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Autore Discussione: MASSIMO CACCIARI  (Letto 76715 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Aprile 01, 2010, 09:32:05 am »

La Lega è una macchina da guerra

di Paolo Forcellini

Quello di Bossi è ormai è un partito nazionale. Insidioso per tutto il Paese. Parla l'ex sindaco.

Colloquio con Massimo Cacciari.
 
Sostenitori della Lega Nord festeggiano a Novara

Dopo una dozzina d'anni a Ca' Farsetti, Massimo Cacciari sta concludendo la sua 'cerimonia degli addii'. L'ormai ex primo cittadino di Venezia impacchetta libri e documenti ammassati sui tavoli del suo studio affacciato sul Canal Grande. Sindaco-filosofo 'rosso' in un Veneto verde-Lega, la sua riflessione sull'avanzata leghista viene da lontano - Cassandra inascoltata - e l'ultimo tsunami del Carroccio non l'ha stupito più che tanto. Ecco come lo spiega.

Quali sono le principali ragioni del successo leghista al Nord? La maggior capacità di raccogliere l'eredità della vecchia Dc, o quella di rappresentare un 'popolo' meno coinvolto dai processi di secolarizzazione o, ancora, un blocco sociale imperniato sulla piccola proprietà contadina?
"Le analisi fondate sulle specificità del radicamento territoriale, sulla composizione sociale, a suo tempo hanno messo in luce molte verità sulle origini 'storiche' del movimento. Ma oggi non sono più tanto utili a capire la valanga: si deve passare dalla sociologia alla forma politica e alla forma partito. Queste ultime elezioni, la conquista del Piemonte, lo sfondamento anche in Emilia e Toscana, ci segnalano soprattutto una cosa: il movimento di Bossi sta diventando un partito nazionale. Sullo zoccolo duro delle rivendicazioni secessioniste-autonomiste delle origini si è innestata una politica tipica da 'partito della paura', come ne esistono anche altrove, che fa leva su tutti i possibili elementi demagogici-populistici, presenti soprattutto in una fase di profonda crisi, e primo fra tutti la xenofobia".

Ma imprenditori e 'padroncini' del Nord fanno largo uso degli immigrati. Perché poi appoggiano la Lega?
"Loro vogliono degli schiavi, non dei lavoratori, e premiano il partito che, almeno a parole, promette di tenere il territorio in totale sicurezza".

Anche altri, nel centrodestra, si sono dedicati a solleticare i timori ancestrali della gente, ma con assai minore successo della Lega...
"Il Carroccio è anche una formidabile, tetra, macchina da guerra, ciò che non si può dire degli altri: è un esempio clamoroso di centralismo non democratico. E questo comporta grandi vantaggi politici: in un periodo di crisi si sposa con la richiesta di un redentore, di un salvatore, che viene da ampi settori della popolazione".

I più recenti successi, però, sembrano legati a una nuova generazione di leghisti, come Zaia o Cota, più che al carismatico Senatur.
"In realtà il centralismo staliniano ha funzionato benissimo anche per la selezione di una nuova classe dirigente scelta da Bossi fra i fedelissimi. Meglio se preparati, certo, ma il lìder maximo ha dato spesso prova di non pensarci due volte a liquidare quadri anche molto importanti per base elettorale ma con pretese autonome: la Liga Veneta insegna".

Ora che il Carroccio ha vinto il 'derby del centrodestra', ci saranno ripercussioni pesanti sul governo?
"La Lega diventa un formidabile concorrente per l'anima più tipicamente di destra del Pdl. Ma non possiamo dimenticare che in questo partito c'è anche un'ala liberale (che Galan ben rappresentava nel Veneto), un'altra che si richiama all'ex Dc e, infine, quella finiana che ha compiuto un'autentica evoluzione culturale ed è nettamente antagonistica ai leghisti. Non so prevedere come e quanto queste anime possano convivere: molto dipenderà dal Pd".

In che senso?
"Se il Pd non saprà giocare con spregiudicatezza dentro queste contraddizioni del centrodestra è probabile che esse non esploderanno. Prevarrà la pura volontà di preservare il potere che farà premio su idee e ideologie. Per far sì che questa volontà non metta un tappo alle contraddizioni della maggioranza, e per evitare che la Lega raggiunga anche in altre regioni le percentuali stratosferiche del Veneto, il Pd dovrà guardare al centro, con un progetto credibile e condivisibile per rifondare un Paese che va a rotoli, smettendola di flirtare con grillini, dipietristi e compagnia cantante. Ma sono poco ottimista: il partito di Bersani non è federalista, come ho per tanto tempo proposto, e non è neppure centralista. È un mero aggregato di opinioni che non sa parlare con gli individui in un mondo in cui la cultura individualista dilaga e la classe operaia, in quanto tale, non c'è più".

(31 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Maggio 14, 2010, 10:57:42 pm »

Federalismo che bluff

di Massimo Cacciari


Con i governi leghisti nessun beneficio è venuto a Regioni e Comuni del Nord
 
Nessun termine è stato in questi anni più umiliato e offeso dalla politica di 'federalismo'. Dopo una stagione, gli anni '90 del 'secolo breve', in cui la scena è stata condivisa tra chi lo intendeva come semplice 'decentramento' e chi lo propagandava come cavallo di Troia per micro-nazionalismi privi di ogni radice storica, oggi la pratica politica procede sempre più in una direzione che è l'esatto contrario di ogni promozione di autonomia, sussidiarietà, partecipazione. Proporzionalità inversa tra l'universale chiacchiera sul federalismo e i duri fatti della politica quotidiana. È questa la norma da 15 anni a questa parte. Peggio, si giunge perfino a criticare giustamente quella riduzione di federalismo a decentramento amministrativo, per andare anche su questo terreno a pratiche neo-centraliste. E nulla cambia, anzi: tutto peggiora, quando il 'centro' da uno si moltiplica per il numero delle Regioni, e mettiamoci pure delle Provincie, che, alla faccia dei 'federalisti' che ne invocavano l'abolizione, sono aumentate di numero e poteri.

Ma tutto, si narra, verrà risolto con le riforme di cui è gravida questa legislatura, e in particolarissimo modo col 'federalismo fiscale'. Lo slogan è certo buono: è evidente come non sia sostenibile uno squilibrio così impressionante tra i territori (anche all'interno del Nord!) nel dare e avere. È evidente come una così pessima distribuzione delle risorse penalizzi non solo le Regioni più ricche, ma tutto il Paese. Tutto giusto; peccato non si dica una parola sulle Regioni a statuto speciale, sulla sede dove affrontare e decidere le necessarie misure di solidarietà (senza le quali federalismo diviene l'opposto di foedus, di accordo, di patto, e si trasforma in una competizione anarchica tra diversi territori), su come distribuire, a questo punto, lo stesso onere del debito nazionale. Peccato, poi, non si veda, insieme a quello fiscale, anche l'aspetto demaniale. È tollerabile il persistere d'immense manomorte demaniali, civili e militari, in ogni città e angolo del Paese? Patrimoni che nessuno valorizza, o usati per costruirci aeroporti militari, come a Vicenza? Per rispondere alle prime domande rimane necessaria una vera e propria riforma costituzionale (istituzione di una Camera delle Autonomie; revisione radicale degli articoli riguardanti le competenze tra Stato, Regione e Comune), ma per la seconda basterebbe quella volontà politica, che non esiste.

E tuttavia federalismo non è affatto nella sua essenza fiscale-demaniale. Non è affatto questione di 'schei' o patrimoni, come piace di far credere a impenitenti statolatri. Ancor meno è rivendicazione egoistica per maggiori trasferimenti da parte di Regioni e Enti Locali. Il federalista non chiede benevole concessioni. Esige, invece, poteri effettivi e conseguenti piene responsabilità. È su questo terreno che il federalismo italiano ha fatto finora bancarotta: nel tentare, almeno, di armonizzare rappresentatività, responsabilità e poteri. Il principio-base del federalismo afferma che il potere politico deve articolarsi in una pluralità di centri, ognuno davvero autonomo, e cioè non derivato, avente in sé la fonte della propria legittimità, al fine di svolgere efficacemente funzioni specifiche, su materie dove non abbia altri 'concorrenti'. Di questo principio è stato fatto, e si continua a fare, semplicemente strame. A partire dalle modifiche del testo costituzionale, delle quali basterebbe la qualità letteraria a spiegarci dove siamo caduti rispetto ai Padri del '48.

All'Ente Locale è stata via via sottratta o limitata ogni autonomia impositiva, fino alla aberrazione totale della 'nazionalizzazione' dell'Ici; il rifiuto di istituire la possibilità di tasse di scopo, le assurde regole in materia di applicazione del patto di stabilità (per cui un Comune è bloccato anche nella spesa di risorse acquisite con la dismissione di propri cespiti); per non parlare delle norme nazional-giacobine che dettano ogni manovra nell'organizzazione delle risorse professionali interne (i Comuni non hanno voce in capitolo nella definizione dei contratti di lavoro), completano il desolante quadro.

Ma sono forse aumentati nel frattempo i poteri dell'Ente Locale nelle materie tradizionalmente di sua più stretta competenza? Esattamente l'opposto. Non vi è aspetto dei piani urbanistici, di mobilità, per la casa, ecc. dove un Comune non debba andare ai ferri corti con Ministeri, Regioni e Province.

Il guasto di questa situazione non è economico, è sociale e culturale. Essa de-responsabilizza, premia quelle istituzioni 'specializzate' nel distribuire e non nel 'conquistare' risorse, massacra il principio fondamentale del nesso tra rappresentatività e tassazione. E così procedendo moltiplica localismi, egoismi, risentimenti, frustrazione. Essa è il frutto di una cultura politica mille leghe lontana da ogni autentica idea federalista. Alla faccia dei Trentin, degli Spinelli, ma anche degli Einaudi, degli Sturzo, ma anche dei Miglio. Nella Lega 'di lotta e di governo' la componente ideologico-identitaria è ormai prevalente su ogni forma di 'sindacato di territorio', e ciò spiega perché nessuna denuncia del fatto che anche durante i governi a partecipazione leghista nessun beneficio sia venuto per Regioni e Comuni del Nord non provochi alcuna crisi nel suo corpo elettorale. Il federalismo funziona da 'sol dell'avvenire' e intanto, nel suo triste presente, annaspa il fondamento stesso della vita e della cultura del Paese, come tutti i grandi storici hanno sempre riconosciuto: la città - la città italiana, città-regione, città-territorio, individualità universale.

(10 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/federalismo-che-bluff/2126689/18/1
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« Risposta #17 inserito:: Maggio 28, 2010, 05:11:46 pm »

Italiani cinici egoisti

Massimo Cacciari

Dopo due secoli di tentativi più diversi e contrapposti, e oggi sull'orlo di una decadenza irreversibile, sapranno dar vita tra loro a un nuovo patto fondamentale?
 

Per una celebrazione non convenzionale dell'anniversario dell'unità consiglierei la distribuzione gratuita nelle scuole di ogni ordine e grado del "Saggio sopra lo stato presente dei costumi degli italiani" di Giacomo Leopardi. Non perché anche adulti e vecchi non abbiano bisogno di questa filosofia "dolorosa ma vera", ma perché nel loro caso le chiacchiere decennali sulla perversità delle élites politiche contrapposta ad una quasi naturale inclinazione della "società civile" verso il bene comune hanno prodotto, temo, guasti mentali irrimediabili.
È vero che in Italia non si sono formate "famiglie" intellettuali-politiche, ambiziose certo, ma ancor più gelose della propria onorabilità e della stima che essa gode, capaci di formare quell'ethos condiviso, quel senso civico su cui storicamente si fondano i grandi governi nazionali. Ma ciò è il prodotto, appunto, dei costumi degli italiani, l'effetto inevitabile del loro non essere un popolo, ma soltanto un aggregato di individui.
L'Italia è un'astrazione, un desiderio, non un fatto, diceva Gioberti nel "Primato" (1842-1843). Leopardi lo aveva già analizzato, col suo coltello dell'anatomico, vent'anni prima. Gli italiani sono autori e attori protagonisti nella "strage delle illusioni" che costituisce il tratto dominante della cultura moderna.

Ma se ridiamo di onore, virtù, bene comune, senso della vita, come potremmo mai formare una società? Se nulla si considera degno di rispetto, di nulla si ha vergogna, se ciascuno cerca di fare degli altri "uno sgabello a se stesso", se il "conversare" che è il mezzo con cui altrove ci si intende o almeno fraintende, qui è strumento che moltiplica l'odio e la disunione, come pensare a un'Italia che sia foedus, autentico patto tra genti, solidali pur nei loro distinti interessi e animati da comuni finalità?

Assolutamente impossibile, ci avvisa il nostro massimo poeta-pensatore del Moderno. Nessuna legge calata dall'alto, nessuna "costituzione donata"(ammesso che miracolosamente si formasse un'élite politica capace di esprimerla) potrebbe trasformare la situazione, poiché: "quid leges sine morbus?", che cosa possono valere le leggi senza ethos condiviso?
Al più, gli italiani hanno abitudini, "assuefazioni" - ma anche queste coltivate con sostanziale indifferenza o con cinico disincanto. I duri fatti, mille volte più duri della dura lex, dimostrano che i "leganti sociali" sono illusioni, che ogni individuo tende a far centro da sé, che l'esercizio della virtù e del dovere non porta alcun frutto, che stima e fama di cui uno gode sono refoli di vento, dagli effetti passeggeri quanto quelli di un sondaggio. Gli italiani sanno il "nudo vero"; sono individui disingannati. E perciò mai un popolo, tantomeno una Nazione.
Non resta che essere "filosofi" e così ragionare? O proprio perché così "filosofi" gli italiani sapranno, dopo due secoli di disfatte dei tentativi più diversi e contrapposti di essere popolo, e di nuovo oggi sull'orlo di una decadenza irreversibile, capire il proprio stesso interesse, cercare finalmente di essere "virtuosi" abbastanza da affrontare insieme una fase costituente, di dar vita tra loro a un nuovo patto fondamentale?

Così intelligenti nell'analizzare, nel negare, nell'irridere e disprezzare, lo saranno anche nel costruire con disincanto e realismo un foedus tra loro, capace di salvarli da annunciate catastrofi?
Non c'è filosofo che non cada a volte preda dell'illusione. E neppure Leopardi rinuncia sempre alle cieche speranze.

(27 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/italiani-cinici-egoisti/2127983/18
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« Risposta #18 inserito:: Giugno 19, 2010, 06:18:28 pm »

Tramonto sull'Europa

Massimo Cacciari

Comprendere il senso del proprio declino può essere l'inizio di una nuova fase
(18 giugno 2010)

Parlamento europeo a Bruxelles Parlamento europeo a BruxellesNulla è più sterile del lamento sul tramonto politico d'Europa. Eppure, ad ogni occasione, ecco che puntualmente ci tocca riascoltarlo: che si tratti delle vere tragedie, dai Balcani all'Iraq, dall'Afghanistan alla apocalisse medio-orientale, oppure del "governo" dell'economia mondiale, o più semplicemente dell'efficacia dei provvedimenti adottati per affrontare la crisi che attraversiamo. L'Europa sembra non poter essere altro che un compito, o forse un desiderio. Un eterno futuro. Immagine da cui difficilmente trarranno consolazione i milioni di giovani precarizzati cronici e disoccupati. Sperare nell'impossibile genera in faccende mondane soltanto delusione e frustrazione. Una modesta dose di realismo storico può invece, a volte, offrire motivi di sobria fiducia.

Anzitutto andrebbe ricordato che il "tramonto" di Europa rappresenta il compimento della sua stessa energia universale, "centrifuga".

I principi della razionalità europea sono ora quelli dominanti il pianeta, che ciò piaccia o meno. Si tratta di una prova eclatante del fatto che solo allorché tramonta si può comprendere nella sua pienezza e compiutezza una forma di vita. L'Europa non può scegliere se tramontare o meno, ma come. Se continuando ad aspirare a impraticabili egemonie o primati, smarrendosi così in vane retoriche, oppure, consapevole dei suoi limiti "epocali", dei suoi destinati confini, definendo obiettivi concretamente perseguibili, costruendo norme "economicamente" indirizzate alla soluzione dei problemi, assetti istituzionali e organizzativi coerenti con essi, e magari meno dispendiosi delle attuali mega-galattiche burocrazie. Costituzioni, leggi fondamentali, che siano degne di questo nome, nostalgie per grandi Stati federali, possono aspettare (e aspetteranno, di fatto, sine die); politiche comuni di bilancio, politiche fiscali comuni, un welfare decentemente omogeneo, no. Altrimenti non tramonteremo, ma spariremo. L'Europa "grande politica" è finita per sempre suicidandosi attraverso due guerre mondiali. E passando il testimone ai due Titani usciti dal suo grembo. Fratelli assolutamente rivali, in tutto, come mitologia e storia europee esigono. Alla fine ne è rimasto uno; Titano solitario, e dunque non più tale. Combattuto da chi Titano non è e sa di non esserlo, e perciò capace di armi che il Titano superstite ignora e non riesce a sconfiggere. Così il mondo ci appare, come a Amleto, "fuori ordine". I padri che lo reggevano sono diventati spettri. E noi europei invochiamo "imperi" che non potranno mai più esistere - temendo, insieme, di dovervi obbedire, non appena si profila il remoto pericolo che possano realizzarsi.

I "padri fondatori" della (cosiddetta) unità europea ragionavano diversamente. Sapevano di costruire su una sconfitta irreversibile. Dopo gli estremi, tragici sogni egemonici essi avevano saggiamente fatto ritorno, senza magari saperlo, alle amare profezie di tanti grandi dell'Ottocento. Stati e staterelli europei non potevano più garantire né sviluppo né sicurezza e stabilità sociali. Essi erano divenuti economicamente insostenibili. Doveva formarsi una realtà economica unitaria, sotto la spinta irresistibile dei traffici e commerci mondiali. Già il solo denaro costringeva l'Europa a stringersi insieme. Fine della parafrasi: frammento del 1885 di Nietzsche. Questa era la lezione che sarebbe stato necessario apprendere all'epoca della "globalizzazione" fine secolo, belle époque! Ma i buoni filosofi erano considerati cattivi maestri anche allora...

Così siamo giunti a comprendere quel "già il solo denaro..." un secolo dopo, ma ancora non vogliamo o non riusciamo a declinarlo in modo efficace, ancora lo mescoliamo con ideologie e volontà di potenza d'accatto. Ancora pretendiamo di ergerci a modelli di vita regolata da norme razionali, a campioni di eticità, ancora pensiamo il mondo a nostra immagine e collaboriamo perfino a guerre pur di "esportarla". Nel frattempo lasciamo "il solo denaro" solo per davvero, e cioè incapace, come è per natura, di auto-regolare i meccanismi della sua circolazione e distribuzione. Altri colossi si affermano che, invece, sembrano poterli amministrare con grande decisione, magari "liberi" da quelle forme di parlamentarismo e divisione democratica dei poteri, che l'Europa ha inventato e stenta tremendamente a riformare - unico modo di salvarle. Colossi che pur avendo ereditato, come ho detto, la forma della razionalità tecnico-scientifica e dell'organizzazione burocratica dell'Occidente, non sono figli della sua storia, e può darsi quindi non debbano condividerne il destino.

Comprendere il senso del proprio tramontare può essere l'inizio di una nuova fase, fatta di ospitalità di energie nuove, ricerca di collaborazione fondata su amicizia e reciproco riconoscimento, ma soprattutto concentrazione dell'intelligenza sulle risorse materiali, economiche, finanziarie in grado di realizzare quella reale, concreta unità d'Europa, già matura, per gli "illuminati", un secolo e mezzo fa. E questo discorso vale forse ormai anche per la grande isola d'oltre Oceano. Quando Roma lo comprese riuscì a durare, nient'affatto male in fondo, per tre secoli ancora.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/tramonto-sulleuropa/2129192/18
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« Risposta #19 inserito:: Luglio 31, 2010, 05:07:41 pm »

Su Cesare cala il sipario

di Massimo Cacciari

Con la crisi del Pdl e del Pd a prosperare è la Lega, l'unica novità della politica italiana

(30 luglio 2010)

Tutti in attesa delle Idi di marzo. Timori e tremori degli uni forse altrettanto ciechi delle speranze degli altri. Poiché nessun Cesare c'è mai stato, e anche se vi fosse non mi sembra di scorgere all'orizzonte i Bruto e i Cassio. Cesare è auctoritas, capacità di inaugurare, potere costituente. Questo potere è mancato a tutti i soggetti della politica italiana usciti dal formidabile "combinato disposto" della fine della guerra fredda e della catastrofe di Tangentopoli. È mancato del tutto anche a chi ha saputo occupare il vuoto che quella grande crisi provocava, apparecchiando in tempi rapidissimi un confortevole domicilio a tanta parte della vecchia classe politica e al suo elettorato. Ma sulla "nuova"casa l'immagine vincente non era certo quella di una "rivoluzione conservatrice" alla Thatcher, ma dell'atavica paura di una sinistra al potere egemonizzata dai comunisti.

Defunti ovunque come movimento politico, resuscitati da noi come immortale fantasma. E funzionò. Ma fu conservazione e basta. Fu lotta per conservare posizioni di potere acquisite e altre, se possibile, aggiungerne. Potestas sine auctoritate. In assenza di Cesare, chi ne ha recitato la parte ha potuto alla fine prevalere, proprio perché di decisioni vi era bisogno dopo la svolta d'epoca del '90 - e chi ha finto di saperle assumere è stato premiato rispetto a chi riusciva a esprimere solo ragionevoli timori e senili inviti alla prudenza.
Ma ogni commedia ha un epilogo. Per quanto abile sia l'attore a "in-cantare", giunge un momento in cui lo spettatore si risveglia e prende coscienza che quelle promesse, quelle lacrime, quella energia erano scena. Sia chiaro, il bravo attore si è nel frattempo realmente immedesimato nella sua parte. È davvero doloroso per lui abbandonarla. L'applauso finale può essergli penoso quanto i fischi. Fine di partita. Ho l'impressione che siamo giunti a questa fine. Ho l'impressione che la coscienza che Berlusconi non solo non sia, ma neppure avrebbe potuto essere l'innovatore della politica italiana sia ormai diffusa anche nell'opinione pubblica di centrodestra.

La sua cultura, la sua forma mentis, il suo stesso stile appartengono inesorabilmente a un mondo di ieri, a paradigmi politici sclerotizzati nelle arcaiche dicotomie destra-sinistra, a un gusto strapaese fatto di barzellette, sport e avventure galanti. L'immagine dell'Auctor si corrode ogni giorno di più. Non dovrebbero occorrere Bruti e Cassi per tirare il sipario. Forse basterebbe un'intelligente opposizione, capace di manovrare con tempestività, di indicare alcuni obiettivi propri, autonomi rispetto all'agenda dettata dal re ormai seminudo.
 
Ma questa opposizione è altrettanto rotta al suo interno del Pdl, e sembra appassionarsi soltanto di primarie in famiglia e candidature alle stesse. È un'opposizione, per esser benevoli, puramente parlamentare. Sradicata dai movimenti di protesta nella scuola, tra i giovani, nell'associazionismo di ogni tipo massacrato dalle ultime finanziarie. E sradicata da Milano a Venezia a Trieste, dal cuore economico e culturale del Paese. Ma proprio da questi territori potrebbe riprendere l'iniziativa. È qui infatti che la "insofferenza" di ampi settori del Pdl nei confronti dell'egemonia leghista cui sono condannati dalla stessa strategia berlusconiana, può trasformarsi da lamento in fatto politico.

Questa "insofferenza" ha già ragioni profonde, una sua storia, suoi nomi. Ma mai potrà dar vita a un vero "laboratorio politico" se da parte del Pd non si inaugura (auctoritas di nuovo!) una stagione caratterizzata dal più forte, inequivoco impegno sui temi del federalismo e della riforma del welfare, e non si dichiara esplicitamente che le vecchie contrapposizioni Stato-mercato, pubblico-privato, destra-sinistra raccontano una storia che non ci riguarda più. La crisi dei due "blocchi" Pdl-Pd non è il prodotto di contrasti interni, ma di un'intera cultura politica, sia "di destra" che "di sinistra", che aveva pensato ad un riassetto del sistema italiano sulla base appunto del vecchio discrimine: una destra tutta-mercato, tutta-liberista, che avrebbe dovuto essere rappresentata dal Pdl, e una sinistra più-Stato, anti-individualista, ecc, "pascolo" del Pd. La crisi mondiale ha fatto saltare in aria questa "narrazione". Chi l'ha intuito, da una parte, è stato forse Tremonti.

Dall'altra, molti ne parlano - e nessuna decisione ne segue, in attesa che maturi la crisi in casa altrui, come se essa non fosse l'altra faccia della propria. Così prospera l'unica novità, piaccia o no, della politica italiana degli ultimi 20 anni, cioè la Lega. L'unico partito in grado di condurre una politica d'assalto spregiudicata, almeno finché durerà l'Ordine bossiano. Ma partito assolutamente inidoneo ad aprire la fase costituente, di cui due crisi epocali ('89-90 e crack del liberismo selvaggio 2007) avrebbero dovuto suggerire almeno l'opportunità. Il territorio della Lega è il locale soltanto, non lo spazio dove, anche drammaticamente, si interconnettono e confliggono i movimenti universali di merci, denaro, uomini. Ma questo è lo spazio politico, oltre lo stesso Stato, che è necessario oggi prepararsi a governare. È per ordinarlo che si esige quella nuova fase costituente. Così pare che nessuno dei soggetti in campo sia in grado di rappresentarla. Ma una certezza cresce: che meno di tutti lo possa il nostro Cesare-attore.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/su-cesare-cala-il-sipario/2131638/18/1
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« Risposta #20 inserito:: Agosto 04, 2010, 07:45:15 pm »

Cacciari al Sole.com: «Governi istituzionali fuori da ogni logica. Solo Chiamparino può salvare il Pd»

di Sara Bianchi

Questo articolo è stato pubblicato il 03 agosto 2010 alle ore 19:16.


La fine del bipolarismo? «In politica tutto può riprendersi, ricominciare. Ma certamente la forma bipartitico-bipolare che sembrava dover assestare il sistema politico italiano, è crollata». Massimo Cacciari vede nel Pdl e nel Pd due crisi complementari e considera le ipotesi di governi istuituzionali «fuori da ogni logica». La Lega? «Si rafforzerà e si rivelerà l'anello debole del berlusconismo». Nel Pd le cose potrebbe migliorare solo con Sergio Chiamparino, l'unico leader «capace di rappresentare una prospettiva nazionale che si attua anche regionalmente».

Dopo la rottura tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, dice Cacciari «quella formula centrata sui due partiti - Pdl e Pd - non regge, perché nè il Pdl nè il Pd sono riusciti a trovare una omogeneità culturale e politica interna sufficiente a garantire prospettive di governabilità. Anche se il bipolarismo italiano era fasullo. Il Pdl poteva governare soltanto con un'alleanza con la Lega, una forza politica largamente estranea alle matrici del centrodestra e il Pd doveva appoggiarsi a un'altra forza politica, l'Idv di Di Pietro, altrettanto estranea alle matrici socialdemocratiche e cattolico-liberali del centrosinistra. Quindi il bipolarismo vero e proprio non c'è mai stato, faceva piuttosto pensare a due grandi partiti che alla lunga egemonizzassero i loro alleati. Invece siamo andati nella prospettiva esattamente opposta e i grandi partiti sono saltati per aria».

Quindi vede anche la strada del Pd sempre più in salita?
«Ora tutto si gioca nel Pdl perché loro sono al governo, come all'epoca del governo Prodi tutto si giocava all'interno dell'area di centrosinistra. Il paese è interessato a chi governa più che a chi fa l'opposizione. Ma quella del Pdl e quella del Pd sono due crisi complementari. E hanno ragioni identiche: nessuno dei due è un partito. Il primo è una pseudo società, una pseudo azienda. L'altro non è riuscito minimamente a trovare una destinazione comune, sono scatolette giustapposte, ogniuna con la propria rendita, la propria tradizione».

Crede che andremo più facilmente incontro a elezioni anticipate o a governi istituzionali?
«Governi istituzionali sono fuori da ogni logica, perché Berlusconi non accetterà mai di passare tranquillamente il testimone, per esempio a Tremonti. Bisogna ignorarne psicologia, carattere, storia, per pensarlo. È un'utile provocazione quella proposta da Casini e da altri, ma non si farà mai. Quando questa maggioranza venisse meno Berlusconi cercherà in tutti i modi di andare a elezioni anticipate. E con il porcellum significa che Berlusconi, con il 30%, insieme alla Lega, farà l'amplein. Quindi perché mai dovrebbe cedere all'ipotesi di governi di transizione? Non ha senso pensarlo».


Quanto vede vicina questa possibilità?
«Silvio Berlusconi farà di tutto per andare a elezioni anticipate, ma deve stare attento. Se all'opinione pubblica risultasse troppo evidente il suo interesse ad andare al voto allora pagherebbe un forte dazio. Credo che cercherà le elezioni anticipate ma con la possibilità di darne la colpa a Gianfranco Fini, come se lui fosse il tradito. È quello che ha già fatto nel 2001 con risultati notevoli. Perciò l'opposizione deve stare attenta a non cadere nei trappoloni dei Di Pietro, dei Vendola, perché in caso di ricorso alle urne rivincerà Berlusconi».

Udc, Api, finiani e Mpa si sono incontrati e hanno deciso di comune accordo l'astensione sulla mozione di sfiducia dell'opposizione a Giacomo Caliendo. Come valuta questo passaggio?
«Positivamente. È chiaro che queste forze di centro dovranno trovare un'intesa che vada al di là della contingenza attuale, anche in prospettiva elettorale. Dovranno trovare una forma di convivenza culturalmente e politicamente potabile, che non possa essere tacciata di trasformismo. Cercare un'intesa per queste forze è una prospettiva obbligata. Perché in politica alcune cose si scelgono, altre sono stati di necessità e non si discutono».

Torniamo a Berlusconi. Allo stato attuale la compatezza con la Lega non sembra in discussione.
«Questo non è detto. La Lega potrebbe essere invogliata ad andare a elezioni anticipate perché così disfa il Pdl al Nord. È miracolosamente immune da ogni tempesta giudiziaria e al Nord potrebbe avere un successo ancora più clamoroso di quello delle regionali. E poi ha interesse ad appoggiare Silvio Berlusconi, ma fino a un certo punto. Se vedesse che non riesce a portare a casa il federalismo fiscale, potrebbe trasformarsi nell'anello debole del berlusconismo. Ora è l'anello forte, ma Bossi è un animale politico vero e spregiudicato e non ci metterebbe nulla a mollare Berlusconi. Quella di Bossi è una politique d'abord al 1000 per cento. Al di là del giudizio sulla Lega, si tratta di una prospettiva molto pericolosa, non so se comprendiamo cosa significherebbe un Nord con la Lega al 40 per cento. È una forza ancora limitata territorialmente e che non ha mai abbandonato le sue idee di autonomia e di riassetto radicale del paese, anzi prende voti perché mantiene queste idee. Lo scenario non sarebbe piacevole nè per il Pdl nè per il Pd. Mi auguro che sia nel centrodestra che nel centrosinistra ci siano persone che ragionano, come nel mio Veneto si era messo a ragionare Galan».

Non vede il Pd preparato a una sfida di questo genere...
«Temo che il Pd che sognavo e per cui ho cercato di lavorare sia qualcosa che ormai non possa più nascere. Ormai la sua immagine, e in politica le immagini contano eccome, è quella di una forza di ispirazione sostanzialmente socialdemocratica, che guarda dal punto di vista politico-culturale a sinistra. Quindi la sua possibilità di rafforzarsi come partito nazionale di centrosinistra è molto limitata. Certo, tutto può accadere, ma non vedo segni di resipiscenza. Non vedo grandi iniziative programmatiche per caratterizzare il partito sui temi delle politiche sociali e delle politiche occupazionali. Credo che Sergio Chiamparino abbia ragione nel denunciare questa persistente assenza di strategia soprattutto sulla questione settentrionale. Se emergesse finalmente, cosa che auspico da due anni, una candidatura Chiamparino le cose potrebbero migliorare. Ma le mie speranze sul Pd sono ridotte al lumicino».

Ripercorriamo la sua idea del Pd al Nord?
«Il Pd al Nord non è un Pd da solo, è un Pd che nazionalmente fa propria una strategia federalista coerente e radicale, una visione del welfare che superi ogni nostalgia pubblicistico-statalista e che si organizzi in modo federale al suo interno dandosi una forte autonomia, una caratterizzazione assolutamente autonoma nelle regioni settentrionali. L'unico leader che potrebbe rappresentare questa prospettiva, che è una prospettiva nazionale che poi si attua anche regionalmente, ma resta una prospettiva nazionale, è Sergio Chiamparino».

A Milano si avvicina la sfida delle amministrative ma il Pd sembra un po' indietro
«È indietro perché stanno ragionando, non perché non sanno cosa fare. Hanno capito che una candidatura targata Pd non potrebbe essere in alcun modo vincente e stanno riflettendo per vedere di vincere, non soltanto di testimoniare. Per il momento la candidatura di Giuliano Pisapia è tutt'altro che una cosa negativa. È una candidatura di sinistra che non vincerà mai a Milano, e Pisapia lo sa meglio di chiunque altro perché è una persona intelligente, ma motiva un largo settore di elettorato di sinistra e non solo. È una candidatura buona, di un uomo assolutamente stimato. Si potrebbe andare alle primarie con un candidato più di centro, per usare i vecchi schemi, un candidato di grande spessore, alternativo alla Moratti. Si potrebbero fare delle belle primarie, come è stato a Venezia tra il candidato da me sostenuto e un candidato di sinistra altrettanto rappresentativo e stimato di Pisapia, Gianfranco Bettin. Perciò le cose apparentemente sono in stand by ma in realtà stanno maturando bene».

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« Risposta #21 inserito:: Agosto 11, 2010, 10:38:16 am »

Cacciari: «Addio coalizioni meglio i partiti che poi si alleano»

di Oreste Pivetta

Massimo Cacciari, dopo il voto pro o contro Caliendo e l’astensione di Fini Casini Rutelli, in Italia dobbiamo dare l’addio al bipolarismo come alcuni commentatori hanno sentenziato?
“Ma il bipolarismo in Italia non è mai nato. Lo si è visto subito. Lo si è visto quando Berlusconi per vincere nel ‘94 s’è dovuto appoggiare alla Lega, perdendo appena se ne è separato o, meglio, Bossi si è separato da lui. Lo si è visto dal percorso del post Pci.
Che cosa hanno fatto gli eredi del Pci se non cercare per governare alleanze e unioni con qualche centro o con una certa sinistra, come dimostra l’esperienza, fallimentare, dell’Ulivo”.

Fallimenti tanti, certo. Comunque adesso siamo arrivati al Partito democratico, uno dei due poli… O no?
“Ho dato l’anima per costruire il partito democratico. Quindici anni. Ma ho di fronte agli occhi solo vecchi centri e vecchie sinistre.
In politica occorre realismo e con realismo dobbiamo rassegnarci a constatare che l’esperimento proprio non funziona. Ho dato l’anima perché si costruisse qualcosa che si presentasse con una destinazione comune. Invece ho trovato soltanto quattro mura in comune che rischiano di saltar per aria. Prima del litigio devastante, che significherebbe l’annientamento elettorale, meglio separarsi, chi da una parte chi dall’altra”.

Ma così si torna davvero al passato, a una incomprensibile geografia di partiti e partitini.
“Ci siamo già, dopo l’esplosione del Pdl berlusconiano e con la crisi del Pd. Diciamo che viviamo una situazione di grande dinamismo e che il dinamismo è segno di vita. Ma la mia sensazione è che tutto questo gran movimento ci porti… verso il vecchio. Tuttavia, anche se il vettore sembra essere ancora il particolarismo, vi sono novità. Una è rappresentata da Fini, che davvero ha vissuto e sta vivendo una profonda trasformazione politica e che cerca di costruire una moderna destra europea. Mentre il mare è mosso, per il Pd sarebbe il momento di trarre qualche conclusione: che, ad esempio, esiste in Italia una forte tradizione socialista e socialdemocratica che potrebbe tranquillamente allearsi con espressioni di cultura cattolica e liberale, mentre è assurdo illudersi di trovare una sintesi tra storie tanto diverse. Sarebbe rovinoso stare a dilaniarsi sulla candidatura di Vendola o di qualcun altro, impegnarsi in primarie, per dire come siamo stati bravi a organizzare le primarie, come se le primarie bastassero a sanare i dissidi. Ciascuno vada per la sua strada e peschi voti dove può e dove sa, lasciando alla componente cattolica il compito di cercare al centro, come è in grado benissimo di fare, soprattutto approfittando di questo momento di dinamismo, si diceva, di turbolenza, di rotture. Così è. Punto. È evidente. Bene, bene, bene: prendere atto”.

Perché, secondo lei, questo fallimento nostro e, permetta, anche suo?
“Perché nessuno s’è rivelato all’altezza del discorso…”.

Si fa l’autocritica?
“Mi faccio tutte le autocritiche del mondo. Ma il problema è che la politica non è fatta di buone idee, ma è fatta di buone pratiche.
D’Alema docet. Aveva i suoi dubbi e ha assistito all’avverarsi dei suoi dubbi per dire poi che aveva ragione lui. Rutelli e Fassino ci credevano, invece, ma probabilmente non erano all’altezza. Si arriva alla conclusione: se sei costretto a convivere con chi non sopporti, finisce a coltellate, quindi meglio separarsi al più presto... Il Pd eviterebbe guai maggiori e soprattutto potrebbe godere degli spazi politici enormi che si aprono, come ha ben capito Berlusconi che vorrebbe arrivare al più presto alle elezioni, infatti”.

Salvo poi ripensare ad una alleanza. Ma ci si allea contro Berlusconi o ci si allea per realizzare alcuni di obiettivi di un programma?
“Per amor di Dio, lasciamo stare Berlusconi. Fossi stato Prodi al governo avrei subito fatto approvare una legge di un solo articolo, semplicissimo, che avrebbe dovuto affermare: Berlusconi è innocente. Basta con questo pazzesco intoppo. Liberiamoci dall’ossessione di Berlusconi. Per vincere, impegniamoci su occupazione, giovani, scuola. Affrontiamo un serio discorso sul federalismo, come finora non s’è neppure tentato. Costruiamo insomma l’unità programmatica e lasciamo a ciascuno la sua tradizione. Per quanto ci riguarda diamoci una bella organizzazione di partito che rispetti la voglia di autonomia che la realtà sociale e politica e culturale esprime”.

Addio poli, si torna alla frammentazione da prima repubblica.
“D’altra parte mi sembrano impensabili coalizioni, pure di già vaneggiate, Fini-Pd o Casini-Fini-Pd”.

Cioè divisi, per costruire sane alleanze programmatiche in vista delle elezioni?
“Facendo politica, altrimenti continuando tra gli scandali e una opposizione troppo debole si porta solo acqua al mulino della Lega.
Che rischia di dilagare, guadagnando al centro. E non solo nelle sue zone tradizionali: anche in Emilia e in Toscana e via…”.

Di fronte alle difficoltà di Berlusconi, con una possibile crisi di governo, con il rinvio del federalismo fiscale, non ci potrebbe attendere un altro ribaltone della Lega?
“Ci si può aspettare di tutto, anche un ribaltone della Lega quando il re del federalismo fiscale sarà completamente nudo, quando i leghisti si accorgeranno di aggirarsi solo tra i fantasmi di un federalismo autentico. Per ora aspettano”.

Potremmo misurare un’altra novità elettorale: i grillini in campo. Riusciranno i grillini a sottrarre voti alla sinistra come è successo alle regionali?
“Non credo. Con il sistema elettorale in corso o con un sistema che preveda uno sbarramento abbastanza alto. Un conto è guadagnare un consigliere locale. Un altro è entrare in Parlamento. Comunque dipende dalla sinistra o dal centro sinistra: dalla voglia di far politica”.

08 agosto 2010
http://www.unita.it/news/italia/102189/cacciari_addio_coalizioni_meglio_i_partiti_che_poi_si_alleano
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 12, 2010, 08:44:24 am »

Dopo B., la paura del vuoto

di Massimo Cacciari

La commedia del premier è giunta all'epilogo.

Ma il Pd è ancora senza strategia. E l'unico partito forte rimasto in campo è la Lega

(30 luglio 2010)

Tutti in attesa delle Idi di marzo. Timori e tremori degli uni forse altrettanto ciechi delle speranze degli altri. Poiché nessun Cesare c'è mai stato, e anche se vi fosse non mi sembra di scorgere all'orizzonte i Bruto e i Cassio. Cesare è auctoritas, capacità di inaugurare, potere costituente. Questo potere è mancato a tutti i soggetti della politica italiana usciti dal formidabile "combinato disposto" della fine della guerra fredda e della catastrofe di Tangentopoli. È mancato del tutto anche a chi ha saputo occupare il vuoto che quella grande crisi provocava, apparecchiando in tempi rapidissimi un confortevole domicilio a tanta parte della vecchia classe politica e al suo elettorato. Ma sulla "nuova"casa l'immagine vincente non era certo quella di una "rivoluzione conservatrice" alla Thatcher, ma dell'atavica paura di una sinistra al potere egemonizzata dai comunisti.

Defunti ovunque come movimento politico, resuscitati da noi come immortale fantasma. E funzionò. Ma fu conservazione e basta. Fu lotta per conservare posizioni di potere acquisite e altre, se possibile, aggiungerne. Potestas sine auctoritate. In assenza di Cesare, chi ne ha recitato la parte ha potuto alla fine prevalere, proprio perché di decisioni vi era bisogno dopo la svolta d'epoca del '90 - e chi ha finto di saperle assumere è stato premiato rispetto a chi riusciva a esprimere solo ragionevoli timori e senili inviti alla prudenza. Ma ogni commedia ha un epilogo. Per quanto abile sia l'attore a "in-cantare", giunge un momento in cui lo spettatore si risveglia e prende coscienza che quelle promesse, quelle lacrime, quella energia erano scena. Sia chiaro, il bravo attore si è nel frattempo realmente immedesimato nella sua parte. È davvero doloroso per lui abbandonarla. L'applauso finale può essergli penoso quanto i fischi. Fine di partita. Ho l'impressione che siamo giunti a questa fine. Ho l'impressione che la coscienza che Berlusconi non solo non sia, ma neppure avrebbe potuto essere l'innovatore della politica italiana sia ormai diffusa anche nell'opinione pubblica di centrodestra.

La sua cultura, la sua forma mentis, il suo stesso stile appartengono inesorabilmente a un mondo di ieri, a paradigmi politici sclerotizzati nelle arcaiche dicotomie destra-sinistra, a un gusto strapaese fatto di barzellette, sport e avventure galanti. L'immagine dell'Auctor si corrode ogni giorno di più. Non dovrebbero occorrere Bruti e Cassi per tirare il sipario. Forse basterebbe un'intelligente opposizione, capace di manovrare con tempestività, di indicare alcuni obiettivi propri, autonomi rispetto all'agenda dettata dal re ormai seminudo. Ma questa opposizione è altrettanto rotta al suo interno del Pdl, e sembra appassionarsi soltanto di primarie in famiglia e candidature alle stesse. È un'opposizione, per esser benevoli, puramente parlamentare. Sradicata dai movimenti di protesta nella scuola, tra i giovani, nell'associazionismo di ogni tipo massacrato dalle ultime finanziarie. E sradicata da Milano a Venezia a Trieste, dal cuore economico e culturale del Paese. Ma proprio da questi territori potrebbe riprendere l'iniziativa. È qui infatti che la "insofferenza" di ampi settori del Pdl nei confronti dell'egemonia leghista cui sono condannati dalla stessa strategia berlusconiana, può trasformarsi da lamento in fatto politico.

Questa "insofferenza" ha già ragioni profonde, una sua storia, suoi nomi. Ma mai potrà dar vita a un vero "laboratorio politico" se da parte del Pd non si inaugura (auctoritas di nuovo!) una stagione caratterizzata dal più forte, inequivoco impegno sui temi del federalismo e della riforma del welfare, e non si dichiara esplicitamente che le vecchie contrapposizioni Stato-mercato, pubblico-privato, destra-sinistra raccontano una storia che non ci riguarda più. La crisi dei due "blocchi" Pdl-Pd non è il prodotto di contrasti interni, ma di un'intera cultura politica, sia "di destra" che "di sinistra", che aveva pensato ad un riassetto del sistema italiano sulla base appunto del vecchio discrimine: una destra tutta-mercato, tutta-liberista, che avrebbe dovuto essere rappresentata dal Pdl, e una sinistra più-Stato, anti-individualista, ecc, "pascolo" del Pd. La crisi mondiale ha fatto saltare in aria questa "narrazione". Chi l'ha intuito, da una parte, è stato forse  Tremonti. Dall'altra, molti ne parlano - e nessuna decisione ne segue, in attesa che maturi la crisi in casa altrui, come se essa non fosse l'altra faccia della propria. Così prospera l'unica novità, piaccia o no, della politica italiana degli ultimi 20 anni, cioè la Lega. L'unico partito in grado di condurre una politica d'assalto spregiudicata, almeno finché durerà l'Ordine bossiano. Ma partito assolutamente inidoneo ad aprire la fase costituente, di cui due crisi epocali ('89-90 e crack del liberismo selvaggio 2007) avrebbero dovuto suggerire almeno l'opportunità. Il territorio della Lega è il locale soltanto, non lo spazio dove, anche drammaticamente, si interconnettono e confliggono i movimenti universali di merci, denaro, uomini. Ma questo è lo spazio politico, oltre lo stesso Stato, che è necessario oggi prepararsi a governare. È per ordinarlo che si esige quella nuova fase costituente. Così pare che nessuno dei soggetti in campo sia in grado di rappresentarla. Ma una certezza cresce: che meno di tutti lo possa il nostro Cesare-attore.

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« Risposta #23 inserito:: Agosto 25, 2010, 04:00:49 pm »

L'INTERVISTA

"Con le accozzaglie si può solo perdere Silvio si batte con l'Ulivo e il terzo polo"

Cacciari respinge l'idea di una coalizione da "Vendola a Fini": Il Pd deve stare con "Nichi e Di Pietro"

di MAURO FAVALE


ROMA - "Basta con le ammucchiate". Massimo Cacciari ex sindaco democratico di Venezia è stufo di alleanze larghe, "da Vendola a Fini", frutto di errori "dettati dalla voglia di far propaganda o da un'errata real politik".

Chi fa propaganda? Il Pd?
"Chi parla, come fa Franceschini, di "alleanza costituzionale" sa che né Casini, né tantomeno Fini, ci starebbero mai. Per loro sarebbe un suicidio politico. Sono dichiarazioni provocatorie che non portano a nulla".

E l'errore da "real politik"?
"L'unico motivo per un'ammucchiata sarebbe il Cln, una coalizione per liberarsi di Berlusconi: un errore imperdonabile. Così ricadiamo nel vecchio antiberlusconismo, un formidabile regalo per il Cavaliere. In una campagna elettorale bene contro male, Berlusconi è imbattibile".

Allora cosa resta da fare?
"Mi sembra evidente che c'è un disegno di Bossi e Tremonti per prendere il posto di Berlusconi. Per questo vogliono andare a votare subito".

Quindi?
"Se non si cade nell'errore di fare un'accozzaglia, al 90% Berlusconi le elezioni le perde. Vince alla Camera, grazie alla Lega, ma perde al Senato".

Ne è certo?
"È molto probabile, ma solo se esiste un terzo polo forte, composto da Fini, Casini e Montezemolo. In questo modo il centrosinistra andrebbe da Di Pietro a Vendola e, per come è fatta la legge elettorale Berlusconi la maggioranza al Senato se la scorda".

A quel punto?
"Si va da Napolitano che sarà costretto a prendere atto che l'unico in grado di guidare un governo è Tremonti. Questo se si va alle urne in tempi brevi. Se invece ci fosse un accordo tattico tra Berlusconi e Fini le strade per il Pd sono altre".

Quali?
"Invece di aspettare che il governo collassi, al Pd converrebbe mettersi a fare politica e avvicinarsi a Casini".

Nel Pd sono convinti che i voti dei centristi servano ora.
"Le ammucchiate non servono. Il Pd pensi a fare un bel neo-Ulivo e non ostacoli un centro forte".

Ma questo "neo-Ulivo" ha possibilità di vincere?
"Non vincerà mai. Ormai il Pd è quella cosa lì, una cosa che sta con Vendola e con Di Pietro".

Non le piace?
"Non è il soggetto che avevamo progettato. Non è quell'elemento di grande novità che serviva. È la riedizione dell'Ulivo in salsa dipietrista. È un partito che ha il suo radicamento territoriale sull'Appennino tosco-emiliano. Ma per governare dovrebbe trovare un'intesa con l'area di Montezemolo, di Fini e di Casini e non fare un unico cartello. Ma questo solo se avranno tempo. Altrimenti meglio che vadano separati".

Al Nord i voti sono destinati a spartirseli Lega e Pdl?
"Se si va al voto al Nord la Lega è il primo partito. Il Pd ha perso contatti con la realtà sociale. Hanno ereditato la strutturale incompetenza nell'interpretare le trasformazioni sociali e questo è il risultato".

Non dà nemmeno una chance al centrosinistra?
"Ma è necessario iniziare a fare autocritica. Cosa che al momento non vedo".

Le primarie possono essere utili?
"Le primarie hanno rotto, soprattutto quelle teleguidate. Servirebbe una leadership che guardi al nord. Sono due anni che insisto su Chiamparino".

E il terzo polo, invece? È quello l'elemento di novità?
"Potrebbe esserlo se ben articolato. Non penso a un partito, piuttosto a una coalizione di governo. Una presenza laica come quella di Fini è interessante per una maturazione culturale e politica. Il valore aggiunto, però, lo darebbe Montezemolo".

L'era-Berlusconi sta finendo?
"Lui non ha più nulla da dire al Paese dal punto di vista strategico. Ma non credo che andrà via con le sue gambe. E questo lo sanno anche Tremonti e Bossi".

La legge elettorale? Verrà modificata?
"Fa talmente comodo ai partiti che resterà così com'è".

(24 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/24/news/intervista_cacciari-6469265/
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« Risposta #24 inserito:: Settembre 17, 2010, 02:18:56 pm »

Una moschea per ragionare

di Massimo Cacciari

La società multi-etnica e multi-religiosa ci costringe a fare i conti con storie, tempi e valori incomparabili

(10 settembre 2010)

Le dichiarazioni del cardinale Tettamanzi sulla costruzione della moschea a Milano potevano offrire l'occasione per un serio confronto sul futuro inevitabilmente multi-etnico e multi-religioso della nostra società. Era facilmente prevedibile che essa andasse sprecata, come infinite altre in passato... E non solo per colpa delle usuali volgarità leghiste. Ad esse non ci si contrappone sdrammatizzando, ma, all'opposto, cercando di far comprendere le epocali novità che dovremo affrontare e scommettendo sulla responsabilità e maturità dei nostri concittadini.

Il problema consiste nel fatto che è impossibile affrontare il "pluralismo" culturale-religioso della società attuale "estrapolando" dall'esperienza che ha caratterizzato la formazione sociale e statuale del Moderno. In certi discorsi, animati da indubbia "buona volontà", sembra quasi non si tratti che di "allargare", di rendere più ampia quella idea di "pluralismo" che dovrebbe esserci ormai famigliare, di rafforzarne le virtù "integratrici". Purtroppo non è così. Nella società moderna secolarizzata si poteva ritenere di essere giunti, pur attraverso le contraddizioni e i conflitti che ne hanno tragicamente segnato la storia, al riconoscimento delle differenze di valori e visioni del mondo, perché queste differenze "abitavano" un tempo comune. Il tempo storico delle ideologie liberali è lo stesso di quelle socialiste. Il tempo storico delle grandi riforme religiose protestanti è lo stesso delle contro-riforme cattoliche. Molto di più, questi decisivi conflitti maturano da esperienze e vissuti comuni, rappresentano sviluppi di origini condivise, potenzialità immanenti in un'unità più profonda, che non viene mai esplicitamente negata.
Il politeismo dell'Occidente moderno si configura come conflitto di valori all'interno di un vissuto storico comune. Ciò vale anche per le "distanze" apparentemente più abissali: la laicità dello stesso Illuminismo neppure sarebbe concepibile se non nella storia dell'Europa o Cristianità. Non si rende mai necessaria, cioè, un'autentica esperienza dell'altro. Così è per la lotta forse più rappresentativa e decisiva del Novecento: tra classe operaia e capitale la "condivisione" del primato dell'Occidente, della Tecnica, del progresso scientifico-tecnologico, è pressoché totale. È questo politeismo, è questo confronto tra valori tutti rappresentanti un tempo comune, che sembra oggi minacciato dalle fondamenta. Questo tempo era quello lungo della integrazione". La coscienza della loro complessità può aiutare a affrontarli o, almeno, a "tollerarli". Non saranno progetti a tavolino e ragionevolezze a buon mercato a risolverli. Una giusta modestia sui limiti dell'azione politica è doverosa in casi simili. La corrente della vita, nella sua imprevedibilità, è infinitamente più potente di qualsiasi forma ci possiamo inventare.
Ma questo disincanto non autorizza alcun disimpegno; esso obbliga, anzi, a moltiplicare le occasioni di confronto, di comunicazione.

Ciò che è incompatibile non per questo deve essere anche incomparabile. L'esercizio della comparazione tra storie, tempi, valori che appaiono incompatibili, è per eccellenza proprio l'esercizio della ragione. E potrebbe anche diventare quello della politica, della politica in grande, oggi ovunque assente. Per il momento, potremmo anche accontentarci di non rendere tutto ancora più difficile, rifiutando addirittura l'ovvio - come aiutare lo straniero, i nostri stranieri, in Italia, in Europa, a costruire i loro luoghi di incontro e di culto.integrazione". La coscienza della loro complessità può aiutare a affrontarli o, almeno, a "tollerarli". Non saranno progetti a tavolino e ragionevolezze a buon mercato a risolverli. Una giusta modestia sui limiti dell'azione politica è doverosa in casi simili. La corrente della vita, nella sua imprevedibilità, è infinitamente più potente di qualsiasi forma ci possiamo inventare.
Ma questo disincanto non autorizza alcun disimpegno; esso obbliga, anzi, a moltiplicare le occasioni di confronto, di comunicazione.

Ciò che è incompatibile non per questo deve essere anche incomparabile. L'esercizio della comparazione tra storie, tempi, valori che appaiono incompatibili, è per eccellenza proprio l'esercizio della ragione. E potrebbe anche diventare quello della politica, della politica in grande, oggi ovunque assente. Per il momento, potremmo anche accontentarci di non rendere tutto ancora più difficile, rifiutando addirittura l'ovvio - come aiutare lo straniero, i nostri stranieri, in Italia, in Europa, a costruire i loro luoghi di incontro e di culto. integrazione

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« Risposta #25 inserito:: Ottobre 01, 2010, 03:56:45 pm »

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L'opinone

Cosa serve alla sinistra

Massimo Cacciari

Per essere davvero riformatrice la sua offerta deve incontrare ceti e interessi emergenti e riuscire a rappresentarne la domanda

(01 ottobre 2010)

Si sottolinea da più parti, come si trattasse di uno straordinario paradosso, che "sinistra" si è trasformato, dalla caduta del Muro in poi, quasi in sinonimo di "conservazione". È vero: la "sinistra", nelle sue diverse "maschere" e attraverso le sue varie metamorfosi, si è caratterizzata in questi anni per l'impegno nella difesa di poteri costituiti, di diritti garantiti, di valori consolidati, se si vuole degli aspetti "nobili" dello status quo, infinitamente più che per le sue proposte di innovazione.
La madre di tutte le difese è stata quella della Carta costituzionale, nella sua ispirazione parlamentaristico-pattizia, contro ogni tentativo di trasformarla in senso decisionistico-presidenzialistico, da un lato, o decisamente e coerentemente federalista, dall'altro.

"A cascata" ne sono derivate la "protezione" della divisione tra i poteri nella forma consegnataci dalla "tradizione", quella degli ordini professionali o "caste" nel loro assetto dato, la quasi completa afasia in materia di sistema della contrattazione e dell'organizzazione del lavoro, specialmente nel settore del pubblico impiego. Ma nulla vi è di stupefacente in ciò, se non che vi sia ancora qualcuno che reputa il nome "sinistra" di per sé portatore di istanze innovative e quello "destra" sinonimo di reazione. Stupefacente è solo l'inerzia del linguaggio politico e delle idee che esso sottende.
Che forze culturali e politiche "rivoluzionarie" un tempo possano diventare conservatrici in situazioni storiche completamente diverse, è la norma, non l'eccezione. Anzi, è proprio il loro successo a rafforzare tale tendenza - come se si potesse farlo perdurare nel tempo. Una burocrazia politica vittoriosa farà di tutto affinché le condizioni che hanno determinato la sua affermazione non abbiano a mutare. La componente di "rendita" è funzione essenziale del gioco politico - e solo le "anime belle" del movimentismo e del giovanilismo possono permettersi il lusso di ignorarlo.

Così il pensiero liberale classico esprimeva istanze di profonda trasformazione all'inizio dell'Ottocento, e appariva oggettivamente conservatore già nella seconda metà del secolo. Lo stesso avviene per il pensiero e la prassi della socialdemocrazia europea nel corso del secondo dopoguerra.
Tuttavia, le politiche non si trasformano nel cielo delle pure idee. Una forza politica non muta direzione e abbandona posizioni di rendita perché il politologo di turno le insegna che la sua collocazione attuale ha assunto un significato diverso o un orientamento addirittura opposto rispetto alla propria origine. È necessario che la sua "offerta" possa incontrarsi con ceti e interessi emergenti, almeno potenzialmente maggioritari, e mostrarsi in grado di rappresentarne efficacemente la domanda. Ciò non è né semplice, né lineare, e impone sempre una dolorosa battaglia strategica nel suo gruppo dirigente. E nulla impedisce che, comunque, una nuova composizione sociale trovi altre modalità di rappresentanza, al di fuori dell'offerta politica tradizionale, per quanto essa voglia o possa sapersi innovare.
A volte, può sorgere l'impressione che a voler rappresentare il "nuovo" i soggetti politici già organizzati pretendano di montare sulle proprie spalle per vedere più lontano. Altre volte, è proprio impossibile versare il vino nuovo nell'otre vecchia...Non basta volere il mutamento, predicarne la necessità, per renderlo possibile.

Questo sia detto a discarico del conflittuale immobilismo dell'attuale Pd; il compito, da parte sua, di dar voce ad una fase costituente per il Paese, è davvero storico, poiché si tratta davvero di "eccedere" le dimensioni della sua tradizione culturale. Ma proprio la difficoltà andrebbe enfatizzata, anzi, drammatizzata - questo attrarrebbe in una comune e appassionante ricerca energie giovani, intelligenze critiche, competenze nuove. La colpa consiste nell'allontanarle continuando, invece, a predicare continuità e a parlare di "sinistra" come naturaliter riformatrice.

   
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 24, 2010, 03:28:33 pm »

Non basta il Terzo Polo

Massimo Cacciari

Occorre la formazione di un'offerta politica nuova, rivolta all'intero Paese

(22 ottobre 2010)

A che pro cercare ancora di rinviare i conti con il fallimento dei tentativi da tanti compiuti (quorum ego) nel corso dell'ultimo decennio di dare alla politica italiana uno stabile assetto bipolare? Per Pdl e Pd il compito era forse oggettivamente improbo. Al di là della "anomalia" Berlusconi, le ragioni sono analoghe: le componenti dei due pseudo-poli si sono rivelate impotenti a pensare un futuro che non fosse in continuità con i propri, non proprio entusiasmanti, passati.
L'uscita di Fini, da un lato, così come quella di Veltroni, anche se conclusasi in ritirata tattica, dall'altro, sono rivelatrici di contrasti strategici di fondo, che nessun "contenitore" comune potrà confondere ancora a lungo. Si tratta dei sintomi più eclatanti di uno smottamento complessivo, che soltanto la previsione di elezioni anticipate può frenare. Quali conseguenze trarne? La possibilità del formarsi di un terzo polo? Da "sommare" agli altri due? Proposta probabilmente "indigeribile" al grande pubblico. E formato, poi, da chi? Fini, Casini, Rutelli?

Al di là dei loro meriti, sembra difficile oggi una "sintesi" tra le posizioni che esprimono, ma, soprattutto, debole la loro forza attrattiva nei confronti dell'elettorato e dell'opinione pubblica delusa, per usare un eufemismo, da Pdl e Pd - debolezza particolarmente evidente al Nord. Ma è l'idea stessa del "terzo polo" a risultare inadeguata rispetto alla "qualità" dell'iniziativa politica che il momento storico esigerebbe. Non si tratta, infatti, di mettere insieme pezzi e cocci dei vecchi schieramenti, di raccogliere fuoriusciti, di rubarsi rappresentanze istituzionali.
Il problema oggi è la formazione di un'offerta politica complessivamente nuova, rivolta all'intero Paese, estranea ai vecchi schemi, nel linguaggio prima ancora che nei programmi. È alla massa dei non votanti, dei votanti "per forza", di chi non "capisce" l'attuale politica, che non sa più cosa significhi destra-sinistra-centro - e ha perfettamente ragione - che occorre parlare.

Una massa tutt'altro che indistinta, amorfa. Sono imprenditori, artigiani, commercianti che vogliono reali politiche industriali, vera sburocratizzazione, ma sanno che senza regole non c'è mercato, e che il conflitto endemico di interessi, di cui Berlusconi è simbolo, alla lunga è la rovina proprio di ogni legittimo interesse! Sono i giovani senza scuola, senza formazione, senza ricerca, cui si offre la precarizzazione come sistema di vita, ma che non se ne fanno nulla di nostalgie sessantottine, e tantomeno di statalismi assistenzialistici.
Ma sono anche milioni di lavoratori dipendenti pubblici e privati che vorrebbero promuovere, motivare, innovare la qualità del proprio lavoro, arcistufi sia di chi li tratta come i "protetti", sia di sindacalismi meramente conservatori.
Questo è oggi il popolo senza rappresentanza. Per chi lo capisce, non si tratta di cercare papi stranieri, né di una questione di nomi, ma di voler rappresentare credibilmente questo popolo. E allora, sì, le carte possono rimescolarsi. E allora, sì, parlare di trasversalità assume un significato politico, non trasformistico. Fini, Casini, Rutelli possono aiutare questo processo - e molti altri con loro, incapsulati nei cosiddetti poli. Ma palesemente non bastano.
È tempo che le grandi organizzazioni sindacali, le forze sociali decisive del Paese dicano con chiarezza la loro. La smettano con la "pruderie" del "non facciamo politica". E quando mai non l'hanno fatta? Ma invece di farla da "clienti" o portando acqua a questo o quel partito, la facciano con chiarezza, con responsabilità, affermando che il Paese non può continuare a essere così governato, che gli attuali equilibri politici non permettono il realizzarsi delle riforme necessarie e deprimono inarrestabilmente la nostra competitività in ogni settore.

Si parla dei Draghi, dei Montezemolo, ecc. Nomi illustri. Nomi indispensabili, se si vuol rendere oggi vincente una proposta politica di "grande formato". Qualcuno di loro è evidentemente disposto ad affrontare la sfida. Ma altrettanto evidentemente attende che da parte di quelle forze di cui ho parlato si accenda il segnale, si decida di voltare pagina. Mai potranno essere i papi stranieri delle attuali chiese. Brucerebbero se stessi e non impedirebbero la catastrofe di quest'ultime. Debbono candidarsi da sé. Ma per farlo debbono avvertire che il tempo è maturo. Maturità è tutto, diceva quel tale. Anche da noi?

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« Risposta #27 inserito:: Novembre 12, 2010, 03:28:27 pm »

Più presente e meno futuro

di Massimo Cacciari

Tutto si è messo in moto e i nuovi "poli" potranno dar vita a una coalizione liberal-democratica solo se si apriranno a imprese, nuove professioni, precari

(12 novembre 2010)

Unica buona novella: tutto davvero si è rimesso in moto - come, dove, con chi, tutti ne parlano e nessuno lo sa. Riusciranno Tremonti-Bossi a compiere le loro Idi di marzo, pensionare Berlusconi e ottenere da Napolitano l'incarico per formare un governo para-tecnico, in cui reimbarcare il "traditore" Fini e provarci anche con Casini? Per quanto fanta-politica, non mi sembra possano esservi altre possibilità di continuare la legislatura. Il gioco del cerino è già durato anche troppo e finirebbe col danneggiare entrambi gli attuali duellanti. Ma soprattutto la Lega non potrebbe più a lungo tollerarlo senza perdere consensi. E ragioniamo, allora, di alternative politiche alla fine della seconda Repubblica.
Fini può diventare il centro di attrazione e di coagulo di parte davvero rilevante di interessi e di ceti che avevano puntato sul Pdl? O il suo movimento rappresenta sostanzialmente, nella sua base reale, materiale, la tradizione di Alleanza nazionale e per certi versi, prima ancora, addirittura della Fiamma tricolore? I partiti politici non si identificano con le idee del "capo", tanto meno con i desideri delle loro nomenklature, neppure nei regimi autoritari - figuriamoci nel casino nostrano. Arduo, comunque, pensare a un "polo", alternativo a ciò che residuerà da Pdl e Lega, da un lato, ma anche concorrente col Pd, dall'altro, che si strutturi intorno alla figura del presidente della Camera.

Ma discorso analogo vale per Casini. Casini e Rutelli possono aggregare settori significativi dell'area cattolica e liberale, oggi dispersi tra Pdl e Pd - ma come combinarli con la base materiale, ripeto, di Futuro e libertà, non tanto con la cultura politica maturata dal suo leader? L'handicap più grave che questo "polo", tutto ancora in mente Dei, sembra costituito da due elementi complementari: l'essere formato da "puri" esponenti di ceto politico-partitico, e caratterizzato da una immagine di marcata nostalgia per la prima Repubblica. Questa immagine non rende affatto piena giustizia del difficile e anche generoso percorso che i tre politici sopra citati hanno compiuto negli anni, ma ciò nonostante è reale, diffusa e radicata, soprattutto nei movimenti che essi cercano di rappresentare (con l'eccezione, forse, di Api). Controbatterla e superarla è vitale per costruire un'alternativa costituente, come a me piace dire, alla fine del berlusconismo e del bipolarismo all'italiana. Un soggetto politico nuovo può nascere solo dalla consapevolezza che qualsiasi "stato dei partiti" da prima Repubblica, qualsiasi centralismo burocratico-politico sia nei partiti che nelle istituzioni, qualsiasi "parlamentarismo" bloccante, magari fondato su sistemi elettorali assolutamente proporzionalistici, condannerebbero questo Paese ad aggravare la propria decadenza. Certo, l'esaltazione delle virtù taumaturgiche del "nuovo" non rappresenta che l'altra faccia della nostalgia. Sarebbe bello, anzi, finirla con le retoriche "futuriste". Tutti a rincorrere questo "futuro"...
Sarebbe bello che la politica ci indicasse, invece, qualche praticabile via per vivere decentemente il breve presente che ci è concesso, senza nostalgie o rimpianti e senza più o meno cieche speranze. L'ansia di futuro mistifica sempre le difficoltà di affrontare realisticamente, programmaticamente, responsabilmente la situazione data. Filosofia dolorosa, ma vera: partire dall'effettuale, conoscerlo e capire che cosa da esso si può costruire, non sognare. Finita è la gamma del possibile, infinita quella dei sogni.

Potranno, insomma, formarsi soggetti politici, siano o no "poli", dal disfacimento dei due "grandi" partiti attuali, capaci di passare dal "rottamare" o dalla "nostalgia" a quel programma e a quella coalizione di governo autenticamente liberal-democratici, sempre falliti in questo ventennio? Forse - ma soltanto, temo, se agli attuali protagonisti se ne aggiungeranno altri, provenienti da quei settori della società civile che soffrono in prima fila della nostra eterna crisi-transizione: imprese, nuove professioni, ricerca, precariato di massa giovanile. Senza questa "base" nessun nuovo partito, nessuna coalizione, nessun governo si reggerà nel "famoso" Futuro.

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« Risposta #28 inserito:: Dicembre 05, 2010, 12:18:58 am »

L'opinione

Università al buio

di Massimo Cacciari

L'autonomia degli atenei è impossibile finché dipenderanno dai fondi ministeriali

(03 dicembre 2010)

Facoltà occupata a Roma Facoltà occupata a RomaStudenti di tutto il mondo, non gettate la croce sul povero avv. Gelmini. Come potete pensare che si possano produrre autentiche riforme del sistema formativo senza una visione della società e del suo futuro? Una propria visione, sia chiaro. La politica culturale non consiste nell'adattare le strutture formative a quella che si considera qui-e-ora la domanda di lavoro. Così come la politica in genere non dovrebbe consistere nell'inseguire quello che la gente dice di preferire attraverso i sondaggi. E quando una riforma della scuola cerca passivamente di adeguarsi alla struttura economica, fallirà cento volte l'obiettivo, poiché le trasformazioni culturali, organizzative, produttive "anticiperanno" sempre qualsiasi "offerta" didattico-scientifica.

Le grandi "scuole" che hanno funzionato nascevano tutte da un'idea generale della società, di come i rapporti tra classi e ceti dovessero essere ordinati, della "missione" che si immaginava per il proprio Paese. Tutto ciò oggi da noi è clamorosamente assente - e pretendete una riforma dell'Università? - là dove classe politica e élite dirigenti in generale versano nella crisi in cui versano? Anche troppo, credete, il bricolage stra-prolisso della Gelmini, prodotto tipico del burocratese centralistico-ministeriale. La nostra ministra invita, poi, giustamente, il "movimento" a prendersela coi "baroni". Dio solo potrebbe contare i peccati di costoro nell'uso a volte dissennato delle risorse per la ricerca, nella proliferazione di titoli assurdi, nella disseminazione delle sedi, nella conduzione dei concorsi. Ma proprio la cosiddetta riforma è il loro miglior alleato!
Che cosa, infatti, essa cambia? Dal potere dei rettori, all'ordinamento concorsuale, al mantenimento delle fasce della docenza, la logica corporativa rimane intatta. O ci si vuole narrare che la presenza di tre esterni nel Consiglio di amministrazione stravolgerà qualcosa? L'unica novità in qualche misura apprezzabile è l'istituzione dell'abilitazione scientifica nazionale. Una specie di vecchia libera docenza, ma destinata, poiché decade dopo quattro anni, a creare spasmodiche attese e intrallazzi di ogni tipo. Alla faccia dell'autonomia didattica e delle esigenze del tutto specifiche dei vari atenei e dei vari dipartimenti e facoltà, tutto viene, come da tradizione patria, iper-regolamentato.

Un delirio di norme centralistiche sull'organizzazione del sistema: orari, mobilità, premi, crediti, esoneri, minimi e contro-minimi, nulla sfugge al vigile occhio del Riformatore, affinché tutto resti esattamente come prima. E cioè un'università dove gli studenti passano buona parte del loro tempo a elaborare piani di studio e a fare esami.

Il capolavoro è raggiunto nel capitolo dei sistemi di valutazione. Qui non bastava il marchingegno barocco inventato, mi pare ricordare, dal governo Prodi, dell'Agenzia Nazionale di Valutazione, ancora lungi dal funzionare, dove alcuni fortunati, selezionati chissà come da un piccolo esercito di auto-candidati, dovrebbero vigilare su tutto: dalle politiche di reclutamento alla definizione dei livelli minimi di prestazione, dai sistemi di accreditamento alla efficienza dei risultati conseguiti dalla didattica, ecc. ecc. No, ciò non appariva sufficiente - e così si è introdotto pure un Comitato nazionale dei garanti, al fine di "garantire" le procedure di valutazione per la selezione dei progetti di ricerca. Tale Comitato sarà composto da sette studiosi, tra i quali dovranno esservi "almeno due donne e due uomini" ( sic!). E gli altri tre? A scelta.Tutte chiacchiere? No, nient'affatto. Un serio dramma. È del tutto evidente, infatti, che il vero dominus di tutta l'operazione è il ministro dell'Economia. Ovvero che ogni intervento di qualche concretezza è subordinato alle disponibilità finanziarie in mano al nostro Super-ministro. Forse si troveranno (in parte) i soldi per sistemare i ricercatori con i concorsi per associati, ma per tutto il resto (finanziamenti, quota premiale, incentivi per l'internazionalizzazione, politiche attive per il diritto allo studio) è notte.

Il sigillo è palese nell'ultimo articolo: il ministro dell'Economia è autorizzato ad apportare con propri decreti le variazioni di bilancio necessarie a finanziare l'applicazione della riforma. Al centralismo organizzativo e didattico che la legge non scalfisce si aggiunge definitivamente quello finanziario. Esempio luminoso del federalismo berlusconiano-leghista. Ho provato a leggere i contro-testi di riforma avanzati dalle opposizioni e non sono stato illuminato d'immenso. Il modello rimane quello centralistico-ministeriale che è, insieme alla carenza fisiologica di fondi, il principale nemico della nostra scuola.

La vera autonomia rimane cieca speranza. E qualcuno dovrebbe spiegare che cosa sia autonomia, se non libertà delle diverse sedi di organizzare la propria offerta didattica, di combinare dipartimenti e facoltà secondo le proprie esigenze, di perseguire le proprie finalità reclutando una docenza coerente con esse. Non si comprende perché la valutazione dell'efficienza di un'università debba avvenire in modo diverso da quella di una qualsiasi impresa. Quale Agenzia di valutazione decide se Marchionne è bravo oppure no? E inoltre sulla base di parametri che Marchionne può non aver mai condiviso? Il totale paradosso di questa riforma, come di tanti altri semi-aborti passati, sta esattamente in questo: che si vorrebbero scimmiottare logiche di mercato, mentre si conservano assetti da arcaico statalismo. E la ragione sta nel fatto che non può esservi autentica autonomia senza autonomia sostanziale nel finanziamento. Missione impossibile, fino a quando l'università pubblica continua a dipendere dai fondi ministeriali. Una modesta proposta? Eliminiamo il valore legale del titolo di studio e vedrete che un po' di mercato,"buono" davvero, comincerà a entrare... basta una leggina, di un solo articolo. Ah, quanto è difficile il semplice, sigillo del vero!

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« Risposta #29 inserito:: Dicembre 14, 2010, 09:55:54 pm »

Politica

14/12/2010 - INTERVISTA

Cacciari:"L'impasse è colpa del Pd doveva aiutare Fini"

«Fini, Casini e Rutelli non bastano, ma è mancato il tempo per costruire il Terzo Polo»

MARCO ALFIERI

MILANO

«Purtroppo l’alternativa politica a Berlusconi al momento non c’è. C’è solo un’ammucchiata che vorrebbe buttarlo giù da palazzo Chigi. E la colpa è del Pd che ha tradito la sua missione riformatrice, incapace di dare sponda ai vagiti terzopolisti...». Massimo Cacciari, alla vigilia della conta in Parlamento, torna ad accusare l’insipienza democratica. E’ un suo rovello classico ma questa volta il fallimento brucia ancor di più perché finalmente c’era partita.

Per l’ex sindaco di Venezia «la novità degli ultimi mesi è la grande fronda di Gianfranco Fini che ha portato alla fine del Pdl e del bipolarismo all’italiana. Ma è altrettanto evidente che per la formazione di un blocco innovativo e riformatore al centro dello schieramento, sono mancati i tempi. Probabilmente lo stesso Fini pensava che la crisi non precipitasse subito».

Così il premier può sbandierare l’unica carta che gli è rimasta. Altro che Germania e la sfiducia costruttiva. Siete solo un’accozzaglia di partiti che vuol farmi fuori. E’ l’unico punto che vi unisce…
«La cosa sta in questi termini. Giustamente dal loro punto di vista sia Fini che Casini escludono la possibilità di un’alleanza di governo con il Pd. Al limite immaginano un governo tecnico per fare la riforma elettorale. Ma è un’altra cosa».

Quindi…
«Quindi siamo allo stallo. Da un lato Berlusconi è decotto, insieme al bipolarismo muscolare per come l’abbiamo conosciuto in Italia; dall’altro la mancanza di una vera alternativa lo fa sopravvivere».

Di chi sono le responsabilità dell’impasse?
«Fini ha avuto il coraggio di uscire dalla palude e gettare il cuore oltre l’ostacolo. Casini lo aveva già fatto 2 anni fa. Rutelli è stato l’unico leader Pd a criticare l’aborto democratico, uscendo dal partito. Ma loro 3 da soli non bastano, tanto più che il Terzo polo è ancora una prospettiva senza un vero programma».

Dunque la mancanza di alternativa a Berlusconi è senza colpevoli?
«Macché. La responsabilità immensa è tutta del Pd. Un partito nato male, o forse mai nato. Dopo la caduta del governo Prodi c’erano tutte le possibilità per lavorare ad un’alternativa forte al berlusconismo usurato. Avevamo cinque anni davanti, ma è mancata completamente la classe dirigente, la strategia, la cultura politica e un agenda nuova per il paese».

E’ impietoso, professore…
«Il più grande partito di opposizione, nel bel mezzo della deflagrazione del centrodestra, è rimasto ai margini della partita, senza mai incidere. Paradossale. Ovvio che al momento della fiducia Berlusconi ha buon gioco a dirti: volete solo buttarmi giù…»

In cosa è mancata questa visione strategica?
«Non si è sfondato nel ventre molle berlusconiano, tra quei ceti moderati delusi dalle promesse al vento del Cavaliere. O fai manovre, anche spregiudicate, per guadagnare consensi al centro o dove vuoi andare?»

Sta parlando di Milano, vero?
«Certo. Gabriele Albertini poteva essere convinto a scendere in campo. Avrebbe dato cemento al Terzo polo e sarebbe stata una botta tremenda al berlusconismo nella sua capitale. Invece il Pd non ha voluto fare sponda all’ex sindaco, è rimasto immobile nel suo brodo, facendo primarie tra 3 candidati di sinistra. Ma se non sfrutti le condizioni di favore che ti si aprono a Milano, mica a Reggio Emilia, che razza di alternativa vuoi costruire? E potrei continuare…».

Ad esempio?
«Ad esempio il Pd non ha mai saputo scalfire l’egemonia forza-leghista al nord, maturando un vero autonomismo e una capacità di relazione con gli attori del capitalismo diffuso. Così come non ha mai costruito una relazione strategica con l’Udc. Forse aspettava cadesse nelle sue braccia per semplice antiberlusconismo. Allora non conoscono Casini. Dopodiché mi auguro che il premier collassi ma per senso di verità devo ammettere che al momento non vedo alternative…».

Nemmeno se uscisse un nome nuovo a rilanciare il Terzo polo? Si parla ciclicamente di Luca di Montezemolo…
«Che volete, restiamo in attesa. Il sottoscritto insieme ad altri amici lancia, stimola, propone. Come per Albertini del resto. Già questi signori non sono dei cuor di leone, se poi non trovano nemmeno puntelli concreti nel Pd…».

Non sembra ottimista, Cacciari?
«Se oggi Berlusconi vince è chiaro che sarebbe la sconfitta di tutti quelli che hanno presentato mozioni di sfiducia. Ci sarebbero probabilmente pattuglie di incerti che tornerebbero all’ovile. A quel punto il mare si richiude, avremmo perso una grandissima occasione».

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