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Autore Discussione: MIMMO GANGEMI. Il diritto di non essere eroi  (Letto 2455 volte)
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« inserito:: Gennaio 05, 2010, 10:26:06 am »

5/1/2010

Il diritto di non essere eroi
   
MIMMO GANGEMI


Novità sconvolgente l’attentato, con bomba, sul portone della Procura Generale di Reggio Calabria. Non è nello stile ’ndrangheta, sempre accorta a mostrarsi sonnecchiante, o a non mostrarsi affatto, sempre accorta a non sfidare lo Stato.

L’istinto mi ha suggerito che le grandi famiglie di ’ndrangheta si saranno risentite per un’azione scellerata che non giova proprio ai loro affari.

Poi ho pensato che invece possa essere stata concordata dalle ’ndrine più potenti.

Il tutto allo scopo di mettere paura, e il freno, a inchieste giudiziarie importanti ed efficaci che finalmente si cominciavano a sentire dopo anni di silenzio. In questo caso, un errore di valutazione, per non aver previsto la risonanza nazionale, con tutto ciò che ne consegue, per primo l’obbligo di una robusta risposta dello Stato. L’altra ipotesi, la più disastrosa e inquietante, è che si tratti di un cambio di strategia, stile Cosa Nostra. Qui la domanda da porsi è se sia una strategia condivisa, non essendo la ’ndrangheta un’organizzazione unitaria, ma una miriade di strutture piramidali che hanno trovato il modo di convivere. Il tempo chiarirà.

Resta che la ’ndrangheta è padrona del territorio. E che noi calabresi siamo prigionieri di pochi che governano tutto.

L’attentato alla Procura fa coppia con un altro episodio eclatante: l’assassinio del presidente del Consiglio Regionale Francesco Fortugno.

Mi rimbombano ancora in testa le parole di allora del presidente Azeglio Ciampi: «Calabresi, reagite, l’Italia è con voi». Beh, era chiedere troppo. E noi infatti non abbiamo reagito. Perché qui dobbiamo continuare a vivere. Assieme alla ’ndrangheta. Che è un’organizzazione potente, spietata, appena sfiorata dal fenomeno del pentitismo. La ’ndrangheta è dura da sconfiggere, perché entra nelle case, sorride e porge la mano, lusinga, soccorre a volte - seppure ne chieda sempre il prezzo - e si compone di gruppi di famiglia difficili al tradimento. Qui la ’ndrangheta sono le persone che incontri per strada e con cui scambi parole e cortesie, qui è forte delle ricchezze accumulate dal niente, qui fa invidia ed esempio. Qui diventa Stato, se ne sostituisce. Questo ha imparato a farlo bene: ormai non si accontenta di orientare i voti su persone gradite, ma candida i suoi rampolli, prova a farli sindaci, deputati regionali, parlamentari. Adesso può, perché li ha mandati a studiare, li ha armati di lingua e del sorriso accattivante, ha dato loro modi che ingannano di rispettabilità.

Danni ne ha anche causati lo Stato, con il tentativo, mal riuscito, di spacciare, attraverso falsi successi, un controllo del territorio che invece era ed è della ‘ndrangheta. Non tanto perché si sia impadronita di posti inaccessibili. Ma per la capacità di creare nelle popolazioni un distacco psicologico rispetto a ciò che succede intorno. E quindi rispetto alle istituzioni.

Il calabrese non reagirà se prima non si mostra lo Stato, dando segni concreti di presenza. È stato troppo spesso indifferente, lo Stato. Non basta che si mostri in occasione di morti eccellenti, di casi eclatanti. Deve esserci sempre. Senza tapparsi gli occhi di fronte alle fortune che cambiano padrone o a un mondo imprenditoriale in mano a pochi.

Sia Stato. E non ci chieda di diventare eroi.

Poi l’Italia non è davvero con noi. Con noi ci siamo soltanto noi. All’indomani del clamore, l’Italia se ne va. È sempre successo così. E magari torcerà il muso davanti ai tg mentre se ne sta su una comoda poltrona dentro una comoda casa di una comoda città. Noi invece, crocifissi qui.

Non sono di molti anni addietro certi giornalisti di certi servizi televisivi. Impavidi, ci davano lezioni di civiltà, fustigavano l’omertà, le bocche cucite, bollavano con sarcasmo quanti non avevano avuto il coraggio di farsi intervistare o di mostrarsi, di sillabare un nome, una condanna. Il prode, però, il giorno dopo frapponeva mille chilometri di distanza. Facile essere eroi con il posteriore degli altri. Ci sarebbe piaciuto vederlo restare ancora un mese, solo e senza protezione, nei luoghi dove era stato l’impavido di una sera.

Un vecchio, all’indomani di un delitto eccellente e dell’arresto di un suo paesano, poi rivelatosi innocente, interrogato da un «prode televisivo» su chi comandasse lì e sull’ambiente che si viveva, si fece pensieroso, si lisciò il mento, ciondolò su e giù la testa e disse infine, con voce lenta: «Qua il più onesto sono io, e mi merito trent’anni di galera». Scherzava, naturalmente. Ma che altro avrebbe potuto fare se non glissare la prima e scherzare sulla seconda? Magari il prode pretendeva che dicesse «sì, qua l’ambiente è così e così, i malavitosi sono Tizio e Caio, le persone perbene queste altre...».

Tempo fa a un sindaco onesto un altro prode chiese se ci fossero rapporti organici tra politici e ’ndrangheta. Alzò le spalle e non disse nulla. Poi, rivolto a me suo amico, «mi chiedeva se ci sono intrecci tra politica e ’ndrangheta» disse stringendosi le guance tra le mani e sbattendo la testa di qua e di là. «Possibile non sappia che qui spesso politica e ’ndrangheta sono la stessa cosa, che è tutta una famiglia ormai?». Certo, ha generalizzato troppo. Individuando però un sintomo preciso, di una terra che scotta di febbre alta.

Eccola l’Italia. Ci vuole eroi. Ci vuole insigniti di medaglie alla memoria. S’accorge di noi solo quando il boato è troppo forte. E non fa caso alla vita che qui si conduce. È un regime di libertà condizionata. Parvenza di libertà. Liberi finché non si cozza con gli interessi anche minimi dei pochi che decidono i destini di tutti. A tal punto da non poter comprare impunemente un pezzo di terra confinante, né vendere a chi più aggrada, né partecipare agli appalti, né mettere su un’attività. Né, a volte, votare le proprie idee. Tanta ancora la gente che le deve sottomettere al bisogno. Conosco un tale, già attivista del Pci, che credo non abbia potuto votare una sola volta il suo partito, perché puntualmente non trovava spazi per negare a uno che con il sorriso gli imponeva di «favorire un amico».

Finisce che dalla libertà condizionata si decide di passare agli arresti domiciliari. E ci si rintana dentro casa, nulla si fa per progredire, si sogna un futuro altrove, si fa finta di non vedere. Ecco perché noi calabresi non reagiremo. Intendiamo esercitare il sacrosanto diritto di avere paura. Qui siamo impregnati di ’ndrangheta. Li troviamo ovunque, anche nei cortei antimafia, li troveremo, ne sono sicuro, persino nei cortei di protesta che qualcuno organizzerà per l’attentato alla Procura. Magari in prima fila, con le facce più afflitte, con la voce che si leva più alta alla condanna. Magari con la fascia di traverso o dietro un vessillo importante. Perciò, cominci lo Stato.

E non sia che si debba dar ragione a quanti, da più parti, rimpiangono i capibastone di una volta, e rincorrere l’idea, sempre più emergente, che almeno a quel tempo una qualche regola c’era e c’era pure a chi rivolgersi per ripararsi da un torto.

Cinquantanove anni, calabrese di Santa Cristina d’Aspromonte, Mimmo Gangemi per oltre trentacinque anni ha fatto l’ingegnere nella sua regione. Ora è in pensione. L’anno scorso ha pubblicato presso Einaudi-Stile libero Il giudice meschino, un romanzo-commedia amaramente ironico sui rapporti sociali e di potere in Calabria. Gangemi vive a Palmi.

da lastampa.it
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