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Autore Discussione: CARLO CLERICETTI La coperta corta dei posti di lavoro  (Letto 2212 volte)
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« inserito:: Ottobre 14, 2009, 10:31:02 am »

ECONOMIA ANALISI

La coperta corta dei posti di lavoro

di CARLO CLERICETTI


Non ci sono dubbi sul fatto che l'aumento dell'età pensionabile sarebbe l'unica soluzione ragionevole al problema della spesa previdenziale, divenuta sempre più pesante con l'allungamento della vita media e anche con la riduzione dell'evasione contributiva nella seconda metà del secolo scorso. Al momento l'Italia ha sostanzialmente stabilizzato il rapporto tra questa spesa e il Pil, se le proiezioni in proposito fatte da varie istituzioni si riveleranno corrette. C'è da ricordare, infatti, che queste proiezioni a lunghissimo termine - come necessariamente debbono essere quelle in materia previdenziale: le nostre arrivano fino al 2050 - si basano su una serie di ipotesi che sono plausibili, ma non certe, come l'andamento della speranza di vita, la crescita media del Pil, il tasso di attività e così via. Basta che una di queste variabili fondamentali si comporti in modo diverso da quanto ipotizzato e i conti ne vengono nettamente modificati, in meglio o in peggio.

Dando comunque per buone queste proiezioni, visto che altro non si può fare, bisogna osservare che il problema della stabilizzazione della spesa è stato risolto con drastici tagli alle prestazioni future. Questo vale in parte per i lavoratori dipendenti, ma soprattutto per molte categorie di autonomi e in particolare per coloro che, dal "pacchetto Treu" in poi, hanno avuto contratti che prevedono una contribuzione ridotta e subiscono per giunta varie discontinuità del rapporto di lavoro. Per costoro la futura pensione rischia di rimanere al di sotto del 30% dell'ultima retribuzione, il che significa una cifra con cui non si raggiunge la quarta settimana del mese e neppure la terza.

Aumentare l'età pensionabile significa da una parte dare la possibilità di accumulare più contributi, e dunque avere un vitalizio migliore; e dall'altra pagare le pensioni per meno tempo, perché si riducono gli anni tra l'abbandono del lavoro e l'abbandono di questo mondo. Una soluzione non piacevole, dunque, ma certamente ragionevole.

C'è però un problema che finora nessuno è riuscito a chiarire. Anzi, per dir meglio, che nessuno finora ha affrontato. Dire che bisogna andare in pensione più tardi è una parte della soluzione, ma questo implica necessariamente che ci sia anche un aumento dei posti complessivi di lavoro, altrimenti i giovani italiani, che già oggi secondo le statistiche cominciano a lavorare molto più tardi che negli altri paesi comparabili, si troverebbero di fronte solo porte chiuse per un numero corrispondente di anni.. E' un'osservazione ovvia: a parità di posti di lavoro, se gli anziani restano di più i giovani entreranno più tardi.

In Italia il numero complessivo di posti di lavoro fino alla fine del secolo scorso era inchiodato al di sotto dei 22 milioni. Poi, dopo il pacchetto Treu e grazie anche alle periodiche regolarizzazioni degli immigrati, è cresciuto fino a circa 23,5 milioni. Nell'ultima rilevazione Istat, relativa al secondo trimestre 2009, il numero di occupati risulta di 23. 203.000 unità (in forte calo su base annua, -378.000 unità). Da ciò si può dedurre, tra l'altro, che quel milione e mezzo in più è costituito da lavori a bassa remunerazione e discontinui. Certo, il tasso di occupazione in Italia resta tra i più bassi dei paesi sviluppati. Sempre secondo l'ultima rilevazione Istat, nel secondo trimestre è al 57,9% della popolazione fra i 15 e i 64 anni (era 59,2 un anno prima). Ci sarebbe un ampio margine di crescita per raggiungere le percentuali del 75-80% degli Stati Uniti o dei paesi scandinavi. Ci sarebbe in teoria, perché nella realtà non succede.

Non basta, allora, dire che è necessario aumentare l'età pensionabile (tra l'altro proprio mentre, a causa della crisi, stanno di nuovo dilagando in molti settori i prepensionamenti, spesso con l'aiuto della finanza pubblica: è di ieri una proposta del Pdl sui prepensionamenti nella scuola). Bisogna anche dire come si pensa di far aumentare il numero complessivo di posti di lavoro. Il governatore Draghi ha fatto un accenno in proposito nel suo discorso: "Tale aumento potrà contribuire, se accompagnato da azioni che consentano di rendere più flessibili orari e salari dei lavoratori più anziani, a elevare il tasso di attività e a sostenere la crescita potenziale dell'economia". In altre parole, gli anziani potrebbero restare al lavoro con stipendi e orari ridotti; il che implica - sempre a parità di posti di lavoro equivalenti - che i giovani troverebbero occupazioni con stipendi e orari ridotti. In pratica una riedizione del vecchio slogan "lavorare meno, lavorare tutti", ma con l'aggiunta di un non trascurabile "ma pagati meno".

Le retribuzioni in Italia sono già a livelli tra i più bassi nel confronto con i paesi Ocse (anche quelle lorde, per prevenire una consueta obiezione). Bisognerebbe capire come si fa a garantire che questi nuovi posti siano remunerati a livelli accettabili per una dignitosa sopravvivenza prima e dopo la pensione. Altrimenti, forse si ri risolverà un problema (quello della spesa previdenziale), ma se ne aggraveranno altri non meno importanti.

Tra governo e governatore. Le dichiarazioni del ministro del Welfare Maurizio Sacconi e del presidente dell'Inps Antonio Mastrapasqua, che hanno replicato a Draghi affermando che le riforme già fatte sono sufficienti e "il sistema tiene", meritano una ulteriore postilla.

Non a caso Draghi ha parlato insieme di ulteriori interventi sulle pensioni e di potenziare gli ammortizzatori sociali. L'idea, più volte esplicitata da molti economisti, è che le risorse per risolvere quest'ultimo problema non possono che venire da ulteriori risparmi sulla previdenza. E' vero infatti che il sistema è e resterà in equilibrio (sempre affidandoci alle proiezioni ufficiali), ma ci resterà sugli attuali livelli di spesa, generalmente ritenuti troppo elevati. In realtà non è proprio così e le statistiche in proposito (quelle Ocse sono le più utilizzate per confrontare i sistemi dei vari paesi) non tengono conto di alcuni fattori che potrebbero far cambiare i conti anche in misura non trascurabile. Da quelle statistiche risulta comunque che la nostra spesa previdenziale è di 2-3 punti di Pil sopra la media, mentre la spesa sociale (sotto cui rientrano gli ammortizzatori sociali) è 2-3 punti al di sotto. Siccome è stato calcolato che una seria riforma degli ammortizzatori costerebbe al minimo 3 punti di Pil, ne discende logicamente l'idea dello scambio, visto che nelle condizioni della nostra finanza pubblica è difficile pensare che si possano destinare altre risorse al welfare.

Come si vede tutti questi problemi - pensioni, lavoro, protezione sociale, finanza pubblica - sono strettamente interconnessi. Spostare risorse da un settore all'altro significa far cambiare le condizioni di interi gruppi sociali, in meglio per gli uni, in peggio per gli altri, se si vuole un risultato a somma zero per la finanza pubblica. L'unica altra soluzione possibile sarebbe riuscire a ridurre l'evasione fiscale almeno al livello della media europea, trovando lì le risorse per intervenire. Ma chi si azzarda a farlo presente viene accusato di "parlar d'altro".

© Riproduzione riservata (13 ottobre 2009)
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