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Autore Discussione: IL PRIMO ANNO DI OBAMA  (Letto 2674 volte)
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« inserito:: Novembre 04, 2009, 11:26:53 am »

IL PRIMO ANNO DI OBAMA

Dall'audacia della vittoria alla timidezza del governare

E c’è chi ormai si chiede: «Dov’è finita la sua poesia?»


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

WASHINGTON — «Dov’è la poesia di Obama?», si chiede Tom Friedman, premio Pulitzer e principe dei commentatori ameri­cani. Ed è quesito invero paradossale, per un leader arrivato alla Casa Bianca anche gra­zie al fascino travolgente della sua retorica, alla capacità di ispirare milioni di elettori con discorsi entrati nella leggenda.

Ma per Friedman, che queste cose le dice anche di persona al presidente quando gio­cano a golf nella base di Andrews, la «man­canza di poesia» è il vero problema di Ba­rack Obama, un anno dopo la storica notte del 4 novembre 2008. «Sono volutamente cauto — ci spiega al tavolo all’aperto di un caffè di Bethesda, sorseggiando un cappucci­no scremato —. È presto, ci sono troppe co­se in ballo: per dire, se andasse in porto la riforma sanitaria, scolpirebbero il suo profi­lo sul Monte Rushmore. Penso però che Oba­ma abbia perso la sua narrativa, il racconto che leghi e connetta fra di loro le cose molto ambiziose che sta cercando di fare su sanità, energia, economia o istruzione».

Friedman considera infatti i tanti cantieri di Obama tutti elementi di quella «nation bu­ilding at home», la ricostruzione della nazio­ne al suo interno, senza la quale l’America «è condannata al declino». Ecco, «Obama non è riuscito ad articolare insieme i suoi programmi e le iniziative in una visione: ciò ha reso molto facile per gli oppositori dele­gittimarli uno per uno. Certo, è curioso ve­derlo sulla difensiva, quando potrebbe argo­mentare che sta facendo qualcosa di incredi­bilmente patriottico» . Secondo il profeta dell’economia verde, «agli occhi degli americani Obama appare confuso, proprio perché non ha un racconto coerente, che motivi tutti gli strati della so­cietà e dia loro uno spirito di sacrifico condi­viso. Sono ancora eccitati per averlo votato, ma non hanno la percezione chiara della di­rezione» .

Vale anche per la politica estera: «Ha avu­to una serie di intuizioni e lanciato iniziative giuste — dice Friedman —, alcune inevitabi­li e necessarie per affrontare le crisi eredita­te. Ma se mi chiede quale sia l’obamaism sul­la scena internazionale, non saprei dirlo. Obama è un work in progress. Potrebbe rive­larsi grandissimo, oppure fallire».

«Ma la Storia ci insegna a non prendere troppo sul serio il primo anno di un presi­dente », ribatte Larry Sabato, direttore del Center for Politics alla University of Virgi­nia , il politologo più citato degli Stati Uniti. Nessuno, ricorda, aveva previsto come il Vietnam avrebbe affossato Johnson o il Wa­tergate Nixon, né alcuno nel 1993 avrebbe scommesso un dollaro falso sulla rielezione di Bill Clinton tre anni dopo. «La luna di mie­le di Obama è finita nei tempi tradizionali — spiega Sabato —, al momento il presiden­te ha un tasso di approvazione intorno al 53%, la stessa percentuale con cui è stato eletto. Ci sono segnali incoraggianti dall’eco­nomia e ora anche dalla riforma sanitaria. Al­tre cose sono preoccupanti, come l'Afghani­stan o il debito pubblico, che ormai gli ap­partengono in pieno».

«Purtroppo l'audacia della vittoria ha ce­duto il posto alla timidezza del governare», sospira al telefono Arianna Huffington, gran­de dame dei blogger progressisti, fondatrice e direttrice dell’Huffington Post, obamiana della prima ora. Delusione, solo in parte con­fortata dalla speranza che «Obama torni a es­sere Obama», è il suo sentimento dominan­te. Passionale come vogliono i suoi natali greci, Huffington lancia un cri du coeur: « È lo stile della sua leadership che trovo delu­dente. Ho paura che non abbia imparato la lezione dei grandi confronti politici america­ni: hanno tutti richiesto di combattere fino a quando la battaglia non è stata vinta. Lo ri­corda David Plouffe, il manager della campa­gna, nel suo libro: 'Obama ha corso convin­to che il Paese abbia bisogno di un cambia­mento profondo e radicale e che le lobby ab­biano troppo potere'». Ma una volta alla Ca­sa Bianca, questa convinzione si è dissolta: «Il presidente sembra credere che ciò che sia buono per Goldman Sachs sia buono an­che per l'America. Ma ciò mina la fiducia del pubblico nel governo». Huffington ce l’ha so­prattutto con Larry Summers, il primo consi­gliere economico, che durante i meeting nell'Oval Office, di fronte ai nuovi dati su disoccupazione e pignoramenti di case, è uso commentare: «Non c’è nulla da fare». «È l’opposto di yes, we can», commenta amara Arianna, che invoca Obama a «tornare alle ori­gini » e non mollare «chi lo ha eletto, certo che avreb­be cambiato un sistema marcio » .

Non è d’accordo Fareed Zakaria, direttore di Newsweek International, il guru della globalità che ha ispirato molte delle idee di Obama. «Il bilancio è lar­gamente positivo. Ha dato un potente contri­buto a stabilizzare l’economia mondiale, con una risposta massiccia e rapida che ha impedito una depressione stile Anni Trenta. L’avvio della ripresa è avvenuto più veloce­mente di quanto nessuno avesse previsto. E questo va a suo credito». Sulla politica este­ra, Zakaria è più cauto: «Ha spianato il terre­no per un’America più disposta ad ascoltare e capire. Ma le idee non hanno ancora trova­to applicazione. È ingiusto dire che ha fallito come fanno i repubblicani, ma i risultati de­vono ancora venire». E le attese deluse? «L’elezione di Obama è stata la prima gran­de storia politica globale: giovane, birazzia­le, cosmopolita, ha sollevato attese impossi­bili e sta tentando di fare cose impensabili. Certo, se qualcuno ha creduto che cammi­nasse sulle acque, sarà deluso. Ma in realtà il suo è un buon inizio». Errori? «Sulla riforma sanitaria, non ha af­frontato di petto il problema più grave, i co­sti astronomici, scegliendo di non sfidare apertamente le lobby. Potrebbe pentirsene».

Paolo Valentino

04 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 14, 2009, 10:57:16 am »

Importante discorso del presidente Usa a Tokyo

"L'ascesa di Pechino non ci spaventa, non cercheremo di contenerla"

Obama lancia la "dottrina cinese"

"Non è una minaccia per l'America"

dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI


TOKYO - "L'ascesa della Cina non ci spaventa, non è una minaccia per l'America. Lo sviluppo delle nazioni non è un gioco a somma zero in cui l'una vince se l'altra perde". Barack Obama sceglie Tokyo per un solenne discorso programmatico, in cui espone per la prima volta la sua "dottrina cinese". Un tema scottante e delicato su cui i suoi predecessori alla Casa Bianca sono spesso apparsi titubanti, incerti tra la rivalità strategica e il compromesso tattico basato sugli interessi del momento.

Obama sa che il XXI secolo sarà segnato dalla sfida tra le due superpotenze ma esclude ogni analogia con il confronto Usa-Urss durante la guerra fredda. "Noi non cercheremo di contenere la Cina", dice, con un evidente riferimento alla dottrina del "contenimento" della minaccia sovietica che fu in auge a Washington nei decenni della tensione con Mosca.

Nel suo primo viaggio in Asia, dove a più riprese si autodefinisce "il presidente americano che viene dall'Asia-Pacifico" (perché nato alle Hawaii e cresciuto in Indonesia), Obama riconosce alla Repubblica Popolare un merito immediato e concreto: "La Cina ha mostrato di svolgere un ruolo chiave nel far ripartire la crescita economica globale". Mai in precedenza era venuto dall'America un omaggio così esplicito al ruolo di "locomotiva" esercitato da Pechino negli ultimi mesi, mentre il resto del mondo era in recessione.

Davanti a un pubblico giapponese particolarmente sensibile a questo tema, questo sabato mattina Obama aggiunge nel passaggio sulla Cina un accenno ai diritti umani: "Noi non rinunceremo mai a parlare in favore dei nostri valori, la difesa dei diritti individuali e della libertà religiosa. Ma lo faremo in uno spirito di cooperazione". E' un approccio soft, a poche ore dall'incontro con il presidente cinese Hu Jintao (stasera al vertice Apec di Singapore, tre giorni dopo a Pechino). Obama non cita esplicitamente il Tibet o lo Xinjiang, né casi specifici di abusi del governo cinese contro i diritti umani.

Fa nomi e cognomi, invece, nel caso della Birmania. "Abbiamo deciso di comunicare direttamente", annuncia, confermando che al vertice dell'Apec a Singapore incontrerà il premier di Myanmar. Si interrompe così un lungo gelo diplomatico fra i due paesi. Visto che la politica dell'embargo e delle sanzioni non ha portato ad alcun miglioramento, Obama tenta anche in questo caso la strada del dialogo. Con fermezza, però: "Al premier birmano dirò questo: se volete la fine delle sanzioni dovete migliorare la situazione dei diritti umani e liberare i prigionieri politici, a cominciare dalla signora Aung San Suu Kyi".

Questo sabato mattina, ultima giornata della visita a Tokyo, per Obama è stato finalmente l'occasione di un bagno di folla, in un paese dove la sua popolarità è ancora alle stelle. La cornice del suo discorso è il teatro sinfonico Suntory Hall. Sul palco, un sipario azzurro con una lunga fila di bandiere americane e giapponesi. Un'orchestra intrattiene il pubblico con "Eine Kleine Nachtmusik" di Mozart, prima dell'arrivo della superstar globale.

L'emozione è grande quando Obama prende la parola, e lui non delude. "Premia" i giapponesi con una serie di ricordi personali, che risalgono all'infanzia trascorsa a Giacarta, in Indonesia. "Da bambino - racconta - mia madre mi portò qui in Giappone, in visita a Kamakura. Vidi quel simbolo di pace che è la grande statua dell'Amida Budda, ma per la verità ero più attratto dal vostro gelato matcha". Risate e applausi. Seguono altre ovazioni quando parla di "valori comuni fra le nostre due democrazie" e di "rifondare l'alleanza su una base di parità e mutuo rispetto".

In giornata Obama vola a Singapore per il summit tra gli Stati membri dell'Apec, l'associazione Asia-Pacifico. "Il benessere dell'America dipende in gran parte da quel che accade in quest'area del mondo". A Singapore Obama porterà un'altra dottrina, quella sullo sviluppo "equilibrato" che espose già al G-20 di Pittsburgh. In sostanza: perché gli americani smettano di vivere al di sopra dei loro mezzi e comincino a ridurre i loro debiti, sostiene Obama, occorre che i giganti asiatici consumino e importino di più. Un suo consigliere economico cita questo dato: se l'Asia importa l'1% in più di prodotti "made in Usa", si creano in America 250.000 posti di lavoro.

© Riproduzione riservata (14 novembre 2009)
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