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Autore Discussione: MICHELE BRAMBILLA  (Letto 3505 volte)
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« inserito:: Novembre 02, 2009, 10:28:15 am »

2/11/2009

Il delitto il castigo e la pietà
   
MICHELE BRAMBILLA


La brigatista Diana Blefari Melazzi si è impiccata in cella come il Michè della ballata di Fabrizio De André e il primo sentimento nel cuore di ognuno di noi è quello di una misericordia che non deve essere negata a nessuno, neanche agli assassini. Guai se finisse come in quella ballata: «Domani alle tre / nella fossa comune cadrà / senza il prete e la messa / perché di un suicida / non hanno pietà». L’Italia è però un Paese che in tema di delitto e castigo reagisce spesso più con l’istintività che con la ragione. Ci si straccia le vesti ogni volta che un giudice emette sentenze ritenute troppo morbide, e ogni volta che un reo o anche un semplice indiziato lascia il carcere. Nel caso dei terroristi, poi, si pensa che alla maggior parte di loro - tra leggi sui pentiti, sconti, permessi di lavoro eccetera - sia andata fin troppo bene. Ci indigniamo, e non senza buone ragioni, quando un ex brigatista rosso o nero va a tenere conferenze.

Eppure ieri la morte di Diana Blefari Melazzi è stata fatta passare come un mezzo assassinio di Stato. Ascoltando le prime reazioni, sembrava che questa donna in carcere ci fosse finita per sbaglio, e ci fosse rimasta per l’ostinazione vendicativa di uno Stato che non ha voluto tener conto delle sue condizioni di salute psichica; condizioni, come si dice in questi casi, «incompatibili con la detenzione». Si rischia così, ancora una volta, di perdere di vista la realtà dei fatti e il senso dell’equilibrio.

Ora, è vero che un suicidio in carcere è sempre - oltre che una tragedia personale - una sconfitta per lo Stato. Il ministro Alfano ha annunciato un’inchiesta, che ci auguriamo non preveda sconti per nessuno. Ma per mettere alcuni punti fermi, e per distinguere la pietà dalla giustizia, bisognerà ricordare che Diana Blefari Melazzi al momento dell’arresto si era dichiarata «militante rivoluzionaria del partito comunista combattente»; che nel covo che aveva preso in affitto furono trovati, oltre all’archivio delle nuove Br, cento chili di esplosivo; che sul suo computer c’era un file con la rivendicazione dell’«esecuzione»; che se lei era in cella, Marco Biagi - l’uomo che aveva pedinato per giorni, compresa la sera dell’omicidio - è sotto terra da sette anni; che nessun pentimento è stato espresso. Infine, bisognerà ricordare pure che questa donna è stata ritenuta colpevole in tutti i gradi di giudizio. Era «incapace di stare in giudizio», come dice ora chi parla di suicidio annunciato? Può darsi. Ma una perizia psichiatrica c’è stata, e lo ha escluso. Sono cose sgradevoli da ricordare, ma così come Diana Blefari Melazzi ha diritto alla pietà, i giudici che ora passano per carnefici hanno diritto alla verità.

Tutto questo premesso, non c’è dubbio che - lo ripetiamo - un suicidio in carcere sia una sconfitta per lo Stato, e per lo Stato italiano si tratta della sessantesima sconfitta dall’inizio dell’anno. Ma sì: sessanta sono stati i suicidi in cella dal primo gennaio. Altre 87 persone sono morte in carcere, ed è ancora più inquietante sapere che, fra questi 87, il numero di «morti per cause da accertare» supera quello di «morti per malattia». La contabilità diventa ancor più macabra se prendiamo in esame gli ultimi dieci anni: 1500 morti in carcere, un terzo per suicidio.

Ieri si faceva notare che a Rebibbia - dove s’è uccisa la Blefari - invece che 164 agenti ce ne sono in servizio 110. Molte guardie vengono assegnate a compiti amministrativi, sicuramente più agevoli e probabilmente meno utili. Non c’è dubbio che ci sia un difetto nei controlli. Ma c’è da chiedersi se sia solo un problema di guardie insufficienti.

Ne dubitiamo. Forse è anche e soprattutto un problema di sovrappopolazione carceraria; sovrappopolazione che rende più difficili i controlli e più disumane le condizioni di vita dei detenuti. Il ministro Maroni ha più volte fatto notare che senza gli immigrati clandestini le carceri non esploderebbero. E’ un’osservazione da tenere in grande considerazione. Ma l’uomo della strada si chiede anche perché in Italia ci sia così tanta gente in carcere per piccoli reati quando poi vediamo bancarottieri e - appunto - terroristi lasciare le sbarre con tanto anticipo. Difficile indicare una soluzione. Più facile per ora la diagnosi, che è quella di un Paese che vive una specie di schizofrenia: da una parte una diffusa impunità, dall’altra una punizione che diventa ingiustizia.

Fra i tanti problemi urgenti da mettere subito nell’agenda politica c’è anche questo.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Marzo 29, 2010, 09:32:32 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:39:01 am »

22/1/2010

Almeno su Dio non si litiga
   
MICHELE BRAMBILLA

A Verona l’altra sera c’erano mille persone in una sala pubblica per sentire il vescovo Giuseppe Zenti e l’astrofisica Margherita Hack impegnati in duello su un tema non proprio da niente: esiste Dio? All’esterno c’erano almeno altre cinquecento persone che avrebbero voluto assistere al confronto tra il monsignore e la scienziata atea.

E che hanno dovuto accontentarsi di ascoltare in qualche modo da un altoparlante.

Chi scrive aveva l’incarico di moderare i due contendenti; e soprattutto di moderare il pubblico, equamente diviso tra i cattolici veronesi e i militanti della Uaar (Unione atei e agnostici razionalisti, dei quali la Hack è presidente onorario) venuti in pullman da mezza Italia. Il timore era che la temperatura salisse come ai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini. Invece, proprio sotto gli occhi della professoressa Hack, che ai miracoli non crede, è avvenuto un miracolo. Rispetto reciproco, toni garbati, accettazione da parte del pubblico dell’invito a non interrompere con applausi o contestazioni. Solo alla fine c’è stato un lungo, quasi interminabile applauso a entrambi i «contendenti», un applauso la cui intensità è sembrata significare un «grazie per averci parlato di questi temi».

Naturalmente - e ci mancherebbe - nessuno dei due ha cambiato idea. Però nessuno dei due ha preteso che la propria fosse tale da imporsi con l’evidenza dei fatti e della ragione. Margherita Hack si è ben guardata dal fare come alcuni suoi colleghi e (se ci si passa il termine) «correligionari» i quali pretendono di affermare che uno scienziato non può credere in Dio, e che c’è contrasto tra scienza e fede. «La scienza - ha detto - non può dare risposte alla domanda sull’esistenza o sull’inesistenza di Dio. Infatti ci sono scienziati atei, agnostici e credenti. Io non credo, ma non ho una ragione scientifica per non credere. Semplicemente penso che, di fronte al Mistero dell’Universo e della Vita, l’idea di un Dio creatore sia una risposta un po’ facilona. Anch’io sono meravigliata nel constatare che da una zuppa primordiale di particelle elementari si sia sviluppata una vita così complessa. Ma mi accontento di spiegarlo con l’esistenza della materia. Sono atea, ma ammetto che anche il mio ateismo è una fede non dimostrabile».

Monsignor Zenti ha replicato che «la materia non spiega tutto, basta osservare l’uomo, le cui attività sono in gran parte immateriali: il pensiero, le emozioni, i sentimenti». E ha spiegato che la sua fede deriva da un’esperienza: «È la vita che mi dimostra che Dio c’è ed è in relazione con me». Non sono mancati i colpi di fioretto: «L’uomo si è inventato Dio anche per esorcizzare la paura della morte», ha detto la Hack. Affermazione alla quale un credente potrebbe replicare che l’ateismo è la tentazione dell’uomo di sentirsi padrone di decidere da sé che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Discussioni che potrebbero continuare all’infinito.

Ma che l’altra sera hanno avuto l’inedito sapore del rispetto e dell’umiltà, facendo da lezione a un Paese dove pare che ogni discussione sia una battaglia all’ultimo sangue, e dove nessuno si vuole discostare di un millimetro dalla propria fazione di appartenenza: berlusconiani contro anti-berlusconiani, craxiani contro anti-craxiani, feltriani e finiani, Bossi e Casini, Fede e Santoro, Inter e Milan, tutti siamo ormai abituati a litigare partendo da una aprioristica scelta di campo.

La folla di Verona dell’altra sera è pure il segno di quanto fossero sbagliate le previsioni di coloro che volevano l’uomo del Duemila indifferente alla questione religiosa. Anche nel mondo delle cybercomunicazioni e dell’ingegneria genetica, la domanda sull’esistenza o meno di Dio resta la stessa dei primi passi dell’umanità; e la sola destinata ad appassionare per sempre. Perché non è una domanda che riguardi solo il Cielo (è abitato o no?), questione della quale potremmo anche infischiarcene. Riguarda ciascuno di noi, la nostra origine e il nostro futuro. Siamo figli di un Progetto destinati all’Eternità? Oppure, come diceva amaro Petrolini, «siamo pacchi senza valore che l’ostetrica spedisce al becchino?». Il grande pubblico di Verona è anche, se ci è permesso, una lezione per tanto clero, che da tempo - forse nell’illusione di «seguire il mondo» - parla più spesso e volentieri di politica e di sociologia, trascurando il suo core business, l’unico che possa riempire nuovamente le chiese.

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 29, 2010, 09:19:07 am »

29/3/2010

Il futuro non è un costo
   
MICHELE BRAMBILLA

Oggi pubblichiamo un’inchiesta che manda un po’ in crisi il mito della scuola pubblica libera e gratuita per tutti. L’ha fatta Flavia Amabile e la trovate alle pagine 8 e 9. La riassumiamo a beneficio soprattutto di chi non ha figli a scuola, e troverà incredibili alcuni dei fatti che riportiamo. Ad esempio. La tassa statale per l’esame di maturità è di 12,03 euro: ma sono sempre di più gli istituti che richiedono un contributo straordinario. Chi 20 euro, chi 30, chi 50. Qualcuno arriva a chiederne 90.

Si tratta naturalmente di contributi volontari, come volontari sono i versamenti che sempre più spesso vengono richiesti all’inizio di ogni anno scolastico. Mi permetto una testimonianza personale. Al liceo classico (statale, s’intende) frequentato da mia figlia, quest’anno si è chiesto un contributo di 120 euro per alcune spese correnti cui non si riusciva a fare fronte: fra quelle indicate, l’acquisto dei cestini per gli assorbenti delle ragazze. Mi si perdoni se entro nei particolari: ma serve per dare l’idea di come sono ridotti i budget delle scuole. D’altra parte potete leggere anche nell’inchiesta della collega Amabile che lo stesso acquisto della carta igienica è a volte un problema. Così come le fotocopie: sono sempre più numerosi gli insegnanti che chiedono agli studenti di provvedere da soli.

Ovviamente non è che presidi e professori siano impazziti. Sono semplicemente costretti a fare i conti con una scuola che è alla canna del gas. Dicono - i responsabili degli istituti che chiedono questi contributi volontari - che negli anni scorsi le singole scuole hanno anticipato complessivamente un miliardo di euro, che il ministero non può restituire. Per questo si richiede un sacrificio alle famiglie. Su come si sia arrivati a questa quasi bancarotta ci sono diverse opinioni. C’è chi sostiene che si è sprecato troppo denaro, moltiplicando insegnanti e corsi (parecchi dei quali inutili). C’è al contrario chi accusa gli ultimi governi di avere più o meno deliberatamente lasciato morire la scuola pubblica.

Quale che sia la verità, ci chiediamo se sia giusto presentare il conto alle famiglie. Le quali già pagano le tasse: e sappiamo che in Italia non sono poche, soprattutto per chi non le può evadere. In più, quando mandano i figli a scuola, hanno già una serie di costi ben superiori alle semplici tasse di iscrizione. Nonostante si sia tanto parlato di un «tetto» per l’acquisto dei libri di testo, ad esempio, la spesa è spesso altissima, insospettabile da chi non ha figli a scuola. Altro esempio personale: sempre per mia figlia che fa il classico, quest’anno 570 euro.

Va detto che alcune spese sono anche conseguenze dei nostri tempi. Oggi ad esempio una classe che va in gita scolastica a Firenze o a Venezia è considerata un club di pezzenti. Si va a Barcellona, a Londra, a Monaco di Baviera, e così via: «viaggi di istruzione» che comportano per le famiglie esborsi di 400-500 euro tra aereo e albergo, più l’argent de poche per i nostri rampolli, ben più fortunati di noi genitori che ricordiamo memorabili escursioni al planetario o al museo della scienza e della tecnica.

Ma se su certe spese si potrebbe vigilare facilmente, non c’è dubbio che sull’ordinaria amministrazione che presidi e insegnanti (per altro una delle categorie peggio pagate d’Italia) sono costretti a fare i salti mortali. Non si può dare colpa alle singole scuole, e probabilmente non si può dare colpa neppure a un ministero anch’esso costretto a tirare la cinghia. E dunque? Forse una pur parziale e provvisoria via d’uscita - in questo Paese dove, chiunque vada al governo, le tasse non calano mai - sarebbe quella di aiutare alla fonte le famiglie, con sgravi fiscali crescenti per numeri di figli. Il famoso «quoziente familiare», che nessuno sembra avere il coraggio di introdurre, e che invece all’estero - in Francia, ad esempio - è spesso una cosa ovvia. Stiamo parlando di un abbattimento delle tasse vero, non delle cosiddette detrazioni per numero di figli attualmente in vigore, le quali non appartengono al mondo degli aiuti ma a quello delle barzellette.

Nei giorni scorsi c’è stata una specie di giornata nazionale dedicata a «Quanto costa un figlio». Credo che parlare di un figlio come di un costo sia terribilmente squallido. Un figlio è un essere umano che viene al mondo, un’apertura al grande mistero della vita, e quando se ne fa uno bisognerebbe avere un po’ più di coraggio e fare un po’ meno calcoli. Però resta incomprensibile che un paese moderno non solo faccia poco per aiutare chi fa figli, ma metta poi le scuole nella penosa condizione di chiedere un obolo per la carta igienica. Negli Stati Uniti e in Cina, fra le misure per la ripresa, hanno deciso finanziamenti per l’istruzione e per la formazione: nella convinzione che il primo passo per uscire dalla crisi è investire sui giovani.

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