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Autore Discussione: Se la politica dimentica la lezione morale dell’azionismo  (Letto 2308 volte)
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« inserito:: Gennaio 16, 2010, 03:26:54 pm »

Il Massimo dell’oligarchia.

Se la politica dimentica la lezione morale dell’azionismo

di Giovanni Perazzoli


Ci sono buone ragioni per respingere l’analogia che D’Alema ha istituito tra la sua posizione di dialogo sulle riforme con Berlusconi e quella di Togliatti sui Patti Lateranensi. Tuttavia, c’è un punto molto importante, a proposito di politica elitaria, giudizio
sull’azionismo e analogie tra presente e passato nelle scelte delle classi dirigenti della sinistra, che, nell’attenzione a marcare le differenze, è restato in ombra e che, invece, bisogna mettere in luce perché rimanda a una delle cause più importanti della crisi morale e civile italiana.

La vecchia critica di elitarismo rivolta all’“azionismo” è stata spesso ripetuta da D’Alema. Va osservato che, per D’Alema, l’azionismo è una categoria generalissima, una specie di forma negativa dello spirito politico, che ammorberebbe, in particolare, gli intellettuali italiani. Dal punto di vista storico e politico, il discorso sull’azionismo è naturalmente assai complesso e non può essere trattato in poche parole. Tuttavia, mi pare importante mettere in luce ciò che la cultura politica che si esprime nella critica di D’Alema (e non solo sua) ha sempre lasciato sullo sfondo, e di cui oggi vediamo le drammatiche conseguenze.

In realtà, l’azionismo, inteso proprio come categoria generalissima, assume di riferirsi a ciascun individuo come a un soggetto capace di giudizio e di volontà morale. Dunque, il contrario dell’elitarismo.

Ad essere elitaria è stata, invece, la politica che, a partire da Togliatti, si è perpetuata nel Pci e in chi si richiama ad essa come a un modello. In realtà, però, questo non è uno stile politico specifico della dirigenza comunista o di Togliatti, perché lo è, in generale, dei sistemi autoritari e poco o niente affatto democratici.

Elitaria, nel senso specifico, è la politica che si costituisce come un accordo tra elite. Che cosa è stata l’accettazione del Concordato da parte di Togliatti (e del Pci) se non un accordo tra élites? Il Pci e il Vaticano; il Pci e la Dc. La storia politica italiana del dopoguerra, più che in altri paesi europei, si è spesso risolta in un accordo tra élites, che non ha contribuito alla formazione di una coscienza civile nazionale. L’elitarismo, quello vero, non si rivolge, infatti, a individui, ma a “masse” da assecondare e governare, in cui i cittadini non sono individui ma “cattolici”, oppure “classe operaia”.

Si lamenta che gli italiani non hanno la tempra morale necessaria per scrollarsi di dosso lo scempio di Berlusconi e della sua corte. Ma l’indebolimento morale degli italiani ha una storia lontana. Viene proprio da quella politica elitaria e di élites, che ha sempre offerto un modello, più che di “realismo”, di cinismo. Che ha guardato al “popolo” attraverso il “credo” di partito, cattolico o comunista, con la relativa casta di sacerdoti, che si è sempre sentita autorizzata ad essere superiore alla legge e interprete delle ragioni profonde storiche e morali. Altro che intellettuali astratti! Questo cinismo provinciale ha prodotto un’allucinata e astratta classe politica, e un paese corrotto e passivo. Privo di una “religione civile”, il nostro paese è sprofondato nei suoi mali di sempre, con un eccezionale sfoggio di cafoneria. Che forse l’elitarismo azionista ci avrebbe evitato.

Il grande manifesto contro l’oligarchia partitica che è la famosa intervista di Berlinguer con Scalfari sulla questione morale è forse l’ultima grande analisi che un uomo politico abbia prodotto in Italia. Ma anche quell’analisi – così lucida, attuale e, direi, eretica e isolata – è restata inerte. Ed è restata inerte appunto perché la politica elitaria, e poi di casta, del partito (e dei partiti) si è dimostrata assai più forte. Berlinguer, si è detto, era un moralista fuori del mondo. Ma fuori da quale “mondo”?

Le parole di Berlinguer avrebbero potuto essere quelle (moralistiche e astratte, naturalmente) di un'azionista. In realtà, e forse questo, in qualche modo, viene incontro al giudizio di D’Alema, l’azionismo del Partito d’Azione ha espresso una posizione politica di carattere europeo, che poche speranze aveva di sopravvivere in un contesto italiano dominato dalle visioni totali e autoritarie del cattolicesimo e del comunismo e dei loro relativi partiti. La continuazione di questa politica elitaria si è trasformata fatalmente in politica di casta.

Adesso l’oligarchia vuole dedicare una strada a Bettino Craxi. Il Riformatore, l’Innovatore. Bisogna prestare attenzione alle motivazioni di una tale surreale decisione, che, declinate al passato remotissimo, vanno a pescare nella lontana opposizione tra riformisti e massimalisti (ci manca solo un riferimento a Bernstein!). Un po’ poco originale, come “sovrastruttura”. Ma è solo dal profondo della provincialità a cui le nostre “classi dirigenti” hanno condannato l’Italia, che si può credere che Bettino Craxi possa aver avuto a che fare con il riformismo o con la socialdemocrazia europea.

In realtà, Craxi ha portato i socialisti sempre di più dentro l’oligarchia, distruggendo, più che sviluppando, i margini di possibilità che il partito socialista avrebbe potuto avere di incarnare, in Italia, una forma moderna di sinistra europea o di coadiuvarne la nascita. E appunto, l’inizio poteva far sperare di meglio, visto che i socialisti, insieme agli azionisti e ai repubblicani e a una parte dei liberali, votarono contro il riconoscimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione. Anni dopo, fu Craxi a rinnovarli.

Che cosa la politica cinica ed elitaria abbia lasciato dei valori ideali della sinistra lo possiamo vedere, del resto, in Calabria.
Per anni si è tollerata (per essere ottimisti) la schiavitù in una regione governata, tutto sommato, dal centro-sinistra. In nessuno stato europeo una situazione simile sarebbe stata possibile. In Francia gli immigrati (di seconda o terza generazione) si sono rivoltati dalle loro banlieues – con acqua, luce e servizi – mantenuti, se necessario, dai sussidi di disoccupazione (come tutti gli altri cittadini francesi), istruiti nelle scuole; in Italia si sono rivoltati dai silos di metallo, dalle catapecchie, tra topi, fango e campi di lavoro da schiavi. E sono gli unici che si ribellano contro le mafie.

La politica di casta della sinistra, che è l’altra faccia dell’autoritarismo, ha lasciato, più che dei valori o degli ideali, un senso di appartenenza retorico, cavilloso e sterile. Poco o niente sembra essere rimasto, invece, nella coscienza di questo paese, almeno a giudicare dai grandi numeri, delle lotte più importanti. Poco è rimasto delle lotte dei braccianti, poco della lotta per la legalità, poco dell’uguaglianza e dei diritti dei lavoratori.

E bisognerebbe aggiungere, a proposito di élites e di politica elitaria, che, al di là del tanto celebrato consenso popolare, Berlusconi non avrebbe mai potuto mantenere il potere che ha, senza la compiacenza proprio di quelle élites – economiche, religiose, politiche, dell’informazione etc. – a cui, evidentemente, poco o nulla interessa della democrazia e della vita morale di questo paese. Lo strapotere televisivo di Berlusconi, senz’altro importante, non deve far dimenticare l’ovvio: che in un paese complesso e articolato non si fa molta strada senza il consenso di tanti altri poteri.

(12 gennaio 2010)
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