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« inserito:: Ottobre 08, 2009, 11:35:23 am » |
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Lodo Alfano, il primo atto della governabilità
di Walter G. Pozzi
Difesa dello status quo e affermazione dello Stato mafioso
«E la giustizia?» «Lei non conosce il gioco. Tutto, naturalmente è giustizia, perché tutto finisce sempre bene, capisce?» (da Il tallone di ferro di Jack London)
La vicenda montata a luglio intorno al lodo Alfano ha mostrato il complesso ventaglio di ambiguità, di complicità e di convenienze che attualmente, come un nucleo compatto di potere, si muovono in chiaroscuro nel Parlamento. Se la promulgazione della legge da un lato ha evitato a Berlusconi una probabile condanna per corruzione (incompatibile con una carica istituzionale), dall’altro ha rappresentato una dimostrazione di forza parlamentare che non ha precedenti nella storia della Repubblica. Tuttavia sarebbe una colpevole ingenuità cadere nel tranello mediatico che ha dipinto questo primo affondo contro la legalità, alla stregua di una corsa solitaria del presidente del Consiglio. Anche la moltiplicazione di analisi, di manifestazioni di protesta e di critiche su televisioni e giornali riguardo al modus operandi del governo, così come è stato consegnato agli italiani, non è andata oltre una strumentale incorporazione dell’intera manovra nella figura del mostro, impedendo che venisse reinscritta nel quadro più ampio di convenienze condivise dall’intera élite dominante.
L’atto di forza con cui Berlusconi si è garantito l’impunità era prevedibile. Stupisce semmai la sorpresa dei vari Veltroni e D’Alema che fino a un giorno prima si erano sbracciati per difendere ‘il dialogo’ politico tra le parti. Come potevano pensare che, con quei due processi sulla testa, Berlusconi si sarebbe preoccupato di andare troppo per il sottile? Il colpo di mano era nello stato delle cose, e nell’indignazione che è seguita, da parte di politici che da due anni, al fine di contribuire a liberare il Parlamento dalla sinistra ‘radicale’, chiedono senza sosta ‘governabilità’, c’è una buona dose di ipocrisia; vista anche l’identità di vedute espressa dai programmi delle due coalizioni sul piano economico e politico e in merito alla riforma della giustizia. Su quest’ultimo punto la convergenza degli intenti è tale, da far pensare che il celeberrimo lodo rappresenti ‘solo’ l’ultimo atto di forza, necessario prima dell’equilibrio e della pace che sempre subentrano alla violenza. I continui richiami al dialogo di Veltroni, e la frettolosa approvazione del presidente della Repubblica sono lì a dimostrarlo. Di fronte a tanti messaggi di conciliazione, il semplice chiedersi se la legge sia costituzionale rappresenta di per sé un eccessivo tecnicismo. Il discorso stesso – pronunciato il giorno della promulgazione del lodo – con cui D’Alema tiepidamente consiglia a Berlusconi di farsi processare e di lasciare al Parlamento la calma e la serenità di approntare quelle riforme sulla giustizia che non si limitino a una legge “rozza e frettolosa”, fa emergere un quadro di luci e ombre tra le quali si intravede la verità mai rivelata. Quasi Berlusconi non fosse che l’altra faccia delle intenzioni inconfessabili di un progetto comune alle parti, un’anomalia dell’ideologia neoliberista che simbolicamente si mostri nel lodo Alfano, rivelando gli altarini. In tal senso, Berlusconi è stato utile a nascondere la condivisione degli interessi che si muovono in Parlamento, non diversamente dal classico mostro sbattuto in prima pagina.
Impedire alla magistratura di nuocere è diventato l’imperativo categorico di una classe politica ed economica che, dopo sessant’anni di malversazioni, di relazioni ambigue, di furti e di sangue, oggi ha fatalmente imboccato un vicolo cieco. Parlare di una vendetta per la grande paura patita durante l’inchiesta Mani pulite, di scontro tra campi di potere, o semplicemente di ‘riforma della giustizia’, non è che un’impostura per coprire il tentativo disperato di impedire una nuova stagione di inchieste, che tolga il velo dallo specchio su cui è riflessa l’immagine e la vera storia della seconda Repubblica. Per il procuratore aggiunto presso la Procura antimafia di Palermo, Roberto Scarpinato, l’attuale situazione è il portato naturale di considerazioni tratte a tavolino di fronte all’improvvisa libertà lasciata aperta dai giorni della caduta dell’impero sovietico. “La fine del bipolarismo liberalizza il processo politico distruggendo alcune posizioni di oligopolio politico e lasciando molti orfani. Infatti, venuto meno il collante artificiale dell’anticomunismo (il montanelliano Votate... turandovi il naso), scongelatisi i serbatoi del voto ideologico, messo in libera uscita un ondivago voto di opinione che non sa neppure bene dove dirigersi, i partiti di maggioranza crollano e quelli di opposizione devono reinventarsi un ubi consistam, mentre i cambiamenti radicali dei processi economici e la globalizzazione affidano al museo della storia la classe operaia e la dinamica dei conflitti di classe. Nel generale dissesto che si viene transitoriamente a determinare, si crea nella prima parte degli anni Novanta un vuoto di potere che apre una parentesi grazie alla quale valori delle minoranze prendono il sopravvento in una bolla temporale destinata a sciogliersi ben presto nello scontro con la realtà del Paese” (1).
Dopo quarantacinque anni di mordacchia, cadute alcune delle strutture che per anni hanno funto da protezione per i politici, i giudici si sono ritrovati improvvisamente liberi di attenersi all’articolo 3 della Costituzione, secondo cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, e all’articolo 112, che sancisce l’obbligatorietà dell’azione penale. I risultati di questa improvvisa boccata di libertà, sono ancora nella memoria degli italiani e, soprattutto, dell’élite dominante, che proprio da allora si è imposta l’obiettivo di destabilizzare il bilanciamento dei poteri stabilito dalla Costituzione. E da allora, infatti, come scrive Scarpinato, “la Costituzione finisce così sul banco degli imputati e la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali istituita nel febbraio 1997 diventa il tavolo operatorio dove, con sapiente chirurgia istituzionale, amputando e rimodellando qui e là, si prova a trasfigurare l’ordine giudiziario in una variabile dipendente degli equilibri politici che via via si consolidano sottobanco. Messa da parte la bicamerale, quel risultato è stato poi tenacemente perseguito con una sequenza ininterrotta di operazioni di ingegneria legislativa che lavorando ai fianchi, di sotto e di sopra l’architettura costituzionale, rischiano di svuotarla” (2).
Ora: il fatto che sempre più spesso, quando un magistrato apre un’indagine relativa a reati economici, si ritrovi a celebrare un processo politico, è la dimostrazione della profondità dei rapporti che ormai si sono istituiti tra politica, imprenditoria e mafia. Da quanto si evince leggendo i dati riportati nella Relazione dell’anticorruzione, da Tangentopoli a oggi il mercato delle tangenti non ha cessato di proliferare. Al contrario, oltre a non avere fatto in tempo a debellare il fenomeno ambientale della tangente, Mani pulite ha contribuito per converso all’evoluzione della specie, inducendo le tecniche corruttive ad affinarsi sempre di più. La corruzione ha fermentato fino a diventare la cifra sociale dei rapporti economici. Recenti studi sul tema hanno dimostrato essere diventata “prassi comune per aggiudicarsi appalti, licenze edilizie, realizzazione di opere finanziarie, superamento di esami universitari, esercizio della professione medica, addirittura nel mondo del calcio. In questi studi, il sistema della corruzione viene descritto come profondamente radicato nei diversi settori della vita politica amministrativa ma anche nella società civile, nel mondo delle professioni, in quello imprenditoriale e finanziario. La corruzione nella burocrazia è estremamente diffusa, favorita da alcune caratteristiche di fondo del sistema amministrativo, rappresentato da meccanismi di reclutamento e di carriera dei pubblici ufficiali dipendenti, dalla viscosità e dall’inefficienza delle procedure. Gli scambi corrotti avvengono secondo meccanismi stabili di regolazione che assicurano l’osservanza diffusa di una serie di regole informali, di diverse tipologie a seconda del ruolo predominante svolto dai diversi centri di potere, politico, burocratico, imprenditoriale e mafioso” (3).
È facile dedurre quanto l’assenza di contrappesi istituzionali, tra i quali una magistratura indipendente, possa permettere a un simile sistema di autoalimentarsi e dilatarsi, a totale scapito del cosiddetto libero mercato, tanto decantato dai vari capitani d’industria e dai parlamentari, i quali da sempre si nutrono di questo sistema di conservazione del monopolio e del potere (si leggano le cronache di Tangentopoli). È questo l’humus in cui crescono le ragioni della campagna di demonizzazione portata avanti negli ultimi quindici anni dalla classe dirigente (della quale la proposta di intitolare una via a Craxi rappresenta una delle tante battaglie simboliche). Un terreno di coltura adito a creare, nella percezione degli italiani, una riduzione della gravità del fenomeno corruttivo. Con il risultato di rendere la cosiddetta ‘riforma giudiziaria’ un incentivo sociale all’uso della corruzione come semplice olio lubrificante del sistema, sia a livelli macro che micro economico.
“Noi siamo dell’idea che la magistratura debba svolgere il proprio lavoro, siamo dell’idea che il governo chiamato a governare da 18 milioni di italiani debba svolgere il suo lavoro e che il potere legislativo debba fare le leggi: la soluzione per una fisiologica vita democratica è che ciascuno si attenga al proprio mestiere e ciascuno faccia fino in fondo il proprio dovere”. Sarebbe sbagliato pensare a questi concetti espressi dal guardasigilli Angelino Alfano come al frutto di una sua personale visione del mondo. Costui, contrabbandato come persona dotata di vivace intelligenza, è in realtà solamente l’uomo di Dell’Utri. Figlio di un ex sindaco democristiano di Agrigento, il bambino prodigio è stato una delle leve con cui, dal ’96 al 2001, il Polo delle libertà ha intessuto in Sicilia la fitta rete di rapporti con le vecchie gerarchie politiche, momentaneamente esautorate dall’inchiesta Mani pulite, e il cosiddetto ventre molle della società isolana. Un lento lavorio condensatosi nella conquista di 61 seggi su 61, alle elezioni del 2001 che hanno consacrato Berlusconi. Per raggiungere i propri obiettivi, Alfano non ha disdegnato di lavorare spalla a spalla con un personaggio del calibro di Giuseppe Nobile, un rappresentante del mandamento mafioso di Favara (una delle mafie più feroci della Sicilia), arrestato nel 2004 e condannato a sette anni di reclusione. La lunga frase di Alfano proviene da questo mondo culturale, da una concezione del reale in cui la mafia è una componente sociale come un’altra. In cui lo status quo deve essere conservato a ogni costo. Tuttavia sarebbe troppo addossare ad Alfano le colpe di quanto accaduto a luglio in Parlamento. L’uomo che pronuncia queste parole è solamente il braccio operativo di un Olimpo degradato, il Baron Samedi con sigaro e cappello a cilindro a spasso di notte per i cimiteri. È l’uomo che per arroganza, arrivismo e mancanza di scrupoli rappresenta al meglio la nuova borghesia che ha preso definitivamente il potere, per trasformare il Parlamento in un’appendice di interessi, di sentimenti e di modalità mafiose. Tuttavia, oggi, cedere alla convinzione che il Parlamento e la cultura mafiosa di certa Sicilia costituiscano l’eccezione in un mondo sano, è un errore clamoroso. Al contrario, essi, per quanto concerne l’Italia, sono solo una fetta del mondo quotidiano preso a caso. Un mondo in cui la parola mafia, ben oltre dal definire solamente un’organizzazione criminale o una mappa territoriale, finisce per configurarsi sempre più come uno spazio mentale e di azione comune, in verticale e in orizzontale alla penisola. Una cultura, un modo di vivere, un sentimento, che trascendono l’affiliato, per diventare uno scambio sociale ed economico che va dalla semplice raccomandazione all’appalto truccato, dalla tangente all’omicidio. Per questo motivo, a leggere quelle parole viene freddo. Perché, se è vero che l’Italia di oggi nasce da rivolgimenti internazionali come il crollo dell’impero sovietico, è altresì vero che ha bevuto il latte di Tangentopoli e delle stragi corleonesi di Capaci e via D’Amelio. Ma mentre Mani pulite non è riuscita a trasformarsi in un momento di pulizia politica e imprenditoriale, le stragi hanno rappresentato l’inizio di una marcia inarrestabile, silenziosa e sommersa, posta in atto dalla borghesia mafiosa. E se è vero che Berlusconi è l’uomo che ha portato questa nuova mafia direttamente in Parlamento, è altrettanto vero che le scalate alle banche e l’abitudine alla corruzione sempre più diffusa anche tra ministri e assessori di centrosinistra (si pensi, per citare solamente l’ultimo caso, alla giunta abruzzese di Ottaviano Del Turco), dimostra quanto lo spirito mafioso sia diventato ormai linfa vitale della gran parte del sistema politico e imprenditoriale. Un culto dell’illegalità all’ombra del quale si nasconde buona parte della cosiddetta società sana che, tutto sommato, la pensa come Alfano. Ed è in difesa di questo sistema che oggi si erige la retorica della governabilità.
Il fatto che gli uomini del Pd vi si appellino tanto di sovente dimostra quanta poca differenza esista, se non nella forma, tra il richiamo in stile mafioso rivolto ai magistrati “di fare ognuno il proprio dovere”, il continuo ed estenuante riferimento al dialogo di Veltroni e gli inviti alla conciliazione tra le parti, e alla moderazione, di Napolitano.
Lo status quo, quale esso sia, va conservato con ogni mezzo. È stato a lungo così con lo Stato fascista, con le stragi degli anni Settanta, e sarà così, e molto più a lungo, con lo Stato mafioso.
Walter G. Pozzi
da rivistapaginauno.it
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