “pedaggio” a chiunque vi transiti. Il sogno idi Ghino è ricostituire la forza e lo splendore dei ghibellini sconfitti e dilaniati dalle lotte intestine; nel frattempo esercita le virtù del buongoverno sul villaggio di Radicofani.

Quando Bonifacio VIII, finallora suo nemico, gli offre un incarico di prestigio a Roma, Ghino lascia Radicofani e s’installa per tre anni nella capitale. Al suo ritorno troverà una Radicofani molto diversa: “Una volta – è Ghino stesso a parlare – quando ci si impadroniva dei beni dei guelfi lo si faceva per rendere un atto di giustizia pei soprusi subiti. E ora? Che fa Nerio, il mio luogotenente? Continua a taglieggiare, ma non dà alla lotta, né ai poveri. Ci sarà, statene certi!, qualcuno che dirà prima o poi: ‘I ghibellini di Ghino di Tacco sono solo dei volgari ladroni’. Questo si dirà, ed è questa una cosa drammatica che mi disarma e mi distrugge”.

Ghino di Tacco giunse in libreria nel più grande silenzio. In un paese profondamente cattolico come il nostro, che conosce le virtù lenitive dell’oblio e che è sempre pronto al perdono, non si riesce a collocare un uomo così strutturalmente e caratterialmente renitente al pentimento come Craxi; il quale a sua volta, quasi inebriato dal ruolo di capro espiatorio che il naufragio della Prima repubblica gli ha inconfessabilmente assegnato, non sembrò far nulla, ma proprio nulla, per addolcire d’un poco il giudizio per nulla lusinghiero che una certa opinione pubblica aveva pronunciato su di lui.

Vale dunque la pena (ri)leggere questo libro perché ne esce un ritratto dell’autore non del tutto allineato alla pubblicistica corrente. Come se Craxi, ripercorrendo attraverso le vicende di Ghino le sue proprie, si trovasse allora su un crinale psicologicamente decisivo. Come se Craxi sentisse di dover spezzare un cerchio magico che lo risospingeva ogni volta verso un passato di cui, intorno a lui, nessuno sembrava più curarsi davvero: ma faticava a riuscirci, in quell’ultimo anno di vita, e ci riuscì soltanto in parte. Da qui il tono malinconico del libro.

Il solo vero grande amore di Ghino è Gemma, nobile senese. Quando s’incontrano per l’ultima volta Ghino amaramente riflette: “Desiderava forse una vita comune fra uomini comuni, senza più fughe, battaglie, razzie, e senza gli intrighi e le malvagità della politica. Avrebbe potuto vivere in modo semplice e sereno. (…) Poi i due innamorati si lasciarono. Gemma si diresse verso nord per tornare a Siena, e Ghino verso sud-est alla volta di Radicofani”. In questo addio si compie un destino: Ghino non avrà mai una vita “semplice e serena”, prevarranno invece le “malvagità della politica”. A Ghino, naturalmente, la politica e il potere piacciono eccome: però in quell’incontro furtivo – non importa se e quanto autobiografico – c’è la chiave di tutto il libro.

Perché però Craxi – o Ghino per lui – non si chiede come mai i ghibellini son finiti così male? La dinamica dei fatti, per dir così, è chiara: Craxi ripete più volte che “le idee di progresso camminano purtroppo anche sul selciato clei denari”, ed è vero. Bisognerebbe chiedersi se davvero le “ruberie” siano il solo mezzo per finanziare la “lotta”. Ma non è questo il punto. Il punto è che i ghibellini dopo un po’ cominciano a rubare per “avidità” e addirittura per “semplice ladroneria cialtrona”. Ghino se ne accorge, ma fa finta di nulla perché “temeva le divisioni e la debolezza che ne sarebbe derivata”. Però l’unica spiegazione che ci viene data è psicologica, solcata da un profondo pessimismo, ma un poco riduttiva: “Gli uomini fanno presto a cambiare, a tradire anche gli ideali quando non vengano trattenuti, guidati o spronati da chi conosca le debolezze umane e sappia trattarli con la durezza dell’esempio”.

Il Ghino di Craxi è un eroe romantico, forte e burbero, generoso e intrepido, leale e persino un poco ingenuo, che ama la battaglia e la giustizia. La malinconia profonda che attraversa queste pagine, tuttavia, ne stempera gli aspetti più irritanti o stonati, e alla tragedia sostituisce piuttosto un’altra immagine, un’altra tonalità: la vanità delle vicende umane, il capriccio del caso, o del destino, che infine fa giustizia del titanismo delle idee e dei gesti, riconsegnandoci un uomo come tanti, “solo con i suoi sogni”, stanco e sconfitto ed espulso senz’appello da un gioco molto più grande della piccola Radicofani.

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