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Autore Discussione: Vanni Ronsivalle. Maronì e l'odissea per arrivare tra la gente di Rosarno  (Letto 2537 volte)
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« inserito:: Gennaio 14, 2010, 12:32:33 am »

Il clandestino Maronì e l'odissea per arrivare tra la gente di Rosarno

di Vanni Ronsivalle


Il clandestino Maronì è finalmente arrivato a Rosarno. Stanco, avvilito, spaventato ma felice di essere scampato alla tempesta in un Adriatico che di questi giorni sembrava come doppiare Capo Horn, uno Jonio che avrebbe terrorizzato il Capitano Hatteras, il Capitano Achab, il Capitano Nemo e forse persino Cook. E dire che gli scafisti, al momento di intascare la sua quota per la traversata, da lui che aveva subito dichiarato di non saper nuotare, anzi che il mare aperto gli incuteva un superstizioso terrore da veneto lagunare, lo avevano tranquillizzato. Ogni sogno per realizzarsi comporta sacrifici, rischi. Spese. Insomma denaro. Poi in vista della costa calabra non avevano esitato, e fischiettando la canzoncina di ben altre stagioni politiche «Pietà l’è morta» lo buttarono fuori bordo dal gommone; benché una migrante incinta si fosse offerta di annegare al suo posto e lui le avesse assicurato la sua riconoscenza. Cattolico, o non si sa, ma avrebbe pregato per lei. Vallo a provare, dopo.

Da una corvetta della Guardia Costiera, contravvenendo alle disposizioni del ministro dell’Interno, gli gettarono una ciambella a cui si aggrappò ballonzolando sui marosi, riuscì ad entrarvi con la testa poi con il corpo da falso magro ed infine il mare, cattivo ma misericordioso, lo sputò sulla sabbia di... chissà. A questo punto il clandestino Maronì, con l’accento sulla ì, aveva perso tutto; ciò che gli rimaneva dei risparmi di una vita per pagarsi quel viaggio e, una volta a terra, avere di che comprarsi una cucchiaiata di polenta; ma lì vi era un malinteso culturale; il privilegio di mangiare polenta e in anni lontani solo quella a rischio di pellagra, le popolazioni del sud che lo attendevano a braccia aperte non lo conoscevano. Pochi spiccioli, ma il buon cuore della gente di Rosarno – una volta che vi fosse arrivato – lo avrebbe aiutato; e lui si sarebbe sdebitato raccogliendo pomodori gratis per i primi tre giorni, arance e limoni per la settimana successiva accontentandosi di pochissima paga. Quella giusta sarebbe venuta dopo quel breve, regolare tirocinio.

Dormì dietro un cespuglio salmastro, venne a cercarlo un «caporale»; gliene avevano parlato e gli si affidò toto corde. Non aveva i gradi di caporale cuciti sulla giacca; ma i modi sì; spicci. Scherzò subito sul consegnarlo ai carabinieri, alle guardie, a quant’altri erano contrari al suo sbarco e l’avrebbero sbattuto in carcere. O rispedito in quelle terre venete da cui dolorosamente, questo sì, era fuggito... (e giù la lista dei suoi doveri, una specie di catechismo o manuale del Perfetto Clandestino e/o Ultimo della Terra).

Il Caporale non condivise la sua formale protesta sul comportamento degli scafisti, gli consigliò paternamente di non fare menzione di quella loro bizzarra trovata di portare a terra (si fa per dire) la gente imbarcata. E, iperbole di uno con evidenti tendenze da irresistibile umorista, gli garantì che se fosse venuto meno a quella raccomandazione sarebbe stato ucciso, fatto a pezzi, sciolto nell’acido che era un modo come un altro di licenziarsi dal mondo; ma non tra i più frequenti nel testamento biologico; il caporale non ne era comunque un assertore. Anche i «caporali» hanno un Padre Spirituale... Questo gli disse, mentre marciavano verso il luogo aprico e confortevole, così glielo avevano garantito, in cui avrebbe finalmente dormito, guardato in tv Bruno Vespa, si sarebbe riposato e all’indomani dato il meglio di sé in quel dedicarsi ai piaceri dell’agricoltura in grande stile. Un’opera generosa e buona la sua, verso quei signori di Rosarno impediti da un destino triste ed avverso dal poter lavorare nelle loro piantagioni di ortaggi, nei loro giardini di agrumi; gente che faceva pena e si disperava privata dalla voluttà di rompersi la schiena dall’alba a notte fonda tra i tentacoli di quelle piante di pomodoro, sostenute da canne taglienti come rasoi sulla faccia, dal piacere di sentirsi bruciare la faccia e le mani dopo un contatto prolungato con le foglie urticanti... O, se nello spiaccicarsi di quei rossi globi il sugo acidulo colava a lungo sulla pelle, di averla al fine piagata.

Evviva, disse il clandestino Maronì riconoscente e trottando dietro al «caporale», benché allo stremo delle forze raccolse tutte quelle che gli rimanevano per esternargli la sua gratitudine. Salì su un camioncino, vi fu chiuso con altri umidi sconosciuti. Quando arrivarono al tugurio, alla spelonca, alla casamatta mai finita di costruire, abusiva come tante ne avevano lasciate sul litorale, già sgretolata, rotta, con il ferro dei tondini spettinati che scappavano dal cemento rotto il clandestino migrante Maronì, dopo aver inutilmente segnalato la necessità di appartarsi per un bisognino, vi fu sospinto amabilmente. Rotolò nel mucchio di altri clandestini malconci ed ammalati; peggio di quando erano approdati nuotando tra i cadaveri degli altri clandestini, annegati per la loro incapacità di tenersi a galla. Quando a quattro zampe, ravviandosi per decenza estetica il ciuffo sparuto e sfregandosi gli occhioni espressivi e sporgenti, provò ad uscire da quel girone infernale in miniatura e gridare nella notte il suo disappunto per le bizzarre caratteristiche della dimora che aveva tutta l’aria di essere definitiva, il «caporale» tornò e gli dette un calcio in bocca. Maronì pianse, ma si addormentò convinto che fosse tutto un incubo passeggero; all’indomani, pagato il suo obolo di sacrifici e rischio (quello di morire l’aveva esaudito tutto) non dubitò che il sogno si sarebbe realizzato ed il buon cuore della gente di Rosarno l’avrebbe fatto ricredere circa qualche dubbio sull’affidarsi ai luoghi comuni, come l’umanità del prossimo. Non era ancora l’alba quando urla e richiami che avevano più dell’imprecazione e dell’insulto lo esortarono a cominciare quella nuova vita; il clandestino Maronì si precipitò incontro a quel futuro agognato, sicuramente radioso; pronto a giurare non solo sul buoncuore ma sulla civiltà di quelle popolazioni a cui lui avrebbe contagiato ottimismo e fiducia distogliendoli dalla pena per la mancata raccolta dei loro pomodori, amen.

Lo precedevano due o tre altri clandestini con cui non vi era stato il tempo di scambiarsi correttamente le presentazioni. Tutti e tre si presero le prime schioppettate. Il Maronì ebbe un orecchio bucato da un proiettile sparato da un fucilino ad aria compressa, mettendo i soldi da parte avrebbe potuto un giorno acquistare un monile, uno soltanto bastava, da appendere a quell’orecchio e tornando lassù così adornato (questo era il lieto fine del suo sogno) tra la gente del paese natale, esibirlo come segno del suo successo nella vita, del suo coraggio e dell’accoglienza, della sicura bontà di quel paese cristiano, devoto, dedito ad una danza che ahimè non aveva avuto tempo di apprendere. Si chiamava?...Si chiamava? Tarantella? No. Mazurca? Non proprio. Aveva un nome quasi così, da ballo popolare: ‘ddrangheta, ddrangheta, ddrangheta, trallallà.

12 gennaio 2010
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