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Autore Discussione: IRENE TINAGLI  (Letto 37551 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Maggio 27, 2010, 04:35:07 pm »

27/5/2010

Il buco nero del sistema Italia

IRENE TINAGLI

La macelleria sociale è già in atto, a prescindere dalla manovra. E riguarda una fascia di popolazione a cui questo Paese si ostina a non guardare: i giovani.

Idati appena resi noti dall’Istat lasciano poco spazio all’ottimismo. Il tasso di occupazione complessivo è calato dell’1,2% nell’ultimo anno, mentre quello dei giovani tra i 15 e i 29 anni dell’8,2%, scendendo al 44%. Ma il dato più preoccupante va oltre la mera disoccupazione e riguarda i cosiddetti «neet», ovvero i giovani che non sono né occupati in un lavoro né inseriti in percorsi di studio o formazione («neither in employment, nor in education or training»). In Italia sono il 21,2% dei giovani tra i 15 e i 29 anni, in larga parte diplomati e laureati: proprio quelli sui quali dovrebbe poter contare un Paese per rilanciare la propria economia. Si tratta in totale di oltre due milioni di giovani che, semplicemente, non fanno niente. Aspettano. Aspettano forse tempi migliori, mentre intanto le cose che hanno imparato a scuola vengono dimenticate o diventano obsolete, e assieme ai saperi svaniscono fiducia, entusiasmo, voglia di guardare avanti. Questo è un dato drammatico, che avrà conseguenze pesantissime sul futuro di questi giovani e del nostro Paese. Stare lontani sia dal lavoro che dalla formazione aumenta le probabilità di essere disoccupati in futuro o di avere lavori stabili che consentono di crescere professionalmente. Diminuiscono le competenze e il bagaglio di esperienze, in altre parole: diminuisce il livello di capitale umano sia dell’individuo che del sistema socio-economico in cui questa persona vive e lavora. E’ anche alla luce di questi dati che una recente pubblicazione dell’Ocse ha previsto che il tasso di disoccupazione giovanile in Italia non diminuirà con il rallentare della crisi, ma continuerà piano piano a crescere.

Questo fenomeno non può essere imputato solo al crollo della produzione industriale. La crescita della disoccupazione complessiva in Italia è stata più bassa che in tutti gli altri Paesi, quindi il fatto che invece proprio in Italia i giovani siano così emarginati dal mondo del lavoro non può essere legato solo alla crisi. Un altro indicatore che ci mostra che il nostro problema va oltre la crisi economica emerge dal confronto con la Spagna. Infatti, persino in quel Paese, dove il tasso di disoccupazione giovanile è quasi il doppio del nostro, la percentuale di giovani «neet» che proprio non fanno niente è minore che da noi, segno che i giovani senza lavoro sono comunque inseriti in programmi di formazione, studio o apprendistato, un elemento che contribuisce a tenerli attivi e competitivi per il futuro.

Queste considerazioni ci fanno capire che il vero buco nero del nostro Paese non è solo e tanto la struttura economico-produttiva, ma il sistema della formazione e la transizione dal mondo dello studio a quello del lavoro. E’ questo il principale meccanismo di lotta all’inattività giovanile, come ci dicono ormai tutti i principali studi in materia. Basta guardare ai Paesi che fino ad oggi sono riusciti ad ottenere i migliori risultati su questo fronte: Olanda, Danimarca, e Germania per esempio, hanno tutti dei sistemi molto strutturati di formazione professionale, alternanza scuola-lavoro, e ammortizzatori sociali legati allo sviluppo di competenze e permanenza nel circuito della formazione.

Invece nel nostro Paese è proprio sul fronte della formazione e della transizione scuola-lavoro che manca un’offerta vera e di qualità. Abbiamo milioni di giovani abbandonati a loro stessi, che in molti casi non finiscono neppure gli studi superiori (non a caso abbiamo uno dei più bassi tassi di diplomati d’Europa), in altri restano emarginati dal mercato del lavoro o da una formazione che potrebbe aiutarli a restare comunque competitivi nel lungo periodo.

Una lacuna che non è stata colmata da nessun intervento o politica del governo. Di fronte ad una carenza di formazione e al dramma dei ragazzi che non finiscono le scuole, tutto quello che si è stati capaci di fare è stato abbassare l’obbligo scolastico, e schiacciare le ambizioni dei ragazzi incitandoli ad «accettare qualsiasi tipo di lavoro», rivalutando i lavori umili e manuali. Mentre la grande riforma del mercato del lavoro che il ministro annunciava già un anno fa si è limitata alla fine alla lotta sull’arbitrato. Un po’ pochino per risolvere un problema di questa portata.

Di fronte a un’emergenza del genere i ministri del Lavoro e dell’Istruzione e dello Sviluppo Economico dovrebbero lavorare insieme a ritmi serratissimi per pensare a misure strutturali che consentano al Paese di non perdere per strada queste nuove generazioni. Invece il ministero dell’Istruzione pare più in sintonia con quello del Turismo, il ministero dello Sviluppo Economico, dopo aver distribuito un po’ d’incentivi per l’acquisto di cucine e lavatrici, è adesso in cerca di identità dopo le dimissioni di Scajola, mentre quello del Lavoro pare ancora troppo impegnato nell’abolizione o riscrizione dell’articolo 18.

I milioni di giovani senza lavoro e senza formazione adeguata sono il vero dramma di questo Paese. Cercare di mortificare le loro ambizioni non è la soluzione. Ma d’altronde è difficile parlare di futuro e ambizioni in un Paese la cui unica ambizione, oggi, è «non fare come la Grecia».

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7408&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 04, 2010, 06:34:07 pm »

4/6/2010

Un patto sociale da riscrivere

IRENE TINAGLI

L’Unione Europea riporta alla ribalta la questione dell’aumento dell’età pensionabile delle donne. Questione che il governo pensava di aver risolto con un provvedimento «graduale» da realizzarsi da qui al 2018. Talmente graduale da sembrare non sufficiente all’Ue a risolvere la situazione iniqua e anomala dell'Italia, dove le donne possono andare in pensione ben 5 anni prima degli uomini (pur avendo, tra l'altro, un'aspettativa di vita superiore di 6 anni).

Può sembrare strano che il governo, che da quando è in carica si è mostrato così deciso su tagli assai più critici (da quelli all’istruzione, alla ricerca, fino a quelli ai Comuni e alle Regioni), sia stato e sia ancora così cauto nell’implementare una misura che in fondo allineerebbe l’Italia agli altri Paesi europei e che porterebbe peraltro grossi benefici economici.

Ma non è poi così strano se si pensa allo scontro quasi ideologico che per molto tempo ha caratterizzato questo argomento. E’ uno dei pochissimi temi su cui non solo sono d'accordo tutti i sindacati, ma persino significativi pezzi di maggioranza e opposizione.

Quando Brunetta, pochi mesi dopo il suo insediamento, affermò la necessità di alzare l’età pensionabile per le donne, si alzò un coro indignato di no, da Epifani a Bonanni alla Polverini, al quale si unì la contrarietà dell’allora segretario del Pd Franceschini e la perplessità di alcuni altri membri del governo. Calderoli e Bossi, per esempio, si sono dichiarati contrari ancora pochi mesi fa. Ed è questa reticenza diffusa che spiega la timidezza del governo su questo fronte. Perché l’Italia alla fine è un Paese di mogli, mamme e nonne. E di famiglie che si reggono su di loro. E spaventa terribilmente l’idea di mettersi contro il cuore pulsante della società, di rovesciare tutta un’impostazione culturale. Perché l’Italia è il Paese che magari tratta e presenta le donne come totalmente asservite ai bisogni dei mariti, dei figli, dei nipoti, degli amanti, ma che poi le celebra con canzoni, feste, e le premia consentendo loro di andare in pensione prima.

Ed è per rompere questo tipo di cultura, più ancora per gli innegabili e indispensabili risparmi economici che il provvedimento porterà alle casse dello Stato, che le donne per prime dovrebbero accogliere a braccia aperte il monito della Ue. E dire ai propri mariti, ai Calderoli, ai Bossi, agli Epifani: grazie mille del pensiero ma da domani ai vecchi e ai nipoti ci pensate un po' anche voi. Chissà che non sia la volta buona che in Italia cominceremo a vedere un po’ di asili e case di assistenza e senza nemmeno far troppe battaglie. Perché proprio questo è stato il tipo di scambio che per anni i governi italiani hanno condotto implicitamente con le famiglie: noi facciamo pochi asili e poca assistenza sociale, però in cambio vi mandiamo le mamme e le nonne in pensione prima. Non è un caso se l’Italia, che tanto ama la famiglia, alla fine spende per le politiche per la famiglia e l'infanzia la metà pari pari della media Ocse (1,2% del Pil contro il 2,4%). Rompere questo «accordo» significherebbe, per questo governo, doversi poi trovare a fare i conti con una domanda crescente di servizi di assistenza all’infanzia e alla vecchiaia di cui finora si era preoccupato pochissimo.

Purtroppo anche le donne per troppi anni sono state complici di questo gioco. Da un lato rivendicavano, sì, il diritto di emanciparsi da un ruolo antico che non corrispondeva più alle loro aspirazioni, e di avere più asili e servizi, ma intanto continuavano ad assumersi tutta la responsabilità dei doveri familiari e si tenevano i piccoli privilegi che lo Stato gli riservava, per poter assolvere al meglio tali doveri così come la società si aspettava da loro.

Ma in questo modo si sono autocondannate a non emanciparsi mai fino in fondo. E con loro il nostro Paese. Perché se una donna sa che lavorerà meno di un uomo per potersi dedicare a vecchi o nipoti, investirà di meno nella propria carriera sin dagli inizi. Perché in fondo saprà, prima ancora di cominciare a lavorare, che dovrà rallentare il passo non solo per il primo figlio, ma poi per il primo nipote e infine per il primo segnale d’Alzheimer del genitore o del suocero. E l’Italia continuerà ad avere un tasso di attività femminile più basso degli altri Paesi europei, una retribuzione media femminile più bassa degli uomini e così via.

E continuerà ad essere così non perché le donne siano incapaci o gli uomini siano cattivi, ma perché le une e gli altri vivono in un sistema che genera incentivi affinché le cose stiano così. Ma questo circolo vizioso si può spezzare, cominciando per esempio col rompere questo sciocco e inutile favoritismo nei confronti delle donne e reinvestendo i risparmi che ne deriverebbero alle casse dello Stato per potenziare servizi all’infanzia e alla famiglia.
Per questo le donne dovrebbero essere le prime ad appoggiare questo provvedimento. E capire che non usciranno mai dalla loro vera o presunta inferiorità finché continueranno a voler usare tale inferiorità come scusa per avere trattamenti in qualche modo privilegiati, a mo’ di compensazione per l'ingiustizia che subiscono. Le ingiustizie si eliminano ex ante, non si compensano ex post.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7439&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #17 inserito:: Giugno 16, 2010, 11:25:07 pm »

16/6/2010

IRENE TINAGLI

Costituzione usata come scusa
   

Al di là dello scontro quasi ideologico che si solleva ogni volta che si tocca la Costituzione, ciò che colpisce del dibattito sull’articolo 41 è la tesi che questo articolo sia ciò che ha frenato e frena la competitività italiana e che, modificandolo, l’Italia possa tornare a competere sui mercati internazionali. Ma è davvero così? E’ vero che la competitività di un Paese dipende dalla sua Carta costituzionale? Questa è la domanda che dovremmo porci in questo momento. In questa prospettiva è interessante andare a guardare le classifiche internazionali sulla competitività e scoprire che i Paesi più competitivi del mondo hanno alle spalle Costituzioni, modelli di Stato e di governo completamente diversi l’uno dall’altro.

In vetta alle classifiche troviamo infatti Paesi di tradizioni liberali e liberiste, come gli Stati Uniti. Ma anche Paesi di tradizione social-democratica, come la Svezia e la Danimarca, così come troviamo democrazie parlamentari e presidenzialiste, Stati unitari e Stati federali, repubbliche e monarchie. Già da queste riflessioni sorge quindi più di un ragionevole dubbio. Il dubbio che forse la competitività dipenda da altri fattori. Ed infatti è così.

La competitività - che altro non è che la capacità di crescere nel lungo periodo - è legata ad altro. Si tratta chiaramente di una molteplicità di fattori, ma tre in particolare sono fondamentali: un sistema della ricerca e dell’istruzione moderno e competitivo, una pubblica amministrazione funzionale e trasparente, ed un sistema fiscale e redistributivo efficiente ed equo, che supporti il lavoro e gli investimenti. Investimenti non solo materiali ma anche e soprattutto immateriali, a partire proprio da quelli in ricerca, istruzione e formazione. E’ così che si crea un circolo virtuoso: una forza lavoro preparata e competitiva e un sistema di imprese che fa leva su tale capitale umano per generare innovazione e crescita.

Certamente mantenere questi investimenti e questo ciclo virtuoso in tempi di crisi non è facile, ma non impossibile. Basta guardare la Germania, che, pur dando alla luce una manovra finanziaria durissima con i tagli più pesanti dalla Seconda Guerra Mondiale, ha lasciato intatti tutti gli investimenti in istruzione e ricerca, dando mostra di una lungimiranza e di una prospettiva strategica invidiabili. L’Italia invece non solo ha tagliato pesantemente scuola, formazione, università e ricerca, ma non è stata nemmeno capace di portare fino in fondo alcune riforme avviate da questo stesso governo che avrebbero perlomeno dato un contributo a quei cambiamenti strutturali necessari per un eventuale reinvestimento futuro.

La riforma dell’Università è ancora ferma, rallentata non solo dai tanti emendamenti ma anche dall’evidente priorità data ad altri provvedimenti, dai vari Lodo Alfano fino all’ultimo provvedimento sulle intercettazioni, sui quali sono state spese molte più energie.

La riforma della pubblica amministrazione di Brunetta è stata in pratica mutilata dall’ultima manovra del governo che, per introdurre il blocco dei salari nel pubblico impiego, ha di fatto congelato (anche se non formalmente sospeso) tutta la parte della riforma che avrebbe introdotto un po’ di meritocrazia, valutazione e responsabilità nella pubblica amministrazione. Di riforma fiscale invece è stato quasi tabù parlare fino ad oggi. Adesso viene rispolverata, ma posta come subordinata alla più alta questione della «libertà di impresa» e alla modifica della Carta costituzionale. Creando un po’ di confusione sulle finalità di tale provvedimento, facendo quasi credere che questo articolo impedisca la creazione d’impresa. Non solo non è cosi, ma la creazione d’impresa, di per sé, non è un problema per il nostro Paese. In Italia si fa già abbastanza impresa, non a caso abbiamo una densità imprenditoriale tra le più alte d’Europa (circa 66 imprese ogni 1000 abitanti, contro 22 della Germania, 39 della Danimarca, e 40 della Francia).

Il problema delle imprese italiane è un altro: è la difficoltà di crescere avendo a che fare con una pubblica amministrazione lenta ed inefficiente, con una fiscalità complessa e penalizzante per chi davvero investe in innovazione e ricerca, e la difficoltà a trovare giovani (giovani veri, non quarantenni) preparati e ben formati sul mercato del lavoro. Questi sono i veri problemi delle imprese, e la modifica dell’articolo 41 non servirà a cambiare molto questo stato di cose. Anche la semplificazione della complessità normativa, la razionalizzazione di autorizzazioni e controlli può essere realizzata subito, senza modifiche costituzionali. D’altronde, è proprio questo governo che ha istituito il ministero per la Semplificazione normativa. Ed è proprio quel ministro, il senatore Calderoli, che pochi mesi fa si è fatto immortalare armato d’ascia e fiamma ossidrica mentre dava fuoco alle 375 mila tra leggi e regolamenti abrogati dal suo ministero. Viene naturale chiedersi come mai tra tutte quelle migliaia di leggi non ce ne fosse nemmeno una che sia servita a rendere più semplice la vita delle imprese e dei cittadini, tanto che oggi siamo ancora a parlare di normativa asfissiante.

Ecco, potremmo ripartire da lì, dal rilancio di una semplificazione normativa più mirata e selettiva, in modo da andare più incontro alle esigenze di aziende e cittadini. E da una riorganizzazione delle procedure e degli adempimenti burocratici per le imprese, per esempio realizzando in modo capillare su tutto il territorio gli sportelli unici per le attività produttive, istituiti per legge dodici anni fa ma nella realtà ancora largamente incompiuti, o, quando esistenti, raramente accompagnati dalle necessarie semplificazioni amministrative e dalla necessaria formazione del personale. Per realizzare tutto questo non è necessario creare una nuova Costituzione. Magari un nuovo ministro sì, potrebbe servire, visto che il ministro per le Attività produttive si è dimesso quasi due mesi fa e ancora non si è trovato un sostituto.

Insomma, se l’obiettivo è rilanciare la competitività del nostro Paese, investire tempo ed energie per modificare la Costituzione potrebbe non essere la strategia più efficace.
Ci sono molte altre cose più incisive e fattibili subito che possono servire assai meglio a questo scopo. Se poi l'obiettivo è un altro, allora è un altro discorso.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7481&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #18 inserito:: Luglio 25, 2010, 12:20:42 pm »

24/7/2010

Università, valutiamo le qualità

   
IRENE TINAGLI

Come periodicamente accade nel nostro Paese, si riaccende il tormentone vecchi contro giovani, con l’eterno tema del ringiovanimento dell’università italiana. L’occasione stavolta è la proposta del Pd di mandare in pensione tutti i professori sopra i 65 anni, un’idea lanciata già qualche mese fa ma tornata d’attualità dopo l’apertura del ministro Gelmini. Chiaramente numerosi professori vicini o già sopra la soglia si sono indignati, sentendosi rottamati come vecchie auto, rivendicando l’enorme patrimonio culturale e scientifico che in questo modo andrebbe buttato al vento. Altrettanto prevedibilmente i sostenitori della proposta hanno accusato chiunque fosse contro di voler difendere i baroni, di essere i peggiori nemici dei giovani e così via. C’è tuttavia qualcosa che non torna in questo dibattito un po’ scontato.

Dal lato dei «giovani», per quanto sia facile simpatizzare per i ricercatori che lavorano nel sistema universitario italiano con contratti precari e stipendi da fame, non torna affatto il ragionamento per cui chiunque abbia più di 65 anni rubi lo stipendio mentre i giovani che verrebbero immessi nel sistema sarebbero tutti grandi talenti iperproduttivi. E non torna che persone che per anni hanno usato la retorica del merito e della qualità propongano una misura così indiscriminata che non entra in nessun modo nel merito e nella qualità delle cose. Dall’altro lato, però, stona anche sentire illustri professori difendere la propria categoria autoproclamandosi indispensabili al prestigio e al futuro della ricerca italiana, quando da decenni non sono sottoposti ad alcun tipo di verifica o valutazione.

È sicuramente una situazione complessa, e anche alcuni dei correttivi ipotizzati potrebbero non funzionare, come l’idea espressa mercoledì sul Corriere da Francesco Giavazzi di togliere agli ultrasessantacinquenni il potere di voto nei concorsi. Soluzione interessante, ma che potrebbe non sortire gli effetti sperati, visto che il groviglio di relazioni, favori e amicizie tra professori è talmente fitto che chi voglia manovrare i concorsi può tranquillamente farlo tramite le «seconde file» di suoi fedelissimi. Senza considerare che anche in questo caso si torna a dar per scontato che tutti i sessantacinquenni stiano lì solo per manovrare i concorsi. La questione si potrebbe risolvere in altro modo. Cercando di vedere la parte di ragione di entrambi anziché accanirsi sui rispettivi torti. È vero che l’Università italiana ha raggiunto un livello di vecchiaia ormai patologico ed è vero che ci sono dei professori ordinari che assorbono tantissime risorse economiche senza produrre ricerca scientifica di qualità. Ma è altrettanto vero che ci sono anche professori sopra i 65 anni ancora produttivi, di prestigio internazionale, che possono continuare a dare un contributo importante alla ricerca e alle nuove leve di studenti e ricercatori. Dunque una possibile soluzione: istituire una valutazione rigorosa sulla qualità della produzione scientifica di tutti i professori associati e ordinari, a prescindere dall’età (non solo esistono validi indicatori, ma adesso esiste anche un’Agenzia in Italia, l’Anvur, che avrà le carte in regola per condurre tali valutazioni). I professori che non rientrano negli standard qualitativi previsti potranno scegliere: se hanno un’età pensionabile possono andare in pensione, altrimenti dovranno optare per un contratto differenziato che preveda solo docenza, non ricerca, e che abbia quindi un salario ridotto della metà.

In questo modo i professori che reclamano la propria indispensabilità al sistema universitario italiano avranno finalmente l’opportunità di dimostrarlo. E di farlo non attraverso i criteri del «merito eccezionale» non ben definito che prevede la proposta del Pd, ma dimostrarlo attraverso una regolare valutazione delle loro attività secondo standard scientifici internazionali (così come avrebbe voluto fare il senatore Ignazio Marino, purtroppo inascoltato dal suo stesso partito). Dopotutto il mantenimento in servizio di un professore bravo non deve essere visto come un favore al professore, ma un servizio alla società. Non solo, si risolverebbe anche la questione delle risorse economiche, perché mandare in pensione tutti gli ordinari sopra i 65 significa comunque un onere per le casse dello Stato, a fronte di nessun servizio reso. Invece, riducendo lo stipendio per chi faccia solo attività didattica, si avrebbe una spesa complessiva molto minore, per un servizio importante che comunque viene reso. Infine, si risolverebbe anche la questione dell’intra moenia per i professori sollevata sempre dal Pd. È vero che molti professori hanno attività professionali a latere di quella accademica, ma questo non necessariamente incide sulla qualità della ricerca e dell’insegnamento. Se un docente riesce comunque a produrre ricerca di qualità potrà fare quello che vuole nel tempo libero, se invece le attività extra vanno a detrimento della qualità accademica sarà lui il primo a tagliare sulle consulenze se ha intenzione di restare professore full time.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7633&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #19 inserito:: Luglio 30, 2010, 09:41:45 am »

30/7/2010

Tutti eguali di fronte al concorso

IRENE TINAGLI


Dopo tante polemiche e dopo tanta pazienza, Mariastella Gelmini finalmente esulta. E ha molte ragioni per farlo.

La sua Riforma è stata approvata ieri in Senato, con un impianto sostanzialmente integro, non stravolto dalle centinaia di emendamenti che rischiavano di snaturarlo completamente. Ma l'approvazione del ddl non è solo un ottimo successo per il ministro, ma anche, nel complesso, un buon passo avanti per l'Università Italiana.

Alcune delle misure introdotte rappresentano delle innovazioni «culturali» sicuramente di rilievo, perché per la prima volta si introduce l'idea di valutazione sia sulle attività degli Atenei che sulle attività dei singoli docenti, anche i professori quelli già inseriti nel sistema. Le valutazioni non sono drastiche e mieteranno forse meno vittime del previsto, ma intanto viene introdotto nel sistema il «germe» della valutazione, del «merito», quel cambiamento culturale che per anni è stato oggetto di tanta retorica e annunci, ma rarissime azioni concrete.

Il decreto prevede numerose novità anche nella gestione e nella governance accademica, ma il punto che ha suscitato maggiori polemiche e che più tende a rompere vecchie logiche di funzionamento è quello che riguarda la figura dei ricercatori, che diventano a tempo determinato, per un massimo di 6 anni (quindi niente più ricercatori a vita), e le procedure di assunzione dei nuovi professori, che passeranno tutte attraverso un concorso di abilitazione nazionale (con commissione tirata a sorte) di fronte al quale ogni concorrente sarà trattato alla pari. Nessun favoritismo o priorità per chi è già nel sistema, magari da anni, nessuna ope-legis: tutti uguali di fronte al concorso. Certo, una volta ottenuta l'abilitazione, si entra in una lista unica e le Università sono libere di chiamare e dare priorità a chi vogliono all'interno di tale lista, ma per facilitare la mobilità è l'immissione di «esterni» il decreto prevede che tra i nuovi assunti di ciascuna Università ci sia una quota minima (un terzo per i professori di prima fascia) di persone che non erano già nell'Ateneo in questione.

L'introduzione di queste «quote outsider» mette forse un po' di tristezza, facendoli apparire quasi come specie da proteggere, ma visto come sono andate le cose fino ad oggi, appare l'unico modo per arginare vecchie pratiche di assunzioni «incestuose» dentro gli Atenei. Queste regole sull'assunzione saranno ancora più efficaci se saranno veramente abbinate a tutte le misure citate dall'articolo 5 del decreto, in cui si prevedono valutazione e premi per le università che avranno effettivamente seguito criteri aperti e internazionali nell'assunzione dei nuovi docenti, nonché' valutazioni regolari delle attività dei docenti anche dopo che sono stati assunti. Tali misure purtroppo sono solo citate nel decreto e demandate a successivo decreto attuativo del Governo, ma, se attuate secondo le modalità e gli indirizzi indicati nel decreto, rappresenterebbero una mezza rivoluzione e renderebbero molto più completa la Riforma.

Nel complesso, questo insieme di nuove regole, se riuscisse a passare indenne anche l'approvazione della Camera e venire poi supportata da buoni decreti attuativi, potrebbe davvero incoraggiare gli studenti più bravi a perseguire la carriera accademica e forse anche a convincere molti «cervelli» italiani emigrati all'estero a tentare la strada del rientro.

C'è un solo pezzo che manca, di cui nessuno parla, ovvero l'apertura del sistema non solo ai giovani italiani, ma anche a quelli stranieri. Su quel fronte la nuova riforma difficilmente potrà far fare grossi progressi. Il sistema ancora in piedi dei concorsi nazionali (in quale lingua?), con relativi iter burocratici, gazzetta ufficiale e così via, per non parlare dei salari ancora bassi, assai poco competitivi nel panorama internazionale, così come i fondi di ricerca ridotti all'osso non renderanno il nostro nuovo sistema universitario particolarmente attraente per gli stranieri. Quindi, anche se gli Atenei avranno incentivi all'internazionalizzazione del loro corpo docenti, difficilmente riusciranno ad attrarre docenti dall'estero, soprattutto i più bravi. Ad ogni modo, c'è da sperare che, una volta create le condizioni di un mercato interno più funzionale, meritocratico e trasparente, il resto si possa costruire su su. Insomma, un passo forse non totalmente sufficiente, ma certamente necessario.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7655&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #20 inserito:: Agosto 06, 2010, 02:57:37 pm »

6/8/2010

Condannati dall'età

IRENE TINAGLI

Che effetto avrà il rallentamento demografico sul futuro dell’Europa? Numerosi centri di ricerca se lo chiedono da tempo, visto che il tasso di natalità continua a scendere in molti Paesi e che con la crisi anche i flussi migratori sono diminuiti e non sembrano più sufficienti a invertire il trend. Il timore principale, soprattutto per i politici, è che un’entità come l’Europa, che conta appena mezzo miliardo di persone, scompaia in termini di influenza globale di fronte a giganti come la Cina o l’India che hanno alle spalle popolazioni che superano, ciascuno, il miliardo di persone.

La popolosità ha certo una sua rilevanza: un presidente che rappresenti un miliardo di persone ha un peso diverso rispetto ad uno che ne rappresenti solo una piccola parte, anche perché popolazioni numerose alimentano mercati e consumi, attraggono investimenti etc. Ma è evidente che il numero di cittadini, da solo, non basta a fare una potenza né politica né economica. Non è solo una questione quantitativa, ma anche qualitativa, che riguarda la struttura demografica, così come la struttura economica e sociale di un Paese. Da questo punto di vista non è il mero calo demografico a dover preoccupare, ma l’invecchiamento progressivo della popolazione. La grande potenza dell’India non sta solo nel miliardo e centottanta milioni di persone, ma nel fatto che il 50% di questa popolazione ha meno di 25 anni, e il 65% meno di 35. In Cina l'età mediana è 34 anni. Per fare un confronto, l’età mediana in Italia è 43 anni, in Germania 44, e in Francia, uno dei Paesi più «giovani» d'Europa, 40.

L’invecchiamento della popolazione europea non ha soltanto, come spesso e giustamente si ricorda, conseguenze gravose sul sistema pensionistico e di spesa sociale. Ma ha effetti rilevanti anche sul fronte della produttività, della capacità innovativa e di produzione di un Paese. Su tutti questi aspetti si riflette troppo poco. Si pensa sempre a cosa significhi avere tanti vecchi, ma cosa significa, per contro, avere pochi giovani? Una popolazione più giovane significa innanzitutto avere una forza lavoro attiva, con istruzione e competenze fresche, recenti. Un giovane di 25 anni avrà un titolo di studio fresco alle spalle, saprà usare tutte le nuove tecnologie, mentre una persona di 45 o 50 anni avrà, nel migliore dei casi, una laurea vecchia più di vent’anni, probabilmente presa battendo la tesi su una Olivetti. Un giovane sotto i trent’anni tipicamente lavora più ore e con stipendi non ancora gonfiati da anni di anzianità e carriera. Vale a dire: produce di più e a costi inferiori, ha più voglia di affermarsi, di imparare, e in generale aiuta il sistema a muoversi più velocemente, a produrre ed innovare a ritmi più elevati e costi più contenuti. E questo è tanto più vero nelle economie più dinamiche, in cui gli «investimenti» in istruzione e lavoro premiano di più. Tornando al caso dell’India, per esempio, non solo la sua popolazione è per la maggior parte giovanissima, ma queste nuove generazioni hanno livelli di istruzione relativamente elevati, il 100% parla fluentemente inglese, e molti di loro sono laureati, professionisti e ingegneri di prima generazione, che non hanno alle spalle esperienze e patrimoni di supporto; hanno tutto da costruire, tutto da guadagnare. In altre parole: hanno sete di crescere, di affermarsi, di mettersi in gioco. In un’Europa in cui la classe media è esplosa ormai decenni fa, ed in cui le famiglie producono sempre più figli unici, la nuove generazioni tendono ad avere spalle più coperte rispetto ai loro colleghi cinesi ed indiani e meno incentivi a mettersi in gioco. Tanto più che i giovani europei si trovano di fronte ad economie che crescono assai più lentamente ed in cui le prospettive di riscatto e crescita economica e sociale sono, in termini relativi, assai modeste. Sono questi gli aspetti su cui l’Europa dovrebbe riflettere.

Sono la presenza, l’energia e le opportunità di crescita delle nuove generazioni a fare davvero la differenza sul futuro e l’influenza globale di un Paese, perché i giovani non solo danno un contributo chiave alle innovazioni tecnologiche ma anche ad un maggior dinamismo culturale. D’altronde i grandi trend globali, le nuove frontiere dell’arte, della scienza e anche della cultura di massa hanno più probabilità di venire da giovani artisti ribelli, scienziati emergenti e più in generale da nuove generazioni desiderose di crescere che non da ormai affermati cinquantenni e sessantenni.

La questione demografica in Europa è certamente un problema da affrontare senza ulteriori ritardi, ma prima ancora di pensare a come aumentare il numero assoluto di cittadini europei, nella speranza un po’ ingenua che aumentando il peso demografico si possa mantenere il peso politico globale, l’Europa dovrebbe concentrarsi sulla creazione di una realtà economica e sociale più fluida, dinamica e attrattiva per i giovani di tutto il mondo, con meno burocrazie e meno patrimoni e più stimoli per le attività produttive, per l’innovazione e l’imprenditorialità. Insomma, cercare di fare del Vecchio Continente un Paese per giovani, che generi quell’influenza sociale e culturale che è condizione necessaria per una vera influenza globale.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7684&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #21 inserito:: Agosto 12, 2010, 05:17:36 pm »

12/8/2010

Il nuovo pudore che la politica non sa capire
   
IRENE TINAGLI

Il caldo si sa, dà un po’ alla testa, ma non può essere solo il caldo la causa dell’ondata di denunce, insulti e aggressioni rivolte a persone che, a detta dei denuncianti, «offendono» il pudore e la sensibilità della gente. Ma chi sono questi svergognati e quali sono i vituperati atti osceni oggetto del contendere? Sono coppie dello stesso sesso che si tengono per mano e che si scambiano un bacio in pubblico.

E che per questo vengono denigrate, umiliate e in alcuni casi picchiate (come pochi giorni fa a Pesaro). Sono donne che prendono il sole in topless, come nel caso di una giovane denunciata sulla spiaggia di Anzio perché «turbava» i figli della vicina di ombrellone. Sono docenti di educazione sessuale denunciati perché spiegano il sesso a ragazzi già adolescenti chiamando le cose col proprio nome anziché ricorrere alla metafore delle api, come è successo qualche mese fa a Treviso. Sono persino mamme che allattano i propri figli in pubblico. Potrebbero sembrare casi sporadici e come tali ignorati senza troppi allarmismi.

Ma è un fenomeno in corso già da alcuni anni su cui varrebbe la pena riflettere. Anche l’estate scorsa sono state numerose le aggressioni ai gay che camminavano per mano, considerati «vergognosi» e oltraggiosi, così come si sono avuti episodi di mamme alle quali è stato impedito di allattare in pubblico, come una mamma allontanata da un ristorante di Madonna di Campiglio, o un’altra redarguita dal proprietario di uno stabilimento balneare della riviera romagnola perché avrebbe dovuto allattare chiusa in cabina. Questi comportamenti non possono essere attribuiti alla tradizione cattolica o a qualche fattore culturale immutato e immutabile del nostro Paese, perché venti anni fa di donne in topless al mare se ne vedevano a decine, e a nessuno veniva in mente di gridare allo scandalo e chiamare la polizia. Magari qualcuno poteva storcere il naso e pensare «non ci sono più i bravi giovani di una volta», ma c’era la consapevolezza di una società che cambiava, di nuove regole di convivenza civile alle quali occorreva adeguarsi. E soprattutto cominciava a farsi strada, allora, un concetto di libertà e di diritti civili e individuali che oggi a quanto pare sta diventando sempre più condizionato, limitato non tanto dal rispetto della legge, come dovrebbe essere, ma dalle sensibilità personali. Il limite della libertà di un individuo oggi non sembra essere più il rispetto della legge e della libertà degli altri, ma della loro sensibilità, del loro concetto di buono e cattivo, di ciò che a loro piace o dà fastidio. E questa è una deriva molto insidiosa.

Ma come siamo arrivati a questa sensibilità pubblica così esasperata, che finisce talvolta per sfociare in atti di intolleranza e aggressività? Siamo arrivati fin qui non perché la gente sia diventata all’improvviso più cattiva o più bigotta, ma perché è stata lasciata sempre più sola ad affrontare cambiamenti sociali importanti, condizioni di convivenza mutevoli, bisogni e valori emergenti. Siamo arrivati fin qui perché la politica ha perso lungimiranza e coraggio ed è sempre più latitante sui temi che riguardano la crescita e l’evoluzione della nostra società, che riguardano la vita, i sentimenti, le idee, e i valori dei cittadini. Riesce magari a varare una manovra o a introdurre od eliminare una nuova tassa, ma si dimentica che la crescita di un Paese non è fatta solo di manovre correttive, tassi di interesse e conti pubblici.

La crescita di un Paese è anche e soprattutto una crescita culturale e sociale. Trent’anni fa la politica aveva saputo, assai più di oggi, occuparsi dei temi legati ai grandi cambiamenti sociali allora in atto: il divorzio, l’aborto, il ruolo delle donne nella società e la parità di diritti. I partiti non si tiravano indietro di fronte alle grandi battaglie civili, e si prendevano la briga innanzitutto di informare e formare opinione, di impegnarsi in un’attività divulgativa che bene o male aiutava i cittadini a capire i cambiamenti in atto e orientarsi. E poi si preoccupavano di agire e legiferare avendo a riferimento un’idea della società che pensavano di costruire nel lungo periodo. Oggi la politica sembra invece aver abdicato a questo ruolo. Le grandi questioni sociali e civili che hanno scosso le nostre comunità negli ultimi anni sono diventate «temi sensibili», rischiosi, difficili, e i politici hanno preferito evitarli oppure assecondare e cavalcare le paure e i dubbi ad essi collegati per cercare consenso facile, anziché aprire dibattiti seri ed informati.

Un atteggiamento miope e opportunista che ha saputo solo acuire disagi e attriti, facendoci trovare oggi di fronte ad un Paese paralizzato su questioni di grande rilevanza come quella del testamento biologico, dell’omofobia, o del ruolo e del rispetto delle donne, che continuano ancora oggi a subire violenze inaudite - come ci dimostra la cronaca, che quasi ogni giorno ci offre storie di mogli ed ex fidanzate perseguitate, picchiate e uccise. In questo vuoto politico ogni malumore, ogni frustrazione, ogni paura rischia di prendere la strada della chiusura, dell’intolleranza, della diffidenza, della protezione fai da te.

L’atteggiamento della politica verso tali questioni è tanto più miope se si pensa che certi temi comunque ritornano. E ritorneranno, infatti, quest’autunno, con il voto alla Camera della legge sul biotestamento e, probabilmente, con un nuovo voto sulla legge contro l’omofobia. Qualcuno si sta già chiedendo se questi voti spaccheranno la maggioranza e se e come contribuiranno a definire nuove geografie politiche. Speriamo però che, almeno questa volta, la politica sappia prendersi le proprie responsabilità e cogliere l’occasione per avviare un dibattito serio, informato, lungimirante e non demagogico su questi temi, che pensi al futuro della nostra società e non solo a contare voti e disegnare alleanze di carta.

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« Risposta #22 inserito:: Agosto 30, 2010, 04:28:03 pm »

30/8/2010

Perché non siamo un Paese per scienziati
   
IRENE TINAGLI

Gli italiani non sono solo un popolo di poeti e navigatori, ma anche di ottimi medici e scienziati. Non c’era certamente bisogno di una nuova classifica per appurarlo, tuttavia la lista della Virtual Italian Academy, che valuta la performance in termini di pubblicazioni e di impatto accademico di 400 ricercatori italiani, ce lo conferma e ci costringe a ricordare nomi di nostri illustri connazionali che troppo spesso lasciamo in ombra. Nomi come quelli di Carlo Croce, Napoleone Ferrara, Giorgio Trinchieri, Alberto Mantovani e molti altri ancora. Uomini (e donne, come Silvia Franceschi, a capo del gruppo di biologia ed epidemiologia dell’Agenzia internazionale per la Ricerca sul Cancro di Lione) che hanno dato e stanno dando contributi essenziali alla lotta contro malattie come il cancro, l’Hiv, la leucemia, l’epatite e molte altre che affliggono il genere umano.

La classifica però ci offre anche altri spunti di riflessione. La prima cosa su cui ragionare è la constatazione che una grande fetta di questi nomi eccellenti non stanno conducendo la loro ricerca in Italia ma all’estero.

Tra i migliori 20 solo 7 lavorano in Italia, gli altri 13, ovvero il 65%, sono tutti fuori. Allargando la lista ai top 50 le cose non migliorano molto: quasi il 60% dei migliori 50 è all’estero. Le proporzioni si invertono se andiamo a vedere la parte bassa della classifica: tra gli ultimi 100 il 74% è in Italia. Questo non significa solo che gli altri Paesi ci rubano tutti quelli più bravi, perché in realtà molti di quelli che sono all’estero vi si sono trasferiti assai prima di diventare famosi (Carlo Croce è in Usa da circa trent’anni, Napoleone Ferrara dai tempi del suo postdottorato alla Ucla, e potremmo fare altri esempi analoghi), ma significa che chi è andato all’estero, pur avendo già una marcia in più, ha trovato le condizioni giuste per poter sfruttare questa marcia e correre più veloce verso la meta.

È anche per questo che se andiamo a vedere l’indice H, ovvero l’indice di performance utilizzato per stilare la classifica, e ne calcoliamo la media per tutti i ricercatori che sono in Italia confrontandola poi con la media di coloro che sono all’estero, ci accorgiamo che i ricercatori che lavorano in Italia hanno una performance media molto più bassa di quelli all’estero. L’indice di performance medio per i ricercatori che lavorano in Francia è di 57.4, per quelli in Usa è 56.3, per quelli in Svizzera 51.8, per quelli in Italia è 44.9. Si tratta chiaramente di numeri da prendere con estrema cautela, perché includono ricercatori attivi in settori anche molto diversi e quindi non sempre confrontabili, ma a livello meramente indicativo danno quantomeno dei segnali. Il segnale chiave è che all’estero la produttività scientifica, che non dipende mai esclusivamente dall’individuo ma dal contesto in cui si forma e opera, è assai più elevata che da noi.

Un’altra cosa importante da tenere in considerazione è che i nostri ricercatori all’estero non solo hanno avuto le condizioni per crescere e affermarsi, ma anche quelle per formare le nuove generazioni di scienziati del Paese in cui operano. Infatti la maggior parte di loro sono ormai da molti anni direttori di grandi centri di ricerca che hanno a disposizione centinaia di giovani e centinaia di milioni di dollari per fare ricerca, assumere e far crescere nuovi ricercatori. Un sistema così oliato non solo garantisce all’individuo bravo l’opportunità di lavorare bene e di emergere, ma dà a tutto il sistema di ricerca nazionale una continuità fondamentale per contribuire al benessere e alla crescita del Paese. La possibilità di avere risorse assegnate sulla base delle capacità e dei risultati, nonché quella di poter assumere e coordinare team di ricerca capaci, affiatati e operativi con una certa continuità sono condizioni essenziali per la produttività della ricerca scientifica. Purtroppo in Italia queste condizioni sono mancate per troppo tempo e solo in parte riusciranno a essere generate dalla recente riforma delle Università (sempre che i numerosi aspetti su distribuzione di fondi e incentivi lasciati a provvedimenti successivi del governo vengano poi attuati). Senza contare che le condizioni per una buona ricerca non stanno solo nel sistema di funzionamento dell’Università. In Italia non se ne parla mai, ma per fare ricerca non servono solo assunzioni o laboratori. È altrettanto importante, per esempio, poter avere o raccogliere dati, informazioni, statistiche, condurre esperimenti, studiare casi. E questa disponibilità dipende dall’organizzazione e dal funzionamento di mille altri enti e istituti: dall’organizzazione di Asl e ospedali fino all’Istat e alla Banca d’Italia.

In alcuni settori tali condizioni sono anche migliori in Italia che in altri Paesi (per esempio in alcuni ambiti medici, dove non a caso abbiamo eccellenze significative), mentre in altri settori (per esempio in alcune scienze sociali come sociologia, alcuni rami di economia e public policy), i dati disponibili sono spesso lontani dalla quantità e soprattutto qualità di quelli disponibili in altri Paesi. In Italia si fanno tanti sondaggi d’opinione, ma i dati statistici che servono per la ricerca accademica fanno fatica a essere raccolti e resi pubblici in modo sistematico, costante e capillare. Manca una cultura che veda in queste attività una forma di investimento per la conoscenza e la crescita del Paese. Basta pensare che a maggio 2010 l’Istat non aveva ancora ricevuto i fondi per la realizzazione del censimento 2011.

Insomma, le eccellenze non sono e non possono essere punte di iceberg che ogni tanto ci sorprendono e ci fanno compiacere della nostra bravura. Sono fenomeni che vanno saputi coltivare e portare avanti con costanza, consapevolezza, lungimiranza, dentro e fuori le università. Implicano uno sforzo collettivo, economico e culturale. L’Italia dovrebbe cercare di lavorare di più sulle condizioni affinché chi resta in patria possa essere produttivo al pari dei propri colleghi all’estero, e affinché possa realizzare questi obiettivi sentendosi non un eroe donchisciottesco e solitario, ma un «normale» scienziato che fa il proprio lavoro in un sistema motivante e funzionale.

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« Risposta #23 inserito:: Settembre 28, 2010, 11:59:00 am »

28/9/2010

Il made in Italy ora vince con la laurea
   
IRENE TINAGLI

C’è un nuovo made in Italy che si sta facendo strada nel mondo. Un made in Italy che forse da noi non fa molta notizia, perché sfugge agli stereotipi dell’artigiano con il metro che pende dal collo o chino su una forma di parmigiano che tanto amiamo, ma che sta facendo scintille.

Sono fenomeni come Grom, catena di gelaterie di alta qualità ormai famosissima; oppure Amorino, altro marchio di gelaterie di lusso nato da due italiani che hanno conquistato la Francia (circa trenta negozi in pochissimi anni).

O ancora Christian Oddono, l’italiano che sta sbaragliando il mercato del gelato in Gran Bretagna. I casi di Grom, Amorino e Oddono sono già stati molto citati, ma tutte le attenzioni sono state rivolte al prodotto venduto, il gelato, rivendicando la rinascita di uno dei nostri prodotti più noti nel mondo, più raramente alle persone e alle competenze che ci sono dietro. E invece è proprio lì che dovremmo andare a guardare per trovare il vero trait d’union di queste tre storie e di molte altre in altri settori. Nessuna di queste persone era gelataio di professione prima di questa avventura imprenditoriale, né probabilmente ci pensava da ragazzino. Erano ragazzi che pensavano a studiare. E infatti sono tutti laureati, e molti di loro, forse per combinazione, sono laureati alla Bocconi, che non è esattamente il Cordon Bleu. Lì hanno studiato corporate finance, management, contabilità e gestione dei costi, non il punto di cottura del soufflé. Dopo la laurea hanno maturato esperienze aziendali e di alta finanza, come Oddono, che lavorava in corporate finance nella City di Londra, o come Paolo Benassi, uno dei cofondatori di Amorino, che seguiva la distribuzione di Max Mara.

Così, mentre noi continuiamo a celebrare l’idea dell’attività artigiana vecchio stile, quella che «non si impara a scuola ma solo sul mestiere», meglio se già a 14 anni, questi casi ci mostrano un made in Italy costruito su competenze economiche, finanziarie e di marketing di altissimo livello, sull’ambizione di trentenni formatisi in università prestigiose o nella City di Londra. Un made in Italy con la laurea.

E infatti sono proprio le capacità organizzative, economiche e finanziarie acquisite con gli studi ed esperienze manageriali che hanno consentito a questi nuovi imprenditori di fare quello che fino ad ora l’Italia ha faticato a fare: l’industrializzazione dell’artigianato italiano. Un concetto che per decenni in Italia è sembrato una contraddizione in termini, quasi un insulto alla nostra tradizione artigiana. Un pregiudizio (o un’incapacità) che abbiamo pagato caro visto che alla fine sono state multinazionali straniere a industrializzare molti dei nostri prodotti tipici. Noi avevamo la tradizione dei bar dove si sorseggia caffè leggendo il giornale, ma la catena Starbucks è nata a Seattle. Noi avevamo la pizza, ma la catena Pizza Hut è nata, anche lei, negli Stati Uniti. E così via per l’abbigliamento, i mobili, o lo stesso gelato, i cui primi casi di industrializzazione del gelato di alta qualità sono nati con i marchi Haagen Dazs e Ben & Jerry. Fino ad oggi. Né Amorino né Grom né Oddono sono ancora passati alla grande distribuzione, ma hanno comunque compiuto un importante passo. Uno scale up reso possibile non tanto grazie al prodotto in sé, che alla fine ha poco di rivoluzionario, ma alle competenze, alla visione strategica, alla capacità di costruire un marchio riconoscibile, di posizionarsi bene in mercati tutt’altro che facili. Ed è questa capacità manageriale, più che l’attrattività dei prodotti italiani, il fenomeno che merita più attenzione, quello che accende una speranza per il futuro del made in Italy. Il futuro del made in Italy non si basa sulla probabilità che tornino di moda prodotti come il gelato, il caffè o il prosciutto, ma sulla capacità di far nascere e crescere nuovi imprenditori competenti e internazionali capaci di reinterpretare i modelli organizzativi del made in Italy e di portarlo nel mondo.

Non solo, ma la capacità organizzativa e la visione internazionale potrebbero consentire agli italiani di compiere un passo ulteriore: di «fare agli altri quello che è stato fatto a noi». Ovvero quello di creare opportunità imprenditoriali globali e innovative su prodotti e culture stranieri. Perché no? Perché gli stranieri possono invadere il mondo con catene di ristoranti ispirati al caffè o alla cucina italiana e gli italiani non possono portare nel mondo catene o prodotti ispirati alle culture straniere? Lo ha già fatto Marco Fiorese, altro ex bocconiano che dopo anni di esperienza in operazioni di internazionalizzazione di aziende italiane in Cina ha creato una catena di fast food asiatici, ZenZen. In pratica ha mutuato la cultura americana del fast food da un lato e i sapori e la tradizione culinaria asiatica dall’altro. In appena 4 anni ZenZen ha già 20 ristoranti in tutto il mondo.

Ecco, queste sono le nuove generazioni di aziende e di imprenditori che l’Italia dovrebbe puntare a formare, anche perché, nonostante questi illustri esempi, sono ancora pochi i laureati che scelgono di misurarsi con avventure imprenditoriali. Eppure per fare impresa oggi non basta la conoscenza tecnica del prodotto, ma occorrono capacità manageriali e organizzative di alto livello - non è un caso se tutti questi esempi vengono da percorsi formativi di natura economico-manageriale.

Invece da noi si continua a vivere nel mito dell’artigiano solitario chiuso nella bottega con i suoi apprendisti, il mito del mestiere che si tramanda di generazione in generazione, come se tutto il mondo intorno non cambiasse mai. Peggio ancora, cerchiamo a tutti i costi di adattare i nostri giovani a questo mondo antico, incitandoli all’umiltà e alla riscoperta del mondo che fu, abbassando l’obbligo scolastico per metterli prima possibile dietro a un tornio o a un bancone, mentre dovremmo fare il contrario: aiutare il nostro piccolo mondo antico ad adattarsi alle nuove dinamiche mondiali, a diventare sempre più appetibile per manager ed imprenditori preparati e ambiziosi, e per finanziatori internazionali che forse subiscono anche il fascino della vecchia bottega, ma ancora di più quello di un piano aziendale solido e supportato da competenze di alto livello.

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« Risposta #24 inserito:: Ottobre 01, 2010, 03:58:19 pm »

1/10/2010

I capolavori dell'arte salvati dalla tecnologia
   
IRENE TINAGLI

Chi pensava che l’eredità di tanti grandi artisti del passato fosse destinata ad ammuffire nelle sale più o meno visitate di qualche museo non aveva fatto i conti con l’avanzare delle nuove tecnologie. Proprio in questi giorni Botticelli e i capolavori del Rinascimento fiorentino sono tornati a emozionarci non attraverso una mostra ma da foto digitali in altissima definizione che stanno spopolando sul Web.

Nonostante tanti luoghi comuni, arte e tecnologia non sono mai state completamente separate. Dalla creazione di colori che resistessero al tempo, o che consentissero sfumature e certi effetti di luce, alle tecniche e i materiali che hanno consentito sculture sorprendenti e innovative, fino allo sviluppo più recente di luci speciali per mostrare quadri antichi e preziosi senza danneggiarne lo splendore, o all’archiviazione digitale di intere biblioteche regalateci intatte dal tempo ma nascoste nei luoghi più disparati del mondo. Ma le applicazioni della tecnologia all’arte non si fermano qui e continueranno a sorprenderci ed emozionarci in futuro. E questo deve darci gioia e speranza non solo per l’arricchimento culturale che questi progressi portano con sé, ma anche per la loro portata economica e le ricadute che hanno sulle prospettive di crescita del nostro Paese.

Come mostra un recente studio realizzato dall’Istituto Tagliacarne su impulso di Unioncamere e del ministero per i Beni e le Attività Culturali, le attività connesse alla valorizzazione e promozione del patrimonio culturale sono una vera e propria filiera produttiva. Conta circa 900 mila imprese, dà lavoro a 3,8 milioni di persone e produce un valore aggiunto di circa 167 miliardi di euro, ovvero il 12,7% del valore aggiunto prodotto dall’economia italiana. Un’universo produttivo sempre più ampio e variegato, in cui si intrecciano attività tradizionali e artigianali, tecnologie, comunicazione e nuove professioni. Un settore che oltretutto, sempre secondo i dati del Tagliacarne, dal 2001 al 2006 ha avuto una crescita media annuale superiore alla media in Italia, sia in termini di valore aggiunto (+4,3% contro +3,5%) sia di occupazione (+2,9% contro +1,3%). Dati forse poco pubblicizzati, ma di cui bisognerebbe essere tutti più consapevoli. Qualcuno, comunque, ci sta già provando. E infatti proprio da questa consapevolezza è nato DNA Italia, il primo salone italiano dedicato alle tecnologie per la conservazione, fruizione e gestione del patrimonio culturale, che apre oggi a Torino. Tre giorni in cui il Lingotto darà spazio a workshop, dibattiti, e a numerosi progetti, materiali, e tecnologie d’avanguardia applicate o applicabili al Patrimonio Culturale. Dal multimediale alle nanotecnologie, dall’imaging alle tecnologie spaziali: un’occasione per guardare un po’ avanti e immaginare tutto quello che si potrebbe fare in questo bel Paese così ricco di risorse eppure oggi così avvilito.

Un Paese incapace di sollevare lo sguardo dai propri piedi, preoccupato dal baratro in cui sembra sempre dover cadere da un momento all’altro, ignaro delle vette che potrebbe raggiungere se solo sapesse alzare la testa.

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« Risposta #25 inserito:: Ottobre 24, 2010, 10:35:06 am »

24/10/2010

Dalla crisi un'opportunità per i talenti

IRENE TINAGLI

Come ha detto l'economista Paul Romer, è un vero peccato sprecare una crisi. Le crisi possono infatti essere ottime occasioni per ripensare vecchi modelli di sviluppo e investire in futuro, preparando il terreno per la creazione di nuove attività imprenditoriali, nuovi settori, nuove tecnologie.

E questo non lo si fa, come hanno fatto alcuni Paesi, immettendo miliardi di euro o dollari per salvare grandi gruppi, o per stimolare la costruzione di opere pubbliche e case (che andranno ad ingrossare la mole di appartamenti vuoti che già invadono città e periferie), o per incentivare l'acquisto di cucine e lavastoviglie. Misure di questo genere possono solo servire a evitare il tracollo del vecchio (e sulla loro efficacia esistono comunque molti dubbi), ma non certo a creare le basi per qualcosa di nuovo.

Il nuovo lo si costruisce pensando a ciò che deve crescere, formarsi, a ciò che sarà. Il nuovo lo costruiranno in larga parte le nuove generazioni, per questo oggi più che mai sarebbero necessarie politiche rivolte a loro. Nuovi modelli educativi, che insegnino davvero cosa significa essere oggi cittadini nel mondo, figli di una società aperta, informatizzata, dove il problema non è accumulare o memorizzare informazioni, ma essere capaci di analizzarle e ricombinarle in maniera critica. Nuovi modelli di formazione professionale che non inchiodino i ragazzi ad un mestiere che in passato durava 30 anni e oggi al massimo ne dura tre, ma che insegnino loro a gestire e sviluppare le proprie capacità in modo intelligente e flessibile.

Nuovi sistemi di lavoro e di welfare che non tutelino solo i padri, ma che aiutino i giovani ad affrontare la flessibilità senza che diventi una trappola, così come sistemi fiscali e finanziari che diano loro fiducia, pensando non a quanto possono essere spremuti oggi, ma a quanto potranno contribuire domani se aiutati a crescere. E sistemi amministrativi e burocratici internazionali che rendano facile la mobilità fisica, perché è ridicolo lamentarsi oggi della mobilità dei giovani talenti: sarebbero talenti miserabili se restassero ad ammuffire sempre nello stesso posto.

Il vero problema del «talento» oggi non è che è troppo mobile, ma che ancora non lo è abbastanza. Considerato quanto è stato investito, a livello internazionale, in infrastrutture, autostrade, aeroporti e in armonizzazione dei sistemi per far circolare le merci, è impressionante quanto poco sia stato fatto per facilitare la mobilità delle persone e dei lavoratori da un Paese all’altro, in modo da supportare una efficace e tempestiva «allocazione» del talento dove meglio può crescere e contribuire allo sviluppo senza essere sprecato.

Ecco, la crisi poteva essere un’opportunità per rivedere tanti nostri vecchi modelli e tararli sul futuro. Per il momento invece la crisi è stata utilizzata semplicemente per giustificare tagli profondi (una misura che, per via del deficit, sarebbe stata necessaria a prescindere) se non addirittura per bloccare alcuni processi di riforma. Basta pensare a come la scorsa finanziaria abbia determinato, di fatto, il congelamento di parti rilevanti della riforma della pubblica amministrazione, o al recente blocco della riforma dell'università, o al continuo annuncio e rinvio della riforma dello statuto dei lavoratori, degli ammortizzatori sociali e così via.

E anziché mettere mano a una vera e importante riforma della formazione professionale che andasse nella direzione degli altri Paesi europei, dove si cerca di rafforzare il legame tra scuola e impresa, è stato abbassato l'obbligo scolastico e demandata ogni formazione alle imprese (che oggi, vale la pena ricordarlo, sono tra quelle in Europa che investono meno in formazione, persino quando si tratta dei ragazzi: solo il 20% dei giovani in apprendistato riceve qualche tipo di formazione).

Di fronte a questo scenario complessivo così desolante, anche le iniziative del nostro ministero per le Politiche Giovanili, dal Festival dei Giovani Talenti all'idea dei villaggi della gioventù, pur interessanti, sembrano assolutamente inadeguate e irrilevanti in una fase delicata come questa: quali talenti premieremo tra qualche anno se non ci preoccupiamo di formarli e dare loro un'opportunità di crescita, di lavoro, di realizzazione?

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« Risposta #26 inserito:: Novembre 05, 2010, 11:30:19 am »

5/11/2010 - LE IDEE

Il cognome della madre al primo posto
   
IRENE TINAGLI

Mentre le donne italiane sono mortificate dall’ennesimo e orgoglioso rigurgito sessista, il processo di emancipazione delle donne spagnole procede spedito. È iniziata infatti oggi la discussione parlamentare di una legge secondo cui l’ordine dei cognomi assegnati alla nascita di un bambino (in Spagna un bambino prende i cognomi di entrambi i genitori) non metterà più al primo posto quello del padre.

A meno di una esplicita richiesta da parte dei genitori i due cognomi verranno attribuiti in ordine alfabetico. Una riforma dall’alto valore simbolico, che in un certo senso sancisce la fine di una società che non troppo tempo fa era ancora fortemente patriarcale e «maschio-centrica». Ma le cose sono cambiate moltissimo negli ultimi anni, e continuano ad evolversi.

La questione dell’uguaglianza di genere in Spagna è una cosa seria, non una bandierina sventolata solo in prossimità delle elezioni. È stata una priorità nell’agenda del governo Zapatero sin dal suo primo insediamento nel 2004. Tra i primi provvedimenti del governo vi fu infatti la legge sulla violenza contro le donne, che non solo ha creato una grande rete di centri di accoglienza per le donne vittime di maltrattamenti, ma che ha investito moltissimo sulla prevenzione, supportando programmi educativi nelle scuole, vietando pubblicità ove la donna venisse associata ad oggetti commerciali e regolamentando altri aspetti legati alla comunicazione mediatica. Un impegno confermato e rafforzato poi con le Legge sull’Uguaglianza del 2007, che si poneva obiettivi ambiziosi di parità sui luoghi di lavoro, nella pubblica amministrazione e in politica. Per non parlare poi dell’accurato bilanciamento tra uomini e donne nella formazione del governo e nell’assegnazione di numerose cariche e responsabilità politiche.

La cosa che forse colpisce di più è che nonostante la crisi, nonostante le difficoltà politiche che questo governo sta attraversando a causa di tematiche economiche caldissime e prioritarie, il focus sui diritti civili e sul ruolo delle donne non si è mai spento, ma continua ad essere al cuore dell’attività del governo e di molte sue scelte. Non solo il governo ha continuato ad avere una composizione perfettamente equilibrata tra componenti maschili e femminili anche nel secondo mandato e dopo l’ultimo rimpasto di ottobre, ma la politica ha dato alle donne ruoli di primo piano nella vita del Paese. Quelle poltrone ministeriali non sono state mosse strategiche di facciata, ma segnali di un investimento reale nelle donne e nel loro potenziale. Non a caso i due astri nascenti del Psoe sono proprio due donne: l’attuale ministra degli Esteri, Trinidad Jimenez, e la ministra della Difesa, Carme Chacon, che viene addirittura indicata da molti come il nome più quotato per la successione a Zapatero. Carme Chacon, la ministra che ha fatto emozionare milioni di donne in tutto il mondo con l’immagine del suo primo saluto ai «suoi» ragazzi: chi non ricorda ancora la foto di quella giovane ed esile donna, al settimo mese di gravidanza, che passa in rassegna l’esercito? Ecco, quella donna, che all’epoca aveva 37 anni e oggi 39, potrebbe coltivare la ragionevole e legittima ambizione di essere il prossimo primo ministro spagnolo.

Vista in questa prospettiva, la legge sulla fine del predominio maschile nella sopravvivenza del cognome non appare che un piccolo tassello di un processo di modernizzazione che per le donne spagnole sarà sicuramente ancora lungo, ma ricco di soddisfazioni. E le immagini che arrivano dall’Italia, di centinaia di ragazze che si offrono volentieri come splendida cornice per le performance oratorie di Gheddafi o per le feste dei potenti, convinte che quella sia l’unica possibilità di riscatto sociale che hanno, appaiono così surreali da sembrare immagini di un film d’epoca.

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« Risposta #27 inserito:: Novembre 20, 2010, 09:33:38 am »

20/11/2010

Cameron scommette sul futuro

IRENE TINAGLI

David Cameron sorprende ancora con la scelta del nuovo «guru» che lo aiuti a mettere a punto una nuova visione della società e dell’Inghilterra. Cameron ha infatti convocato Richard Florida, professore all’Università di Toronto, uno dei nomi più noti in materia di innovazione, creatività e sviluppo regionale. Per chi conosce il lavoro di Florida la sorpresa è più che comprensibile: la sua fama infatti è legata alle sue idee sulle società creative, multiculturali, aperte alle diversità di religione, cultura, orientamento sessuale e anche alle sue battaglie spesso in controtendenza. All’indomani dell’11 Settembre 2001, quando il governo Usa irrigidiva i requisiti per entrare nel Paese, Florida chiedeva di aprire di più le frontiere per studenti e lavoratori. Quando Bush lanciò la campagna per stimolare l’acquisto della casa da parte degli americani, Florida replicò che il possesso della casa inchioda le persone, limita la mobilità e la crescita economica e non va incentivato.

Per non parlare poi delle sue battaglie sull’importanza di investire in cultura e arte, in rinnovamento urbano, in diversità, immigrazione, diritti civili, e altre cose invise a molti economisti e politici più tradizionali. Perché dunque il primo ministro inglese Cameron ha deciso di convocare un personaggio così controverso e potenzialmente in conflitto con il suo elettorato? Perché, come ha scritto il ministro della Cultura inglese Jeremy Hunt in un articolo sul Times, «Florida descrive la vita com’è adesso, non com’era un tempo», e Cameron ha capito che se vuole davvero sviluppare la sua idea della Big Society in modo innovativo e accattivante deve innanzitutto essere capace di capirla questa grande società, di intravedere le forme che prende, i desideri che ha, i modi in cui può essere guidata, motivata, incoraggiata. E per fare questo deve mettere da parte ideologie o vecchi armamentari politici e confrontarsi con accademici, analisti, opinionisti internazionali, persone abituate a vedere e analizzare il mondo con una visione più ampia di quella del funzionario di partito o del proprio centro studi.

Questa sete di idee, di confronto, di elaborazioni intellettuali da tradurre poi in nuove proposte politiche è ciò che in passato ha caratterizzato molti leader di successo. L’idea di New Labor che cavalcò Tony Blair, per esempio, fu il frutto di un confronto profondo con intellettuali del calibro di Anthony Giddens, uno dei sociologi più noti del mondo. Così come la nuova idea di sogno americano lanciata da Obama nel 2008 (yes we can!) nacque da una serie di ricerche, analisi sulla mobilità sociale negli Stati Uniti, sui problemi emergenti della società americana. Ecco, questo è il potere delle idee, delle analisi genuine, e questa è la forza della politica quando è capace di far leva sulle migliori menti e valutazioni per capire i cambiamenti in atto e scommettere su qualcosa di nuovo, senza cavalcare paure contingenti, ideologie o nostalgie del passato, ma cercando di costruire il futuro, anche col rischio di fare errori. Purtroppo questo coraggio e questa energia è ciò che manca alla politica italiana. Una politica che anziché andare a caccia di intellettuali, analisti e opinionisti che possano offrire nuove interpretazioni ed elaborazioni, li teme e li evita; e che, pur sbandierando spesso la necessità di nuove idee, finisce poi per propinarci solo quelle più vecchie e rassicuranti, legate all’immagine dell’Italia gloriosa del passato, ma incapaci di delineare quella che potrebbe essere in futuro.

Una politica che, per esempio, continua a fare retorica sulla nostra manifattura e su un’immagine del «Made in Italy» da dopoguerra, ignorando i dati che ci mostrano come in Italia ormai solo il 27% del valore aggiunto deriva dall’industria, un dato che ci avvicina a Paesi che noi consideriamo de-industrializzati da tempo come la Gran Bretagna (23,6%), così come ha lucidamente descritto in questo stesso giornale l’ex direttore dell’Economist Bill Emmott. E una politica che continua a incitare i giovani ad accettare lavori più umili, ignorando i dati dell’Ocse secondo cui l’Italia ha già uno dei tassi di «sottoimpiego» maggiori d’Europa e che quindi la nostra sfida non sarà abbassare le ambizioni dei ragazzi, ma alzare il livello delle opportunità. Ma ormai persino i dati vengono negati e delegittimati per paura di misurarsi con problemi nuovi e difficili. Questa paura e questa chiusura non fanno che allontanare la politica dalla realtà, dalla gente, impoveriscono il dibattito pubblico e la possibilità di un riscatto.

Certo, i dati e le analisi offrono solo spunti, idee, fotografie di una realtà in evoluzione, possono essere incompleti, richiedono interpretazioni, formulazione di ipotesi sul futuro e anche l’assunzione di rischi e possibili fallimenti. Tuttavia, finché mancherà questo coraggio, finché chi osa guardare oltre la siepe e immaginare un futuro diverso sarà temuto e marginalizzato, la politica non potrà mai rinnovarsi del tutto, emozionare, né tanto meno aiutare questo Paese a rialzarsi.

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« Risposta #28 inserito:: Dicembre 19, 2010, 10:53:33 am »

19/12/2010

L'alleanza che paralizza l'Italia

IRENE TINAGLI

Alcuni commentatori negli ultimi giorni hanno evidenziato l’impasse politica italiana, in cui una coalizione di governo ormai debole e monca resta tuttavia «aggrappata» al potere, come ha scritto il Financial Times. Pochi però si sono soffermati ad analizzare il contesto sociale che accompagna questa crisi, un contesto in cui sta germogliando un paradosso preoccupante per il futuro del Paese.
Da un lato infatti siamo di fronte ad un governo che fatica ad agire e che ha fallito la sua missione più importante.

Ovvero quella della rivoluzione liberale tanto declamata agli inizi. Come ci dicono anche gli ultimi dati la pressione fiscale in Italia è aumentata, la burocrazia non si è snellita, le amministrazioni pubbliche sono aumentate anziché diminuire, le liberalizzazioni sono bloccate, le professioni ancora più protette e la concorrenza in molti settori è ancora al palo. Dall’altro lato però troviamo un’opposizione - non solo politica ma anche civile e sociale - che anziché incalzare sul fronte delle riforme, dell’innovazione sociale ed economica, del progresso, si chiude sulla difesa dell’esistente, legittimando e dando voce ad una miriade di piccoli o grandi conservatorismi che nell’ultimo anno sono esplosi ovunque.

Se si pensa bene, infatti, tante delle proteste che negli ultimi mesi hanno scosso l’Italia non sono proteste alimentate dalla sete di quel cambiamento che stenta ad affermarsi, ma proteste per la paura di tutto quello che è cambiato e che può cambiare, la paura di perdere qualcosa. Dalle proteste contro l’Alta velocità (che presto otterranno la grandiosa vittoria di farci togliere dall’Unione europea tutti i fondi stanziati per la realizzazione della Tav), a quelle contro le quote latte e le multe per gli sforamenti. Dalle rivolte contro una nuova organizzazione del lavoro a Pomigliano, a quelle contro l’apertura di nuove discariche, fino alle manifestazioni che, con la giustificazione pur legittima di protestare contro i tagli all’istruzione, di fatto mirano ad affossare una Riforma che tentava timidamente di aprire il mondo chiuso dell’Università italiana.

Questo è il paradosso italiano che fa paura: un governo che già ha fatto poco per modernizzare il paese, incalzato però da una serie di forze ancora più conservatrici. Un paese terrorizzato dal cambiamento, incapace ormai di guardare oltre la siepe del proprio giardino.
Per i cittadini di Terzigno e Boscoreale la battaglia si gioca a Cava Vitiello, per gli anti-Tav piemontesi l’orizzonte si ferma in Val di Susa, nella baita costruita in difesa della loro Valle. E mentre gli operai di Pomigliano o di Lesmo salgono sui tetti dei capannoni per contrastare riorganizzazioni aziendali che mettono a rischio i loro posti, gli allevatori invadono le strade di trattori per non pagare le multe, e anche i ricercatori si arrampicano sul tetto delle università per difendere i loro contratti. Ognuno di loro ha un fantasma da combattere, che non è solo il governo, ma è, a seconda dei casi, l’Unione europea, l’euro, la globalizzazione, la competizione dei lavoratori asiatici o degli scienziati stranieri. Ognuno vorrebbe più o meno segretamente potersi proteggere da queste minacce, chiedere al Governo di spendere un po’ di più per neutralizzarle, perché facciano meno paura e generino meno disagio.
È probabilmente normale che singoli o piccoli gruppi di cittadini di fronte alla crisi

reagiscano così, quello che non è normale e che preoccupa è che tanti leader civili e politici non siano capaci di elevarsi sopra gli interessi particolari e indicare una strada di crescita moderna e unitaria. Nessuno ha avuto il coraggio di dire a queste persone che pur avendo ragione a chiedere prospettive di vita migliori, non potranno aspettarsi che tali condizioni siano le stesse che hanno avuto i loro genitori. Nessuno ha detto che il diritto al lavoro non potrà più essere inteso come diritto al posto di lavoro a vita, ma il diritto a delle opportunità che magari si concretizzeranno in 5 o 6 lavori diversi nell’arco di una vita.

Nessuno ha detto che anche i diritti per i quali lottare possono cambiare forma perché cambiano le cose da cui dobbiamo proteggerci. E quindi, così come oggi i bambini si vaccinano contro l’epatite B e il papilloma e non più contro il vaiolo, similmente oggi è meglio pensare ad ammortizzatori e servizi che aiutino in caso di flessibilità piuttosto che a lotte per impedirla, così come avviene da anni in Paesi come Olanda, Svezia e Danimarca. Nessuno ha detto che diminuire la tassazione sul lavoro e aumentarla sul patrimonio significherà anche smetterla con le politiche di supporto al possesso della casa - che invece è un tormentone ricorrente della politica italiana di ogni colore -, e che nei paesi che amiamo citare per l’alta protezione sociale come Germania, Francia o Danimarca il tasso di proprietà della casa va dal 43% della Germania al 54% della Francia mentre da noi sfiora l’80%.

Nessuno insomma ha parlato del cambiamento sociale, culturale ed economico che tutto il Paese dovrà avviare per rimettersi in moto e per generare nuove opportunità di crescita. Nessun leader civile o politico ha saputo delineare questa visione e ha avuto il coraggio di opporla ai conservatorismi di parte. Beppe Grillo si fa fotografare di fronte alla baita no-Tav, Bersani e Vendola posano compiaciuti mentre sbucano dalla scala che li porta sopra i tetti, Bossi arringa gli allevatori lombardi, i sindacati portano in piazza i giovani contro un Paese bloccato e nepotista, ma poi firmano tutti contenti accordi con le banche perché assumano i figli dei dipendenti. Ed è proprio di fronte a questo scenario che Berlusconi può permettersi di chiudere i propri giochi nel perimetro di Palazzo Madama e Montecitorio.

Per questo il problema dell’Italia, quello vero, non è tanto se continuerà a governare Berlusconi o qualcun altro, il problema vero, per chiunque si troverà in mano il Paese, sarà affrontare senza ipocrisie e populismi queste paure così radicate tra i cittadini, ed indicare un obiettivo che dia il coraggio a milioni di italiani di guardare oltre la siepe e fare il salto

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« Risposta #29 inserito:: Dicembre 25, 2010, 06:22:18 pm »

24/12/2010 (7:29)  - DOSSIER/ QUALE FUTURO PER I GIOVANI

Gli studenti saranno manager di se stessi

Cresce la richiesta di giovani laureati e specializzati

Ma dovranno gestire un’esplosione di iniziative

IRENE TINAGLI

Il 2010 non è stato un buon anno per i giovani, con la disoccupazione giovanile che ha toccato picchi del 27% e un generale clima di sfiducia tramutatosi in proteste. Tuttavia è possibile captare qualche segnale positivo che aiuti a sfruttare al meglio le opportunità, che non capitano proprio a casaccio ma - come diceva Louis Pasteur - favoriscono le menti preparate. Dunque, è bene prepararsi, a partire dagli studi.

Nonostante in questi ultimi anni in Italia si parli tanto dell’inutilità della laurea, segnali recenti ci dicono invece che abbandonare gli studi non è una scelta vincente. Nonostante l’occupazione sia ancora in calo, la domanda di lavoro altamente qualificato è in espansione. Il problema è: quali studi? In preparazione per cosa? Stando alle previsioni Unioncamere, le opportunità maggiori si concentrano sulle figure tecnico-scientifiche nei settori chimico, farmaceutico, assicurazioni e servizi finanziari, informatica e servizi avanzati alle imprese. Ma la vera opportunità e sfida per i giovani sarà soprattutto rafforzare la loro capacità economico-imprenditoriale, da affiancare a qualsiasi tipo di specializzazione, scientifica o umanistica, tecnica o artistica. La capacità di organizzare e gestire risorse, di sviluppare e realizzare nuove idee sarà sempre più cruciale, perché le organizzazioni di ogni genere hanno sempre più bisogno di persone capaci di gestire processi complessi, di catalizzare e gestire risorse.

Persino nel settore sociale, artistico e culturale le capacità economiche ed imprenditoriali sono fondamentali, perché tutto il settore sta attraversando una fase di grande trasformazione: prorompente crescita (provate ad andare a Berlino o a Londra per farvi un’idea...), ma profonda riorganizzazione, con la riduzione di forme tradizionali finanziate dal pubblico ed un’esplosione di iniziative private e innovative.

Uno dei fenomeni più rilevanti degli ultimi anni è la diffusione della cosiddetta «imprenditoria sociale». Organizzazioni che operano come privati, ma che si pongono obiettivi di utilità sociale, di mobilitazione civile, di solidarietà attiva. Organizzazioni che operano su scala globale come avaaz.org, la rete di mobilitazione civile che in meno di tre anni ha creato un network di oltre sei milioni di attivisti nel mondo (e una capacità di fund raising imponente), o come ashoka.org, che raccoglie fondi per supportare iniziative di imprenditoria sociale. Anche nei settori artistici e culturali così come in quelli più tradizionali legati alla manifattura e al made in Italy cresce lo spazio per organizzazioni capaci di legare nuove tendenze e tecnologie e di competere a livello internazionale.

Non bastano però buona volontà, passione civile o creatività artigiana. Sono necessarie idee solide e competenze manageriali, relazionali, informatiche, finanziarie di altissimo livello, ancora prima dell’accesso ai capitali. Nonostante i luoghi comuni, infatti, le opportunità finanziarie internazionali non sono a zero: i «venture capital» internazionali sono ripartiti dopo la fase acuta della crisi e molte banche hanno più liquidità di prima, vista la maggiore avversione al rischio e propensione al risparmio di tante famiglie in tempo di crisi. È partita quindi la caccia al prossimo grande fenomeno tecnologico e commerciale su cui scommettere. Per questo negli ultimi anni si sono moltiplicate fondazioni e iniziative volte a promuovere e supportare l’imprenditorialità a 360 gradi, da quella tecnologica a quella sociale, attraverso laboratori, incontri, incubatori, bar camp, fondi speciali e concorsi di idee. Qualche opportunità, insomma, c’è. La vera sfida però è avere buone idee e le competenze per svilupparle nel mondo iper-competitivo e globale di oggi.

Queste si sviluppano attraverso corsi e approfondimenti universitari (un numero crescente di business school europee stanno raffinando la loro offerta, ispirandosi alle università californiane tradizionalmente più attive sul fronte della formazione imprenditoriale), ma anche attraverso percorsi meno ortodossi che aiutano a legare saperi teorici e pratici, a misurarsi con sfide reali. E quindi diventano sempre più importanti viaggi, esperienze all’estero, di studio, lavoro e anche di impegno sociale. Non è un caso se negli Stati Uniti sono esplosi programmi come «Teach for America», dove i giovani laureati delle migliori università lavorano come insegnanti per due anni nelle scuole più disagiate. Lì imparano a gestire situazioni difficili e a misurare il cambiamento. È ciò di cui ci sarà molto bisogno nei prossimi anni: imparare non solo ad adeguarsi al cambiamento, ma a guidarlo, plasmarlo e girarlo a vantaggio della società, unendo tecnologia e umanesimo, efficienza e solidarietà.

Un bisogno particolarmente urgente nel nostro Paese, dove l’unione tra le grandi tradizioni artigiane, creative e solidaristiche con le nuove tecnologie, competenze e prospettive internazionali potrebbe aprire scenari di crescita. Tirare fuori la grinta e la vena imprenditoriale non sarà facile per i giovani italiani, schiacciati da un sistema formativo ancora convinto di dover sfornare grandi pensatori o eccellenti funzionari, e da famiglie formatesi negli Anni Settanta e Ottanta, in piena espansione del settore pubblico, abituate al posto fisso e avverse al rischio. Riuscire a smarcarsi dall’influenza dei «grandi vecchi» sarà per loro l’unico modo per dispiegare energie e aprire nuove strade.

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