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Autore Discussione: LUCA MERCALLI.  (Letto 39242 volte)
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« inserito:: Dicembre 07, 2009, 11:20:55 am »

7/12/2009
Il complotto dei climatologi
   
LUCA MERCALLI


Il 18 gennaio 1989 si chiudeva a Torino la conferenza internazionale «Atmosfera, clima e uomo». Nel rapporto conclusivo si leggeva: «Gli effetti involontari della crescita economica nell’alterare i processi atmosferici globali costituiscono una seria minaccia alla sicurezza internazionale e al futuro dell’economia globale».

Né l’incertezza scientifica né la mancanza di precise conoscenze devono essere ragione di ritardo o inazione». Le soluzioni proposte coincidevano con quello che otto anni dopo sarebbe diventato il protocollo di Kyoto: riduzione delle emissioni inquinanti, efficienza energetica, energie rinnovabili, riciclo dei rifiuti e minori sprechi di materie prime, stop alla deforestazione, investimenti nella ricerca.

La conferenza non suscitò tuttavia né interesse né accesi dibattiti. Eppure non era stata indetta da un gruppo di ambientalisti, bensì dalla Fondazione Sanpaolo di Torino: ebbe luogo nel nobile salone di piazza San Carlo della banca torinese, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. I pochi ricercatori di punta di allora sostenevano con coraggio quanto nei vent’anni successivi è stato confermato dai fatti: la concentrazione di CO2 nell’aria era a 350 parti per milione ed è oggi a 390; i dieci anni più caldi degli ultimi secoli dovevano verificarsi tutti dopo il 1997; la rovente estate 2003, causa di 35000 vittime in Europa, non si era ancora verificata; la mummia Otzi, antica di cinque millenni, non era ancora emersa dal ghiacciaio altoatesino del Similaun; la banchisa del mar glaciale Artico non si era ancora ridotta come nel 2007.

Oggi disponiamo di una quantità impressionante di ricerca scientifica sul clima, supercalcolatori, carotaggi polari, nuovi satelliti, migliaia di ricercatori, un’agenzia delle Nazioni Unite - l’Ipcc - le cui conclusioni hanno confermato le affermazioni di vent’anni fa. Eppure proprio ora che le evidenze aumentano, la confusione impera, dubbi e maldicenze si insinuano sull’operato dei climatologi e tira aria di complotto. Ma mettiamoci dal punto di vista di un investigatore: manca il movente. Difficile pensare che gli scienziati riuniti a Torino nel 1989 fossero in malafede e avessero architettato tutto per arrivare - vent’anni dopo - a favorire la lobby dei pannelli solari. C’erano modi più semplici e rapidi di guadagnare! Difficile pensare alla volontà dei governi di fregare tutti i loro amministrati con nuove tasse sui combustibili fossili: la convenzione quadro sui cambiamenti climatici, emanata nel 1992, è stata firmata da 188 Paesi, ognuno con i propri interessi da tutelare, incluso il commercio di petrolio e carbone.

Come si può pensare che l’Arabia Saudita abbia la stessa visione delle Isole Tuvalu e insieme complottino contro di noi poveri mortali? E per cosa? Tuvalu ha paura di finire sott’acqua, l’Arabia vuole lucrare sul petrolio. Entrambe però hanno accettato una posizione diplomaticamente equilibrata che concorda sul problema epocale che abbiamo di fronte. E dunque, perché sulla questione climatica si assiste oggi a un accanimento ideologico che la vuole destituire di fondamento? È forse così terribile la ricetta di Copenhagen? Chiede di amputare una gamba sana o invita a fumare di meno? Un mondo che va a energia solare ed eolica, ha automobili che inquinano meno, case ben isolate che non disperdono l’energia, aria urbana più respirabile, garanzia di salvaguardia per le foreste tropicali, moderazione nell’uso delle risorse scarse e riciclo dei rifiuti, è forse così detestabile? Non ci dovremmo arrivare comunque, clima o non clima?

Di fronte a una Terra sempre più affollata e inquinata, con il petrolio che tra breve mostrerà la spia della riserva, Copenhagen consiglia di prendere due piccioni con una fava. Essere più efficienti in un mondo che non ha risorse infinite, è sempre una vittoria. Dall’altro lato c’è invece la prudenza: oltre tre gradi in più a fine secolo, l’aumento dei fenomeni estremi e del livello dei mari, la stabilità dell’agricoltura e della biosfera dalle quali dipendiamo, non sono certo uno scherzo. È in gioco la qualità del nostro futuro e chi punta i piedi contro Copenhagen, ha interessi probabilmente molto più espliciti da difendere.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Dicembre 20, 2009, 10:19:59 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 20, 2009, 10:19:39 am »

20/12/2009
 
Ma almeno il problema ora esiste
 
LUCA MERCALLI
 
Forse avevamo caricato la Conferenza di Copenhagen di troppe aspettative. In fondo si tratta pur sempre del più complesso negoziato internazionale mai intrapreso nella storia dell’umanità.

Mettere d’accordo 193 Paesi, praticamente tutto l’orbe terracqueo, è ovvio che non è impresa semplice. E allora guardiamo non a ciò che Copenhagen non ha partorito - un accordo condiviso legalmente vincolante sulla riduzione delle emissioni climalteranti - bensì a ciò che ha invece raggiunto. Il primo risultato è che i governi di tutto il mondo non mettono in dubbio il problema climatico, la sua importanza e la sua urgenza, anzi aprono così il comunicato ufficiale: «Noi sottolineiamo che il cambiamento climatico è una delle più grandi sfide del nostro tempo».

La consapevolezza c’è e la volontà di agire pure. Il fatto stesso che l’accordo politico plenario sia stato inficiato proprio dall’opposizione di uno stato minuscolo come le isole pacifiche di Tuvalu, è sintomatico: non era l’Arabia che difendeva il suo petrolio, ma la quarta più piccola nazione del mondo, ventisei chilometri quadrati e 11.500 abitanti, minacciata dall’aumento del livello marino causato dalla fusione dei ghiacciai e dall’espansione termica delle acque. Un’opposizione affinché il nuovo trattato fosse più incisivo di quanto l’asse Usa-Cina avrebbe voluto. Gli obiettivi sono però ormai accettati da tutti: contenere l’aumento della temperatura mondiale entro un paio di gradi, ridurre significativamente le emissioni di gas serra e ad aumentare i finanziamenti a favore dei paesi in via di sviluppo.

A questo punto l’Accordo di Copenhagen, come ha detto Yvo de Boer, segretario esecutivo della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici «pur non essendo tutto quello in cui si era sperato, è un primo passo importante; ora la sfida è arrivare ad uno strumento legalmente vincolante tra un anno in Messico». Non si discute dunque sui fini, ma solo sulle modalità. L’importante è che il processo di perfezionamento del trattato prosegua senza sosta, e non ci sono motivi di pensare il contrario. Semmai questa pausa di riflessione può servire a correggere il tiro, anche da parte dell’informazione di massa. Uno dei luoghi comuni che più ostacolano la presa di coscienza collettiva è la questione dei costi. A Copenhagen i paesi sviluppati si sono impegnati a raggiungere l’obiettivo di trasferire cento miliardi di dollari all’anno entro il 2020 verso i paesi in via di sviluppo, per favorire la riduzione delle emissioni.

C’è la diffusa convinzione che questa voce rappresenti solo un costo, uno spreco, soldi buttati. Ma è vero? Dove vanno questi denari? Non sono forse investimenti per la ricerca scientifica, il trasferimento tecnologico, la difesa delle foreste tropicali e della biodiversità, l’adozione di nuovi cicli produttivi più rispettosi dell’ambiente nel suo complesso e non solo del clima, la riduzione dei rifiuti, l’ottimizzazione dei trasporti? Certo, è vero che per fare investimenti di tale portata bisognerà spostare dei fondi da alcuni settori dell’economia ad altri che stanno emergendo, è vero che toccherà introdurre nuovi meccanismi di tassazione, di incentivi e di sanzioni. Ma alla fine il gioco vale la candela. Chi perderà un po’ dei suoi margini di guadagno attuali, godrà comunque di vantaggi collettivi e avrà pure tutto il tempo per riconvertirsi a una nuova economia più sobria e meno impattante sull’ambiente. E se queste somme, ci auguriamo in crescita, verranno spese bene, forse tra qualche anno avremo case che consumano un decimo dell’energia che usiamo oggi, avremo automobili forse più piccole ma molto più efficienti, avremo prodotti più riciclabili e meno tossici per la salute nostra e della biosfera.

Lo sviluppo delle energie rinnovabili è poi un passaggio cruciale per l’umanità, anche se non ci fosse la grana climatica. Perfino l’International Energy Agency ha riconosciuto che siamo in prossimità del picco di estrazione petrolifera. Se non ci muoviamo ora a progettare un futuro meno dipendente dall’energia fossile, quando dovremmo farlo? Quando saremo in guerra per spartirci l’ultimo barile di petrolio? I soldi di Copenhagen sono ben altro che buttati via.

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 28, 2009, 09:58:48 am »

28/12/2009

Costretti a salvare anche chi sbaglia
   
LUCA MERCALLI


Con un bollettino di rischio valanghe di livello quattro su cinque non si dovrebbe partire per un'escursione fuori pista. Se lo si fa, si deve essere consci di mettere a repentaglio la propria vita.

E alcune amministrazioni pubbliche stabiliscono, a titolo dissuasorio, che la salata fattura dell'eventuale soccorso sarà a carico dell’infortunato o dei suoi familiari in caso di morte. Ma come affrontare il problema dell'incolumità dei soccorritori? Se un'operazione di recupero si svolge sotto la minaccia di nuove valanghe o durante forte maltempo che riduce i margini di sicurezza degli elicotteri, cosa bisogna fare? Astenersi e lasciar morire qualcuno o tentare la roulette russa? La risposta non è facile e attinge ai più profondi valori umani.

Per definizione, chi offre la propria competenza, il proprio coraggio e la propria abnegazione per salvare qualcuno, non si pone la domanda se costui sia un imbecille o un criminale degno o no di essere salvato. Se così non fosse, le ambulanze non dovrebbero mai affrontare pericolosamente il traffico a sirene spiegate per salvare un ubriaco causa di incidente stradale, né si sarebbe mai dovuta rischiare la vita a soccorrere le vittime di un terremoto in case moderne che violavano le normative antisismiche, oppure gli alluvionati in edifici abusivi costruiti sul greto di capricciosi torrenti.

Insomma, lo sfogo di Bertolaso è comprensibile in quanto pronunciato sotto lo stress dell'emergenza, ma inattuabile in pratica: in ogni situazione drammatica i soccorritori tentano sempre il massimo compatibile con le loro capacità tecniche e i mezzi a disposizione, ma si astengono giustamente dal dare giudizi. A questo penserà dopo la magistratura. Il prezzo da pagare è che ogni tanto, per fortuna raramente, le cose vanno male anche per i soccorritori.

Soluzioni? Tanta, tantissima informazione e prevenzione. A chi scia fuoripista, non ci si stancherà mai di ripetere che la neve è un elemento mutevole e instabile, che i bollettini di rischio servono proprio per non trasformare il divertimento in tragedia, che bisogna sempre portare con sé l'apparecchio di localizzazione Arva. Ma si ripete da sempre che anche superare i limiti di velocità sulle strade aumenta il rischio di incidenti mortali, eppure le 4731 vittime della strada del 2008 quasi non fanno più notizia, mentre per i 19 sfortunati che in media periscono sotto la neve ogni anno, e non sempre per imperizia o tracotanza, chissà perché ci si indigna di più.

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 18, 2010, 12:09:16 pm »

18/1/2010

Dura la vita degli stregoni della pioggia
   
LUCA MERCALLI


Si è diffusa ieri la notizia che la Bbc voglia esautorare il MetOffice, uno degli uffici meteorologici più celebri e autorevoli del mondo, dalla fornitura delle previsioni a causa di imprecisioni sulla stima delle nevicate dei giorni scorsi. Al suo posto subentrerebbe la società neozelandese Metra, ramo commerciale del servizio meteo governativo agli antipodi.

In realtà, Bbc ha annunciato ieri il passaggio al nuovo software grafico tridimensionale per la presentazione televisiva delle previsioni, di cui Metra è indiscusso leader mondiale, ma non sembra intenzionata a sollevare il MetOffice dall’incarico. Le polemiche hanno piuttosto riguardato le previsioni stagionali che il MetOffice aveva emesso in autunno, pronosticando un inverno mite che invece sulla Gran Bretagna coperta di neve non si sta verificando. Le previsioni a lungo termine, dell’ordine del trimestre, sono infatti ancora a carattere sperimentale e molti esperti ritengono che non dovrebbero essere diffuse al pubblico, altrimenti creano confusione intaccando la reputazione del servizio meteorologico che sul breve termine ottiene invece eccellenti risultati. In effetti la previsione a 48 ore oggi raggiunge oltre il 90 per cento di affidabilità grazie ai modelli numerici di simulazione, e i risultati sono indiscutibilmente migliorati negli ultimi vent’anni.

Ma queste riflessioni mettono in luce la dura vita del meteorologo che è condannato alla critica sia che faccia, sia che non faccia. Ricordate la previsione di neve su Genova di pochi giorni fa? Gli ingredienti per la nevicata c’erano tutti, l’allerta della protezione civile è stata data, poi la neve si è appena vista e tutti addosso ai meteorologi, per un grado di differenza che ha trasformato la neve in pioggia. E se non si fosse dato l’allarme e al mattino la città fosse stata davvero bloccata? Chi si trova a prendere decisioni così delicate nel giro di poche ore ha prima di tutto come missione l’incolumità delle persone. Gli errori, in verità modesti, sono sempre possibili, come per ogni previsione non solo meteorologica, ma rappresentano una piccola percentuale rispetto ai successi che ogni giorno fanno decollare e atterrare aerei, riempire e svuotare dighe, programmare viaggi e vacanze, semine e raccolti. Semmai si è diventati tutti così esigenti da non tollerare più la minima incertezza, peraltro dichiarata apertamente in ogni previsione. Più che un problema di fisica dell’atmosfera, è un problema di comunicazione: tocca spiegare alle persone cos’è il concetto di probabilità. Al contrario, viviamo in una società che tende sempre più a polarizzare le visioni: o è bianco o è nero, o è buono o è cattivo, o piove o fa sole. La previsione meteorologica utilizzata in giusta prospettiva, oltre che permetterci di scegliere che abito indossare domani, potrebbe anche aiutarci a fare un piccolo esercizio quotidiano sulla consapevolezza del concetto di probabilità: lo vogliamo deliberatamente ignorare, ma permea la nostra vita.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 01, 2010, 01:17:57 pm »

1/3/2010

Prevedere i cataclismi non basta più
   
LUCA MERCALLI

Esposta sull’Atlantico, la Vendée è stato il dipartimento francese più martoriato dalla tempesta «Xynthia», così battezzata dall’Istituto di Meteorologia dell’Università di Berlino. Vi si sono contate 29 vittime, annegate nel corso delle repentine inondazioni causate da pioggia e ondate oceaniche in periodo di alta marea.

Il vento a oltre 150 chilometri orari, con una raffica di 242 km orari al Pic du Midi, sui Pirenei, ha poi portato il tragico bilancio francese ad almeno 45 morti sommando i vari incidenti negli altri dipartimenti, in particolare a causa di caduta di alberi e detriti, ma aggiungendo le vittime in Portogallo, Spagna, Belgio e Germania il totale assomma a 57.

Sono cifre ancora provvisorie, ma che rendono «Xynthia» la peggior tempesta a colpire l'Europa occidentale dopo «Lothar» e «Martin» i due uragani in rapida sequenza del 26-28 dicembre 1999, che fecero registrare venti fino a 170 km/ora su Parigi e causarono una novantina di vittime. Che il cuore della vecchia Europa venga colpito così profondamente da poche ore di vento forte lascia sempre senza parole ma non dobbiamo dimenticare che questi fenomeni meteorologici - cicloni delle medie latitudini che non hanno nulla a che vedere con gli uragani tropicali - sono piuttosto frequenti al di là delle Alpi: prima di Lothar la memoria va a «Vivian» che il 27 febbraio 1990 colpì Francia e Svizzera e poi alla burrasca del 15 ottobre 1987, quando le raffiche a 180 km/h devastarono Bretagna, Normandia e Inghilterra meridionale, con 34 vittime.

Ma gli archivi conservano traccia di eventi epocali, come quelli del gennaio 1739 e soprattutto la «Great Storm» della fine di novembre del 1703, descritta anche da Daniel Defoe, il peggior disastro meteorologico dell'Inghilterra meridionale e della Manica: tredici navi della flotta di Sua Maestà di ritorno dalla guerra di successione spagnola affondarono, foreste e paesi furono rasi al suolo e il bilancio stimato fu tra le 8000 e le 15000 vittime. Se mettiamo in prospettiva questo evento con la minor popolazione del tempo ci rendiamo conto che dopo tutto la prevenzione e l'allertamento ottengono oggi ben altri risultati.

Grazie alle previsioni offerte dai modelli matematici, Météo France sabato aveva già posto in vigilanza rossa, il massimo grado di pericolo, le regioni francesi poi effettivamente colpite dal fortunale. Navi e aerei non sono stati così coinvolti e milioni di persone si sono attrezzate per resistere al sicuro. Il tributo di vittime residuo si può considerare inevitabile durante un evento di tale portata: rami che cadono, tetti scoperchiati, tegole che volano come proiettili, cartelli pubblicitari, pannelli stradali e pali della luce, incidenti stradali, il rischio zero non si può pretendere.

Tutto sommato le lezioni del dicembre 1999, con gli ulteriori richiami dovuti a «Kyrill» che a metà gennaio 2007 reclamò in Europa centrale 45 morti con venti a 200 km/ora e a «Klaus» che solo un anno fa, dal 23 al 25 gennaio spazzò la Francia meridionale e i Pirenei causando 31 vittime, sembrerebbero aver perfezionato i piani di protezione civile e la prevenzione a lungo termine dei danni. Resta da vedere se questi episodi in futuro potranno presentarsi con maggior frequenza e intensità a causa del riscaldamento globale.

Per ora la statistica non è significativa, secondo lo storico del clima Emmanuel Garnier, dell'università di Caen, dal 1700 al 2000 gli archivi hanno restituito le cronache di almeno 22 tempeste maggiori sulla Francia e questi recenti episodi non possono ancora fornire chiare evidenze di aumento, tuttavia le simulazioni contemplano uno scenario futuro nel quale l'Europa centro-settentrionale potrebbe vedere una crescita di cicloni invernali. Se così fosse è ovvio che il meccanismo di prevenzione deve essere ulteriormente perfezionato, almeno per salvare le vite, mentre per i danni materiali sarà difficile limitare le perdite e il mercato assicurativo dovrà sicuramente evolvere per non fare bancarotta.

Lothar e Martin sono infatti costati all'Europa circa 16 miliardi di euro, di cui solo una dozzina rimborsati dalle assicurazioni, Kyrill è costata circa 5 miliardi di euro, Klaus ha fatto spendere solo alla Francia 1,2 miliardi di euro. Senza contare i disagi per milioni di persone rimasti per giorni senza elettricità e possibilità di riprendere le normali attività lavorative. Mentre oggi si contano dunque i nuovi danni di Xynthia, la civiltà del XXI secolo, anche se dotata di mezzi e conoscenze scientifiche come non mai, si riconosce ancora una volta vulnerabile.

da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 29, 2010, 09:11:28 am »

29/3/2010

Non sparate sulla scienza
   
LUCA MERCALLI

Dopo le abbondanti nevicate del mese di febbraio su Washington, la percezione del riscaldamento globale negli Stati Uniti si è molto ridotta mettendo in crisi l’autorevolezza di una delle ultime istituzioni inattaccabili della nostra epoca, la scienza.

Il New York Times ha ragionato su quanta parte nella formazione di queste opinioni è legata ai fatti e quanta al modello mentale e culturale delle persone. David Ropeik, esperto in comunicazione del rischio, sostiene che la gente si serve degli estremi meteorologici di freddo o di caldo non come eventi per comprendere il clima, ma come proiettili da sparare contro un diverso gruppo di appartenenza sociale. La questione climatica conduce infatti a una critica dell’attuale modello di sviluppo, quindi i gruppi più conservatori e individualisti, che detengono privilegi in uno status quo di rigido ordine e gerarchia sociale, brandiscono i candelotti di ghiaccio e le palate di neve per screditare la scienza del riscaldamento globale contro i gruppi progressisti, fautori di una società più equa e di un maggior intervento dello stato nelle politiche ambientali e sociali, che a loro volta adotteranno come armi termometri roventi e invasi disseccati. Nessuno dei due schieramenti ha però la minima idea di cosa sia il clima e della differenza che corre tra i fatti meteorologici locali e quotidiani, rispetto agli andamenti globali e a lungo termine. Del resto, mentre Washington era bloccata dalla bufera, a Vancouver l’inverno più caldo della storia obbligava l'organizzazione olimpica a trasportare la neve in camion, mentre migliaia di ettari di foresta di conifere subivano gli attacchi di un coleottero parassita che di norma viene ucciso da temperature sotto i -30 gradi e prospera invece negli inverni miti.

Nel conflitto sul cambiamento climatico, ogni «tribù» adotta punti di vista che riflettono le proprie convinzioni sul funzionamento della società piuttosto che una reale comprensione fisica del problema. A ciò Janet Swim, docente di Psicologia alla Penn State University, aggiunge che il modello mentale è spesso una gabbia che ci fa credere di conoscere argomenti complessi semplificandoli eccessivamente: la neve è un’icona associata con un clima freddo, quindi nell’immaginario esclude che il pianeta si stia riscaldando.

Eric Johnson, della Columbia Business School, precisa che le nostre esperienze più vivide e recenti spesso offuscano informazioni più significative ma astratte e lontane nel tempo, proprio come un malato non si accorge dell’insorgere di una grave patologia, riscontrabile solo da un esame medico e non dal fatto di sentirsi in forma. Insomma, questa miscela di impressioni e interpretazioni soggettive, unita all’informazione talora affidata a giornalisti non preparati, ha mandato a picco la fiducia nella scienza del clima, rafforzata dal fiasco della previsione di mortalità dovuta al nuovo virus influenzale. Eppure la scienza in sé, con tutto questo rumore c'entra poco o nulla. Continua a fare il suo mestiere di ricerca della verità, sbagliando e correggendo, ma offrendoci comunque degli strumenti di decisione basati sulla probabilità. Anche nell’incertezza si possono così fare scelte razionali.

Lo scetticismo è benvenuto quando aiuta a migliorare la qualità dei risultati, non quando mira soltanto a demolire la credibilità di un’intera categoria. Purtroppo vi è anche una scienza deviata che su inevitabili imprecisioni del rapporto sul clima dell’Ipcc-Onu ha costruito una campagna di disinformazione di proporzioni pari a quella che fu messa in atto dalle multinazionali del tabacco contro i medici che ne sostenevano la tossicità. In proposito, Greenpeace ha pubblicato un rapporto su vent’anni di negazionismo climatico ad opera dell’industria dei combustibili fossili, intitolato «Dealing with doubt» («far commercio del dubbio»). Michael Mann, il climatologo della Pennsylvania University ferocemente attaccato per la sua ricostruzione della temperatura della Terra negli ultimi duemila anni, ritenuta fasulla, ha commentato così: «La fazione che sta montando questi attacchi è estremamente ben finanziata e organizzata. Da decenni dispone di un’infrastruttura preparata per aggressioni di questo genere, sviluppata durante le campagne contro il fumo e per la difesa di altri interessi. E’ letteralmente come un marine che fa a botte con un ragazzino scout. Noi non siamo esperti di pubbliche relazioni come lo sono loro, non siamo avvocati, non siamo lobbisti. Siamo scienziati, abbiamo studiato come fare scienza». La scienza ha sì i suoi difetti, come tutte le cose umane, ma in fondo funziona, e anche questo giornale si scrive e si stampa grazie alle sue conquiste.

da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 05, 2010, 05:15:05 pm »

5/6/2010

Si può fare molto anche da soli
   
LUCA MERCALLI

Affinché la Giornata mondiale dell'Ambiente non sia la solita celebrazione di facciata come tante, è importante un coinvolgimento personale immediato, senza aspettare, come spesso si sente dire, che siano i grandi a decidere. La Terra è abitata da quasi sette miliardi di persone ed è la somma dei loro comportamenti a incidere sul suo stato sanitario.

I motivi per far qualcosa non sono solo di natura etica o estetica, ma attingono alla difesa del benessere degli individui di oggi e di domani in relazione a un ambiente che, minacciato su ogni fronte, dai cambiamenti climatici alla macchia oleosa sull’oceano, dal sovrasfruttamento di suoli, mari e foreste alla produzione di rifiuti, rischia di non garantirci più, come specie, una dignitosa sopravvivenza. Da che parte cominciare allora? Primo, caccia allo spreco. E' il principio guida a cui guardare. Nella nostra società occidentale si butta via tra energia, cibo e materie prime circa il trenta per cento di ciò che circola sul mercato.

La casa: è un gran colabrodo energetico, d'inverno il prezioso caldo ottenuto da gas o petrolio esce da spifferi, pareti e tetti mal isolati, d'estate a uscire è il freddo prodotto a caro prezzo dai condizionatori. Isolare, isolare e isolare ancora, cambiare infissi, installare pannelli solari per l'acqua calda e fotovoltaici per l'elettricità, mettere una caldaia a condensazione o una pompa di calore. Tutte cose che sembrano costar care sul momento, ma in realtà godono di incentivi e sgravi fiscali, generano nuova economia virtuosa e abbassano per sempre le bollette e le emissioni. E poi non è solo per denaro, farsi la doccia con l'acqua solare deve diventare un punto d'orgoglio, un godimento interiore e spazzare via altri status symbol obsoleti e ingordi.

Ah, tutto ciò si può fare anche in condominio, l'esercizio di democrazia partecipata che si deve superare per mettere d'accordo tutti sarà utile per l'intera società. Ridurre i rifiuti: meno imballaggi, meno acquisti superflui, essenzialità degli oggetti del desiderio, meno cose, più buone relazioni. E quello che resta, lo si ricicla differenziando. Se avete solo pochi metri quadri di terreno, fateci il compost, evitando che un camioncino debba passare a raccogliere bucce di patate e insalata appassita bruciando gasolio laddove i microrganismi fanno tutto gratis in pochi mesi.

E se avete un giardino con i nanetti e il prato all'inglese, uccidete i nanetti, arate il prato - che nel nostro clima ingoia inutilmente un sacco d'acqua - e al loro posto piantate pomodori e zucchine. Ci sono anche tanti orti urbani da creare sulle ceneri di aree dimenticate, nell'orto si produce a chilometri zero e si imparano molte cose sul funzionamento del mondo. Viaggiate di meno, una riunione evitata grazie a Skype è una benedizione anche per il vostro relax e ha emesso molta meno CO2 di un aereo o di un treno. L'auto? Piccola ed efficiente, astenersi dai Suv. Si può cominciare da qui, il resto verrà, anche da parte dei grandi della Terra.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7440&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #7 inserito:: Giugno 21, 2010, 04:19:16 pm »

21/6/2010 - NEVE A GIUGNO

Se l'estate diventa virtuale
   
LUCA MERCALLI


Al Bar Sport e da Livia Coiffeur non si parla d’altro: che fine ha fatto l’estate? Sarà colpa delle ceneri del vulcano islandese? I climatologi rispondono che si è trattata di un’eruzione di piccola taglia che non ha raggiunto la stratosfera e quindi difficilmente può modificare il clima in modo vistoso.

Sarà la corrente del Golfo che si è fermata? No, per ora è accaduto solo nei film di Hollywood, e anzi quest’anno è proprio l’Atlantico settentrionale a soffrire il caldo, con il ghiaccio di banchisa ai minimi termini. Saranno misteriosi esperimenti militari americani? Mah, almeno finché c’era il muro si poteva anche pensare che fossero sovietici, oggi non c’è più gusto nemmeno a sognar complotti. Il fatto è che pur vivendo nell’epoca dove più di sempre abbiamo avuto a disposizione tanti dati scientifici precisi e tanti modi per diffonderli, non siamo capaci di comprenderli e gestirli, siamo frastornati da migliaia di informazioni che si sovrappongono, si elidono, si annichilano, e ciò che ne rimane è solo la sensazione a pelle dell’immediato e mai la riflessione di testa ad onda lunga. Oggi fa caldo, colpa dell’effetto serra, domani fa freddo, ci avviamo verso l’era glaciale. Così a proposito di questi giorni di giugno effettivamente freschi e piovosi, parliamo d’estate quando la stagione è appena cominciata e tutto luglio e agosto potrebbero ancora ribaltare la situazione facendoci rimpiangere la frescura. Sentenziamo su una settimana di nubifragi dimenticando che i primi dieci giorni del mese ci lamentavamo già per l’afa insopportabile con i condizionatori a manetta per via di quattro gradi oltre la media stagionale, tanto anomali quanto il freddo di oggi. Gridiamo all’eccezionalità senza nemmeno ricordare il tempo del mese scorso e men che meno quello di dieci anni fa.

Fortuna che ci sono i computer: il 1992 fu al Nord Italia un pessimo giugno, freddo e piovoso, il 19 giugno del 1983 cadeva sulle Alpi occidentali quasi un metro di neve, il 15 giugno 1957 da Cuneo alla Val d’Aosta una delle peggiori alluvioni della storia devastava le vallate, il 23 giugno del 1940 gli alpini impegnati con le divise estive nell’attacco alla Francia sulle giogaie della Val di Susa avvolte dalla tormenta, piangevano mani e piedi congelati. È certamente giusto sorprendersi di questa variabilità così accentuata - mancano alla corrente stagione gradualità e continuità - ma nubifragi, grandine e ritorni di freddo in giugno non sono una novità, tant’è che appena in Svizzera questi fenomeni vanno tradizionalmente sotto il nome di «freddo delle pecore», l’ultimo caso è dietro l’angolo, metà giugno 2008, quando anche a Torino e Milano il termometro toccò 13 gradi, come ieri. Piuttosto non sarà che ci stiamo sempre più abituando a stagioni virtuali? L’estate deve essere bella e calda perché lo dice la pubblicità, e quando quella reale non coincide con questo modello, allora andiamo in crisi. E poi negli ultimi dieci anni il riscaldamento globale ha fatto diventare molti mesi di giugno caldi come luglio: dal 2003 al 2006 e poi ancora nel 2009. Hanno fatto in fretta a diventare norma anche se sono l’eccezione.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7501&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 27, 2010, 08:57:55 pm »

27/8/2010

Un rischio subdolo in alta quota

LUCA MERCALLI

Ciò che si sta cercando di evitare che avvenga sul Ghiacciaio di Tête Rousse è un Glof. Acronimo onomatopeico per «Glacial lake outburst flood», ovvero alluvione generata dall’improvviso rilascio di un lago glaciale.

In realtà il rumore che fece la sacca d’acqua di 200 mila metri cubi intrappolata nel ventre dell’insignificante ghiacciaietto del gruppo del Bianco quando esplose alle ore 01,25 della notte del 12 luglio 1892, fu ben più di un «glof»: un rombo lugubre, una furiosa colata di fango, alberi e massi che fece tremare il suolo sul suo percorso di 14 chilometri e 2400 metri di dislivello e dopo qualche decina di minuti si abbatté sulle terme di Saint-Gervais. Gli ospiti dello stabilimento termale furono svegliati da un soffio, seguito da un sibilo, una vibrazione, un boato assordante. E poi la morte per 130 di essi. Nelle tenebre, tra muri che crollavano e gorghi di fango che invadevano saloni e corridoi, risuonavano i lamenti dei feriti e le urla dei superstiti seminudi in preda al panico. L'ondata mortifera si propagò fino al villaggio sottostante e in totale le vittime identificate furono 175.

I glaciologi del servizio Eaux et forets che visitarono il ghiacciaio nei giorni successivi videro una grande caverna che si apriva nel ghiaccio là dove il segreto lago endoglaciale, forse per anni, aveva covato la catastrofe. Con i mezzi dell'epoca, senza elicotteri, senza macchinari, furono realizzate opere di prevenzione ammirevoli: entro il 1900 si terminò un tunnel di 150 metri, ramificato in sette branche, per drenare l'acqua alla base del ghiaccio. Nel 1901 venne identificata una nuova sacca d'acqua che costrinse a scavare ancora un tratto di galleria in roccia: raggiunta il 28 luglio 1904 con enormi sforzi, fu drenata senza danni.

Poi per un secolo più nessun evento, ma le gallerie sono state sempre mantenute in ordine e da qualche anno, grazie anche alla possibilità di effettuare sondaggi radar e tramite risonanza magnetica nucleare, l'équipe di Christian Vincent, del Laboratoire de Glaciologie del CNRS di Grenoble ha identificato un nuovo accumulo idrico di circa 65.000 metri cubi che oggi viene drenato più facilmente dall'alto, forando il ghiacciaio con sonde a vapore e utilizzando potenti pompe azionate da gruppi elettrogeni trasportati a quota 3200 metri da elicotteri. Ogni metro cubo d'acqua estratto dal ventre del ghiacciaio allevierà il pericolo che incombe su Saint Gervais.

I laghi glaciali sono tra i rischi più subdoli e impattanti per le montagne di tutto il mondo, dalle Ande all'Himalaya, dove assumono proporzioni enormi, esaltate dal riscaldamento globale, che tuttavia nel caso di Tête Rousse ha un ruolo secondario rispetto alla morfologia del ghiacciaio. Sulle Alpi i laghi glaciali sono stati censiti dal progetto europeo Glaciorisk, che nel 2002 culminò con la crisi estiva del lago Effimero sul ghiacciaio del Belvedere di Macugnaga, alla base della parete est del Monte Rosa. Il gigantesco bacino di tre milioni di metri cubi d'acqua che minacciava la Valle Anzasca fu oggetto di una colossale operazione di protezione civile per abbassarne il livello, e si svuotò poi naturalmente senza danni.

Negli stessi anni un altro grande lago di 600.000 metri cubi sul ghiacciaio del Rocciamelone, sul confine tra Val di Susa e Maurienne, inquietava le autorità francesi e italiane che nel 2004 incaricavano sempre l'équipe di Vincent dello svuotamento, felicemente concluso nell'estate 2005. Storie di buona protezione civile.

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« Risposta #9 inserito:: Settembre 02, 2010, 10:02:54 pm »

2/9/2010

Italia, tristi cartelli di benvenuto

LUCA MERCALLI

Un paese lo si ama se lo si conosce. C’è una geografia che si impara a scuola, e che è in via di estinzione, e c’è una geografia che si impara ogni giorno dai finestrini dell’auto o del treno.
Ma chi guarda ancora al territorio con curiosità, attenzione e senso critico? Ormai in viaggio si fa di tutto per estraniarsi dal contesto attraversato: palmari, lettori di musica, internet, film, vetri oscurati. Così si diventa sempre più insensibili e ignoranti, mentre il brutto avanza e il paesaggio si degrada inesorabilmente. Nel 1876 il lecchese Antonio Stoppani, illustre geologo e geografo oggi dimenticato, pubblicava con strepitoso successo «Il Bel Paese» (oggi ristampato, dopo lunga assenza dai cataloghi, dall’editore Aragno con introduzione di Luca Clerici).

Un libro che è un capolavoro di divulgazione scientifica, nel quale l’autore si rivolge ai suoi giovani nipoti in forma di dialogo, raccontando per ventinove serate in un salotto milanese le peculiarità naturalistiche dell’Italia appena fatta, dalle Alpi all’Etna. Un libro che diventò un long seller, e per un po’ fu il terzo titolo venduto dopo I Promessi Sposi e il Cuore di De Amicis. Oggi tutti parlano del bel paese, ma più che Stoppani ricordano un formaggio così battezzato in onore dello studioso da Egidio Galbani nel 1906. E soprattutto i giovani studenti di oggi, orfani di uno Stoppani e distratti da mille gingilli virtuali, non ricevono più quella semplice abitudine a osservare e godere del mondo fisico che li circonda.

Le strade italiane poi non aiutano. Mai una piazzola ben curata che inviti a una sosta per apprezzare un panorama o scattare una foto, per farsi un’idea di quel pezzo di pianeta Terra. Immensi pannelli pubblicitari impestano l’orizzonte stradale, quando trovi uno scorcio e riesci a fermarti senza creare un tamponamento, vieni in genere accolto da mucchi di piastrelle sbrecciate, vecchie tazze di wc, copertoni usati, cespugli-latrina e vari resti del posto-prostituta. Immagino di essere un turista francese in viaggio verso il bel paese. Arrivo dalla Provenza via Briançon, e poco dopo L’Argentière-la-Bessée in un tornante della Route Nationale 94 trovo una grande statua che simboleggia il turista alpino, un parcheggio e una tavola d’orientamento in ceramica smaltata che illustra le vette degli Ecrins. Un posto qualunque, valorizzato e reso portatore di informazioni e di valori. Ti fermi e apprendi dove sei.

Colle del Monginevro, Clavière, il cartello stradale dice che entri in Italia. All’uscita delle gallerie paravalanghe dello Chaberton c’è un balcone perfetto sull’alta Val di Susa: la vista spazia su Sestriere, Cesana, Sauze d’Oulx, giù fin verso la pianura padana.

Il biglietto da visita dell’Italia è però un magazzino Anas diroccato e uno spiazzo con cumuli di macerie, oggi pure transennato per il cantiere del nuovo tunnel in costruzione. Altro che tavola di orientamento in ceramica! Nemmeno le olimpiadi invernali hanno pensato che valesse più un dignitoso belvedere di mille slogan turistici bugiardi.

Proviamo un altro italico accesso, dall’augusto valico del Moncenisio. Passato il ridente villaggio alpino di Lanslebourg, poco prima del colle, altro semplice parcheggio con tavola d’orientamento verso la Vanoise. Poco dopo a Bar Cenisio appare il vecchio posto di frontiera italiano, abbandonato e devastato: sembra il Kosovo dopo i bombardamenti. Un borgo fantasma, vecchi alberghi con le imposte inchiodate, un ponte a senso unico alternato non ancora riparato dopo i danni dell’alluvione del maggio 2008, una baita ristrutturata con i gerani alle finestre unica tenace nota di civiltà. E poi fino a Susa la Strada Statale 25 costellata dei tristi ruderi delle case cantoniere, imponenti e pericolanti edifici rosso pompeiano, usate oggi come cessi e come supporto per graffiti. Uno spettacolo che ti prende alla gola, perfetta metafora del Bel Paese in rovina.

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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 06, 2010, 05:43:10 pm »

6/10/2010

In Liguria bombe d'acqua sull'eccesso di urbanizzazione
   
LUCA MERCALLI


Nubifragi e urbanizzazione non vanno d’accordo. Una precipitazione torrenziale di 411 millimetri in sei ore, di cui 124 in una sola ora, come quella caduta al Santuario di Monte Gazzo, sopra Genova, rappresenta di per sé un fenomeno violento della natura, cioè oltre quattrocento litri d'acqua al metro quadro che si precipitano dai pendii, erodono il suolo e trasportano fango, pietre, alberi, detriti.

Da sempre questi episodi minacciano i centri abitati e l’agricoltura, come dimostrano le cronache storiche di cui il nostro paese è pieno, a cominciare dall’alluvione proprio di Genova dell’ottobre 1970, allorché i millimetri caduti a Bolzaneto furono 948 in un giorno, la pioggia più intensa d’Italia. Ma se alla pioggia si aggiunge una dilagante occupazione del territorio da parte di edifici, strade, piazzali, capannoni, che talora arrivano pure a intubare i corsi d’acqua torrentizi, allora il quadro si complica: da un lato aumenta in modo esponenziale il danno, là dove cent’anni fa c’era solo un bosco o un campo, ora ci sono milioni di euro di valori e molte vite umane a rischio.

Ogni metro quadro di territorio diventa un obiettivo sensibile: una rete di tubi e cavi si dispiega sottoterra, una viabilità capillare percorre il suolo, automobili in marcia o in sosta vengono distrutte come fuscelli, edifici con i loro contenuti - preziosi in denaro o in affetti - vengono inondati dal fango, fino alla perdita di vite, come accaduto nel sottopassaggio di Prato, allagato da una pioggia di 105 mm in poco più di due ore. E dall’altro lato, proprio Prato insegna, l’impermeabilizzazione del suolo cementato e asfaltato aumenta le portate di ruscellamento e diminuisce i tempi di corrivazione, aggiungendo alla bomba d’acqua meteorologica l’alluvione-lampo antropogenica.

La scarsa cultura di protezione civile italica fa il resto: quanti sanno che anche il più massiccio Suv galleggia in mezzo metro d’acqua nella quale si perde il controllo e si viene trascinati via? Cent’anni fa, ammesso che un sottopassaggio fosse esistito, durante una pioggia così non ci si sarebbe entrati a piedi o a cavallo. Oggi la falsa sicurezza di un guscio di lamiera fa dimenticare che vince sempre l’acqua. E se poi i cambiamenti climatici ci si mettono pure ad aumentare la frequenza di questi eventi intensi, la prevenzione diventa ancora più necessaria. E la salvaguardia assoluta del poco suolo libero rimasto, anche.

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« Risposta #11 inserito:: Novembre 02, 2010, 06:28:15 pm »

2/11/2010

Guardare in faccia il Grande Dissesto
   
LUCA MERCALLI


Racconta Fenoglio nei «Ventitré giorni della città di Alba» che «verso la fine d’ottobre (1944) piovve in montagna e piovve in pianura, il fiume Tanaro parve rizzarsi in piedi tanto crebbe». Una tra le tante piene di cui l’autunno italiano è da sempre costellato.

Capitano a causa delle intense perturbazioni che si generano per l’interazione tra le prime discese di aria fredda polare e la tiepida superficie del Mediterraneo ereditata dall’estate. È appena il caso di ricordare le pietre miliari delle grandi piogge autunnali, limitandoci a quelle più recenti e rovinose: l’imponente alluvione del Polesine è di metà novembre 1951, la storica piena dell’Arno a Firenze, con Venezia invasa dall’acqua alta del secolo, è del 4 novembre 1966, il Biellese viene devastato il 3 novembre 1968, Genova è messa in ginocchio il 7 ottobre 1970, il Tanaro infanga Alba e Alessandria il 5-6 novembre 1994, il Po a metà ottobre del 2000 esonda dalle Alpi al delta. L’elenco completo sarebbe immenso, e non è una novità per il nostro territorio.

Solo un mese fa ci toccava scrivere un pezzo non diverso da questo per i nubifragi su Genova, un anno fa era Messina che franava e a Natale erano in piena i fiumi della Lunigiana, la stessa regione investita nelle scorse ore da piogge di 200-300 millimetri da cui hanno preso origine le colate detritiche sulle frazioni di Massa. Una vasta perturbazione generata dalla depressione «Xanthippe», così battezzata come è uso da oltre un decennio dall’istituto di meteorologia dell’Università di Berlino, ha scaricato sul nord Italia tra cento e duecento millimetri di pioggia in due giorni, con massimi di 350 mm sull’alto Vicentino, ha portato le prime abbondanti nevicate oltre i 2000 metri e una vigorosa sciroccata sulle isole. Un evento tuttavia non eccezionalmente intenso, capita più o meno ogni anno. Ma allora perché siamo sempre qui a stupirci di fronte alle vittime e ai danni? In effetti nubifragi, frane e alluvioni fanno parte, dalla notte dei tempi, della naturale dinamica del territorio e sempre ci saranno, qui come altrove. È la nostra vulnerabilità che si è accresciuta, a seguito di una dilagante cementificazione fondata su un approccio di dominio sull’ambiente piuttosto che di convivenza. La ricetta internazionalmente proposta affinché le forti piogge facciano meno paura è dunque: 1) una più saggia pianificazione urbanistica con drastico blocco della nuova edificazione; 2) una coraggiosa rilocalizzazione degli abitati in zone a rischio, come ha fatto il governo francese nelle aree costiere inondate dalla tempesta Xinthia dello scorso febbraio; 3) un fondo assicurativo obbligatorio sui rischi naturali; 4) un programma a lungo termine di manutenzione idrogeologica capillare e diffusa in luogo di grandi opere di canalizzazione e arginatura che spesso producono un senso di falsa sicurezza e aprono la strada a nuovi insediamenti edilizi; 5) martellanti programmi educativi di prevenzione, nelle scuole e in televisione: si abbia il coraggio di spiegare alla gente in prima serata come ci si deve comportare in caso di emergenza senza essere etichettati come portaiella; 6) potenziamento dell’infrastruttura di previsione meteorologica e protezione civile, incluse esercitazioni. Tutte queste cose si fanno regolarmente per esempio negli Stati Uniti contro uragani e alluvioni (www.floods.org), in Italia sono in genere riservate agli addetti ai lavori, invece bisogna che arrivino al grande pubblico, che diventino parte integrante del corredo di capacità di ogni cittadino: in gioco ci sono la casa e la vita. È probabile che in futuro i cambiamenti climatici proporranno precipitazioni ancora più intense: una ragione di più per attrezzarsi. Invece del Grande Fratello forse sarebbe bene cominciare a guardare in faccia il Grande Dissesto Idrogeologico del nostro Paese.

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« Risposta #12 inserito:: Dicembre 12, 2010, 04:22:11 pm »

12/12/2010

Ma i grandi vertici non servono


LUCA MERCALLI

Alla fine Cancún ha portato a casa un accordo definito «equilibrato». Tutti concordi sul fatto che contro il riscaldamento globale si debba agire, che si debbano stanziare fondi per i Paesi in via di sviluppo per la diffusione di energie rinnovabili e per la salvaguardia delle foreste. Ma la domanda è: i tempi della diplomazia sono compatibili con quelli della termodinamica?

Il sistema climatico, soggetto a implacabili leggi fisiche, è del tutto indifferente alle nostre difficoltà politiche ed economiche, e i segnali che giungono dall’ambiente sono giustamente inquietanti. La banchisa polare artica si sta riducendo al di là dei modelli più pessimisti elaborati negli scorsi anni e si ritiene che il ghiaccio marino estivo sarà pressoché scomparso verso il 2030. La concentrazione di CO2 in atmosfera è oggi di 390 parti per milione.
Mentre il valore ritenuto sicuro per evitare cambiamenti climatici inediti per la specie umana è di 350 parti per milione.

In questo contesto, anche con accordi più severi, si rischia comunque un aumento termico dell’ordine di tre gradi entro fine secolo, il che non sarà una passeggiata per la civiltà. Quindi, che fare?

Cancún e Copenhagen mostrano che l’epoca delle grandi conferenze mediatizzate e onnicomprensive è al tramonto. Troppa attesa concentrata in negoziati ora febbrili, ora stancamente trascinati, spesso bloccati su questioni formali. Meglio dunque un flusso continuo di intese multilaterali che risolvano via via le varie questioni che sorgono tra singoli Paesi o blocchi economici. Ma il vero obiettivo è la diffusione di una consapevolezza globale che porti a una corale condivisione dal basso dell’urgenza di agire, della necessità di mettere al servizio di questa enorme sfida tutti i saperi, tutte le risorse e tutta la creatività in grado di spingere la politica internazionale a fare molto di più di quanto oggi si possa immaginare.

Tocca ribaltare l’attuale criterio di delega assoluta alla politica per la soluzione dei problemi mentre nel frattempo si aspetta inerti.
Almeno nel mondo industrializzato ognuno ha la possibilità di assumersi fin da subito le proprie responsabilità: consumi sobri, efficienza energetica, pannelli solari, trasporti morigerati, riduzione dei rifiuti. Sono scelte che non hanno bisogno di aspettare né Cancún né Durban. E i migliori cervelli del mondo è ora che riflettano sull’evoluzione del modello economico e demografico imperante: la crescita infinita dei consumi e della popolazione non è infatti compatibile con la finitezza delle risorse terrestri e la stabilità del clima.
Invece che di crescita, vogliamo cominciare a parlare dell’economia in «stato stazionario»?

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« Risposta #13 inserito:: Dicembre 18, 2010, 11:09:28 am »

18/12/2010

Sorpresi da una precipitazione annunciata

LUCA MERCALLI

A Palermo non ha nevicato, ma negli ultimi giorni la temperatura non è mai salita sopra i 9 gradi. Non freddo polare, ma abbastanza per diventare un problema se non c’è il riscaldamento. In 158 scuole, tra asili nido, elementari e medie i termosifoni non sono mai stati accesi perchè il Comune di Palermo lo scorso luglio, per mancanza di risorse, ha sospeso il servizio, gestito dall’Amg, di manutenzione e accensione delle caldaie. Unico rimedio per i bambini è stare in classe con cappotti, piumini, sciarpe, guanti e cappelli e con le gambe coperte da plaid distribuiti dagli insegnanti.

«Stiamo letteralmente morendo dal freddo - dice Francesca Vella, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo Pier Santi Mattarella - la palestra è stata chiusa perchè non si può chiedere ai bambini di mettersi in tuta, c’è troppo freddo e umidità. Nelle classi tutti stanno con le sciarpe e i piumini: per questo ho preso la decisione di comprare delle stufe e distribuirle nelle classi».Appennino Pistoiese, è mezzanotte di giovedì, la luna splende in un gelido cielo, non c’è da credere che domani nevichi, ma si sa, oggi le previsioni meteo sono quasi infallibili. A guardar bene c’è un sottile velo di cirrostrati che avanza da occidente, appena un alone attorno alla luna, eccolo lì l’indizio. Alba di venerdì 17, cielo plumbeo e primi fiocchi, alla stazione di Prato comincia a imbiancare per terra. Treni in ritardo, anche il mio intercity da Napoli, dove tuttavia non nevica e ci sono tre gradi. Passato l’Appennino i prati sono verdi, a Bologna termometro a meno quattro, qualche fiocco svolazzante e altri treni in ritardo.

La neve ricompare a Forlì e a Rimini ce ne sono dieci centimetri, un paesaggio fiabesco che prosegue lungo un ceruleo Adriatico fino in Puglia, dove però la nevicata si era fatta vedere soprattutto mercoledì e giovedì: a Bari appena una spruzzata. E non è certo la prima volta che le spiagge e l’entroterra pugliesi si imbiancano all’inizio dell’inverno: il 15 dicembre 2007 si verificò la fioccata più abbondante degli ultimi anni, con 15 centimetri di manto a Foggia e perfino una trentina nell’entroterra barese. Per non parlare del 1993, quando il 2-3 gennaio le stesse zone furono coperte da mezzo metro di neve sotto le gelide correnti balcaniche.

Ma allora perché ogni volta improvvisamente tutto si complica e diventa difficile, e per una decina di centimetri di neve anche l’informazione assume contorni apocalittici? Nemmeno si può invocare la sorpresa, perché le previsioni l’annunciavano da tre giorni. Sarà forse perché il nostro contatto con l’ambiente naturale si è affievolito, completamente allontanato dai nostri ritmi quotidiani fatti di affari sempre più cittadini, corse contro il tempo, realtà virtuali, fiumi di telefonate e valanghe di Internet, dove improbabili spot pubblicitari inneggiano ad automobili senza limiti che arrampicano impavide sul ghiaccio e contrastano con la goffaggine quotidiana di chi non riesce nemmeno a uscire dal garage, e meno che mai a montare le catene. Sarà che una banale nevicata diventa come una scintilla che fa esplodere una società sempre sull’orlo del collasso. O sarà forse perché psicologicamente vogliamo che la nevicata sia un evento di stacco, di purificazione di un mondo sporco che ci piace sempre meno.

Allora questi pochi centimetri di bianco che ricoprono i nostri paesaggi abituali diventano occasione per desiderare un rinnovamento, un cambio di prospettiva. Ci lamentiamo dei disagi ma in fondo siamo contenti di aver avuto per una giornata un diversivo e una testimonianza che là fuori esiste ancora un pianeta dove le cose semplicemente avvengono senza il nostro controllo. Ma intanto, tra poche ore sarà tutto finito: dopo i venti nordici arriveranno, a partire da domani, quelli atlantici più miti e umidi. La neve fonderà e lascerà il posto alla pioggia su molte regioni italiane. Così, passato il gelo, torneremo a lamentarci di altre faccende.

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« Risposta #14 inserito:: Aprile 08, 2011, 10:33:34 pm »

8/4/2011

Un aprile mai così afoso e il termometro salirà

LUCA MERCALLI

Un caldo così nella prima metà di aprile non si era mai visto. Ieri pomeriggio, sotto l’azione di un robusto anticiclone alimentato da aria algerina e con il contributo di un lieve effetto föhn, le temperature sono salite fino a 30,1 gradi all’aeroporto di Aosta.

Così nel capoluogo valdostano è stato stabilito un record per l’intero mese di aprile dall’inizio delle misure nel 1974 secondo i dati dell’Ufficio Meteorologico Regionale valdostano. Ma la soglia dei trenta si è raggiunta - con un mese e mezzo di anticipo rispetto al normale - anche in altre località del Nord come Alessandria e Bolzano. Altrove, 28 gradi a Torino e Milano, 27 a Bologna e Verona, valori che - sebbene non costituiscano ancora dei massimi assoluti per il mese - sono tuttavia eccezionali a scala secolare per la prima decade, solitamente fresca e piovosa: il divario rispetto alle medie del periodo tocca infatti i 12-15 gradi. Solo un mese fa si verificava l'ultima nevicata della stagione in Pianura Padana, ed eccoci ora in mezze maniche… inevitabile che questo caldo precoce lo si avverta così tanto. Le temperature diurne potranno ulteriormente salire di 1-2 gradi tra oggi e domani, quando sul Nord Italia diversi record storici potrebbero essere battuti.

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