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Autore Discussione: Brunetta: il Tesoro è una iattura, ...  (Letto 2242 volte)
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« inserito:: Novembre 22, 2009, 05:29:35 pm »

L’intervista | Il responsabile della Pubblica Amministrazione: finché bastava dire no, il rigore conservatore ha funzionato. Ora si cambi passo

«Basta veti ciechi da Tremonti

Tutti i ministri la pensano così»

Brunetta: il Tesoro è una iattura, governo commissariato dal suo egemonismo opaco


ROMA — «La nave va. L’Italia ha attraversato i marosi della crisi me­glio degli altri. Nella burrasca abbia­mo avuto meno morti e feriti, sono cadute meno suppellettili. Ora ab­biamo uno slot spazio-temporale d’eccezione: un’occasione straordi­naria. Possiamo uscire dalla crisi con le riforme, con la modernizza­zione. Ma dobbiamo aprire una fase nuova. Cambiare cultura e filoso­fia. Darci una nuova politica eco­nomica ».

Ministro Brunetta, sicuro che la crisi sia finita? Le crona­che ci parlano di gravi sofferen­ze sociali, di aziende in difficol­tà, di operai senza lavoro.

«Non abbiamo avuto una crisi bancaria, una crisi sindacale, e nep­pure una vera crisi sociale. I lavora­tori dipendenti hanno mantenuto se non aumentato il loro potere d’ac­quisto, tranne alcune frange; ma gli ammortizzatori sociali hanno fun­zionato. Tutti i comparti della nave sono in sicurezza. La politica econo­mica e finanziaria fatta nell’attraver­samento della crisi è stata efficace. Il 'rigore conservatore' di Tremonti ha funzionato. Del resto, bastava di­re no: non fare, non spendere, bloc­care tutto; chiudere i boccaporti. Ora però bisogna cambiare passo. Passare da un metodo all’altro. Scio­gliere le vele, far ripartire i motori».

Ricominciare a spendere, a co­sto di far saltare i conti pubblici?

«No. Passare dal rigore conserva­tore al rigore selettivo, moderniz­zante, intelligente, capace di decide­re. Sbloccare gli investimenti. Il pia­no per il Sud. La green economy. La banda larga. Le riforme: perché le ri­forme della scuola e della giustizia non possono funzionare senza risor­se. Ogni componente del governo deve poter esplicare le proprie po­tenzialità: l’ambiente, l’università, la sicurezza, il welfare, la sanità, lo sviluppo economico, le infrastruttu­re. Invece il ministro Tremonti eser­cita un potere di veto sulle iniziati­ve di tutti i ministri. Un blocco cie­co, cupo, conservatore, indistinto. Incapace di distinguere, ad esem­pio, tra i Comuni indebitati e i Co­muni virtuosi, che potrebbero spen­dere ma non possono a causa del­l’interpretazione rigida del patto di stabilità interno».

Tutti i ministri la pensano come lei?

«Sì. Tutti soffrono per il potere di veto di Tremonti. Un po’ meno quelli della Lega, per ragioni non fi­losofiche ma opportunistiche: so­no trattati un po’ meglio, anche se non benissimo».

Dice così per lo scontro che ave­te avuto nello scorso Consiglio dei ministri? Cos’è accaduto vera­mente?

«Dopo che il Consiglio dei mini­stri ha approvato il testo della Carta dei doveri della Pubblica Ammini­­strazione, Tremonti, anziché limitar­si ai rilievi tecnici, ha rimesso in di­scussione l’intero impianto. Così ha straripato rispetto alle sue compe­tenze. Io non ho mai detto nulla su provvedimenti di sicuro populismo ma dal dubbio impatto economico, come la Social card o la Robin Hood tax. Ma Tremonti ha di fatto com­missariato, sia pure a fin di bene, l’intero governo. Con la ripresa, pe­rò, non può più sostituirsi al Consi­glio e al presidente Berlusconi: non è questo che vogliono gli italiani. I disegni di legge si approvano in Consiglio dei ministri, non nelle se­grete stanza del ministero dell’Eco­nomia. È per questo che abbiamo li­tigato, ed è per questo che porterò avanti la Carta dei doveri, nella ver­sione approvata dal Consiglio».

È sicuro che non costi nulla?

«Certo. La cortesia, la semplicità del linguaggio, la lotta alle molestie amministrative non costano, e san­zionare le omissioni aumenta la pro­duttività, non gli oneri. Si è voluto ridicolizzare l’obbligo della corte­sia. Ma non credo che un sorriso in più a un cittadino che fa la fila allo sportello possa compromettere il funzionamento della Pubblica am­ministrazione, tanto meno il bilan­cio dello Stato. A me sembra piutto­sto che il ministro Tremonti voglia difendere la sua scortesia».

Non è che lei ne fa una questio­ne personale?

«No. Ho aspettato dieci giorni a parlare proprio per depurare tutto. Conosco Tremonti da una vita. Il problema non è un carattere più o meno iracondo, non è che abbia mi­nacciato di 'prendermi a calci': quelle sono sovrastrutture, che su di me incidono pochissimo. Il pro­blema è politico. Ne va del bene del governo e del Paese. Oggi, ogni provvedimento di qualsiasi mini­stro deve avere il 'bollino' del Teso­ro.

Ma la legge impone che la ragio­neria dello Stato eserciti un control­lo tecnico e oggettivo. Invece man­cano regole su metodi, dati e fonti della verifica. Ti rispondono sì o no senza vincoli di tempo né giustifica­zioni. Il Tesoro esercita un egemoni­smo leonino, opaco, autoreferenzia­le. Una iattura. E lo dico convinto di interpretare lo spirito dell’interno governo».

E Berlusconi?

«Percepisce questo come un pro­blema. E ne vede le due facce: quel­la positiva, la tenuta nella tempesta; e quella negativa, l’inerzia nella quiete. Invece il governo deve proce­dere subito, a 360 gradi. Il primo test sarà il piano per il Sud, concepi­to con il sistema hub and spokes, con un centro forte — il mozzo del­la ruota: Palazzo Chigi, il ministro Scajola — e tanti raggi quanti sono i ministeri, che finora hanno subito pesanti discriminazioni. Invece è il momento di suscitare ogni energia. Di aprire una grande discussione nel Paese, che coinvolga tutte le in­telligenze. Comprese quelle, tanto vituperate, degli economisti».

Diranno che lei attacca Tremon­ti per prenderne il posto.

«Io sto bene qui, dove combatto una battaglia epocale per la moder­nizzazione dello Stato. Non ho ambi­zioni personali. Gli riconosco il me­rito di aver tenuto la barra. Ma il per­durare della chiusura ora diventa un blocco. Per le banche, le impre­se, le famiglie, la burocrazia. Il go­verno è stato commissariato; ma quando esci dalla bufera questo non è più possibile. Non è più tem­po di Social card, banca per il Sud, Tremonti bond, grattaevinci antie­vasione: tutte strutture di vario suc­cesso, che ormai appartengono al passato. Prima della crisi, l’Italia ave­va un differenziale di crescita del 30% rispetto al resto d’Europa: se gli altri crescevano di 3 punti, noi di 2. Nella crisi siamo scesi come gli al­tri: il differenziale è stato azzerato in negativo. Ora dobbiamo crescere come gli altri, azzerare il differenzia­le in positivo. E il federalismo fisca­le da solo non sarà la soluzione. An­zi, rischia di peggiorare le cose».

Vale a dire?

«Se lo vareremo senza aver fatto le riforme economiche e quelle isti­tuzionali, senza aver modernizzato le burocrazie e il sistema politico, non faremo che creare altri centri di spesa».

Vede elezioni anticipate?

«Non ci credo. Sarebbero l’unica soluzione se venisse meno la mag­gioranza. Ma il Paese vuole il contra­rio. Sessanta milioni di italiani ci chiedono il cambio di passo, lo svi­luppo, il cambiamento. Le elezioni anticipate sarebbero un ulteriore blocco».


22 novembre 2009
da corriere.it
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