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Autore Discussione: MASSIMO CACCIARI  (Letto 72414 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Maggio 10, 2018, 09:10:52 pm »

9 MAG/18
Articolo di Massimo Cacciari (Repubblica 9.5.18)

L'arte del buon governo. Sapere e Potere nemici fraterni

“” Per quanto in molti idiomi i termini che indicano il potere e il sapere sembrino indicare una comune radice, nessuna relazione si presenta in realtà meno facilmente districabile, più complessa. Ma come? Non accade proprio nell’età contemporanea che il sapere, in quanto scienza, raggiunge il massimo del proprio potere, determinando non solo la forma dei rapporti di produzione, ma quella della vita stessa? Una universale Intelligenza, un Intelletto Agente dispiegato sull’intero pianeta, va producendo da qualche secolo un’ininterrotta rivoluzione, che informa di sé ogni aspetto della nostra esistenza. E tuttavia questa formidabile Scienza è co- sciente, e proprio nei suoi esponenti più rappresentativi, che ciò che essa produce continua a non essere in suo potere, continua a trasformarsi in proprietà altrui. Quella libertà, senza di cui la Scienza mai avrebbe potuto o saputo conseguire i suoi formidabili successi, non sa di per sé diventare energia liberante per tutto il nostro genere. I suoi prodotti, di cui non dispone, tendono all’opposto a trasformarsi in fattori di asservimento e omologazione. Il problema diviene allora quello del rapporto tra il sapere e il potere politico. E ne nascono le seguenti domande: sta nell’essenza del sapere rivolgersi al potere politico per informarlo di sé? Se la risposta è affermativa, il sapere avrebbe allora il dovere di impegnarsi politicamente, e cioè di provare a detenere un potere effettuale. Ma quale sapere? Quello propriamente scientifico? O un altro genere di sapere? Il paradigma di un sapere che si pretende epistemicamente fondato e che su tale fondamento intende edificare la Città, rimane quello platonico. Se la Città vuole stare, non ridursi a una navicella su cui sono imbarcate pecore senza pastore, o peggio mascherate tutte da nocchieri, è necessario che essa sia imitazione dell’anima bene educata, e cioè governata dalla sua parte razionale. La Scienza soltanto può unificare il molteplice, conferire ad ogni parte il suo significato e la sua missione, imporre la superiorità del Tutto sulle parti stesse. Nulla è più irragionevole di voler razionalizzare le umane vicissitudini – obbietterà Leopardi.
E in fondo già Aristotele l’aveva sostenuto: mai la Città sarà riducibile ad Uno; la sua forma è un divenire da governo a governo e all’interno di ciascuno la pace non può che essere armistizio. La politica è sì chiamata alla costituzione di un ordine, corrispondente alla stessa natura politica dell’animale uomo, ma quest’ordine non sarà mai quello dei principi e delle leggi che le proposizioni della Scienza sanno esprimere. Quello del Politico è il regno insicuro del per lo più, impotente ad accordare il governo ai principi universali e necessari del sapere. E quest’ultimo, a sua volta, impotente a edificare la Città a vera immagine della coerenza e consistenza del proprio discorso.
Così la virtù politica non andrà confusa con la bontà del vero sapiente. Un’arte della temperanza e della mediazione è richiesta al politico, un’arte che rimarrà sempre estranea alle forme e ai fini della scienza. La riflessione dell’Occidente sul Politico si orienterà sul realismo aristotelico, tuttavia senza mai dimenticare la “nostalgia” platonica per la Kallipolis, per la città bella- e- buona, perfettamente “in forma”.
Tale “nostalgia” si esprime in tutte le varianti della concezione dello Stato come suprema realizzazione della libertà individuale, della sovranità come accordo o sintesi degli interessi in conflitto, della società politica come immagine della civitas in interiore. Qui il sapere filosofico-scientifico vorrebbe ancora esprimere i principi che fondano la sicurezza dello Stato. È questo sapere soltanto che può trasformare l’ostinata ricerca del proprio privato interesse in quella del Bene comune.
Il sapere del Politico si è specializzato come ogni altro. Esso riguarda come acquisire il governo e come durare in esso. Quale sapere presuppone quest’arte? Analisi delle cose come sono e non come crediamo dovrebbero essere; conoscere perciò la insocievole socievolezza della natura umana, che rende necessario lo Stato in quanto misura coercitiva; in base alle regolarità che emergono dallo studio dei cicli politici, saper prevenire i pericoli che corre l’esercizio del potere e prevederne gli sviluppi. Si tratta di un sapere probabilistico e congetturale.
Gli ordini che riesce a costruire saranno sempre più deboli della Fortuna. Questo il solo sapere necessario al governante! E a questo sapere vorrebbe educarlo colui che sa! Ma ecco che il potente lo respinge, lo esilia. Eppure si tratta di un sapere affatto ragionevole nei suoi limiti, del tutto disincantato.
Non induce ad alcuna Magia (magia significa Potenza); è ben cosciente che il Prospero della Tempesta è tanto imbelle al governo, quanto a redimere la cattiveria dei suoi simili. Perché allora il potente non lo ascolta? Forse perché nessun sapere riesce a intendere la natura irrimediabilmente doppia del potere. Non è l’analisi del vero effettuale a costituirne l’essenza, bensì la decisione. La decisione rivolta a qualcosa di soltanto possibile, indistricabilmente connesso al dover-essere.
Ma per “convertire” al dover-essere è necessario qualcosa di tutt’altro genere rispetto al sapere. È necessaria fede nei propri fini; è necessario convincere ad essa chi ascolta. Anche per edificare l’ordine contingente del governo politico risulta dunque necessario il rimando a un ordine di idee che ne trascende il limite. Il sapere sembra arrestarsi di fronte all’intima tragicità dell’agire politico. La pallida ombra del pensiero, la cui dimensione è quella del metodico dubbio, che solo l’evidenza razionale risolve, arresterebbe o ritarderebbe la decisione politica. Il tempo del Politico non è quello del sapere – e però neppure possono astrattamente separarsi, poiché entrambe le professioni, quella del politico e quella dello scienziato, intendono scoprire o scovare ordini possibili nel mescolarsi e rimescolarsi incessante dei casi della vita. Al di là di ogni salvifica magia, così come di ogni sterile amletismo, ci sia cara la loro fraterna inimicizia.””

Da - http://www.iniziativalaica.it/?p=39286#more-39286
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« Risposta #106 inserito:: Giugno 11, 2018, 04:47:56 pm »


8 GIU/18

La Grande crisi. Al punto di non ritorno

Articolo di Massimo Cacciari (espresso 3.6.18)

“Qualcosa di irrimediabile è già avvenuto: la fine del linguaggio proprio del confronto. Siamo tornati a un pensiero infantile, incapace del linguaggio proprio del confronto. Incapace di discussione pubblica”

“”Com’è stato possibile giungere a una crisi istituzionale di queste proporzioni? C’è stato, certo, chi sul fuoco ha soffiato fino a far divampare l’incendio, ma c’è stato anche chi l’ha, magari per ignoranza o incoscienza, appiccato. E chi non è intervenuto in tempo per spegnerlo. Spiegare questa crisi con i Salvini e i Di Maio è peggio che ridicolmente semplice, ci impedisce di vederne la natura strutturale: la catastrofe di un sistema politico incapace da trent’anni di qualsiasi seria riforma. Prevedere come la situazione potrebbe evolversi è pressoché impossibile, stante l’irragionevolezza dei comportamenti di tutti o quasi i protagonisti. Si riformerà la coalizione Salvini-Berlusconi? Assisteremo, bontà anche del Pd, a una definitiva svolta a destra dei 5 Stelle e a un asse con la Lega fino a qualche mese fa impensabile? Come uscirà il Quirinale dallo scontro? Faremo da grande laboratorio alla prima affermazione di una “destra di massa” in Occidente dalla fine della Seconda guerra mondiale? E chi dovrebbe opporvisi saprà frenare i propri impulsi autodistruttivi? Comunque vada a finire o a iniziare, qualcosa di irrimediabile è già avvenuto. Temo si sia ormai giunti a un punto di non ritorno. E questo riguarda il linguaggio stesso della politica, quel linguaggio che è lo strumento essenziale con il quale possiamo comunicare, intenderci e fra-intenderci, quel linguaggio che è l’arma fondamentale della democrazia, poiché essa è tutta pervasa dall’idea che attraverso la parola ci si possa convincere, che il discorso possa argomentare sulla realtà delle cose in forme tali da essere più forte di ogni violenza o prepotenza.

Questa crisi minaccia di rappresentare la tomba di ogni sforzo per rendere quanto più possibile ragionevole e responsabile il discorso politico. Si tratta di ben altro che della resa incondizionata alle forme di fumettistica gestualità dei social, che sotto la maschera della semplicità e trasparenza occultano perfettamente finalità e fattori della lotta politica. Si tratta, ancora, di un guasto ben più grave di quello derivante dalla retorica dilagante da decenni su rottamazioni e nuove repubbliche al canto di «Giovinezza, giovinezza…». Si tratta dell’affermarsi di una generale forma mentis infantilmente regressiva, drammatico sintomo di una crescente e generale impotenza della politica a comprendere e governare i processi economici, sociali e culturali del nostro mondo fattosi davvero finalmente e compiutamente Globo. Regressiva è l’idea di “ciascuno padrone a casa propria”. Peccato che neppure Trump sia padrone a casa sua: la Cina detiene metà del debito Usa. E non lo è la Cina, dipendente dagli Stati Uniti che comprano i suoi prodotti. L’idea di un’astratta autonomia, di sovranità astrattamente “libere”, è propria dei bambini, di coloro che per crescere debbono in qualche modo fingerla proprio nel momento in cui massimamente dipendono dagli altri. Conseguente e complementare ad essa è sempre la rivendicazione della propria innocenza. Le cose non vanno perché altri ci sfruttano, ci dominano, fanno i padroni in casa nostra. Reo è sempre l’altro. «Non sono stato io» ad ammassare negli anni questo debito pubblico o a non riuscire a ridurlo. «Io non c’ero» quando ogni disegno di riforma falliva. E l’insicurezza che avvertiamo, reale e profonda, non deriva dal fallimento di ogni politica industriale, occupazionale etc: no, deriva dallo “straniero che ci invade”. Colpevoli tutti, fuorché io: questa la regola che si impone in quel che fu il linguaggio politico. E chi semina vento raccoglie tempesta – vero Renzi? Ma l’aspetto più regressivo che si va imponendo sulla scena politica nostrana (e non solo, purtroppo) riguarda l’idea stessa di democrazia.

Ridotta a idolatrico culto della maggioranza. “Contata” la maggioranza tutto è fatto. I bambini non sanno che le democrazie sono tanto più forti quanto più le maggioranze politiche sono bilanciate da funzioni e poteri autonomi e forti. La democrazia è il regime in cui la maggioranza ha la responsabilità di decidere, ma nel pieno riconoscimento della rappresentatività e dell’imprescindibile ruolo delle stesse minoranze. Una maggioranza che ama il “plausus armorum” degli eserciti romani, non è una maggioranza democratica. La maggioranza non diventa il popolo tutto in lotta contro privilegi e palazzi, vindice sovrano dei crimini commessi da minoranze privilegiate. Questo è lo schema che in altre epoche avrebbe portato diritto a soluzioni autoritarie. Il Terzo Stato è tutto – dicevano i rivoluzionari del 1789; il voto altro non fa che mostrare quella che è la volontà generale; una volta che nel voto essa si sia manifestata, tutti devono farla propria! La voce della maggioranza esprime “il vero Io” di ciascuno. Rousseau docet, direbbero Casaleggio e Associati. E invece no, amici: questo è il rovesciamento parodistico del vostro preteso maestro.

Consiglio in proposito la lettura di un aureo libretto uscito nel 1927, scritto da un antifascista vero, Edoardo Ruini, e ancora disponibile nella ripubblicazione di Adelphi. Si intitola “Il principio maggioritario”. Si capisce come Rousseau pensasse a un cittadino che partecipa consapevole e informato alle assemblee che deliberano, a un cittadino che ha potuto formare un proprio pensiero critico nella discussione pubblica. Non all’iscritto a “piattaforme” controllate non si sa da chi e non si sa come. Il “citoyen” rousseauiano si è trasformato con l’ideologia 5 Stelle nel più perfetto individuo “bourgeois”, in un navigante solitario in un oceano di chiacchiere, slogan, opinioni, promesse. Perfetta educazione a quei sentimenti di frustrazione, invidia, risentimento che distruggono non solo la democrazia, ma la possibilità stessa di formare una comunità. Ma questo non riguarda soltanto tali miseri, pretesi rousseauiani; l’interpretazione delirante del principio di maggioranza ha riguardato, seppure in forme diverse, tutti gli attori degli ultimi trent’anni di storia patria. I guasti provocati dal regressivo infantilismo del linguaggio politico sono ovunque presenti e hanno ferito a morte le forme della comunicazione e del dialogo tra le forze in campo. E ci vorrà tutta l’intelligenza delle prossime generazioni per cercare di guarirne.””

DA - http://www.iniziativalaica.it/?p=39577#more-39577
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« Risposta #107 inserito:: Giugno 13, 2018, 04:43:12 pm »

4 GIUGNO 2018

Pd, Cacciari bacchetta Renzi: ''Va in giro per il mondo a fare conferenze? Andrebbe sculacciato''

"La sinistra va riformata, bisogna creare una nuova classe dirigente che non abbia partecipato ai disastri di questi anni. Calenda leader? Ma perché, è di sinistra? Io punterei su Zingaretti". Così il professor Massimo Cacciari, a Milano per un'iniziativa organizzata da Fonti credibili alla Santeria, descrive la situazione delle forze progressiste in Italia. E all'annuncio di Matteo Renzi di sparire per qualche mese dalla politica per andare in giro per il mondo a tenere conferenze, risponde: "Renzi andrebbe sculacciato, ormai è tardi per allontanarsi dalla politica. Doveva farlo dopo il referendum".
 
Di Antonio Nasso

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« Risposta #108 inserito:: Agosto 10, 2018, 01:50:36 pm »

Cacciari, l’appello agli intellettuali per salvare l’Europa: “Siamo diversi da Saviano, vogliamo essere pragmatici”
L'ex sindaco di Venezia, su Repubblica del 3 agosto, ha promosso l'iniziativa assieme a Enrico Berti, Michele Ciliberto, Biagio de Giovanni, Vittorio Gregotti, Paolo Macrì, Giacomo Manzoni, Giacomo Marramao, Mimmo Paladino. E precisa: non “generiche adesioni”, ma contributi per un nuovo Pd

Di Fabrizio d’Esposito | 8 agosto 2018   

Professore lei fa l’appello. Contro il pericolo sovranista in tutta Europa.

Anzitutto tengo a precisare che è stato scritto con altri colleghi amici. Su Repubblica è uscito male, sembrava quasi un articolo mio, e sono saltati inspiegabilmente i nomi di altri due autorevoli sottoscrittori, quelli di Maurizio Pollini e Salvatore Sciarrino.

Oltre a riparare alle omissioni, nella sua seconda “puntata” dell’altro giorno, lei precisa di non volere “generiche adesioni”, ma individua prassi e metodo, quasi a temere una deriva firmaiola fine a se stessa.

Infatti la nostra è una chiamata concreta, contro il pericolo di una vittoria di questa destra regressiva alle prossime elezioni europee. Non basta una firma.

Un manifesto pragmatico di intellettuali.

Ognuno promuova iniziative all’interno del proprio settore di appartenenza. Bisogna declinare tutti i problemi a livello continentale, non solo quelli economico-finanziari. Pensi alla scuola.

Fondamentale.

La scuola, la formazione sono colpevolmente assenti da questo governo. Noi ci rivolgiamo a tutti: imprenditori, insegnanti, politici e così via.

Il professore Massimo Cacciari, filosofo ed ex sindaco di Venezia, su Repubblica del 3 agosto scorso, ha promosso un appello con Enrico Berti, Michele Ciliberto, Biagio de Giovanni, Vittorio Gregotti, Paolo Macrì, Giacomo Manzoni, Giacomo Marramao, Mimmo Paladino. Indi, l’altro giorno, il 6 agosto, un’appendice per invitare a non fare “generiche adesioni”, ossia a non farsi contagiare dal classico virus presenzialista della sinistra firmaiola, senza sbocchi.

Il vostro punto di partenza è la mancanza di una seria opposizione.

È chiaro che ci si muove perché non c’è nessuna opposizione. Questo lavoro che vogliamo organizzare dovrebbe essere svolto da una grande forza politica d’opposizione.

Facciamolo questo nome: il Pd.

Il senso di questo documento è quello di risvegliare gli assenti, costringere il Pd a dire cosa intende fare, oltre a una sporadica opposizione parlamentare, di quando in quando. Questa è la domanda.

Lei in un’intervista al Fatto di poche settimane fa ha detto che il Pd si salva solo senza i vecchi capi.

È evidente, se non c’è discontinuità, se ci ripresenta con le stesse facce che hanno provocato il disastro, non c’è sbocco.

Il vostro appello resta comunque in quel campo.

Che piaccia o no, il Pd è il principale interlocutore. Non credo che possano nascere nuove forze politiche da qui alle elezioni europee. La nostra speranza è che si mettano in moto anche dinamiche di discontinuità nel Pd.

E il vostro contributo pragmatico?

Deve entrare in un confronto articolato per un congresso vero e aperto, non stabilito a tavolino. Non è una novità questa, è accaduto pure dopo lo scioglimento del Pci. Noi vogliamo aiutare la formazione di un nuovo gruppo dirigente. La mia storia dimostra che non sono uno che aiuta a disfare e basta.

I nomi?

C’è Cuperlo che ha già risposto con un articolo all’appello, c’è Orlando, c’è il governatore del Lazio Zingaretti. E poi ci sono da recuperare Tito Boeri, Fabrizio Barca, Lucrezia Reichlin. L’importante è che ci sia una drastica rottura con il renzismo e tutto il resto.

Nel frattempo voi fate i supplenti. Intellettuali nel senso più gramsciano del termine.

Un intellettuale sa perfettamente che non può essere un supplente della politica. Noi vogliamo fare pressione in un momento drammatico. Ma come si fa a non capire quello che sta succedendo? L’Europa rischia il suicidio.

Da Salvini all’ungherese Orbán.

Attenzione, io non li condanno Salvini e Orbán. Tutto questo è arrivato per un assurdo allargamento dell’Ue a Paesi che non avevano ancora compiuto il loro Risorgimento nazionalista. Quell’allargamento è stato astratto, astorico, direi massonico. Questo per dire che il nostro non è un approccio moralistico, ma improntato al realismo.

A differenza di altri appelli.

Noi non indossiamo alcuna maglietta. Con Saviano abbiamo vari punti in comune, ma il suo approccio è di tipo morale contro Salvini. Il nostro documento è diverso da quelli che se la prendevano con Berlusconi. Realismo significa che qui ci sono in gioco interessi materiali. Se si chiudono gli spazi per uomini e merci, se prevalgono gli interessi degli staterelli, l’Europa è spacciata.

Salvare l’Europa, sia dai burocrati, sia dai sovranisti.

Il nostro è un appello contro questa politica fatta dagli incompetenti, fatta da persone che non sanno un cazzo. Vogliamo uno spazio politico unificato, non identitario.

L’opposizione parlamentare non fa altro che aspettare la fine della luna di miele del governo Conte.

Mangiando popcorn.

Esatto.

Ecco: io penso che la catastrofe di questo governo sia possibile ma non faccio il tifo perché avvenga. Io non mi auguro catastrofi, anche perché se l’opposizione continua a mancare meglio tenerci questo governo.

Realismo a oltranza. Però adesso siete anche voi in campo. Altre adesioni?

Bernardo Bertolucci, Gennaro Sasso. Mi hanno chiamato da Bologna altri amici interessati ai problemi della formazione.

Lei, di solito non brilla mai per ottimismo.

Siamo sulla soglia pure stavolta. Al momento sono voci ancora essenzialmente di intellettuali.

Il cammino è lungo ma il tempo è pochissimo e non bastano solo le firme generiche.

Speriamo di muovere qualcosa.

Altrimenti.

Non lo so.

Da - https://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/siamo-diversi-da-saviano-vogliamo-essere-pragmatici/
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« Risposta #109 inserito:: Ottobre 14, 2018, 05:52:29 pm »

Abbiamo chiesto ad alcune nostre firme diverse per cultura ed esperienza di segnalare la loro parola-chiave, un segno di luce per provare a trovare una speranza per il futuro.
Segnalateci la vostra

DI MASSIMO CACCIARI
10 ottobre 2018

Nessun “noi” è autorizzato a parlare a nome del mio “Io”. È questo il detestabile “Noi” cosi volentieri in bocca a leader e pseudo-leader, a detentori di verità o post-verità, ai “veri” rappresentanti del Popolo o della Gente. Si tratta del “Noi” plurale maiestatis, in cui Tutti dovrebbero ritrovarsi e abbracciarsi armoniosamente. A questa figura totalitaria va opposta la comunità degli Io, la ricerca della loro relazione senza confusione, senza che nessuno perda o dimentichi la propria singolarità. Ogni insieme che non si costituisca sulla base di un tale principio è destinato a trasformarsi in un oscuro grumo, manipolabile da qualsiasi pifferaio o burattinaio.

Ma dall’Io in quanto tale non si passa per miracolo alla comunità. Soltanto da quell’Io che è capace di chiamare l’altro col Tu, che non vede nell'altro l’avversario, l’ostacolo, lo scandalo, ma il Tu - che si fa prossimo dell’altro per giungere a chiamarlo Tu. E che con questo nome potrà essere a sua volta chiamato. L’Io è veramente tale quando viene chiamato Tu dall'altro. La singolarità del mio Io è tale quando cosi la scopro comparandomi al Tu dell’altro. Altrimenti non sono questo Singolo, unico nel proprio valore, non scambiabile con nessuno, merce o strumento di nessuno, ma soltanto un punto indistinto, un granello di sabbia nella indifferenza del Tutto.

Se e soltanto se ognuno riuscisse a “dare del Tu” all’altro e a ritrovare se stesso proprio in questo dare-donare, saremmo autorizzati a usare il Noi. Idea che appare semplice e che forse, invece, è in realtà sovrumana. È l’idea che regge l’intera struttura del Paradiso di Dante: tutti santi nel suo amplissimo abbraccio, tutti insieme beati nell’amore contemplativo del Signore e amici gli uni con gli altri, eppure ognuno si manifesta in un suo luogo, eterno nel suo volto proprio, nel suo nome, nella sua opera, ognuno inconfondibile nella sua preziosissima, inalienabile singolarità. È l’Inferno in terra dove la maledetta lupa dell’invidia, dell’avarizia, della libido di dominare, genera continuamente masse, indifferenza, confusioni, grumi. Ma a differenza che in quello di Dante, nel nostro è forse ancora possibile lottare e sperare in nome del Tu.

Da - http://m.espresso.repubblica.it/attualita/2018/10/10/news/noi-e-tu-la-parola-per-uscire-dal-buio-di-massimo-cacciari-1.327660
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« Risposta #110 inserito:: Gennaio 19, 2019, 02:28:17 pm »

MASSIMO CACCIARI E LA LUMPENFOBIA
   
ANTONIO VIGILANTE
17 gennaio 2019

Ho seguito oggi il convegno La discriminazione razziale fra diritto, etica e scienza presso l’Università di Siena. Mentre la sessione mattutina aveva un carattere tecnico giuridico, quella pomeridiana, su Politiche razziali, verità scientifica ed etica della dignità umana, comprendeva relazioni del genetista Telmo Pievani, del filosofo Massimo Cacciari e del giornalista Gad Lerner.
Non essendo né giurista, né scienziato, scrivo a caldo due righe sulla relazione di Massimo Cacciari. Il cui discorso per comodità sintetizzo nei seguenti punti:

1) Il razzismo è una ideologia. Qualsiasi dimostrazione scientifica sull'inesistenza della razza (sulla quale verteva il bell'intervento di Telmo Pievani) non coglie il punto. Ad una ideologia razzista bisogna contrapporre una ideologia antirazzista.

2) Questa ideologia antirazzista deve partire dalla dignità umana, che la nostra civiltà europea ha elaborato più di qualsiasi altra, sia nell'illuminismo che nella tradizione teologica cristiana.

3) La dignità dell’uomo consiste nella sua possibilità di essere causa sui, nel suo non essere determinato dalla natura, ma di potersi scegliere liberamente.

4) Se la dignità umana consiste in questo, allora ogni volta che si chiude qualcuno in una definizione (tu sei questo) si sta offendendo la sua dignità. Ma il razzismo consiste appunto nel ridurre qualcuno alla sua presunta razza.

5) La libertà non è solo un diritto, ma un dovere. Io devo essere libero, devo corrispondere alla mia dignità.

6) La libertà non comporta alcun solipsismo. Io sono libero, ma presto scopro che non posso essere libero se non grazie e attraverso gli altri. Dunque non posso riconoscere la mia libertà senza riconoscere al contempo la libertà altrui.

Vediamo questi punti. Lasciamo per ora da parte il punto 1), e vediamo il punto

2) Le affermazioni sul primato dell’Europa o dell’Occidente in questo o quello celano pigrizia intellettuale, quando non sono espressione di semplice sciovinismo eurocentrico. Per dirne solo una: se la dignità dell’uomo consiste nella possibilità di essere, di prender forma liberamente, essa è già nel buddhismo, cinque secoli prima dell’era cristiana. Poiché esattamente come l’uomo di Pico, l’uomo buddhista può diventare di volta in volta animale o dio (letteralmente), o liberarsi del tutto dalle forme. Solo chi ignora (chi vuole ignorare) che la storia dell’Europa è stata una storia terribilmente violenta – una storia di violenza dell’europeo sull'europeo (le guerre di religione), ma soprattutto di violenza dell’europeo sull'altro (le crociate, lo schiavismo eccetera) – può ancora rivendicare per l’Europa la scoperta della dignità umana. Una dignità che evidentemente non è riuscita ad arginare l’orrore.

3) Che l’uomo possa essere causa sui, che possa essere realmente libero, è una affermazione che buona parte della tradizione filosofica occidentale – e non certo la peggiore – nega. In questa definizione, l’uomo è colto nella sua differenza dall'animale. Se l’animale può essere solo quello che la natura ha stabilito, l’uomo può scegliere di essere quel che vuole. Ora, questa operazione, che è in effetti tipica dell’Occidente, è pericolosa. Se la dignità dell’uomo consiste nell'essere diverso dall'animale, se ne deduce che l’animale non ha dignità. E se la dignità è ciò che dà valore, che rende una vita degna di rispetto, allora l’animale può non essere rispettato. E’ una operazione pericolosa, dicevo, perché storicamente è accaduto, e può sempre accadere, che la linea di separazione tra uomo e animale venga spostata, in modo da includere l’uomo stesso. Nel conflitto l’altro uomo è degradato ad animale: e se l’animale è l’essere non degno di rispetto, allora l’uomo animalizzato può essere ucciso. E’ quello che accade ordinariamente in guerra. Più che ribadire l’eccezionalità dell’uomo, bisognerebbe piuttosto attaccare la linea di separazione, che finisce per essere la linea che separa il sacro dal massacrabile. La stessa libertà umana, del resto, può essere usata come un argomento per giustificare il massacro. Per approfondire questa affermazione passiamo al punto

5) Dice Cacciari che la libertà non è un diritto, ma un dovere. Tu devi essere libero. E se uno non lo è? Il fatto che l’essere umano sia libero diventa presto un’aggravante verso di lui. La predilezione verso gli animali di molte persone che esprimono per il resto il più feroce razzismo ha qui la sua origine. L’animale, poiché non è libero, è sempre innocente.  Quando il nostro cane azzanna la rondine caduta dal nido, un po’ ci dispiace, ma presto ci diciamo che è la sua natura, e non può farci nulla. Non così l’essere umano. Lo straniero che ci figuriamo come feroce ha scelto la sua ferocia, non è stato sospinto da forze più grandi di lui. E’ noto il meccanismo delle attribuzioni: quando un reato è compiuto da un soggetto verso il quale si prova simpatia sociale, ad esempio un pensionato, si enfatizza la costrizione: ha dovuto rubare perché povero; quando si tratta di uno straniero l’attribuzione è interna: è lui che ha scelto di delinquere. Oppure scatta il dispositivo opposto: lo straniero viene sospinto al di là della linea di confine. Come essere umano potrebbe essere libero, ma lui ha rinunciato alla libertà, è venuto meno a quello che Cacciari considera un dovere, e per questo non ha più alcuna dignità umana. E’ come un animale, anzi peggio di un animale, perché l’animale non ha mai avuto la possibilità di essere libero, mentre lui l’aveva, e vi ha rinunciato.

4) L’uomo può prendere la forma che desidera, dice Pico della Mirandola. Non è proprio così, perché esistono i condizionamenti sociali, economici, culturali, ed anche un genetista avrebbe un nel po’ da dire. Ma può, certo, prendere alcune forme, in modo libero o meno che sia. Ora, una volta che ha preso una forma, quella forma non è definitiva, può sempre diventare altro, e al tempo stesso quella forma, pur provvisoria, lo definisce. Questo vuol dire che se da un lato chiudere qualcuno in una definizione è una violenza, può essere una violenza non minore rifiutarsi di considerare la definizione che qualcuno dà di sé. Un ateo potrebbe diventare credente, ma fino a quando resta ateo, pretende di essere riconosciuto non come essere umano in generale, ma come essere umano che non crede in Dio. Una moderna democrazia non è un patto sociale tra essenze umane proteiformi, ma tra individui che hanno assunto una identità per la quale chiedono riconoscimento. E non riconoscere questa identità circoscritta – provvisoria, magari: ma reale fino a quando c’è – significa violare i diritti umani.

6) Questo è, mi perdoni Cacciari, un teorema che ignora bellamente la complessità della realtà umana e sociale. Non occorre scomodare né Simmel né Freud per constatare che in società la mia libertà è fortemente contrastata, quando non negata. Se vivessi da solo la mia possibilità di azione, il mio potere, sarebbe limitato (e libertà e potere sono intimamente legati), ma anche vivere in società richiede una dolorosa rinuncia delle mie possibilità e pulsioni, a cominciare da quelle sessuali. Soprattutto, il teorema mette sul tavolo una moltitudine di individui, tra i quali immagina un patto sociale razionale. Ma questo patto finisce per istituire un individuo di secondo grado, che è il gruppo. Posso sentire che il mio gruppo è fondamentale per la mia libertà, ma un gruppo si costituisce in contrapposizione e spesso in conflitto con gli altri gruppi. In caso di carenza di risorse, l’individuo libero, investito di dignità, non si percepisce come un umano in generale, ma come il membro di un gruppo che (realmente o, più spesso, in modo immaginario) è danneggiato dall’azione di uno o più gruppi diversi. E quando ciò accade il gruppo diventa violento. Pronto al massacro, non senza prima una degradazione dell’altro ad animale.

La relazione di Cacciari mi sembra una espressione di un bias particolarmente diffuso tra i filosofi, consistente nel ritenere che i problemi storici, sociali, economici si possano risolvere con qualche trovata teorica più o meno edificante, conciliando le cose a livello ideale, quando non retorico. Senza uno straccio di dato sociologico, la questione del razzismo si risolve fin troppo facilmente. E naturalmente tutto resta come prima fuori dalle aule universitarie.

L’intervento di Cacciari era iniziato con uno spunto di grande interesse, purtroppo non sviluppato: il razzismo come discorso funzionale al potere. In origine c’è il dominio di un gruppo sull’altro; la distinzione di razza tra il primo gruppo e il secondo serve a giustificare questo dominio. Il bianco ariano domina il nero indigeno. E’ esattamente quello che sta accadendo oggi, ed è la ragione per la quale, se è importante ricordare che le razze geneticamente non esistono, qualsiasi discorso scientifico rischia di lasciare il tempo che trova. Il nuovo razzismo ha poco a che fare con la genetica. L’altro disprezzato, degradato, odiato, lasciato affogare non è connotato dall’appartenenza a una razza in senso genetico. Il gruppo cui appartiene è quello dei marginali. E’ per questa ragione che il nuovo razzismo può essere filosemita, e al tempo stesso esultare per il pazzo che butta via le coperte al clochard. Il razzismo è, oggi, Lumpenfobia, se mi si passa il neologismo E’ odio dello straccione, del sottoproletario, di chi è sporco, che sia straniero o italiano. Il Lumpen è un essere umano reale, non virtualizzabile; perché mi pare che questo nuovo razzismo sia, tra le altre cose, un effetto indesiderato di decenni di riproposizione televisiva di un mondo lindo, luccicante, perfetto, kitsch nel senso di Kundera, presentato come unico orizzonte umano desiderabile (e, sia detto per inciso, anche per questo immagini come quella di Aylan morto sulla spiaggia rischiano di essere controproducenti). E’ qualcosa che richiede molto più di qualche rassicurante considerazione sulla presunta natura umana.

Da - https://www.glistatigenerali.com/filosofia/cacciari_lumpenfobia/
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« Risposta #111 inserito:: Maggio 02, 2019, 05:46:34 pm »

Massimo Cacciari: «Dopo aver letto Nietzsche ho deciso di non sposarmi. E della morte non me ne frega nulla»

Il filosofo: «Crozza mi faceva grasso, ma non sono così. Il brutto carattere non è una fama, ce l'ho veramente perché sono impaziente con chi non capisce. I capelli li taglio da solo, non ho tempo da perdere con il barbiere»

Di Candida Morvillo

Massimo Cacciari: «Dopo aver letto Nietzsche ho deciso di non sposarmi. E della morte non me ne frega nulla» shadow

Massimo Cacciari, a 74 anni, che rapporto ha con la vecchiaia?
«Tremendo. Detesto chi ne parla come di un sereno tramonto. Tremo all’idea che mi parta il cervello».

Pensa mai alla morte?
«Non me ne frega nulla. Ci penso continuamente, ma nei termini in cui ci pensava Spinoza, ma anche Platone, tante volte citati senza capirci nulla. Sapendo di dover finire, nessuna finitezza mi condiziona. Non aspiro a morire, ma mi esercito a morire vivendo bene».

E cos’è «vivere bene»?
«Aver dipeso il meno possibile da condizionamenti esterni, passioni irragionevoli, dagli altri e dai favori altrui. Aver difeso la mia legge interiore, non aver fatto male a nessuno».

Massimo Cacciari, professore emerito della Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, che ha fondato con don Luigi Verzè nel 2002, socio dei Lincei, è autore di una sessantina di libri, molti tradotti in più lingue. Ha indagato sulla crisi del pensiero dialettico, ha scritto di borghesia e classe operaia, del Re Lear, di Occidente e utopie, di Dio, Europa e molto altro. L’ultimo libro, «La mente inquieta» (Einaudi) è un saggio sull’Umanesimo. È stato deputato del Pci, eurodeputato, sindaco della sua Venezia tre volte. Dal 2010, ha lasciato la politica attiva, non i talk, dove è garanzia d’invettive furiose. Di recente, ha dato del «pezzo di m... a chi non s’indigna sui migranti» e ha urlato al ministro Alfonso Bonafede «la vostra politica dell’integrazione fa schifo». Seduto nel suo ufficio all’università, abbastanza accigliato, ammette: «Il brutto carattere non è una fama, ce l’ho».

E perché ha un brutto carattere?
«Sono impaziente. Lo sono con chi non capisce e perché il tempo non mi basta mai».

Si narra che, da sindaco di Venezia, desse del cretino ai suoi.
«Mai e poi mai ai miei. Con altri mi è capitato spesso di essere villano e ho chiesto scusa».

È figlio di un pediatra e di una casalinga, che educazione ha ricevuto?
«Nessuna. Grandissimo merito dei miei genitori. Mi hanno insegnato a camminare, a nuotare, a parlare, a non rubare... le cose elementari, presupposto di ogni vita civile. E poi basta, mi hanno lasciato fare, fiducia assoluta, e mi hanno dato tutti i libri che mi servivano».

Come arriva la passione per la filosofia?
«A 15 anni, quando leggo “Fenomenologia dello spirito” di Hegel. La filosofia è il linguaggio dell’Occidente, costituisce la forma del suo sapere e del suo agire, fornisce i concetti fondamentali per intenderne l’inquietudine, le tragedie e la stessa follia».

Crede ancora, come ha detto in passato, che il massimo delle potenzialità cerebrali si tocchi a 26 anni?
«Se a quell’età hai davvero viaggiato, hai fatto tutto o quasi. Parlo non dei viaggi da turista, ma della mente. Li fai e poi, nel resto della vita, li organizzi, li approfondisci, ma le idee fondamentali nascono da giovani. Perciò è peccaminoso come sia stata ridotta la scuola».

Lei aveva 24 anni nel ’68. Ha fatto occupazioni con gli operai, ha fondato riviste, come «Contropiano», «Laboratorio Politico» ...
«Ho iniziato a fare politica a 15 anni, mi sono formato, anche intellettualmente, con Asor Rosa, Mario Tronti, Toni Negri, poi ho fatto il dirigente del Pci... Oggi non ci sono movimenti paragonabili. L’era digitale individualizza tutto nell’apparenza della agorà universale; noi ci mettevamo insieme, facevamo società».

Lei che cosa sognava?
«Io non ho mai sognato. Quando sogni, sogni. Poi, ti svegli e pensi a cosa puoi effettivamente fare. In quel ‘68, mi sembrava possibile un’azione all’interno del sindacato e del Pci per porre le basi di una riforma di sistema. Alcuni di noi, invece, presero strade diverse: credevano si aprisse un processo rivoluzionario... Sono cose quasi impossibili da capire oggi. Comunque, la divisione fra lotta rivoluzionaria e riformismo, il delitto Moro, la fine del compromesso storico spiegano il trentennio successivo, il logoramento del ceto politico».

Fu mai tentato da derive rivoluzionarie?
«Mai. Né io né Mario né Asor. Ma ci trovammo stretti fra i partiti della sinistra incapaci di capire il salto d’epoca e, dall’altra parte, l’irrazionalità, i sogni appunto».

«Élite e popolo» è una contrapposizione utile a interpretare i tempi che viviamo?
«È un’idiozia: il popolo in sé non esiste; esistono interessi specifici, corpi intermedi, autonomie. L’ideologia del rapporto diretto fra il capo e la massa è la via maestra a soluzioni autoritarie. La democrazia vive di mediazione. È politeistica nella sua essenza. Il leader deve essere a guida di un gruppo dirigente di persone competenti, con base sociale e voti loro».

Le manca la politica attiva?
«Inascoltato, ho cercato di dare una mano alla formazione di un Pd mai nato. Dopo, non ho mai pensato di ricandidarmi: o sei interno a una struttura coerente con ciò che pensi, o non puoi fare da solo. Da solo, puoi scrivere un libro, non fare politica».

Quanto è solitaria la vita dello studioso?
«Io, quando studio, sono con i miei autori e maestri, parlo con loro. Quando posso ritirarmi una settimana a Venezia nel mio studio fra trentamila libri è qualcosa di molto bello».

Cos’è il «logos incarnato» che don Verzé diceva d’averla chiamata a insegnare?
«È il pensiero che s’incarna. Il pensiero è azione, è la prima e fondamentale delle forme del nostro fare. Nulla è producibile che non sia pensato. Se nella civiltà europea si è sviluppato un pensiero scientifico di un certo tipo, è anche perché, nella sua tradizione, rimane fondamentale quel prologo del vangelo di Giovanni in cui è detto che il Logos si fa carne. Lì è una rivelazione religiosa, ma lo stesso principio vale anche per la filosofia dell’Occidente».

Quando il Censis rileva un diffuso sentimento di cattiveria, il filosofo che pensa?
«Non si stupisce. Legga Spinoza. La nostra natura è “captiva” in senso letterale, prigioniera di passioni tanto più praticate quanto più deprecate: invidia, gelosia, risentimento, avarizia... La filosofia è l’esercizio di governarle».

Quali di queste passioni hanno afflitto lei?
«Nessuna, il padreterno me ne ha donato la totale assenza».

Per cosa vorrebbe essere ricordato?
«“Krisis”, del ’76, ha forse avuto una certa influenza. Ma tengo molto più a “Dell’Inizio”, che è del ’90, sviluppata in opere successive. Ritengo abbastanza importanti le cose scritte negli anni ‘90 sull’Europa, quando era ancora un principio-speranza».

E oggi cos’è l’Europa?
«Una speranza senza speranza. Ma insegna San Paolo bisogna sperare e, insegna Leopardi, dis-perare è impossibile: persino il suicida spera, magari di far disperare chi resta».

Ha avuto solo due fidanzate note, ma ha fama di piacere molto. Come mai?
«Io questo non l’ho mai constatato».

Perché non si è mai sposato?
«Bisogna aver letto Nietzsche per capire cosa significa dire di sì, quando chiede: hai scavato il fondo della tua anima? Sei pronto a dire “per sempre”? Vale anche per essere padre; infatti, non ho avuto figli».

Ha mai avuto il dubbio di sposarsi o no?
«Tutte le volte che ho amato».

E quante volte ha amato?
«È impossibile a dirsi... Dire amore è come dire popolo: ogni volta, è una cosa diversa».

Al pettegolezzo che la voleva amante di Veronica Lario in Berlusconi, rispose di non conoscerla. Lei è poi capitato d’incontrarla?
«Mai. Né prima né dopo».

Le piaceva Crozza quando la imitava?
«Era grosso e grasso. Non mi assomigliava».

È vero che si taglia barba e capelli da solo?
«Certo, e temo si veda. Non ho tempo da perdere col barbiere».

Si dice che sia superstizioso, in cosa?
«Lo sono un po’ per ridere, un po’ no. Su alcune teorie e pratiche che cataloghiamo come superstizioni, bisogna essere però molto seri. Si tratta di straordinarie tradizioni. Prenda l’astrologia: fino al ‘500 o ‘600 non c’era un potente che non si facesse fare l’oroscopo».

Si ritrova nel segno dei Gemelli?
«Totalmente: è una disperazione. Una concordia oppositorum continua».

Un’altra superstizione?
«I tarocchi. Uno che, come me, studia Umanesimo e Rinascimento, come fa a non conoscerli? Mi sono anche divertito a farli, me la cavavo, ma ripeto: li ho studiati per i miei libri».

L’ultimo, «La mente inquieta», è appunto, un saggio sull’Umanesimo.
«È un’epoca di cui tutti conoscono i capolavori dell’arte, ma che ha pensatori grandissimi, come Pico della Mirandola, e che, a volte, sono massimi artisti, come Leon Battista Alberti. Autori che affrontano una grande crisi religiosa e politica. Anche filosofi successivi, come Giordano Bruno o Giambattista Vico hanno stretti rapporti con questo periodo. Bertrando Spaventa e Giovanni Gentile sono stati i primi a rivendicare questa tradizione».

Citando Nietzsche, ha detto: io sono un uomo postumo. In cosa spera che le verrà dato ragione da postumo?
«Scherza? Questa citazione non me la sono mai attribuita. Si figuri se sono così snob».

20 aprile 2019 (modifica il 22 aprile 2019 | 08:06)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - https://www.corriere.it/cronache/19_aprile_20/massimo-cacciari-dopo-aver-letto-nietzsche-ho-deciso-non-sposarmi-morte-non-me-ne-frega-nulla-2cae270a-639b-11e9-9970-21cab6ff08c2.shtml?fbclid=IwAR0a72mxOtmMxl6qnmMt0fYzDYd2etBXDpwJaqMS1NqY53IL1vJFdbQZQyc
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