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Autore Discussione: Le parole segrete di De André  (Letto 2623 volte)
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« inserito:: Agosto 12, 2007, 06:37:34 pm »

SPETTACOLI & CULTURA

Il centro studi dedicato al cantautore sta catalogando il materiale lasciato dall'autore di Marinella

Abbiamo frugato nel mare di carte con Dori Ghezzi scoprendo che c'è una mappa del tesoro

Le parole segrete di De André

Viaggio fra le carte del cantante-poeta

di GINO CASTALDO

 
SIENA - Il tesoro segreto di Fabrizio De André è custodito in una grande cassaforte. L'addetto digita la combinazione e apre lentamente la porta del forziere. Dentro ci sono tante scatole, semplici scatole di cartone, ma basta aprirle e diventano uno scrigno prezioso, una favola inimmaginabile per chiunque ami il lavoro del più grande poeta della canzone che abbia attraversato la musica italiana.

Ci sono documenti, appunti, foglietti sparsi, libri pieni di annotazioni ancora da decifrare e capire in tutti i loro riverberi e rimandi. Quando gli archivisti del Centro Studi De André si passano questi fogli, ognuno chiuso in una copertina protettiva, sembra maneggino antichi papiri, pergamene pregevoli, mappe di un intricato tesoro del pensiero. E hanno ragione. Lì dentro c'è tutto quello che è rimasto: l'intera vita, le parole, i pensieri di Fabrizio De André. All'inizio si avverte un piccolo fremito di ribellione. È strano pensare come la grandezza creativa di un uomo possa essere ridotta in una serie di scatole: l'effetto è spiazzante, malinconico, ma basta aprire alcuni documenti e lo stupore spazza via la tristezza, la polvere degli archivi si trasforma in residuo angelico, il grigio spessore del cartoncino si fa brillante, le frasi che spuntano dai fogli prendono vita, sembra di sentirle pronunciare con la voce di diamante che tutti conosciamo dai dischi.

"La musica non è simbolica" c'è scritto in rosso su un fogliettino quadrettato, "la musica rappresenta se stessa - è un fenomeno protomentale, anticipa la ragione - evoca, ma non simbolicamente". Tracce dell'uomo di pensiero, maniacale, riflessivo, dell'uomo che prediligeva la notte per scrivere o leggere e che la mattina dormiva fino a tardi, tanto che, come racconta Dori Ghezzi, nella casa in Sardegna c'era un gallo che alla fine si era piegato a cantare a mezzogiorno.

Sul retro bianco di un libro leggiamo un'annotazione che fa sobbalzare i presenti: "Notturno delle raganelle, notturno del vento", e poi continua: "Un intero raggio di sole (la raganella disidrata sul vetro, la inaridì il sangue verde. Il falco gira e gli attribuiscono infamie, e arriva l'acqua, come sempre in ritardo". È l'unico appunto rimasto di quella che sarebbe stata la nuova opera di Fabrizio De André. "Sì, era la sua ultima idea", conferma Dori Ghezzi guardando assorta il foglio: "Evidentemente dettato dal suo stato d'animo, dal suo inconscio, c'era il desiderio di lavorare su questi quattro Notturni, chiamiamoli anche Requiem, cercando di vedere i vari aspetti del buio, sia il fenomeno atmosferico, sia la cecità, il non voler capire le cose, ogni notturno aveva un suo modo di rappresentare il buio, compresa la morte, ma è rimasto tutto nella sua testa, non è riuscito a cominciare, sono rimasti solo questi brevi appunti. Aveva in mente di chiedere a quattro compositori di scrivere quattro diverse musiche su cui avrebbe messo dei testi. Sicuramente uno doveva essere Mauro Pagani, pensava a uno in chiave jazz, l'altro più classico. Forse inconsciamente già presagiva la fine, chissà, poi è andata com'è andata, c'era il tour ma si sentì male, dovette interrompere e l'idea è rimasta lì".

Dori è una splendida custode, un'appassionata vedova generosamente convinta che il "suo" Fabrizio sia in realtà di tutti, che le cose che lui ha lasciato debbano essere condivise, che in qualche modo appartenga a tutti quelli che l'hanno amato. Non è gelosa, se non dei privatissimi ricordi che, quelli sì, tiene per sé, accuratamente nascosti. Una volta Fernanda Pivano, scorgendo un velo di tristezza sul volto le disse: "Non essere gelosa, quell'uomo ti ha amato enormemente, anche adesso sarà lassù che ti pensa".

Quando rivede i fogli, i libri fitti di note, alcune delle quali sono diventate canzoni, si perde, si vede che l'emozione le stringe la pancia, ma non cede, solo gli occhi per un momento si velano, si intuisce lo sforzo, la voglia di far di tutto per scindere la sua immagine privata dal patrimonio che deve diventare collettivo, da cui la voglia di lavorare, di non lasciar cadere nulla.

"Mi piacerebbe che i quattro Notturni venissero comunque scritti, ora vedremo se riusciamo a riprendere l'idea". Ma era pur sempre il suo uomo, il suo amato compagno di vita, e il viso si distende in un sorriso quando le ritorna in mente l'umorismo sottile e lucido che Fabrizio spargeva intorno a sé: "Con Berio avevano deciso di scrivere il nuovo inno italiano", ricorda, "poi però erano tutti e due liguri, e quando hanno scoperto che comunque non avrebbero beccato una lira come autori, dissero, ma allora belìn... Ma no, magari l'avrebbero fatto davvero, chissà? Di sicuro era stato un incontro di quelli che capitano quando due persone si piacciono e vogliono fare qualcosa insieme, così dissero: e perché non l'inno d'Italia?".

Ci troviamo all'Università degli studi di Siena, dove è stato creato il Centro Studi De André. Nel 2003 la Fondazione costituita in suo nome ha deciso di affidare il materiale disponibile al Centro. Tutto è stato chiuso nella grande cassaforte in quella che i tecnici chiamano "la capanna", una grande stanza che si allunga nel giardino come una protuberanza moderna delle antiche mura dell'Università. E da allora un agguerrito gruppo di studio lavora alla catalogazione di questo infinito materiale. Gianni Guastella e Stefano Moscadelli sono a capo del progetto. Usano un sistema molto sofisticato che si chiama Dam (Digital Assett Management), l'unico installato in Italia, e che rispecchia il lavoro dell'archivista, diviso in cinque sezioni: 1) Lettere ai genitori. 2) Corrispondenza (carteggi). 3) Atti e documenti, ovvero varie eventuali. 4) Manoscritti di lavoro, fogli sciolti, agende, un quaderno-raccoglitore ad anelli con tutto Anime salve. 5) Materiale librario. C'è la schedatura, la digitalizzazione, e poi l'inventariazione: brutta parola che, come ci spiega Moscadelli, il capo archivista, un professore che si è preso un anno sabbatico per dedicarsi a questo lavoro, non è come la catalogazione che tende a individuare ogni singola parte come un elemento a se stante.

"Inventariare significa riunire tutte le informazioni e correlarle", spiega, "rendere possibile la consultazione, organizzare percorsi, link, connessioni tra le diverse tipologie. Per esempio, alcuni materiali sono semplici, ma possiamo imbatterci in un foglio in cui c'è un frammento di un testo di una canzone, degli appunti, magari un promemoria di qualcosa: in quel caso è più difficile". Ogni singola scatola è come una miniera, una mappa del tesoro.

A gettare l'occhio in questa rigogliosa cornucopia di parole sembra di essere indiscreti, di violare la trama segreta dei documenti che compongono un'esistenza, a partire dall'atto di nascita, foto scolastiche, una commovente letterina indirizzata a Gesù Bambino, destinazione Paradiso, datata Natale 1946, in cui chiede soldatini e attrezzi da falegname o, in mancanza, il libro L'alba, meglio conosciuto come La storia di Allegretto e Serenella, di Virgilio Brocchi.

Da un'altra scatola escono fogli a righe e quadrettati, zeppi di versi e annotazioni. C'è un frammento de La domenica delle salme, la più spietata e agghiacciante delle sue canzoni politiche, un ritratto impietoso e tragicamente profetico dell'Italia che si affacciava agli anni Novanta, con frasi diverse dalla versione definitiva: "Voi che avete cantato per i longobardi e per i socialisti", e "socialisti" diventò poi "centralisti", oppure "sotto le falci e i martelli e ai matrimoni degli Agnelli", al posto di "nei palastilisti e dai padri Maristi", e c'è un segno che cancella "gole taglienti" preferendo "voci potenti", che rimarrà nella versione definitiva. Sul retro di un libro, Summa di Maqroll il gabbiere, di Alvaro Mutis, ci sono versi che poi finiranno in Disamistade e alla fine una dedica: "A L. con tutto il disordine del mio affetto".

Neanche Dori Ghezzi può dire con certezza a chi fosse riferita. Forse alla figlia Luvi? Uno dei problemi che stanno affrontando quelli del Centro Studi è proprio questo: capire, attribuire, riportare nel giusto solco il disordine naturale di un intellettuale che prendeva appunti dovunque, e molto spesso non si preoccupava di denunciare fonti e paternità. "Leggiamo una frase", spiega Guastella, "e non sappiamo dire con assoluta certezza se è di Fabrizio o se aveva appuntato una frase di qualcun altro che l'aveva colpito. Per questo il lavoro è lungo e laborioso".

Del resto da questi fogli emerge un metodo di lavoro che sembra divorare spunti e citazioni prese da ogni parte. Ci sono ritagli di giornali, sottolineati. Una pagina di Repubblica sugli scontri a Gerusalemme, il resoconto di cronaca dell'omicidio di un viados. L'appunto di De André sottolinea come fosse rimasto colpito dalla spettacolarizzazione della vicenda, ed è un tema che puntualmente ritorna nei versi di Princesa.

Se già si poteva intuire la sua vorace e molteplice cultura, a vedere questi fogli si rimane impressionati. E questa aura da intellettuale d'altri tempi era percepita anche dai suoi colleghi. "Spesso venivano da lui a chiedere consigli", ricorda Dori Ghezzi, "a sentire un parere su quello che facevano. Negli ultimi anni Antonello Venditti veniva a casa a fargli ascoltare i suoi pezzi". C'è un'intera sezione di libri, portati qui al Centro perché zeppi di annotazioni. Era uno di quelli che i libri li brutalizzava, li sciupava, ci scriveva dentro come fossero cibo per nutrire la sua avidità intellettuale.

Ci passano tra le mani un'edizione di Perché leggere i classici di Italo Calvino, poi Il vicerè di Ouidah di Bruce Chatwin, e tutte le opere di Alvaro Mutis. Tra le quali scopriamo annotazioni divertenti. De André era molto preso dai libri dello scrittore colombiano e la lavorazione del suo ultimo disco, Anime salve, ne fu condizionata. Con l'accordo di Mutis, al punto da formulare un messaggio per lui: "Grazie per l'autorizzazione al saccheggio. Ci limiteremo all'argenteria". Ma anche questa frase è provata e riprovata, con molte varianti, come se dovesse essere il verso di una canzone.

E la forza di Mutis dietro al lavoro di Fabrizio si avverte soprattutto in Smisurata preghiera, l'ultima canzone del disco e l'ultima in assoluto della vita artistica di De André, considerata a ragione il suo testamento spirituale. C'è un ampio blocco di appunti legato alla composizione di Disamistade, preziosissimo per comprendere quella sua maniacale attenzione alle parole: il senso di responsabilità che sentiva su ogni parola, il peso del significato, in fin dei conti il ruolo stesso del cantautore.

Le scatole sono come cilindri da prestigiatore. C'è una lettera della madre di Fabrizio, che sbirciamo con inevitabile pudore. Leggiamo solo l'inizio ed è un meraviglioso squarcio di vita: "Fabrizio nacque nello stesso momento in cui sul giradischi suonava il valzer campestre di Gino Marinuzzi". È anche questa una rivelazione perché De André, chissà se in debito a questo battesimo musicale o inconsapevolmente, rimase affezionato a quel valzer carico di promesse contadine e molti anni dopo ci scrisse sopra una delle sue canzoni più famose, Valzer per un amore, quella che comincia con "Quando carica d'anni e di castità, tra i ricordi e le illusioni...".

Da un'altra scatola spunta un foglio intitolato "il Puparo". Né Dori né gli archivisti sanno dire di cosa si tratti esattamente, ma tutto fa credere che siano variazioni sul tema del Guerrin Meschino, il poema cavalleresco scritto nel Quattrocento da Andrea Barberino, o, più verosimilmente, uno sguardo rivolto alla rivisitazione immaginata da Gesualdo Bufalino come opera di pupi. Ma ci sono anche occasioni per sorridere. Da vari fogliettini emergono ricette culinarie, risultati della giornata calcistica e perfino le formazioni del Genoa.

Il materiale manoscritto è copioso soprattutto per quanto riguarda gli ultimi anni di vita. "Una spiegazione c'è", racconta Dori Ghezzi, "e si capisce anche dalla corrispondenza, che era tanta e c'è solo dal 1994, e questo vale anche per molti manoscritti. Perché, quando la tenuta dell'Agnata in Sardegna da abitazione privata è diventata agriturismo, e io c'ero e non c'ero, lavoravo, lì hanno cercato di togliere tutto ciò che era personale, e allora secondo me lì, purtroppo, hanno eliminato un sacco di roba".

L'Agnata era la amatissima casa in Sardegna dove lui e Dori passavano gran parte del tempo. A volte De André lavorava solo per guadagnare soldi da riversare in quel pozzo senza fondo che era la tenuta. Fu lì che furono sequestrati dai banditi e Dori ricorda un momento in cui riuscirono perfino a riderne: "Fabrizio si arrabbiò molto perché i sequestratori gli dissero che, oltretutto, come cantautore preferivano Guccini. E lui disse: belìn, allora perché non avete preso Guccini?".

Una volta l'anno l'Agnata si apre al pubblico. Il festival jazz di Berchidda, diretto da Paolo Fresu, organizza una serata nei campi della tenuta, con gente che viene da tutte le parti, e si fa musica, jazz, sui temi di De Andrè. Domani, 13 agosto, è il giorno prescelto per quest'anno e ci saranno Fresu, Gianmaria Testa e Lella Costa. È una delle tante iniziative che si svolgono nel nome di De André. Forse troppe? "Sì, forse sì, ma molte non siamo in grado di fermarle, e non sarebbe neanche giusto. Più che altro ci preoccupiamo di stimolare cose che ci sembrano interessanti. Per esempio la Fondazione patrocina due ragazze, Eleonora D'Urso e Maria Pierantoni Giua: vanno in giro con uno spettacolo magnifico che si intitola Volammo davvero, tutto dedicato alle canzoni di Fabrizio. E poi c'è il lavoro del Centro. Il sogno è che possa diventare un luogo accessibile a tutti".

Cosa in parte già possibile. C'è un sito, consultabile, e l'archivio è aperto agli studenti per le tesi universitarie. "La cosa più singolare", nota Moscadelli, "è che la maggior parte sono incentrate su La buona novella, sembra il disco più amatodai giovani". Ma praticamente tutti i suoi dischi sono pietre miliari. Frutto di attente meditazioni, di sguardi brucianti e indiscreti sul mondo circostante. Uno sguardo affinato da una lunga abitudine alla solitudine, e qui ci piace ricordare questa vocazione grazie a un foglio bianco, manoscritto, trovato tra i suoi appunti. Si intitola "la solitudine": "L'unico status mentale, spirituale e talvolta necessariamente fisico, in cui si riesca a ottenere un contatto con l'assoluto, dentro di sé e fuori di se stessi. Intendo la solitudine come scelta, non l'isolamento che è sinonimo di abbandono e quindi di una scelta operata da altri. Personalmente mi considero la minoranza di uno e spesso trovo nella solitudine il modo migliore, forse l'unico, per preservarmi da attacchi esterni tesi anche inconsapevolmente ad interrompere il filo dei pensieri o a disturbare le sempre più rare vertigini di qualche sogno".

(12 agosto 2007) 

da repubblica.it
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