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Autore Discussione: Lévi-Strauss: i miei felici cento anni nei «Tristi Tropici»  (Letto 2540 volte)
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« inserito:: Novembre 04, 2009, 11:21:21 am »

Lévi-Strauss: i miei felici cento anni nei «Tristi Tropici»

di Anna Titotutti


«Odio i viaggi e gli esploratori»: così inizia Tristi Tropici. E lui conferma: «L’idea di prendere un aereo, di atterrare in un aeroporto che è dovunque uguale, per me è terribile».
Dopo il Brasile Claude Lévi-Strauss abbandonò quasi del tutto le ricerche sul campo: «In parte per mia scelta: sono un pessimo “lavoratore sul campo”, e di questo mi ero già reso conto in Brasile. Al contrario di altri, io non riesco a vivere per due o tre anni insieme a un popolo, osservandolo. Mi sono orientato nel dopoguerra verso l’etnologia, che era in fase evolutiva, e si erano accumulate tali quantità di materiali e in maniera tanto confusa da renderli inutilizzabili. Scrissi perciò Le strutture elementari della parentela, per analizzare e razionalizzare tutti i dati disponibili sulle regole del matrimonio, per raggiungere un nuovo traguardo… Ma senza la guerra, nonostante la mia totale mancanza di talento, avrei forse continuato a lavorare “sul campo”». Già, la guerra, di cui non avvertì l’imminenza, ammette laconico: «Così come non mi resi conto del pericolo che rappresentava Hitler, o della minaccia fascista. Ero, come tanti, totalmente inconsapevole». Ma, continua senza tentare di giustificarsi, «non si può vedere ciò che non ha precedente alcuno».

A conferma di quanto poco avesse realizzato della situazione, ricorda ridendo che: «Nel settembre del 1940, subito dopo la disfatta e l’armistizio, mi venne in mente di recarmi a Vichy per chiedere l’autorizzazione di tornare a Parigi, occupata dai nazisti, per insegnare nel liceo al quale ero stato assegnato!». Fu soltanto allorché l’addetto ai permessi lo guardò stralunato balbettando: «Ma, con il cognome che porta, come le salta in testa di andare a Parigi?» Beh, «soltanto allora cominciai a capire». Di essere ebreo però si era accorto prestissimo, in quanto «nella mia famiglia si rispettava la tradizione ebraica, e non soltanto per via di mio nonno materno rabbino. I miei genitori non erano credenti, ma mia nonna digiunava per lo Yom Kippur… Noi vivevamo da sfollati a Versailles, durante la prima guerra, e mia madre preparava dei panini al prosciutto che andavo a divorare nel parco, nascosto dietro le statue, per non venire scoperto dal nonno». Dell’antisemitismo Lévi-Strauss ritiene di essere stato poco vittima, anche se «fin dalla scuola materna mi hanno trattato da “sporco ebreo”. E continuarono al liceo. Ma io reagivo a pugni, e per fortuna è accaduto raramente». E poco lo interessava il sionismo: «Avevo compagni di scuola ebrei come me, e ci sembrava doveroso versare del denaro affinché fosse piantato un albero, il nostro, in Israele. Pochi anni fa, per la prima volta, mi sono recato in Terrasanta, e mi sono chiesto dove poteva trovarsi l’albero che avevo contribuito a finanziare». Tutto qui. Prima della partenza per il Brasile si era però impegnato in politica: «Militavo nel Partito socialista. Collaboravo con il giovane e brillante parlamentare Georges Monnet, per il quale scrissi non poche proposte di legge». E a San Paolo l’antropologo ascoltava emozionato sulle onde corte i risultati delle elezioni francesi del 1936, che portarono alla formazione del governo del Fronte Popolare. Monnet era stato nominato ministro e «ero convinto che mi avrebbe voluto al suo fianco, che avrei anch’io preso parte allo storico evento, ero pronto a fare ritorno in Francia. Ma Monnet non mi chiamò mai». È forse per via di questa mancata carriera politica che, al ritorno dagli Stati Uniti, contrariamente ai suoi colleghi, sempre rifiutò di prendere posizione, di firmare manifesti o di utilizzare il riconoscimento scientifico di cui godeva per far prevalere il proprio punto di vista. La sua reticenza emerse nel corso degli avvenimenti del maggio ’68, e poi nei confronti delle forme più «urlate» dell’anticolonialismo e dell’antirazzismo, criticò con vigore alcune tendenze dell’arte contemporanea. Il fatto che lo abbiano definito un conservatore lascia Lévi-Strauss del tutto indifferente, poiché per lui la figura scientifica dell’antropologo va nettamente distinta da quella dell’intellettuale impegnato: «Il mondo è troppo complesso e un ricercatore non può prendere posizione su tutto ciò che avviene».

Continuiamo quindi sul filo della storia personale: lui ricorda il Don Chisciotte di Cervantes, «che leggevo e rileggevo continuamente. Quando avevo sette o otto anni, mio padre o mia madre aprivano il libro, mi leggevano un brano e io recitavo il seguito. Insomma, lo conoscevo a memoria». Figlio di un pittore, nipote di due noti musicisti, Lévi-Strauss è anche disegnatore, poeta, appassionato di narrativa, di cinema e di teatro, cultore di musica. Ha sempre applicato ai propri studi il metodo dell’interdisciplinarietà, molto prima che diventasse di moda: «Non per mia volontà - si schernisce - ma per via dell’ambiente in cui sono cresciuto». Constata però che «questo ha forse influenzato in maniera negativa il mio lavoro, inducendomi a una certa dispersione, mentre se invece mi fossi concentrato in un solo ambito, avrei fatto di più». Cosa di più, non sappiamo.

27 novembre 2008
da unita.it
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