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Autore Discussione: IRENE TINAGLI  (Letto 37507 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Gennaio 08, 2011, 03:12:44 pm »

8/1/2011

Ai ragazzi diciamo solo arrangiatevi

IRENE TINAGLI

Ancora una volta potrà dire «l’avevo detto». Due giorni fa il ministro Tremonti metteva in guardia contro facili ottimismi sulla fine della crisi, e ieri i dati Istat sull’occupazione confermano un quadro tutt’altro che positivo. Non accenna a diminuire la disoccupazione complessiva, restando inchiodata all’8,7%, il dato più alto dal 2004, e riprende a salire quella giovanile, che arriva al 28,9%. Certamente questi dati non vanno letti isolatamente, ma assieme a quelli che, per esempio, indicano come anche l’occupazione sia parallelamente cresciuta (+0,1% rispetto a novembre) e a quelli che indicano che un maggior numero di persone si è rimesso attivamente alla ricerca di un lavoro, andando a ingrossare le statistiche sulla disoccupazione. Ma cercare di nascondersi dietro uno zero virgola in più porta all’unico risultato di non affrontare un problema strutturale e molto grave del nostro Paese, ovvero l’incapacità di crescere (da questo punto di vista i dati sull’occupazione andrebbero letti assieme a quelli del Pil, che stenta a ripartire, e a quelli della produttività, ancora ferma) e, problema ancor più grave, l’incapacità di coinvolgere le giovani generazioni nel tessuto economico e produttivo del Paese.

Nonostante continui a essere ignorata e sminuita dal nostro governo, la questione della disoccupazione giovanile in Italia è ormai da tempo un problema di assoluta gravità, che mortifica l’entusiasmo di milioni di giovani e delle loro famiglie e che frena la ripresa economica del Paese. Un problema al quale nessuno in Italia è stato capace di dare una risposta concreta. Uno scenario politico senza idee, diviso tra chi ha fatto leva sul disagio dei giovani semplicemente per cercare di indebolire il governo (compensando così un difetto dell’opposizione), e chi invece, all’interno del governo, ha liquidato la questione con dichiarazioni tanto incredibili quanto poco costruttive. Come l’ultima del ministro Sacconi, che durante le feste natalizie ha rimarcato come la disoccupazione giovanile sia colpa di cattivi genitori che li spingono a studiare e laurearsi quando invece potrebbero imparare un mestiere e adattarsi meglio alle esigenze del mercato. Chissà se è venuto in mente al ministro che il mercato del lavoro è anche frutto delle politiche economiche e sociali che un Paese persegue.

E che è il governo di un Paese che dovrebbe mirare ad adattare il proprio sistema economico e sociale alle dinamiche internazionali in modo da tenerlo competitivo, non i giovani che devono adattarsi al declino del Paese e all’incapacità dei politici di rimetterlo in moto. No, non è incitando i ragazzi ad accaparrarsi gli ultimi lavori da elettricisti o falegnami rimasti che risolveremo il problema della disoccupazione giovanile, ma intervenendo in maniera più incisiva sia su una effettiva riforma del mercato del lavoro (in modo da eliminarne la dualità che oggi marginalizza milioni di giovani), sia su politiche economiche lungimiranti. Politiche di sviluppo orientate a far sì che in Italia arrivino o nascano nuove imprese, in particolare imprese innovative, ad alta vocazione internazionale, capaci di far emergere nuovi settori e generare nuova occupazione. Certo, non sono interventi semplici, soprattutto in tempi di crisi, e anche altri Paesi hanno mostrato di fare degli errori di fronte alla crisi e di non riuscire sempre a ottenere i risultati sperati. Ma le cose si muovono, e sono pochi quelli che restano fermi.

Dopo aver investito gran parte di inizio mandato a riformare aspetti importanti del sistema di protezione sociale americano, Obama è passato a più aggressive misure di sviluppo, varando nel corso del 2010 un consistente pacchetto di incentivi alle imprese per supportare le nuove assunzioni e nuovi investimenti, con paralleli tagli alle tasse, per un totale di 150 miliardi di dollari. Sarà un caso, ma negli ultimi mesi l’occupazione negli Stati Uniti ha registrato continui miglioramenti. Proprio ieri i dati hanno indicato la creazione di oltre 100.000 posti di lavoro nel mese di dicembre - meno di quanto era stato precedentemente stimato, ma comunque un dato positivo soprattutto se lo si somma ai posti che erano stati creati a ottobre e novembre (210.000 e 71.000), nettamente al di sopra delle aspettative. La Germania, a sua volta, pur cercando di contenere il deficit con uno dei tagli di spesa del settore pubblico più pesanti dal dopoguerra, ha rilanciato il proprio sistema produttivo investendo in ricerca e sviluppo, negoziando con le imprese migliaia di posti di formazione per i giovani, orientando molti incentivi economici verso nuovi settori e le «industrie creative e culturali» (alla faccia di chi pensava che i tedeschi fossero solo interessati a costruire la propria potenza su macchinari e tecnologie), e finanziando numerose attività di supporto per le imprese orientate all’esportazione.

Il programma tedesco «Hermes», che offre garanzie di credito alle imprese esportatrici, nel 2009 ha emesso garanzie per 22,4 miliardi di euro, un record storico per la Germania. Una politica i cui risultati sono, fino a oggi, sotto gli occhi di tutti. In Italia oggi molti politici litigheranno su come leggere gli ultimi dati, ma se si avesse il coraggio di ammettere il fallimento di una politica che lascia quasi un terzo dei propri giovani senza lavoro e senza prospettive, e se si avesse davvero la forza di attivare politiche di sviluppo utili, e non solo predire o minimizzare disgrazie, forse un giorno potremmo dire a questi giovani qualcosa di più emozionante e utile di un semplice «arrangiatevi».

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8269&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #31 inserito:: Gennaio 25, 2011, 06:00:54 pm »

25/1/2011

Ma noi siamo donne o bambole?

IRENE TINAGLI

Molte donne in questi giorni si stanno interrogando sul loro ruolo nella società italiana, come è accaduto ogni volta che, in questi ultimi anni, qualche scandalo sessuale ha scosso il mondo della politica.

Eppure la questione del ruolo femminile in Italia ha radici più profonde e diffuse di quanto emerga dalle ultime vicende di cronaca e va ben oltre i confini di Arcore o di via Olgettina. Se l'ennesimo scandalo che coinvolge il premier serve a riaprire il dibattito su un tema così importante, va bene, ma se vogliamo davvero cogliere l'occasione per una riflessione approfondita, non possiamo fermarci lì.

Forse val la pena ricordare alcuni dati resi noti pochi giorni fa dall'Istat e passati quasi sotto silenzio: in Italia una donna su due non lavora e non cerca lavoro. Donne semplicemente «inattive». Si tratta di un tasso di inattività che supera quello di tutti gli altri 26 Paesi europei (con l'esclusione di Malta, se questo può consolare). Specularmente, le donne «attive» sono il 46,3%, un dato che fa vergognare di fronte al 66,2% della Germania, al 60% della Francia, per non parlare del 71,5% dei Paesi Bassi. Perché le donne in Italia non si mettono nemmeno alla prova? Preferiscono veramente altre strade di realizzazione personale (maternità e famiglia, per esempio) o rinunciano a priori perché consapevoli di un Paese in cui i loro sforzi e i loro sacrifici non verranno riconosciuti e non incontreranno gratificazioni né nel settore pubblico né in quello privato?

L'ultimo rapporto del World Economic Forum sulla parità di genere nel mondo del lavoro e delle imprese ci pone al 74° posto, dopo Malawi, Ghana e Tanzania, per fare alcuni esempi. A far scendere il nostro Paese nella classifica è soprattutto la scarsa performance sul fronte delle opportunità di lavoro e di carriera. Una difficoltà legata, secondo i risultati dell'indagine, ad una carenza di servizi di supporto (come gli asili), ma anche alla mancanza di modelli femminili di riferimento e ad un clima generale molto maschilista. E dove potrebbero trovare questi modelli le donne italiane? Tranne alcune recenti eccezioni che iniziano a farsi strada in importanti istituzioni di rappresentanza (Marcegaglia e Camusso), il mondo politico non offre certo grandi esempi. Nonostante il governo possa contare sulla presenza di alcune donne, è indiscutibile che i ruoli chiave della politica italiana restano saldamente in mano a uomini, tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra. La lotta di successione in entrambe le coalizioni ha sempre visto e continua a vedere uomini come protagonisti. Nel centrodestra si sono via via fronteggiati Fini, Bossi, Tremonti, con saltuarie incursioni di Sacconi e Brunetta; al centro Casini, Rutelli raggiunti ora da Fini; identica cosa nel centrosinistra: Veltroni, D'Alema, Bersani, Franceschini, Vendola. Neppure tra i nomi dei giovani emergenti troviamo delle donne. In pole position ci sono Renzi e Zingaretti.

Dove sono le donne? Nel centrodestra sono a far quadrato attorno al premier. Nel centrosinistra hanno appena dato avvio ad una campagna di protesta dal titolo «non siamo bambole». Una polemica che, all'indomani del Lingotto 2, in cui gli invitati a parlare erano esclusivamente uomini, poteva sembrare diretta agli stessi leader del centrosinistra, ma che risulta invece diretta al premier. Ma cosa cambierà davvero per le donne italiane una volta che questo presidente del Consiglio non calcherà più, per motivi legali, politici o semplicemente biologici, la scena politica? A quali leadership innovative ed illuminate potranno guardare le donne per cercare supporto, identificazione, attenzione, rispetto e, soprattutto, opportunità di crescita per loro stesse e per il Paese? A guardare bene viene anche da chiedersi se le donne stesse siano pronte. Pronte non solo e non tanto a dichiararsi «esseri pensanti» invece di bambole, come facevano le suffragette di un secolo fa, ma pronte ad assumersi vere responsabilità di leadership. E soprattutto pronte a smarcarsi dall'ala protettrice dei loro mentori, a uscire dall'ombra, a sentirsi responsabili e artefici del loro successo e non eternamente grate a chi ha dato loro una opportunità come se non fosse meritata. Come se la gratitudine la si dimostrasse con la sottomissione e non con l'assunzione della piena responsabilità del proprio ruolo ed il semplice svolgimento del proprio lavoro. Ma qua si entra in un terreno che travalica la mera questione femminile e che chiama in causa un cambiamento culturale che non riguarda solo le donne, ma un Paese intero.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8331&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #32 inserito:: Marzo 06, 2011, 11:38:56 am »

6/3/2011

8 marzo, le donne crescono

IRENE TINAGLI

Per quest’anno si prevede un 8 Marzo meno stucchevole e più pragmatico del solito. Un otto marzo che vede rianimato un dibattito sul ruolo della donna nella società che si era un po’ affievolito negli anni scorsi, e che comincia a ragionare in termini di azioni concrete, in Italia e altrove. Per una serie di coincidenze, infatti, nelle ultime settimane il dibattito sull’emancipazione femminile si è riacceso non solo a casa nostra (a seguito della manifestazione del 13 Febbraio e delle legge sulle quote rosa nei consigli di amministrazione che sta per essere approvata in Parlamento), ma anche in molti Paesi esteri.

Negli Stati Uniti, grazie anche ad un rapporto commissionato dall’amministrazione Obama da cui emerge un consistente divario salariale tra donne e uomini, si è riaperto il dibattito sul Paycheck Fairness Act, una legge che potenzierebbe gli strumenti per combattere il gap salariale e che, approvata da tempo dalla House of Representatives, attende ora l’approvazione al Senato.

In Inghilterra Lord Davies, ex banchiere ed ex ministro per il Commercio e gli Investimenti, ha recentemente riaperto la questione femminile dichiarando che le società quotate a Londra dovrebbero raddoppiare entro il 2015 la presenza femminile nei loro consigli di amministrazione, passando dall’attuale 12.5% ad almeno il 25%. E in Germania la Merkel, di fronte al continuo ritardo del mondo finanziario ed imprenditoriale tedesco (solo il 2.2% dei consigli di amministrazione delle prime 30 aziende quotate in borsa è rappresentato da donne), ha minacciato di introdurre quote rosa del 40% per tutte le aziende più grandi, scatenando un putiferio.

Una presa di posizione che ricalca quella della Commissaria Europea Viviane Reding che poche settimane fa a Davos ha lanciato la proposta di applicare quote rosa ai consigli di amministrazione delle maggiori 500 imprese europee. D’altronde sono già numerosi i Paesi Europei che hanno adottato misure simili (Norvegia, Spagna, Islanda, e, da poco, Francia). E, nonostante le perplessità e le polemiche iniziali, la loro introduzione si è rivelata molto efficace. In Norvegia la quota di donne nei consigli di amministrazione è passata dal 25% del 2004 al 42% del 2009, e in Spagna dal 4% del 2006 al 10% del 2010. E non sembra aver danneggiato in alcun modo le imprese (d’altronde creare delle soglie minime di presenza non impedisce di sollevare da un incarico e sostituire una donna che non si dimostri all’altezza).

Anche numerosi esperti ed economisti, che in passato avevano sollevato riserve verso qualsiasi tipo di restrizione alle scelte «libere» del mercato, si stanno ricredendo dopo aver osservato che l’esclusione delle donne da posizioni di responsabilità non è legata a differenze nella distribuzione del «talento» nella popolazione femminile, ma ad aspettative pregiudiziali del datore di lavoro sulla loro futura disponibilità di tempo e dedizione.

Questi «pregiudizi» non solo precludono opportunità di crescita alle donne, ma ne demotivano l’impegno e le spingono indirettamente a lavorare di meno, alimentando quindi un circolo vizioso di inefficienze individuali e collettive. E’ noto infatti che un più elevato tasso di attività femminile si traduce in maggior stabilità economica delle famiglie e maggior crescita economica per il Paese. Non solo, ma come dimostra uno studio della società di consulenza McKinsey, le aziende con più donne nei consigli di amministrazione hanno una migliore gestione del rischio, più efficaci attività di controllo e, in media, un reddito operativo che supera del 56% quello delle aziende con consigli di amministrazione solo maschili.

Ecco, questo è il contesto in cui si celebra questo 8 marzo 2011. Un dibattito i cui contorni ideologici si sono forse un po’ indeboliti, ma in cui si sono inseriti elementi molto concreti, con contributi di esperti, economisti, ragionando su azioni politiche e disegni di legge. Un approccio che certo non può sostituirsi al lavoro profondo e culturale che ogni individuo, famiglia e associazione civile dovrà condurre in seno alla società per combattere quotidianamente stereotipi e ingiustizie, ma che rappresenta comunque un passo avanti per le donne e per la crescita del Paese.

Un passo avanti perché chiama in causa non solo la buona volontà dei singoli, ma l’impegno delle politiche pubbliche, il cui compito è quello di generare opportunità di crescita per i propri cittadini e rimuovere ogni ostacolo basato su pregiudizi e discriminazioni. In fondo, pensare a delle politiche che diano alle donne opportunità di realizzazione che non passino necessariamente ed esclusivamente attraverso il matrimonio o la maternità, ma anche attraverso la propria ambizione personale ed il proprio lavoro è una questione che va oltre il concetto di femminismo e o di efficienza economica, è questione di civiltà.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
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« Risposta #33 inserito:: Marzo 09, 2011, 06:42:14 pm »

9/3/2011

Studiare è più utile che mai

IRENE TINAGLI

E' già abbastanza difficile essere giovani e prendere decisioni sul proprio futuro. Lo è ancora di più in contesti in cui si ricevono informazioni confuse, superficiali, o addirittura sbagliate. Questo è, purtroppo, il contesto in cui vivono e devono prendere decisioni i giovani italiani.

Un contesto incapace di guidarli ed informarli adeguatamente: solo così si spiega il significativo calo delle iscrizioni all’Università segnalato dagli ultimi dati Almalaurea.

No, non è la crisi il motivo di tale rinuncia. Normalmente in tempi di crisi si osserva il comportamento opposto: considerata la difficoltà di entrare nel mercato del lavoro molti preferiscono tenersi fuori ed investire in istruzione e competenze per rientrare poi, freschi di formazione, in un mercato del lavoro in ripresa. Ed è, infatti, quello che si è osservato negli Stati Uniti, dove il 2009 ha visto un record storico di diplomati iscritti all’Università (oltre il 70%), un boom che denota una voglia di investire in se stessi in attesa di tempi migliori.

In Italia no. In Italia i giovani non hanno fiducia né nella ripresa né nel valore di investire in se stessi. E non ce l’hanno perché i primi a non avercela sono i loro genitori, i loro maestri e i loro governanti. Tutte quelle persone che ormai da tempo continuano a dire che tanto studiare non serve. Che è meglio essere umili, accontentarsi magari di terminare la scuola dell’obbligo e imparare un mestiere. Un diploma è già abbastanza. Nessuno ha detto a questi giovani che la probabilità di restare disoccupati senza un titolo di studio superiore è il doppio che in presenza di un titolo. Certo, nell’ultimo anno il tasso di disoccupazione nel primo anno dopo la laurea è aumentato dal 15 al 16%. Ma questo dato è la metà del tasso medio di disoccupazione giovanile in Italia. Senza contare che, comunque, a cinque anni dalla laurea l’80% dei laureati ha un lavoro stabile, mentre chi è senza istruzione tende a cumulare precarietà. E nessuno dice ai giovani che, anche in presenza di un titolo, c’è un’enorme differenza di prospettive tra un diploma e una laurea. Dati Istat indicano che nell’arco della vita lavorativa i laureati hanno un tasso di occupazione di oltre 11 punti percentuali maggiore rispetto ai diplomati (77% contro 66%). Non solo, guardando al lungo periodo i laureati hanno retribuzioni che in media sono superiori del 55% rispetto a quelle dei diplomati. Un gap che chiaramente si accumula con il tempo e che si reduce tra i più giovani. Ma anche nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni la retribuzione dei laureati supera del 30% quella dei diplomati. E’ sciocco quindi consigliare ai giovani di non andare all’università perché i salari di ingresso sono analoghi tra laureati e diplomati. Un salario di ingresso dura un anno, ma una vita professionale ne dura minimo 30. E l’effetto dell’istruzione nell’arco di questi 30 anni è enorme.

E’ vero, il mito della laurea che appena conseguita ti garantisce il posto fisso e ben pagato è andato sgretolandosi - in Italia come in molti altri Paesi -, così come è vero che i nostri laureati rispetto ai loro genitori hanno una vita più difficile, ma il valore dell’istruzione resta comunque indiscusso anche per le nuove generazioni. Anzi, in un mondo sempre più qualificato studiare è più necesario che mai. E la vera scommessa per qualsiasi Paese che abbia la voglia e la forza di guardare al futuro non è istigare i giovani a deporre le armi ai primi segnali di incertezza che trovano agli inizi di carriera, ma al contrario adoperarsi ed investire per aiutarli ad orientarsi, per dargli il coraggio di guardare avanti.

Perché se questi ragazzi rinunciano ad investire in se stessi a farne le spese non sarà solo il loro futuro, ma quello di tutti noi. Come pensiamo noi di riqualificare e rilanciare il nostro sistema economico e produttivo con una forza lavoro che anziché qualificarsi si dequalifica? Come pensiamo noi di sopravvivere in un mondo in cui anche la competitività di Paesi emergenti come Cina e India è sempre più trainata da scienza, cultura e tecnologia quando non riusciamo a far laureare nemmeno il 20% dei nostri giovani?

Il quadro che emerge dal continuo calo di iscrizioni universitarie è scoraggiante. E’ il quadro di una generazione senza direzione, senza guida, senza fiducia nel futuro. Un tratto che non è tipico dei giovani, ma che è frutto di un Paese che ha perso il senso stesso della parola futuro, identificata ormai delle sue stesse classi dirigenti con la prossima tornata elettorale e con la fine o meno del proprio mandato. Ma questi giovani hanno tutta la vita davanti. Diamogli un motivo per affrontarla a testa alta, con grinta e determinazione. La loro rinuncia è una sconfitta per tutti noi.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
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« Risposta #34 inserito:: Marzo 26, 2011, 11:54:54 am »

26/3/2011

Per chi suona la campana portoghese

IRENE TINAGLI

In mezzo ai drammatici eventi che ci vengono offerti dalla cronaca estera la crisi economica e politica del Portogallo può apparire secondaria, liquidata, come è stato fatto con Irlanda e Grecia, con il solito mantra secondo cui il nostro sistema bancario e fiscale è più solido del loro e che non abbiamo niente da temere. E’ un errore. Il caso del Portogallo ha delle peculiarità che lo distinguono dall’Irlanda e che lo avvicinano a noi più di quanto pensiamo. E riflettere sulla situazione portoghese potrebbe darci spunti molto utili. Il Portogallo infatti non ha visto grosse crisi del sistema bancario legate all’esplosione di bolle speculative come è successo in Irlanda o in Spagna, per esempio.

Persino il calo del Pil dovuto alla crisi è stato meno pesante che in altri Paesi europei: nel 2009 il Pil portoghese è sceso del 2,5% contro il -5,2% dell’Italia, il -4,7% della Germania e il -4,9% dell’Inghilterra. Non è stato un crollo improvviso e repentino, ma una lenta agonia legata essenzialmente a un’economia che da oltre un decennio è incapace di crescere e di riqualificarsi, di passare da produzioni tradizionali sempre meno competitive di fronte ai Paesi asiatici a produzioni più moderne, diversificate e ad alto rendimento. Negli ultimi dieci anni il Pil portoghese è cresciuto a una media annua dello 0,7%, molto inferiore alla media europea.

Una dinamica che ha condannato il Portogallo a essere il Paese più povero tra le economie occidentali e ad accumulare piano piano debito su debito. Perché nonostante tendiamo ad associare il debito pubblico esclusivamente a questioni di tasse e spese, la capacita di far fronte al debito è legata in egual maniera alla crescita economica. Infatti, così come la possibilità di un individuo di pagare un mutuo non dipende solo da quanto risparmia ma da quanto reddito produce, lo stesso vale per il debito di un Paese: più il Paese cresce e meno il debito pesa. Una logica elementare che però molti sembrano scordare. Come sembrano scordare che la capacità di crescita economica di un Paese dipende in modo determinante dalla qualità della sua forza lavoro, dalle sue competenze, i suoi saperi e la sua produttività - fattori a loro volta indissolubilmente legati all’istruzione.

E’ qui, in questo nodo tra istruzione, qualificazione della forza lavoro e capacità di crescita economica che si è arenato il Portogallo. Nonostante i tentativi di riforma degli ultimi anni, soprattutto sul fronte universitario, la sua forza lavoro resta tra le meno qualificate dei Paesi Ocse (solo il 14% è in possesso di un titolo di laurea e, dato ancora più preoccupante, sono pochi anche quelli in possesso di un diploma superiore: solo il 28%) e il tasso di abbandono scolastico è al 37% (contro una media europea del 16,6%). Con questa scarsa preparazione il Portogallo ha ben poche possibilità di rimettersi in moto e riqualificare la propria economia, come hanno notato anche numerosi osservatori stranieri, dall’Economist al Wall Street Journal.

Proprio per queste caratteristiche «strutturali» quella portoghese è una situazione difficile, a cui l’Italia dovrebbe guardare con molta attenzione, perché assai vicina a quella che lei stessa si trova ad affrontare. Tranne il dato sull’abbandono scolastico, che per fortuna in Italia è meno della metà di quello portoghese, su tutti gli altri indicatori i due Paesi mostrano preoccupanti similitudini. Se prendiamo i dati sui tassi di crescita economica citati precedentemente, ci accorgiamo che c’è solo un Paese che ha fatto peggio del Portogallo in questi dieci anni: l’Italia, appunto. La percentuale della forza lavoro tra i 25 e i 64 anni in possesso di un titolo di laurea è la stessa in entrambi i Paesi (14%), e se guardiamo l’andamento di questo dato nella fascia di età tra i 24 e i 35 anni l’Italia fa anche peggio del Portogallo stesso: solo il 20% dei nostri giovani ne è in possesso contro il 23% dei portoghesi.

In molte circostanze l’Italia ha dimostrato di non essere capace di analizzare con lucidità la propria situazione e di imparare dai propri errori. Ma imparare dagli errori degli altri a volte è più semplice che guardarsi dentro, e l’attuale crisi portoghese potrebbe essere un’ottima occasione per fare riflessioni importanti anche sul nostro futuro.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
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« Risposta #35 inserito:: Aprile 03, 2011, 10:45:25 am »

Costume

03/04/2011 - ANALISI

Ora le donne conquistano le dot-com

Da Google a Facebook, dai chip al biotech arriva la generazione delle leader in rosa

IRENE TINAGLI
SAN JOSE'

Semiconduttori, fisica, ingegneria informatica ed elettronica: i settori sui quali è nata e cresciuta la Silicon Valley non sono certo domini femminili. E infatti se si guarda ai fondatori delle più note aziende, sono quasi tutti uomini. Eppure, qualcosa sta cambiando. Molte donne si stanno facendo strada nel top management delle aziende di maggior successo e si stanno affermando tra le figure più autorevoli della Silicon Valley.

Safra Catz (49 anni) presidente di Oracle già dal 2004, è senza dubbio tra le più potenti, seguita da Carol Bartz (62), amministratore delegato di Yahoo, e da Ann Livermore (52), vice presidente esecutivo di Hewlett-Packard (azienda avvezza alla leadership femminile, guidata per anni dalla potentissima Carly Fiorina).

Tra le donne più giovani e in più rapida ascesa sono da citare Sheryl Sandberg, tostissima quarantunenne alla guida di tutte le operation di Facebook, e Marissa Mayer, 35 anni, vicepresidente di Google per le applicazioni geografiche e una delle più papabili pretendenti alla futura leadership dell’azienda di Mountain View.

Ma le donne della Silicon Valley oggi non si limitano ad essere manager di aziende fondate da altri, tra le generazioni di trenta-quarantenni iniziano ad emergere anche interessanti imprenditrici. Come Anne Wojcicki, biologa trentasettenne che cinque anni fa ha fondato «23andme», società di biotecnologie supportata anche da Genentech, o come Gina Bianchini, che nel 2005, a 33 anni, ha fondato la piattaforma di social network Ning, o ancora Ann Miura-Ko, 34 anni con in tasca un PhD in modelli quantitativi per la sicurezza informatica, professoressa a Stanford, e ora co-fondatrice del fondo di investimenti Floodgate, che sta investendo in startup come Twitter, Gowalla, Formspring e altre promettenti iniziative imprenditoriali.

Insomma, il futuro della regione sarà sempre più declinato al femminile: anche in questo la Silicon Valley sta dimostrando una interessante capacità di trasformazione.

da - lastampa.it/costume/sezioni/
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« Risposta #36 inserito:: Aprile 15, 2011, 04:29:43 pm »

15/4/2011

Madrid-Barcellona, il sorpasso

IRENE TINAGLI

Ogni volta che Madrid e Barcellona si confrontano sul campo di calcio, la Spagna è in tensione. Una tensione che va oltre quella tipica dei derby calcistici, e che incarna una rivalità profonda, che tocca aspetti culturali, economici e politici.

Noi italiani sappiamo bene quanto possano essere forti e radicati certi campanilismi, ma la rivalità tra Madrid e Barcellona ha dei tratti particolari. Innanzitutto perché va oltre la competizione tra due città e prende quasi le forme di una contrapposizione tra due culture. Lo spirito e le tradizioni «iberiche» da una parte, intrise d’arte, cultura e passione, e quello più pragmatico catalano dall’altro, con la sua vocazione più produttiva e commerciale. E poi perché si tratta di una rivalità che anziché attenuarsi col tempo, è andata al contrario acuendosi. Forti della loro superiorità economica e produttiva, i catalani sono stati sempre considerati la locomotiva spagnola e sono diventati sempre più sicuri di poter fare a meno del resto della Spagna, con le sue sacche di povertà, inefficienza e arretratezza. E queste spinte autonomiste sono cresciute fino a portare a scelte che hanno lasciato perplessi molti spagnoli (e non solo) come l’imposizione del catalano come lingua ufficiale nelle scuole e negli uffici pubblici, o la recente creazione di «ambasciate catalane» in giro per il mondo.

La rivalità si è tinta però di nuove tensioni da quando la città di Madrid ha cominciato a recuperare terreno sul fronte dello sviluppo economico, sociale ed infrastrutturale. Una rinascita sempre più tangibile, che ha preso corpo nella ristrutturazione di splendidi edifici classici, nell’apertura o nel rilancio di musei, gallerie, così come nella realizzazione di una metropolitana capillare ed efficientissima, giudicata tra la migliori d’Europa, e nel forte potenziamento dell’aeroporto, con l’inaugurazione dell’ambizioso (e bellissimo) nuovo terminale disegnato da Richard Rogers, uno dei terminali più grandi del mondo. Già questo sarebbe bastato a far irritare i catalani, che invece negli ultimi anni hanno visto progressivamente deteriorarsi le loro infrastrutture. E’ facile quindi immaginare l’effetto che ha avuto poi la crisi economica del 2008, che ha colpito il tessuto produttivo catalano molto più di quello di Madrid, più diversificato e terziarizzato, e che ha portato, nell’autunno scorso al «sorpasso» dell’economia madrilena rispetto a quella catalana. Oggi i cittadini della capitale non solo godono di una città splendida e rinnovata, ma hanno un potere d’acquisto più alto e contribuiscono all’economia nazionale più dei catalani.

Anziché vivere questi cambiamenti come un avvertimento di quanto sia importante restare vicini a una Madrid che non è più un pezzo di antiquariato come hanno pensato per decenni, i catalani hanno visto questo ribaltamento di pesi e di ruoli come un tradimento, un segnale di abbandono da parte del governo centrale (a poco è valsa l’inaugurazione del nuovo terminale dell’aeroporto di Barcellona dell’anno scorso). E si sono ulteriormente incattiviti e allontanati dalla Spagna. Tanto che alle ultime elezioni amministrative catalane, tenutesi lo scorso Novembre, «Convergencia i unio», il partito della borghesia imprenditoriale nazionalista catalana, è letteralmente esploso, conquistando il 38,4% dei voti e portando a casa e 62 seggi, contro i 28 del partito socialista catalano.

Può sembrare strano che un’ostilità che ha ormai connotazioni molto politiche, legate più al rapporto tra Catalogna e il governo spagnolo che non tra le due città in sé, possa influenzare così tanto il clima di un incontro calcistico e caricarlo di significato simbolico, ma è proprio così. E’ accaduto con tutti gli incontri più recenti tra le due squadre, e non solo. Basta ripensare alla finale dei mondiali del luglio scorso. Mentre al fischio finale che decretava la Spagna campione del mondo ogni singolo angolo di Madrid esplose, nei quartieri residenziali di Barcellona, quelli della vera borghesia catalana, calò un silenzio surreale, da far venire i brividi. E’ questo che rende così carichi i prossimi incontri tra il Real Madrid e il Barca, soprattutto per i catalani: la sensazione che non sia tanto una partita tra la loro città e la capitale, ma tra loro e il resto di Spagna.

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« Risposta #37 inserito:: Aprile 17, 2011, 05:10:52 pm »

17/4/2011

Precari, quanti tutori non richiesti

IRENE TINAGLI

Non c’è dubbio che il tema della precarietà e dei giovani sia ormai diventato centrale nel dibattito pubblico. Una centralità che si nota non solo dalla quantità di persone che ogni volta si mobilitano attorno ad esso, ma da come personaggi politici, amministratori o sindacalisti abbiano ormai incorporato questo tema nei loro discorsi e siano diventati molto abili a dare voce a quel senso di smarrimento e paura che serpeggia tra milioni di persone.

Da Tremonti a Vendola, non ce n’è uno che non inveisca contro il dramma della società precaria, delle minacce che ci «mangiano il futuro» e che non approfitti di piazze e palcoscenici per rievocare paure e scagliarsi contro tutti i nemici dei giovani e dei precari. Accuse appassionate e confuse, che coinvolgono alla stessa maniera Berlusconi e la Cina, la Gelmini e Lele Mora, la globalizzazione e l’immigrazione in una sorta di teoria del complotto globale che ci condanna tutti ad essere vittime senza scampo. Visioni apocalittiche che strappano facilmente applausi, ma che lasciano molti interrogativi su quale idea di futuro disegnino per i nostri giovani.

In effetti, ascoltando i discorsi dei politici che si cimentano con questo tema, ci accorgiamo che ciò che evocano e che propongono non contiene nessuna idea di futuro, ma solo di passato. A forza di cavalcare l’onda del «si stava meglio prima», molti hanno finito per convincersi che l’unica risposta ai cambiamenti globali sia tornare a trent’anni fa.

Ovvero tornare alla lotta di classe, alle ideologie, allo Stato imprenditore, ai baracconi statali, al posto a vita per tutti, e cosi via. Un ritorno al passato che ha mietuto vittime tra personaggi illustri ed autorevoli tanto a destra quanto a sinistra: ministri, segretari di partito e di sindacati. Ma perché in così tanti sono caduti in questo ripiegamento nostalgico? In parte per naturale istinto di autoconservazione. Gli stravolgimenti degli ultimi tempi certamente mettono in discussione il ruolo delle politiche pubbliche, dello Stato, dei partiti, dei sindacati. E il terrore delle persone che operano in questi ambiti è proprio un ripensamento di modelli che possa indebolire il loro ruolo. E quindi non stupisce che il ministro dell’Economia accarezzi l’idea di intervenire in modo sempre più diretto nell’attività produttiva del Paese, così come i segretari di alcuni sindacati rivendichino con più veemenza di prima l’intoccabilità di tutto ciò che giustifica la loro esistenza.

In parte perché pur avendo capito e saputo dar voce a certe paure, fanno fatica a comprendere la molteplicità dei bisogni delle nuove generazioni e i cambiamenti sociali e culturali che il mondo sta attraversando. Lo smarrimento che milioni di giovani avvertono, in Italia come altrove, non è solo legato al timore di restare senza pensione o alla nostalgia di garanzie che loro stessi non hanno mai conosciuto. È un disagio che nasce anche da una voglia di costruire qualcosa di nuovo, qualcosa che assomigli più a loro e non ai loro genitori o nonni, qualcosa più in sintonia con ciò che avviene nel resto del mondo e che loro conoscono e odorano assai meglio di noi.

In altre parole, tanti di questi ragazzi non vogliono una vecchia gabbia arrugginita che li intrappoli, ma una rete che li aiuti a non fracassarsi quando provano a volare. Certo, se l’alternativa alla gabbia è il vuoto, sceglieranno la gabbia. Ma non è questo ciò a cui anelano e non dovrebbe essere questo ciò verso cui vengono spinti. Ecco, di fronte a questo esercito di persone che cercano modi per sviluppare le proprie potenzialità, per contare di più e avere maggiore controllo della propria vita, politici e sindacalisti rispondono invece additando le ambizioni e l’intraprendenza individuali come il vero male che affligge la nostra società, il tarlo che illude i giovani. Così facendo lanciano il messaggio opposto: voi non contate e non potete nulla, affidatevi a noi e tutto si sistemerà. Questo tipo di mentalità ci spiega come mai al Festival del Giornalismo, di fronte ad un discorso che incoraggiava i giovani ad investire in se stessi e a far leva su istruzione ed esperienze internazionali per acquistare più sicurezza e forza contrattuale, Susanna Camusso, il segretario generale della Cgil, abbia tacciato tale incoraggiamento di «pericolosità sociale» perché «crea l’illusione che si possano raggiungere risultati attraverso l’impegno individuale, mentre ciò è possibile solo attraverso l’azione collettiva».

È chiaro che l’impegno individuale non potrà, da solo, raggiungere risultati collettivi importanti e di lungo periodo (anche se, per esempio, è stato il gesto individuale di Bouazizi ad accendere la rivolta in Tunisia, non un’azione sindacale). Tuttavia insistere sulla contrapposizione tra azione collettiva e impegno individuale, come se l’una dovesse necessariamente escludere l’altra, non serve a nessuno. La prima lavora sui tempi lunghi che spesso attraversano generazioni, il secondo dà la forza e gli strumenti per affrontare il quotidiano. Entrambi sono importanti. Contrapporli non aiuta soprattutto ad immaginare e costruire una società innovativa e motivante, unitaria e solidale ma consapevole delle ambizioni e responsabilità individuali. Una società, in sintesi, in cui chi ha dei sogni sia stimolato a perseguirli e non venga percepito come un pericolo dai suoi stessi governanti. Perché se politici e sindacalisti vogliono davvero che gli italiani si «riprendano il futuro» non possono certo pensare che lo facciano delegando tutto a loro e stando fermi ad aspettare.

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« Risposta #38 inserito:: Aprile 27, 2011, 02:48:48 pm »

27/4/2011

Primo Maggio e vecchie barricate mentali

IRENE TINAGLI

La concentrazione di feste come il 25 Aprile e il Primo Maggio ha riaperto le polemiche sollevate dal segretario della Cgil, Susanna Camusso, contro il sindaco di Firenze Matteo Renzi che dava libertà ai negozi di restare aperti. La questione è stata trasformata, come ormai quasi ogni cosa in Italia, in una questione di principio ideologico, in una lotta di classe che vede contrapposti commessi da una parte e bottegai capitalisti e sfruttatori dall’altra.

Giustizia sociale contro consumismo sfrenato. E nonostante gli appelli del sindaco fiorentino, nessuno si è fermato a valutare la questione in una prospettiva più ampia, che vada oltre la questione del Primo Maggio, e a porsi una semplice domanda.

A che servono i negozi, le botteghe, i bar o i ristoranti nei centri delle città? No, non servono solo a far cassa. Per quello basta un centro commerciale, uno dei tanti che punteggiano le uscite autostradali. I negozi cittadini, o meglio «le botteghe», così come i bar, le osterie e i ristoranti sono più di un registratore di cassa, sono parti vitali di un essere vivo e pulsante: la città. Solo chi non ha capito cosa è una città, come e perché è nata e perché sopravvive, può pensare ai negozi come meri luoghi di commercio o avamposti del consumismo moderno. Le botteghe cittadine sono una delle realtà più antiche del nostro Paese, uno dei fenomeni attraverso i quali si è manifestata in maniera più evidente l’imprenditorialità diffusa della nostra gente, e attorno ai quali brulicava la vita di paese e quella socialità che tutto il mondo ci invidiava.

Le città sono equilibri delicati, sono luoghi di economia, ma anche di socialità e cultura, e queste tre anime, economica, culturale e sociale si sostengono reciprocamente. Non si va in un’osteria in centro solo per sfamarsi, ma perché prima si può fare un aperitivo nel corso e dopo una passeggiata in piazza. E raramente si va in centro solo per vedere un monumento o comprare un oggetto, ma perché sappiamo che mentre siamo lì possiamo incontrare persone che conosciamo, fare due chiacchiere, e allora sì, anche comprare il pane, il caffè, o giocare la schedina. E mentre passeggiamo in centro magari vediamo i cartelloni del teatro o del cinema e ci viene pure un’idea per la serata. Questo è il ruolo e l’essenza delle città. Luoghi vivi fatti per vivere. E in quest’ottica ogni piccolo elemento ha una sua funzione che non è meramente economica o sociale, ma un po’ tutto assieme. Nel suo capolavoro The Death and Life of Great American Cities l’urbanista Jane Jacobs fece un’accurata descrizione di come i marciapiedi, per esempio, siano uno strumento fondamentale per la struttura sociale della città, luoghi in cui le persone si fermano a parlare, e in cui i bambini possono giocare. E così come i marciapiedi è importante il ruolo delle finestre, dei portoni, delle vetrine. Perché porte, finestre e vetrine aperte danno aria, vita e luce alla città e sono il miglior antidoto contro l’abbandono, il degrado, la delinquenza. Chi vede la città come un mero agglomerato di funzioni distaccate e distaccabili o addirittura contrapposte - il lavoro da una parte, il consumo dall’altra, la socialità in un’altra ancora - non solo non ha capito cos’è una città, ma la condannerà alla morte certa. Così come è già accaduto a molte città straniere e purtroppo anche da noi. La città ha bisogno di essere viva, libera e spontanea, e per farlo ha bisogno di elementi diversi e complementari: arte, musica e commercio, tradizione e modernità, italiani e stranieri. E la politica dovrebbe aiutarla a trovare soluzioni innovative per far convivere spontaneità ed esigenze di tutti.

Dare la possibilità a un negozio di stare aperto se vuole non è tanto un favore che si fa al negoziante, ma anche un servizio a tutti quei lavoratori che durante la settimana sono chiusi in una fabbrica o un ufficio grigio e quando è festa non vedono l’ora di cambiarsi e andare fuori con i figli, andare al cinema, al parco giochi e anche a fare un po’ di spesa tutti insieme. Tutte cose che potrebbero essere fatte in città, senza essere costretti a rinchiudersi in un centro commerciale periferico. Le città aperte servono molto più a questi lavoratori che ai ricchi, perché questi ultimi possono sempre rifugiarsi in qualche villa al mare o in hotel di lusso a Londra o Parigi per sottrarsi alla noia di una città fantasma, ma i meno fortunati no. Certo, anche chi lavora nei negozi ha diritto al riposo, ci mancherebbe altro, ma viene da chiedersi se non sia possibile trovare delle soluzioni innovative che possano andare incontro alle esigenze di più persone senza imporre ulteriori divieti. La proposta del sindaco di Firenze di accordarsi con gli interinali per tenere aperti i negozi senza costringere commessi e commesse agli straordinari poteva essere una possibilità. Altri accordi potevano essere valutati, come è stato fatto in altre città senza troppi clamori.

Ma nell’Italia ormai barricadera del tutti contro tutti e dello scontro ideologico ad ogni costo, per alcune persone le piazze servono solo per mostrare striscioni o banchetti elettorali quando fa comodo. Per tutto il resto dell’anno possono chiudere e morire.

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« Risposta #39 inserito:: Maggio 21, 2011, 09:23:44 am »

20/5/2011 - GLI "INDIGNADOS"

Cercasi leader per i grillini anti Zapatero

IRENE TINAGLI

Niente a che vedere con le rivolte arabe che pure sono state evocate o con le abituali e gigantesche manifestazioni di protesta spagnole. Gli «indignati» che protestano a Madrid contro la politica assomigliano piuttosto ai «grillini», senza un leader.

Sono scesi in piazza per la prima volta domenica scorsa, 15 maggio (da qui il nome «Movimento 15-M»). Forse un tentativo di minimizzare il fenomeno per paura del «contagio egiziano»? Forse una repressione in atto? La risposta è probabilmente molto più semplice. La Spagna è abituata a manifestazioni di altra entità. Giusto per fare alcuni esempi, l'anno scorso la manifestazione contro l'estensione della legge sull'aborto aveva raccolto a Madrid 250 mila persone; il 29 settembre i sindacati hanno mobilitato un milione e mezzo di manifestanti, in buona parte proprio nella capitale, per non parlare della notte bianca madrilena che ha portato per le strade del centro la bellezza di 700.000 persone. La manifestazione di domenica scorsa ha radunato a Madrid, secondo quanto riportato dal País, 20.000 persone. Certamente una manifestazione importante, ma non sorprende se agli inizi non abbia destato troppo scalpore e non sia apparso come un fenomeno preoccupante.

Il fenomeno è emerso nei giorni successivi, quando le manifestazioni si sono diffuse e prolungate, anche se solo con poche centinaia di persone, sfidando la pioggia e i divieti delle giunte elettorali provinciali. Ma soprattutto il fenomeno è cresciuto man mano che alcuni politici hanno iniziato a intravedere la possibilità di trasformare la protesta in strumento elettorale, viste le elezioni amministrative di domenica prossima. E così il candidato socialista alla presidenza della provincia di Madrid ha dichiarato subito simpatia per i manifestanti di Madrid sperando di trasformarli in uno strumento contro la rivale Esperanza Aguirre. Mentre esponenti del partito popolare, come il sindaco di Madrid Gallardon, sottolineano che non si tratta di una manifestazione anti-sistema ma anti-governo, contro la crisi economica a cui Zapatero non ha saputo dare risposta adeguata. Zapatero dal canto suo ha dichiarato che «bisogna ascoltare ed essere sensibili». Insomma, i politici cercano per lo più di accarezzare e mostrare il loro lato migliore ai «ribelli». Se non fosse per il divieto a prolungare le manifestazioni emesso da alcune giunte elettorali provinciali (che ha gettato una vaga ombra di «repressione» sul movimento), il paragone con le piazze arabe avanzato da alcuni giornali appare quindi fuori luogo. Il movimento spagnolo non si è trovato di fronte ad un regime totalitario pronto a serrare i ranghi e a schiacciarlo, ma a un sistema democratico che istintivamente cerca, come normalmente fa un sistema democratico in questi casi, di assorbirlo. Magari restando un po' spiazzato agli inizi, ma adattandosi pian piano per inglobarlo meglio, cercando di accoglierne alcune istanze e neutralizzandone altre. Se la Junta Electoral (chiamata a decidere sul divieto o no di manifestare alla vigilia elettorale) sarà abbastanza saggia da evitare lo scontro con divieti stringenti, è probabile che la «primavera spagnola» si riveli assai meno esplosiva di quanto alcuni hanno pensato in questi giorni.

A ben vedere il movimento 15-M di piazza del Sol più che somigliare a piazza Tahir ricorda il nostro movimento 5 stelle, anch'esso formatosi a seguito di una manifestazione anti-partitica quale fu il V-day del 2007. Le analogie sono molte, a partire dalle richieste: così come il movimento 5 stelle emerse con la proposta di legge popolare contro la candidatura di politici indagati, e per un ritorno alla preferenza diretta, così il movimento spagnolo è nato dalla piattaforma democracia Real Ya e da una proposta di riforma elettorale per combattere la corruzione che da un po' di tempo a questa parte segna la scena politica spagnola. Entrambi inoltre vogliono evitare apparentamenti con ogni partito, configurandosi come movimenti «anti-partitici» e anti-sistema. Infine, così come il movimento a 5 stelle ha pian piano accolto altre forme di protesta contro i temi più disparati, dalle istanze del movimento no tav, alle proteste contro gli inceneritori in Campania, così il movimento 15-M ha già aggiunto alle sue richieste l'abolizione di una serie di leggi: dalla «legge Bologna» di riforma del sistema universitario, alla recente legge sull'«Economia sostenibile» fino a quella anti-tabacco che da gennaio proibisce di fumare nei locali pubblici. In sintesi: movimenti di delusi, «indignati» che finiscono per manifestare un disagio complessivo verso la politica esistente più che offrire una proposta politica organica.

La differenza tra i due movimenti è che a quello spagnolo manca un capopopolo come Grillo e la capacità di aggregazione di vip e intellettuali che ebbe il V-day. E questo, se da un lato rende il movimento spagnolo più spontaneo e autentico, dall'altro potrebbe renderlo più difficile da organizzare in comitati e liste elettorali come è avvenuto da noi. Difficile però dire se questo possa rappresentare uno svantaggio o un vantaggio per i giovani e per la politica spagnola. In fondo, nonostante il movimento 5 stelle sia ormai presente in Italia da 4 anni e abbia raggiunto interessanti successi elettorali, il progresso sulle sue istanze iniziali è stato pressoché nullo. La legge contro la corruzione in politica, o la riforma delle legge elettorale sono ancora in alto mare. Ma queste sono le regole della democrazia e non c'è da lamentarsene troppo: le rivoluzioni arabe che in poche settimane hanno rovesciato interi regimi hanno portato, per adesso, migliaia di morti e un grande caos politico e sociale, situazioni complesse la cui soluzione non sarà né semplice né rapida. Se i movimenti ribelli di quest'altro lato del Mediterreneo non ricalcheranno le orme di quelli Nord africani e finiranno per intraprendere altre strade per influenzare la politica e metterle il «fiato sul collo», non sarà da considerarsi un fallimento, ma semmai un successo della loro azione e tutto sommato delle nostre democrazie.

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« Risposta #40 inserito:: Maggio 25, 2011, 05:13:45 pm »

24/5/2011

Rassegnazione, male italiano

IRENE TINAGLI

Tutti a casa». Un tempo era un grido di protesta rivolto ai politici, oggi sembra piuttosto una realtà di rassegnazione per milioni di Italiani. Tra i molti dati e analisi presenti nell’ultimo rapporto dell’Istat colpisce in modo particolare la persistenza in Italia di un bacino di inattività altissimo, soprattutto tra i giovani e le donne. Non persone disoccupate in cerca di lavoro, semplicemente ferme. Secondo i calcoli dell’Istat sono circa 3 milioni. Una cifra enorme. E la cosa più preoccupante è che per ben due milioni di queste persone il motivo di questa inattività è la convinzione che, tanto, sia inutile anche cercare lavoro. L’Istat li definisce gli inattivi scoraggiati. La loro percentuale sulla forza lavoro in Italia è più che doppia rispetto alla media degli altri Paesi europei, e sei volte superiore a quella della Francia.

Siamo così di fronte ad una sorta di paradosso. Da un lato un tasso di disoccupazione ufficiale che è migliore di quello di molti altri Paesi europei (8,4% contro una media europea del 9,6%), dall’altro però un tasso di inattività che non ha eguali, arrivato al 37,8% contro una media europea del 29%. Da un lato un’economia mondiale che ricomincia a girare, con una crescita media del Pil globale che nel 2010 è stata del +5%, dall’altro una totale sfiducia degli Italiani nella capacità dell’Italia di agganciare questa ripresa e, soprattutto, di tradurla in nuova occupazione e crescita diffusa.

Come mai? Qualcuno potrà pensare che gli italiani sono male informati, o incapaci di vedere quando le cose vanno bene perché di natura scettica, oppure semplicemente che sono pigri. Ma non è così. Gli italiani, come tutti gli altri, sanno leggere certi segnali e adeguare le proprie scelte di conseguenza. I segnali che influenzano i comportamenti dei cittadini in questi casi sono essenzialmente due: quelli provenienti dal mercato del lavoro più vicino a loro e quelli provenienti dalla politica. I primi hanno mostrato chiaramente un peggioramento non tanto e non solo della quantità del lavoro (nel biennio 2009-2010 si sono persi mezzo milione di posti), ma anche e soprattutto la sua qualità. I secondi hanno visto una politica economica, sociale e fiscale che in questi anni ha fatto pochissimo non solo per stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, ma anche per rendere il lavoro e la sua ricerca una scelta conveniente. Come ci insegnano i premi Nobel Pissarides e Mortensen (anche se non è necessario un premio Nobel per capirlo) cercare lavoro ha dei costi, fisici e psicologici. E’ normale che una persona deciderà di sostenere questi costi e questa fatica se pensa che ne valga la pena. Se invece i segnali indicano che questa convenienza è scarsa, smettere di cercare può diventare, per alcune persone, una scelta plausibile.

Anche se il dato sulla disoccupazione totale in Italia non è peggiorato, altri indicatori non sono altrettanto incoraggianti. Nel 2010, come ci dice il rapporto Istat, il calo più grosso dei posti di lavoro si è avuto tra le occupazioni cosiddette «standard», ovvero a tempo pieno e indeterminato. Quasi trecentomila posti di lavoro «buono» andati in fumo. Circa due terzi di questi posti riguardavano giovani. Al contrario, l’occupazione che si è creata nel 2010 è per lo più part-time, con contratti a tempo determinato e in fasce occupazionali scarsamente qualificate, soprattutto per le donne. Perché dunque dovrebbe stupire se così tante persone, e, guardacaso, soprattutto i giovani e le donne decidono di stare a casa e smettere di cercare? Giovani e donne sono proprio le fasce di lavoratori che in Italia hanno i lavori «peggiori», con i salari più bassi e con nessuna assistenza in termini di servizi di supporto o ammortizzatori sociali che rendano la ricerca del lavoro più semplice, meno onerosa e più conveniente. Per non parlare del fisco. Oggi centinaia di migliaia di persone sono costrette ad aprire partite Iva per lavorare con enti e aziende che non sono più disponibili ad assumerli come dipendenti, sopportando oneri e tassazioni che, persino nei cosiddetti «regimi agevolati», hanno ormai livelli molto elevati. Anche lavorare costa. E nessuna politica degli ultimi anni ha contribuito a renderlo più conveniente. Le uniche attività che fiscalmente sono state rese più convenienti sono l’acquisto e la locazione di immobili, con l’abolizione dell’Ici e l’introduzione dell’aliquota fissa al 20% per i redditi da affitti. Misure di per sé non sbagliate, ma che in mancanza di una riforma della fiscalità sul lavoro, e in un Paese in cui il la propensione al possesso di case è tra le più alte del mondo, creano non poche distorsioni nell’allocazione delle risorse e negli incentivi a lavorare. E quindi, al grido d’allarme dell’Istat che denuncia come milioni di italiani non cerchino più lavoro, molti potrebbero rispondere: e perché dovremmo? Rassegnati sì, fessi no. La vera sfida del nostro Paese oggi è quindi duplice: far recuperare dinamismo al mercato del lavoro in modo da generare più opportunità e iniettare un po’ di fiducia, ma anche rendere il lavoro una scelta più conveniente e stimolante per milioni di persone che sono stanche di girare a vuoto.

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« Risposta #41 inserito:: Giugno 05, 2011, 04:42:56 pm »

5/6/2011

Se il Paese non fa sistema

IRENE TINAGLI

La Fiat si ricompra la quota di azioni della Chrylser finora in possesso del governo americano e ne diventa azionista di maggioranza. Una delle aziende storiche della produzione di auto mondiale, inserita nel cuore produttivo degli Stati Uniti, da oggi issa bandiera italiana, e incassa i ringraziamenti di Obama.

Basterebbe questo per festeggiare tutti assieme, per ritrovare un po’ di orgoglio nazionale. E invece no. Molti sembrano quasi seccati. Eppure si tratta di un bella rivincita per il nostro Paese, così deriso ultimamente per gli scandali e le vicende da operetta, e una rivincita soprattutto per uno dei nostri marchi più antichi ma anche maggiormente caduti in disgrazia negli ultimi anni.

E’ ormai nota a tutti l’interpretazione dell’acronimo Fiat diffusa negli Stati Uniti: «Fix It Again Tony» (aggiustala ancora Tony), ad indicare la scarsa qualità del prodotto. Ed è una fortuna che gli italiani non abbiano visto le facce incredule di tanti americani quando due anni fa venne annunciata l’entrata della Fiat in Chrysler, con un manager italiano al timone di tutta la baracca: sarebbe stato un vero schiaffo al nostro orgoglio nazionale. Ma questa era l’immagine che la nostra capacità produttiva aveva in America allora. Come se agli italiani qualcuno annunciasse che la nazionale di calcio da domani è allenata da Bob Bradley, l’attuale allenatore della nazionale americana.

Gli americani erano esterrefatti. Eppure hanno sospeso il loro giudizio e hanno dato una chance ad uno straniero venuto d’Oltreoceano a insegnare a fare macchine a chi le macchine le aveva inventate. Hanno aspettato, hanno dato un’opportunità, e hanno riconosciuto i risultati ottenuti. Una cosa semplicissima, così semplice che a noi, chissà perché, non riesce mai. I risultati della Fiat, nostra vecchia gloria, non ci hanno scaldato.

Ancora segnata dai conflitti e dalle divisioni causate dalle vicende della Fiat degli ultimi tempi, l’Italia non riesce a ritrovare unità neppure di fronte ad un successo che, per una volta, non minaccia e non tocca gli interessi di nessuno. Anzi, forse proprio questo successo contribuisce a far tornare a galla quest’antica incapacità dell’Italia di sentirsi Paese, di compattarsi di fronte a degli obiettivi che riguardano il bene collettivo e non di una sola parte, l’incapacità di capire che un paese non cresce e non può crescere solo per gli avvocati o i tassisti o i farmacisti o i manager o gli operai, ma può e deve crescere per tutti e tutti devono avere una chance di mettersi alla prova, dallo stagista al top manager.

Il monito di Marchionne, che in perfetta linea col suo stile poco accomodante non ha mancato di sottolineare la differenza di trattamento avuta in America da quella riservatagli in Italia («ringraziamenti là, insulti qua»), è un monito che va ben oltre la Fiat e ricorda molto da vicino l’esperienza di migliaia di italiani, soprattutto quelli che sono stati costretti a trasferirsi all’estero per lavorare. Tutti denunciano questo «atteggiamento», questo clima di diffidenza preventiva che in Italia accoglie ogni nuovo progetto e ogni cambiamento, che fa sì che le cosa si combattano prima, sul terreno dello scontro delle parti, delle ideologie, e non dopo, sui risultati e sul contributo dato ad un obiettivo comune.

Chiunque in Italia abbia provato a proporre un’idea nuova, in aziende pubbliche o private così come in università o in centri di ricerca, sa cosa significa scontrarsi con quella diffidenza di chi, di fronte a un progetto innovativo, non si chiede quale sia la potenzialità e il contributo al bene collettivo che questo progetto può dare, ma si chiede prima se e come può danneggiare il suo interesse particolare, scalzarlo dalla sua posizione, o se magari può essere usato per indebolire una parte avversa. Persino il ministro Sacconi di fronte alle dichiarazioni di Marchionne non ha perso occasione per dare la colpa ai sindacati conservatori, alla magistratura ideologizzata e alla borghesia bancaria. Come se costruire un «Sistema Italia» migliore non chiami in causa tutti quanti, e ricadendo pure lui nel gioco degli scontri di parte, delle dita puntate.

Ecco, se l’Italia riuscirà a cambiare questo atteggiamento e a ritrovare un senso di bene comune e di obiettivi condivisi, farà un piacere non tanto a Marchionne, della cui contentezza si può forse anche fare a meno, ma restituirà entusiasmo, fiducia ed energia a tutta una generazione di italiani, in Italia e in giro per il mondo, che aspettano solo di avere una chance, un’opportunità di dare un piccolo contributo al Paese, facendo del proprio meglio, senza dover fare i conti con le diffidenze preventive, gli insulti, le lotte di parte, i poteri acquisiti. E di loro no, l’Italia non può fare a meno.

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« Risposta #42 inserito:: Luglio 05, 2011, 04:26:41 pm »

5/7/2011

Se manca la visione del futuro

IRENE TINAGLI

Tra le tante strumentalizzazioni e ambiguità che in questi giorni hanno accompagnato le proteste del movimento No Tav colpisce soprattutto quella di chi vuol far passare la ribellione in Val di Susa come parte di una nuova coscienza civile che si sveglia in Italia, di un vento che ha iniziatoa soffiare con i referendume le amministrative.

Vento nuovo? Al di là dell’ovvia osservazione che le proteste contro la Tav hanno ormai radici decennali, ciò che queste vicende fanno riemergere è, al contrario, una delle piaghe più antiche della vita sociale, politica ed economica italiana.

Un Paese in cui ogni progetto, visione o investimento che travalichi i confini geografici e temporali del qui e adesso si scontra con un mostruoso mosaico di opposizioni particolari. Interessi e prospettive non solo incapaci di coagulare in una visione congiunta di bene comune, ma spesso foraggiati e incoraggiati dagli stessi politici che quella visione unitaria dovrebbero invece contribuire a ricomporre. Un Paese quindi perennemente imprigionato nei localismi, nel «fate quel che vi pare, ma non a casa mia», il Paese in cui tutti puntano il dito contro tutti ma nessuno è mai disposto a mettere in discussione i propri piccoli grandi interessi, dai deputati agli allevatori di mucche, dai ministri ai tassisti.

Il Paese dove i rifiuti traboccano inondando interi paesi, ma dove nessuno vuole un inceneritore, un Paese dove l’energia costa il 35 per cento più che altrove, stroncando la competitività delle imprese, ma dove è impossibile fare un piano energetico di qualsiasi tipo. Un Paese iper-cementificato, ma dove gli avversari della cementificazione gridano inorriditi all’idea di un grattacielo che da solo potrebbe sostituire centinaia di bifamiliari con giardinetto, restituendo all’ambiente chilometri di terra libera.

E tutti, tutti hanno un unico argomento: «ma in fondo c’è proprio bisogno di questa opera?». No, certo che non ce n’è bisogno. Non c’è mai un bisogno schiacciante di una cosa nuova che prima non c’era. L’Italia in fondo esisteva anche quando non c’erano autostrade, fogne, ferrovie ed elettricità. Ma è proprio questo il senso degli investimenti, il senso di una programmazione che guarda in avanti. E’ lì che sta la vera anima rivoluzionaria di un Paese e di un popolo. Non tanto nel saper affossare i governi o ghigliottinare i potenti, ma nel saper guardare al di sopra delle proprie spalle, saper intuire quello che ci può essere e contribuire tutti insieme a costruirlo, assumendosene anche i rischi. Sapersi chiedere cosa può succedere «se».

«Cosa succederebbe se ci fosse un ponte che collega la Svezia alla Danimarca?», si devono esser chiesti un giorno i governanti dei due Paesi. Lo hanno scoperto nel giro di pochi anni. Il ponte di Öresund che collega la città svedese di Malmö alla capitale danese Copenhagen fu completato in meno di 4 anni, dal 1995 al 1999, e aperto al pubblico nel 2000. Inizialmente il traffico era inferiore alle aspettative, d’altronde le abitudini di vita e di lavoro delle persone, le attività economiche, non cambiano dalla sera alla mattina. Ma, alla fine, nemmeno tanto lentamente: già nel 2007 non solo era aumentato molto l’utilizzo del ponte, ma anche la crescita delle aree interessate dall’infrastruttura. In quegli anni Malmö ha registrato un tasso di crescita della popolazione due volte superiore alla media nazionale e un raddoppio del proprio capitale umano.

Il fatto è che il rapporto tra infrastrutture e crescita è complesso: spesso le infrastrutture anticipano e guidano certi percorsi di sviluppo, e il loro effetto futuro non si può prevedere sulla base dell’utilizzo delle vecchie strutture e tecnologie. Sarebbe stato come se negli Anni Novanta l’Italia avesse deciso che era inutile portare qua Internet e l’e-mail perché il flusso di missive delle Poste italiane era un po’ in calo. Certamente l’Italia sarebbe sopravvissuta. Ma a quale prezzo? Anche se forse nel caso della Tav è una forzatura dire che senza quella tratta Torino e l’Italia saranno escluse dall’Europa: lo sono già. L’Italia non solo è fanalino di coda tra i Paesi europei per chilometri di alta velocità, ma è quella che ne ha meno in cantiere, quella che ne costruirà meno in futuro.

La Spagna ha inaugurato la prima linea veloce nel 1992 e in meno di dieci anni ha costruito circa 2700 chilometri di alta velocità, il triplo dei nostri, e ne ha in cantiere altri 1800 (contro i nostri 92). La Cina ne ha operativi più di seimila e ne sta costruendo oltre quattordicimila, investendo 309 miliardi di dollari. Per non restare troppo indietro Obama sta spingendo per massicci investimenti nell’alta velocità anche negli Stati Uniti (e proprio in questi giorni il dibattito sull’alta velocità è caldissimo anche lì). E sappiamo che la strategia complessiva dell’Unione Europea sull’alta velocità andrà comunque avanti, con o senza il passaggio dall’Italia. No, quel pezzo di alta velocità, di per sé, non cambierà probabilmente le sorti italiane, sarà uno dei tanti anelli mancanti del nostro Paese, uno dei tanti ospedali incompiuti, dei capannoni abbandonati, o una delle migliaia di piste ciclabili ammezzate che terminano nel nulla, simbolo perfetto di un Paese eternamente in partenza ma incapace di capire dove vuole arrivare.

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« Risposta #43 inserito:: Luglio 28, 2011, 05:28:38 pm »

28/7/2011

Federica, speranza delle donne italiane

IRENE TINAGLI

La vittoria di Federica Pellegrini non è solo una splendida pagina sportiva, ma una rivincita e una speranza per milioni di donne italiane e di tanta parte della nostra società.

Quella che è stanca di vedersi rappresentata nel mondo da scandali politici e giudiziari, debiti, risse e anziani signori abbarbicati alle proprie poltrone. Così come è stanca di vedersi rappresentata come un Paese di donne succubi e uomini predatori e opportunisti. Basta. L’Italia è anche quella che vediamo a Shanghai: forte e trionfante, competitiva, bella nel modo più bello e più sano. Sì, l’Italia è anche questa ed è meraviglioso vederla fresca e sorridente sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo.

Con questa impresa Federica Pellegrini diventa non solo la prima donna a conquistare l’oro sia nei 200 che nei 400 in due mondiali consecutivi, ma si conferma un bell’esempio e un riferimento per le tante donne italiane che ogni giorno si impegnano con forza, sacrificio e determinazione nei settori più disparati, senza mortificare i loro affetti o la loro femminilità ma neppure senza restarne schiave.

In questi anni la Pellegrini ci ha infatti abituato alle sue vittorie sportive ma anche alle sue debolezze, ai suoi amori, al suo essere giovane donna che cerca di affermare una sua strada personale e professionale. Un corpo splendido e atletico che alcuni hanno cercato di ricondurre agli stereotipi della donna bella e ammaliatrice, ma che mai risplende e incanta come quando fende con forza la resistenza dell’acqua, potente strumento di vittoria più che di seduzione.

E una personalità forte e complessa, ricca di sfumature e di fragilità che la Pellegrini stessa non ha mai nascosto, ma ha affrontato con un coraggio e una determinazione da leonessa. Dalla sfida con la bulimia, confessata quando ormai era già un ricordo, a quella con gli attacchi di ansia, che ancora ad aprile l’hanno tormentata alle gare di Riccione, ma che mai sono riusciti ad avere la meglio sulla sua forza e la sua sete di vittoria.

Per questo è così bello vederla primeggiare: perché rappresenta una donna vera, che lotta contro gli avversari e contro le proprie paure. E soprattutto perché dimostra che quando si trova a competere in un mondo in cui tutto quello che conta è la forza, la testa e il cuore, una donna è capace di vincere senza se e senza ma. E questo è un bellissimo segnale per tutte quelle donne che cercano di affermarsi in contesti più falsati dai pregiudizi, in cui qualità e merito non sono mai sufficienti. Un segnale che, a ben vedere, da’ ottimismo ed energia a tanti italiani e non solo alle giovani donne, perché ci fa riscoprire il senso del sacrificio e della determinazione, della voglia di lottare e di mettersi in gioco, un senso che ultimamente in troppi abbiamo perso. Grazie Federica.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9029
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« Risposta #44 inserito:: Agosto 06, 2011, 04:49:55 pm »

30/7/2011

L'eredità di un'epoca

IRENE TINAGLI

L’annuncio di oggi non fa che certificare una fine ormai annunciata da tempo: la fine dell’era Zapatero.
Una stagione caratterizzata da grandi estremi, apertasi con celebrazioni entusiaste in tutta Europa, che sembravano fare di Zapatero il modello di riferimento della sinistra europea, e che ora si chiude tra profonde polemiche, accuse durissime e prese di distanza.
Le celebrazioni del primo mandato erano legate ad una crescita economica tra le più sostenute d’Europa, che per anni ha registrato ritmi doppi o tripli della nostra, assieme ad un ragguardevole aumento dell’occupazione. Dopo gli Anni Novanta, in cui la disoccupazione superava spesso il 20%, con Zapatero arrivò al 7,5% del 2006. Nei primi tre anni del suo mandato la Spagna vide la creazione di quasi 4 milioni di nuovi posti di lavoro.

Una «espansione di carta», denunciano oggi i suoi detrattori, visto che, dopo il ciclone della crisi economia globale, la Spagna si ritrova con una disoccupazione nuovamente sopra al 20% e una disoccupazione giovanile al 44%. Per non parlare del fatto che con la crisi le misure sociali sono divenute più pesanti sul bilancio dello Stato, facendo schizzare il deficit al 6,5% del Pil. Una performance che ha certamente ammutolito i sostenitori delle politiche zapateriane degli anni passati e scatenato le accuse e le rivendicazioni dei suoi detrattori.
Come spesso accade in queste circostanze entrambe le prospettive - quella entusiasta degli inizi e quella accusatoria degli ultimi tempi - sono parziali e fuorvianti, perché omettono aspetti importanti che non rendono giustizia a ciò che è accaduto in Spagna negli ultimi dieci anni.

Gli osannatori si erano scordati che Zapatero aveva ereditato da Aznar un Paese con un’economia già molto ristrutturata, con occupazione in crescita e conti pubblici sotto controllo (anche per la Spagna l’entrata nell’euro aveva implicato politiche di bilancio rigorose), e si erano scordati di guardare dentro alla crescita, e rendersi conto di quanto questa fosse trainata da settori molto tradizionali e da una bolla edilizia che aveva generato occupazione di scarsa qualità, esposto banche e aziende e aumentato l’indebitamento delle famiglie.

Tuttavia è incorretto ed ingeneroso limitare l’analisi del miracolo spagnolo ad una mera bolla speculativa che si è interamente bruciata negli ultimi anni, mangiandosi tutto ciò che era stato creato. Nel periodo di espansione il Paese è stato dotato di una efficiente rete infrastrutturale, di città moderne e funzionali, di un’offerta turistica e culturale che hanno fatto divenire la Spagna la quarta meta turistica del mondo dopo colossi come Francia, Stati Uniti e Cina. La crescita non è stata investita solo in ammodernamento infrastrutturale, ma in politiche sociali che vanno dall’aumento del salario minimo agli investimenti in istruzione e ricerca, fino alla lotta alla violenza domestica e alle discriminazioni contro gli omosessuali.

Politiche molto criticate ma che hanno avuto risultati importanti. L’indice di diseguaglianza nella distribuzione dei redditi si è ridotto significativamente e anche sul fronte dell’emancipazione delle donne e della lotta alle discriminazioni sono stati fatti passi avanti.

Nei primi quattro anni dall’introduzione della legge contro la violenza sulle donne sono aumentate le denunce, le condanne (quasi centomila dal 2004 alla fine del 2008) e, soprattutto sono calate le morti per violenza domestica (quasi dimezzate tra il 2008 e il 2009). E, nonostante gli scetticismi iniziali, il matrimonio gay oggi è visto positivamente dalla maggioranza degli spagnoli, tant’è vero che anche il candidato del partito popolare ha dichiarato che non abrogherà la legge in caso di vittoria elettorale.

Anche gli investimenti in ricerca e sviluppo, raddoppiati dal 2004 al 2010, stanno dando i primi frutti: secondo la Royal Society inglese, la Spagna è entrata tra i primi dieci Paesi del mondo per citazioni scientifiche. Varie università e business schools spagnole occupano posizioni di rilievo nei ranking internazionali e, soprattutto, sono piene di docenti e ricercatori stranieri: oggi il 20% dei ricercatori presenti in Spagna è straniero.

Certamente questi investimenti sul fronte sociale, della ricerca e dell’innovazione non sono bastati ad arginare l’emorragia occupazionale e l’aumento del deficit, né serviranno a bloccare gli attacchi speculativi che stanno prendendo di mira la Penisola iberica. Tuttavia sarebbe un errore ignorare le profonde trasformazioni che hanno caratterizzato non solo l’economia, ma anche le città, le comunità e la società spagnola. Nonostante le difficoltà macroeconomiche e le molte riforme ancora da portare avanti, la Spagna di oggi non è certo quella di otto anni fa. E c’è da sperare che chiunque vinca le prossime elezioni non disperda i progressi di ammodernamento sociale del Paese che la Spagna ha costruito e di cui avrà bisogno più che mai in futuro.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9037
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