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Autore Discussione: FRANCESCO LA LICATA.  (Letto 6418 volte)
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« inserito:: Ottobre 02, 2009, 05:36:19 pm »

1/10/2009 - IL CASO


Mafia, l'eterna riscoperta
   
FRANCESCO LA LICATA


Non sarà certamente colpa del Censis, che per dovere d’ufficio si limita «semplicemente» a fotografare una situazione, né di Beppe Pisanu che alla presidenza della commissione Antimafia è giunto da meno di un anno. Eppure è difficile sfuggire al senso di frustrazione, di impotenza proveniente da un’analisi che sembra certificare l’impossibilità di redenzione per un quarto del territorio nazionale.

La capacità invasiva delle organizzazioni criminali, la loro espansione verso spazi nazionali e internazionali che sembravano immuni da qualsiasi pericolo di contagio, il “prezzo” pagato dal Meridione d’Italia alla presenza del malaffare, il divario Nord-Sud accentuato dalla palla al piede mafiosa in almeno quattro regioni, il problema del “consenso” delle popolazioni e della classe dirigente del Sud ai poteri criminali: tutti temi affrontati e mai risolti - da nessun governo, né di centrodestra né di centrosinistra - perché immobilizzati dentro schemi di politiche di parte. Un errore, questo, a suo tempo segnalato da uomini del valore di Giovanni Falcone che avvertiva: «La lotta alla mafia non deve avere colore politico perchè condotta nell’interesse di tutti».

La fotografia che ci dà oggi il Censis è identica alle numerose altre accumulate negli anni: lo stesso Pisanu è costretto a sottolineare l’attualità dell’analisi di uno dei primi meridionalisti, Leopoldo Franchetti, che, nel 1876, sulla capacità di penetrazione della mafia scriveva: «Essa ha ormai relazioni di interesse così molteplici e variate con tutte le parti della popolazione; sono tanto numerose le persone a lei obbligate per la riconoscenza o la speranza dei suoi servigi, che essa ha ormai infiniti mezzi per influire all’infuori del timore e delle violenza, per quanto la sua esistenza si fondi proprio su questa». Così quindici anni dopo l’Unità d’Italia. Ma oggi non va meglio, se dobbiamo dar credito alle analisi attuali. In tema di crisi del Meridione, si sta a discutere ancora - addirittura - se il sottosviluppo sia causa o effetto della presenza mafiosa.

Certo, la burocrazia, il malgoverno, le Regioni che non funzionano o sbandano. E’ di ieri l’incredibile “rivelazione” del governatore di Sicilia: «La mafia è a Roma». Anche qui nulla di nuovo sotto il sole: questi ritornelli li avevamo sentiti da una pletora di politici discutibili, “in difesa” del “buon nome” della Sicilia. Ma c’è una via d’uscita a tanto conformismo, che periodicamente scopre - per esempio - l’incompatibilità della presenza mafiosa con le libertà più elementari, non ultimo il libero mercato?

Si predica la fiducia nello Stato, anche se spesso i governi fanno di tutto per sfiancare pure i più fiduciosi. Ma forse andrebbe conseguito, oltre alla necessaria repressione giudiziaria, un obiettivo “semplice”: capovolgere il rapporto di forza oggi esistente - almeno in gran parte del Meridione - tra cittadino e poteri illegali, rendendo “conveniente” la scelta della legalità. Solo così si potrà interrompere il sistematico ricorso alla protezione mafiosa, percepita come più efficiente dello Stato.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 02, 2009, 05:49:52 pm »

28/9/2009

Sangue e immagini sacre come simboli del potere
   
FRANCESCO LA LICATA


Un’intera generazione di mafiosi siciliani è cresciuta nel mito dell’iniziazione. Specialmente quei picciotti che il «titolo» non potevano conseguirlo per diritto di discendenza, non essendo nati in una famiglia «blasonata». Già sono proprio i parvenu, quelli senza storia, quelli che ogni giorno devono dimostrare qualcosa, ad essersi formati nel sogno del giorno della «cerimonia». Il mafioso non ama il termine affiliato: troppo raffinata, quella parola. No, l’oscuro oggetto del desiderio dell’apprendista mafioso è quello di essere «combinato», che nel baccaglio criptico di Cosa nostra significa entrare far parte «legittimamente» della «famiglia».

Potrà far sorridere i raffinati analisti che si occupano della materia, ma il giuramento di mafia ha una importanza fondamentale nella sua storia secolare. Far parte di Cosa nostra per essere stato accettato in una cerimonia, ristretta ma risaputa all’esterno seppure senza mai essere stata pubblicizzata, è il simbolo del potere mafioso. Si entra come in un club esclusivo e la vita del neofita cambia dal giorno alla notte. Raccontava Tommaso Buscetta di come entrò nella considerazione dell’intero quartiere appena si «sparse la voce» che era stato «combinato».

E non è diverso negli Stati Uniti, o almeno in quella comunità mafiosa. Henry Hill è il pentito che ha ispirato il capolavoro di Scorsese, Goodfellas. La storia di un gruppo criminale «giovane», parallelo alla mafia ma non mafioso. Ricchi, spietati e sanguinari eppure sempre col fiato sul collo del boss vero che li «gestisce» in modo da non farli entrare in conflitto con la «casa madre». E così Henry si inorgoglisce quando i ragazzini del quartiere portano la spesa a casa della madre «semplicemente per rispetto», anche se per lui non c’è mai stato il privilegio dell’affiliazione. In quella storia, poi raccontata al cinema da Scorsese, l’aspirante mafioso è Tommy De Vito (splendidamente interpretato da Joe Pesci, che prese l’Oscar nel ‘91), l’unico del gruppo che «ce la può fare» grazie al rapporto diretto con un parente boss. Ma Tommy è matto e sanguinario, quindi inaffidabile e incontrollabile e per questo verrà ucciso, proprio il giorno dell’iniziazione, dopo una notte insonne per l’eccitazione e una lunga seduta allo specchio trascorsa a beccare la giacca e la cravatta giuste, sotto lo sguardo compiaciuto della madre che vede coronarsi il sogno proibito del figlio non più giovanissimo, ma finalmente vicinissimo alla «consacrazione».

Victoria Gotti descrive l’affiliazione del fratello John jr. La scena è la stessa che raccontano i mafiosi siciliani: l’immaginetta sacra fatta bruciare nelle mani dell’affiliando che giura fedeltà e omertà in difesa della «famiglia». La goccia di sangue, però, non è sua, appartiene addirittura al «padre nobile» non presente alla cerimonia per non esporsi ad eventuali critiche di nepotismo.

Il luogo è un appartamentino di Little Italy, un posto sobrio che non dà nell’occhio. In Sicilia erano i casolari di campagna o qualche capannone delle borgate attorno alle città. Il boss di Riesi, Giuseppe Di Cristina, raccontava di essere stato affiliato e «punciuto» con una spilla d’oro secondo la tradizione di quella «famiglia». Nella borgata di Altarello, a Palermo, la «punciuta» veniva fatta con la spina di un albero di arancio amaro. Salvatore Grigoli, il killer di padre Puglisi, ora pentito, ha raccontato: «Quando sono stato combinato mi sono sentito un’altra persona. Ho visto subito che la gente mi guardava in un altro modo. Mi rispettavano quasi per un miracolo divino». Ecco perché la mafia è così radicata ed ecco perché anche un pentito come Henry Hill, seppure «convertito», ha ammesso senza difficoltà: «Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster».

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 03, 2009, 11:12:10 am »

3/10/2009 (7:14)  - INCHIESTA

Il sacco della Sicilia

Territorio devastato da costruzioni senza controllo, mafia e imprese conniventi

FRANCESCO LA LICATA


PALERMO
Sembrava solida la villetta bianca di Giampilieri. L’aspetto era gradevole, con quelle serrande celesti come il cielo quando il tempo è bello. Ora sembra l’icona della tragedia: pencola a sinistra, dopo che acqua e fango hanno spazzato via gran parte delle fondamenta che poggiavano sulla creta incerta.

È l’immagine fedele di un territorio devastato, massacrato dalla furia della corsa al cemento. Oggi a Messina, nel 1966 ad Agrigento che ha visto scivolare via interi quartieri, qualche mese fa a Caltanissetta dove l’ospedale San Giovanni di Dio si è sgretolato rivelando tutta la precarietà di un cemento «taroccato». E’così il territorio siciliano. Lo sanno tutti che le piogge tumultuose hanno facile sopravvento sulle strutture, anche le più moderne, e su una natura debilitata dalla cementificazione selvaggia, dagli argini artificiali imposti ai corsi d’acqua essiccati per far posto al business, dal disboscamento irrazionale e, ancora, dall’avvento del cemento «allungato», incapace di svolgere il ruolo che gli compete.

Sembra una balla eppure è così: la mafia non solo governa ogni tipo di abuso, non solo cambia i piani regolatori per dar forma a veri e propri aborti urbanistici. Non solo tutto questo, adesso cementifica con molta sabbia e poco ferro. E tutto per imporre i modelli edilizi che abbiamo imparato a conoscere a Gela, a Bagheria, a Castellammare, a Termini Imerese, ad Agrigento e lungo le campagne infestate da orribili viadotti, giusto per fare gli esempi più clamorosi. Così ogni anno cadono nel vuoto i saggi ammonimenti, gli allarmanti rapporti di Legambiente, di tutti gli ecologisti e di buona parte degli amministratori più coscienziosi. E’ dura la battaglia contro le ecomafie, perché il nemico non è soltanto il cattivo con la coppola. Spesso siamo noi, le vittime, i migliori alleati dei boss. Noi che ci crediamo furbi se «alziamo» dove non è permesso e aspettiamo la «legge buona» per ottenere un piano in più, magari consigliati da qualche amministratore comprensivo.

Prendiamo la storia di Pizzo Sella, a Palermo. Una montagna tutt’altro che solida, coperta da «simpatiche villette» messe su da costruttori non certo inappuntabili, in un luogo dove non c’era un filo d’erba, senza gli allacciamenti di acqua, luce e fogne (arriveranno in seguito, quando gli acquirenti si erano già resi conto di essere stati gabbati). La telenovela giudiziaria che ne seguì è quella classica, annosa: il solito ping pong fra accusa e difesa, ordini di demolizioni via via ammorbiditi, insomma l’eterno accomodamento. È facile scandalizzarsi, più difficile è continuare ad esserlo fino alla rimozione dello scandalo. Ricordate l’ospedale San Giovanni Di Dio ad Agrigento? Vent’anni per costruirlo e 38 milioni di euro, scrive il rapporto Legambiente dello scorso luglio. Ecco, a cinque anni dall’inaugurazione, gli esperti mandati a controllarne la stabilità hanno scoperto che la «resistenza alla compressione» non è quella indicata nel progetto. In parole povere l’edificio è a rischio crollo. Ventidue avvisi di garanzia e ospedale dimezzato.

In questo caso non si tratta solo di dissesto geologico. La vicenda agrigentina prova che oltre alla «normale» ingordigia mafiosa si è aggiunta la «trovata» di guadagnare ancora di più «allungando» la materia prima delle costruzioni (sia private che opere pubbliche): il cemento prodotto dalle innumerevoli «Calcestruzzi». Ecco, la mafia sfascia il territorio con l’insana gestione delle cave («Le cave sono tutte in mano a noi», raccontava ai giudici, nel lontano 1992, il pentito Leonardo Messina). Ma poi non si accontenta: trucca gli appalti, si aggiudica i lavori e li fa eseguire alle proprie imprese col «cemento allungato».

Illuminanti alcune vicende giudiziarie. Proprio a Messina la magistratura ha sequestrato la Messina Calcestruzzi Srl, 40 automezzi, 39 immobili per una valore di 50 milioni di euro, di proprietà dei fratelli Pellegrino. A Messina costruivano solo loro, scrivono i magistrati. Ma con cemento scarso, mettendo a repentaglio gli edifici della città. Anche il cemento utilizzato per la costruzione di un Centro Commerciale a Contesse non era dei migliori e neppure quello dell’approdo di Tremestieri. Resisterebbero, queste costruzioni, ad un nubifragio? Cosa potrebbe accadere in un territorio a così alto rischio sismico?

Stessi accertamenti sono stati eseguiti su altre imprese: presso l’azienda di Borgetto (Palermo) di Benny Valenza, detto il «re del cemento». Solo che anche quello appariva “depotenziato”, col risultato di dover eseguire accurati controlli sulle opere pubbliche di mezza Sicilia: gli aeroporti di Palermo e Trapani, il porto turistico di Balestrate, il lungomare di Mazara del Vallo, il costruendo commissariato di polizia di Castelvetrano, paese natale di Matteo Messina Denaro. Secondo il rapporto di Legambiente, ancora, a rischio sono trenta capannoni dell’area industriale di Partinico. E che dire della Calcestruzzi Spa, emanazione sicula del colosso di Bergamo? E la Calcestruzzi Mazara Spa? Aziende alle prese con la giustizia: processi lunghi e lavori a rischio. Esiste addirittura una black list delle opere pubbliche sospettate di «cemento truccato». Fa paura, questa black-list: viadotto di Castelbuono (Pa); la galleria Cozzo Minneria dell’autostrada Messina-Palermo; la superstrada Licata-Torrente Braemi ad Agrigento; il Palazzo di Giustizia di Gela e il padiglione nuovo dell’Ospedale di Caltanissetta. Altro che nubifragio.

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 03, 2009, 02:39:43 pm »

Parla il presidente dell'Ordine, Graziano: "Abusivismo, nessuna manutenzione, pochi fondi e competenze divise.

Così ogni anno con le prime piogge tornano le stesse emergenze"

"Un uso scellerato del territorio" L'accusa dei geologi siciliani


MESSINA - Era annunciato anche questo. Come molti altri disastri che hanno a che fare con nubifragi (in fondo solo nubifragi) che si abbattono in zone del Paese dove la pianificazione del territorio è stata, è, e purtroppo sembra che sarà, solo un'opzione trascurabile. E' dunque la solita storia di licenze e di costruzioni abusive, senza regole, il risultato dell'applicazione del celebre metodo: "Se hai un amico nel posto giusto puoi fare quello che vuoi". Il presidente dell'Ordine dei geologi della Sicilia, Gian Vito Graziano, commenta così gli effetti del nubifragio che si è abbattuto nella notte sul Messinese, provocando morti e distruzione.

"Nelle zone a sud di Messina, ma anche in altre province come Palermo, ogni anno si ripropongono sempre gli stessi problemi avvicinandosi ai mesi più piovosi. Oggi - prosegue il professore - esistono strumenti di pianificazione regionale avanzati, che ci fotografano la situazione quasi in diretta, ma non si interviene. La colpa è di un'assenza cronica di fondi, ma anche la manutenzione ordinaria, come la pulizia di canali, fiumi e tombini, non viene fatta".

"Quella del Messinese è una zona con una situazione idrologica molto diffusa, con grandi e piccoli torrenti: che già di per sè rappresentano un reticolo idrografico diffuso in grado di produrre una certa instabilità. Se poi a questo si aggiungono la non manutenzione e un uso scellerato del territorio, con costruzioni che non dovrebbero esserci, il quadro è completo", dice ancora Graziano.

Il quale dà colpa anche alla confusione che c'è nelle competenze "molto divise" tra Regione Sicilia e protezione civile."Per noi sarebbe importante mettere in atto tutti gli interventi previsti dai piani della protezione civile, regionali e locali, con persone sul posto come sentinelle per prevenire gli eventi. Ma non si sa se si farà mai. In italia purtroppo - conclude Graziano - si vive sull'onda dell'emozione, poi appena smette di piovere finisce anche l'allarme".

(2 ottobre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 03, 2009, 02:40:46 pm »

Nubifragio in Sicilia, decine di vittime

Si continua a scavare nel fango  a pochi chilometri da Messina, dove si cercano ancora 35 dispersi nell'alluvione che ha spazzato le due vallate. Sono 18 i morti accertati finora ma col passare delle ore diminuiscono le possibilità di ritrovare  persone ancora in vita. I soccorritori hanno lavorato, per quanto possibile anche durante la notte in condizioni di estrema difficoltà.

«Purtroppo, la situazione è molto problematica - ha confermato il premier Berlusconi - . C'è il paese completamente isolato e ci sono colate di fango e smottamenti.
Stiamo trasportando le persone, 5 per volta, con gli elicotteri dell'esercito. Ci sono di sicuro una ventina di morti e trenta dispersi. Alla fine ci saranno almeno 50 morti». Berlusconi probabilmente visiterà oggi le zone colpite.

A 36 ore dall'alluvione che ha investito Messina portando distruzione e morte si continua a lavorare nelle zone colpite, una fascia di 3 km e mezzo che comprende Briga Marina, Giampilieri, Molino e Scaletta Marea, alla ricerca dei dispersi.

Nella notte è stata completata l'evacuazione di Giampilieri: 435 persone che si erano rifugiate nella scuola elementare del paese sono state trasferite con degli autobus in alcuni alberghi a Messina dopo che i mezzi di soccorso sono riusciti a liberare la strada che collega la piccola frazione con la provinciale 114.  C'era il timore di una nuova frana, una nuova mnassa di fango che avrebbe potuto travolgere anche gli edifici scampati al primo disastro.

Alle prime luci dell'alba si è inoltre ripreso a scavare nel fango, perchè nel paese vi sarebbero almeno altre due persone, due fratelli, che risultano dispersi.
Si scava ancora a Scaletta Zanclea, il comune completamente devastato dalla massa di fango venuto giù dalle colline. Secondo il sindaco Mario Briguglio, vi sarebbero ancora sotto le macerie del paese sei persone, tutti cittadini abitanti che si trovavano in casa quando è arrivata l'ondata di fango, mentre sono sei i cadaveri che sono già stati estratti dalle case.

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, da Matera, dove si trova in visita, si è messo in contatto con il prefetto di Messina, Franco Alecci, per informarsi sulla situazione e il consiglio dei ministri, riunitosi stamani, ha varato lo stato di emergenza per affrontare una situazione che il capo della protezione civile Guido Bertolaso, giunto sul posto, ha definito «molto seria e molto critica».

I primi due corpi ad essere identificati sono un uomo di quarant'anni, Pasquale Bruno, travolto e soffocato dal fango nella piazza di Giampilieri. E un pensionato di 70 anni, Francesco De Luca, annegato nello scantinato della sua casa rurale, in contrada Vallone, sempre in territorio di Giampilieri. Un altro cadavere e' stato recuperato all'interno di un'auto trovolta da un torrente in piena nei pressi di Scaletta Zanclea.

Alcuni abitanti delle zone colpite si sono rifugiati sui tetti delle case per sfuggire al torrente di acqua fango, sono stati soccorsi con l'elicottero della protezione civile. Nella zona sono al lavoro uomini dell'esercito, dei vigili del fuoco e della protezione civile.

Una nave delle capitanerie di porto ha trasportato una cinquantina di persone, diverse delle quali ferite, dalla costa messinese verso la città. Una quindicina i feriti fino ad ora ricoverati al Policlinico di Messina: tra loro anche due ustionati a causa dello scoppio di una bombola di gas a causa della frana che ha travolto il paese di Scaletta.

 
03 ottobre 2009
da unita.it
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 05, 2009, 10:00:20 pm »

28/9/2009

Sangue e immagini sacre come simboli del potere
   
FRANCESCO LA LICATA


Un’intera generazione di mafiosi siciliani è cresciuta nel mito dell’iniziazione. Specialmente quei picciotti che il «titolo» non potevano conseguirlo per diritto di discendenza, non essendo nati in una famiglia «blasonata». Già sono proprio i parvenu, quelli senza storia, quelli che ogni giorno devono dimostrare qualcosa, ad essersi formati nel sogno del giorno della «cerimonia». Il mafioso non ama il termine affiliato: troppo raffinata, quella parola. No, l’oscuro oggetto del desiderio dell’apprendista mafioso è quello di essere «combinato», che nel baccaglio criptico di Cosa nostra significa entrare far parte «legittimamente» della «famiglia».

Potrà far sorridere i raffinati analisti che si occupano della materia, ma il giuramento di mafia ha una importanza fondamentale nella sua storia secolare. Far parte di Cosa nostra per essere stato accettato in una cerimonia, ristretta ma risaputa all’esterno seppure senza mai essere stata pubblicizzata, è il simbolo del potere mafioso. Si entra come in un club esclusivo e la vita del neofita cambia dal giorno alla notte. Raccontava Tommaso Buscetta di come entrò nella considerazione dell’intero quartiere appena si «sparse la voce» che era stato «combinato».

E non è diverso negli Stati Uniti, o almeno in quella comunità mafiosa. Henry Hill è il pentito che ha ispirato il capolavoro di Scorsese, Goodfellas. La storia di un gruppo criminale «giovane», parallelo alla mafia ma non mafioso. Ricchi, spietati e sanguinari eppure sempre col fiato sul collo del boss vero che li «gestisce» in modo da non farli entrare in conflitto con la «casa madre». E così Henry si inorgoglisce quando i ragazzini del quartiere portano la spesa a casa della madre «semplicemente per rispetto», anche se per lui non c’è mai stato il privilegio dell’affiliazione. In quella storia, poi raccontata al cinema da Scorsese, l’aspirante mafioso è Tommy De Vito (splendidamente interpretato da Joe Pesci, che prese l’Oscar nel ‘91), l’unico del gruppo che «ce la può fare» grazie al rapporto diretto con un parente boss. Ma Tommy è matto e sanguinario, quindi inaffidabile e incontrollabile e per questo verrà ucciso, proprio il giorno dell’iniziazione, dopo una notte insonne per l’eccitazione e una lunga seduta allo specchio trascorsa a beccare la giacca e la cravatta giuste, sotto lo sguardo compiaciuto della madre che vede coronarsi il sogno proibito del figlio non più giovanissimo, ma finalmente vicinissimo alla «consacrazione».

Victoria Gotti descrive l’affiliazione del fratello John jr. La scena è la stessa che raccontano i mafiosi siciliani: l’immaginetta sacra fatta bruciare nelle mani dell’affiliando che giura fedeltà e omertà in difesa della «famiglia». La goccia di sangue, però, non è sua, appartiene addirittura al «padre nobile» non presente alla cerimonia per non esporsi ad eventuali critiche di nepotismo.

Il luogo è un appartamentino di Little Italy, un posto sobrio che non dà nell’occhio. In Sicilia erano i casolari di campagna o qualche capannone delle borgate attorno alle città. Il boss di Riesi, Giuseppe Di Cristina, raccontava di essere stato affiliato e «punciuto» con una spilla d’oro secondo la tradizione di quella «famiglia». Nella borgata di Altarello, a Palermo, la «punciuta» veniva fatta con la spina di un albero di arancio amaro. Salvatore Grigoli, il killer di padre Puglisi, ora pentito, ha raccontato: «Quando sono stato combinato mi sono sentito un’altra persona. Ho visto subito che la gente mi guardava in un altro modo. Mi rispettavano quasi per un miracolo divino». Ecco perché la mafia è così radicata ed ecco perché anche un pentito come Henry Hill, seppure «convertito», ha ammesso senza difficoltà: «Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster».

da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 07, 2009, 04:14:19 pm »

7/10/2009

Sono lontani i morti di Messina
   
FRANCESCO LA LICATA


Sarà l’impressione di un siciliano malpensante ma quest’ultima tragedia, l’annunciata e non scongiurata frana messinese, ci sembra la conferma più evidente del profondo solco che si sta scavando fra le due Italie («il Nord operoso il Sud cialtrone»), complice una politica che - per stare in piedi - molto concede alle discutibili pulsioni umane.

E così, senza che nessuno se ne vergogni, siamo arrivati a cinque giorni dal «fatto» senza neppure sapere quante sono effettivamente le vittime uccise dal fango. I responsabili dell’emergenza, gli stessi dei quali abbiamo avuto modo di ammirare rapidità ed efficienza in occasione del tragico terremoto abruzzese, ogni giorno si fanno schermo dell’ambiguità del termine «dispersi», l’unico che consenta di evitare la semplice ammissione che i morti sono più numerosi di quelli accertati.

Non parliamo, poi, dei soccorsi. Le cronache e i servizi dei telegiornali, seppure attenti a non cedere allo «sfascismo», hanno consegnato al Paese la semplice verità che queste vittime meridionali sono un po’ diverse dalle altre.

I giornali ci hanno detto che i volontari «scavavano con le mani». E perché? Verrebbe da chiedersi. La risposta si può trovarla nelle stesse immagini del dopo tragedia: abiti accatastati alla meglio e distribuiti senza il rispetto di priorità, per il semplice fatto che tutto sembrava affidato all’improvvisazione. «Qualcosa da mangiare, qualche genere di prima necessità è arrivato», ammetteva un ragazzo dal volto esausto e senza nessuna «etichetta» organizzativa. Poi abbiamo appreso che il numero più alto di salvataggi è stato compiuto da un anonimo giovane, incredibilmente terrone, che - vinto dalla fatica - è andato a morire in mezzo a quella tempesta di fango annunciata poche ore prima come «allarme meteo». Pochi ricordano che si chiamava Simone Neri, nessuna autorità lo ha proposto per una medaglia al valore, lo commemorano solo gli abitanti di Facebook. È proprio vero che neppure i morti sono uguali e la Livella è soltanto utopia del grande artista. D’altra parte basta prestare orecchio ad alcuni commenti, adesso che l’emozione è ancora più fredda, per verificare come la sciagura siciliana si appresti ad essere relegata al posto che «merita»: «Sono cose loro, se le risolvessero senza alcuna pretesa di poter usufruire delle risorse del Paese». Esattamente come per le mafie, i mali del Meridione vengono liquidati come fossero soltanto «scelte» dei cittadini di quelle latitudini.

«Perché Messina non scalda i cuori», spiegava ieri il commento di Libero che non aveva in prima altri titoli sull’alluvione in Sicilia. Il Paese ha assistito a quella tragedia, è la spiegazione, pressappoco «nel modo in cui apprende di una catastrofe nel Terzo Mondo». Una «lontananza» motivata dall’ineluttabilità del male in un territorio dove le cose non cambieranno mai. Ma dove porta il ragionamento? Ovviamente all’unico argomento che sembra muovere il mondo: i soldi. Ognuno faccia fronte ai propri guasti, con le proprie risorse, senza che il Nord debba pagare i guasti del Sud. E se i poveri morti di Messina non scaldano i cuori, non c’è da meravigliarsi che tutta la macchina della solidarietà - di solito esaltante, come abbiamo visto in Abruzzo - in Sicilia si sia mossa fuori sincronia.

da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Ottobre 09, 2009, 12:17:23 pm »

9/10/2009
 
Quel sipario nero squarciato in diretta
 
 
FRANCESCO LA LICATA
 
E’ proprio vero: una storia esiste solo se va in tv. Della trattativa fra Stato e Cosa nostra, nel corso degli ultimi anni, è stato detto tutto e il contrario. Sono stati scritti libri rimasti nella nicchia degli addetti ai lavori e agli appassionati delle spy story. Ieri sera, però, la trattativa è nata ufficialmente perché ha fatto il suo pubblico ingresso nell’arena politica di una trasmissione «politica».

E’ questo il merito principale della puntata di Annozero, insieme con una puntualizzazione fondamentale, anche per la magistratura che indaga sullo stragismo mafioso. Ieri sera l’ex ministro della Giustizia, Claudio Martelli, ha detto a chiare lettere che Paolo Borsellino sapeva dell’esistenza di una trattativa con Cosa nostra portata avanti da ufficiali dei carabinieri del Ros. Una versione finora smentita dal prefetto Mario Mori e dal col. De Donno, allora in forza al Ros. Una testimonianza confermata - secondo l’ex guardasigilli - dalla più stretta collaboratrice di Giovanni Falcone, Liliana Ferraro, informata da uno degli ufficiali coinvolti, Giuseppe De Donno in quel momento capitano. E’ uno squarcio non da poco, perché legittima i sospetti su tutto quel che, nel tempo, è venuto fuori: i depistaggi, i processi che si devono riaprire perché «truccati», gli strani personaggi istituzionali che entrano ed escono, un po’ guardie un po’ ladri, le amnesie di autorevoli rappresentanti delle Istituzioni. Insomma, il «pozzo nero» delle stragi del ‘92 e del ‘93 esiste. L’abbiamo visto in tv.
 
da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Ottobre 10, 2009, 04:26:34 pm »

10/10/2009

Mafia, si cerca un colpevole

Uno qualunque
   
FRANCESCO LA LICATA


Sollecitato dal detonatore mediatico di Annozero, il tema delle stragi mafiose del ’92 e del ’93, ma soprattutto quello della trattativa intavolata dallo Stato con la mafia per farle cessare, è tornato prepotentemente alla ribalta.

La miccia, si sa, l’ha innescata l’ex Guardasigilli - Claudio Martelli - riferendo (tardivamente, visto che sono trascorsi 17 anni) un episodio riferitogli a suo tempo da Liliana Ferraro, la più stretta collaboratrice di Giovanni Falcone fino a quel tragico 23 maggio 1992.

Ha detto Martelli alle telecamere di Annozero che l’allora capitano dei Ros Giuseppe De Donno era andato a riferire alla Ferraro dell’esistenza di una possibilità di collaborazione di Vito Ciancimino, nel tentativo di fermare le stragi di Cosa nostra. Di tutto ciò, quindi, fra il 21 e il 23 giugno del ’92, Paolo Borsellino sarebbe stato informato dalla stessa Ferraro.

Come spesso accade quando la cronaca, per sua natura tutt’altro che certa e definitiva persino nei tribunali, approda alla ribalta mediatica, si è liberata un’incontrollata ridda di voci, ipotesi e reazioni che, piuttosto che semplificare la già ingarbugliata vicenda, la rendono ancora più difficile da decifrare. La prima conclusione avventata sembrerebbe proprio la presunta reazione di Borsellino alla notizia della trattativa. Sapeva, era contrario ed è morto per questo. Ma è proprio così? E se era contrario, a chi ha esposto la propria contrarietà? Vuol dire che dovremo aspettarci ulteriori rivelazioni da altri soggetti che ebbero contatti con Borsellino? Senza considerare che resta incomprensibile come sia potuto accadere che il candidato alla successione a Giovanni Falcone a capo della Procura nazionale sia rimasto silente per 25 giorni, senza avvertire la necessità di condividere con qualche amico fidato quanto aveva appreso. Ma questa sarà materia dei prossimi accertamenti.

L’affare, dicevamo, invece di chiarirsi si complica. E non viene in soccorso la ritrovata memoria di tanti protagonista di quella stagione. S’è dovuto attendere l’inatteso pentimento del mafioso Gaspare Spatuzza, poi l’imprevedibile collaborazione di Massimo Ciancimino (figlio di don Vito, il dominus della trattativa con Totò Riina) per assistere a una serie di ammissioni che confermano quanto sbandierato in numerosi processi dai collaboratori: l’«Esistenza della trattativa era a conoscenza pure delle pietre». E allora viene da chiedersi se negli anni scorsi, lunghi anni di indagini, sia stato fatto tutto quanto necessario per giungere alla verità. L’iniziativa dei carabinieri del Ros non è mai stata un mistero, dal momento che già a Caltanissetta e Firenze gli stessi ufficiali l’hanno raccontata nei particolari, seppure descrivendola - e non poteva essere diversamente - semplicemente come un tentativo finalizzato alla cattura dei vertici corleonesi. Ma Vito Ciancimino non è mai stato chiamato in un’aula di giustizia, né qualche magistrato è mai andato a trovarlo in carcere o a casa (quando era ai domiciliari) per approfondire la sua versione dei fatti. Eppure almeno fino al 19 novembre del 2002, data della sua scomparsa, appariva frequentabilissimo, come ha spiegato in tv il figlio Massimo, rivelando che nella casa di Piazza di Spagna, a Roma, don Vito ricevette la visita del latitante Bernardo Provenzano.

E’ comprensibile che nella vicenda abbia pesato una certa «ragion di Stato». Ciò che risulta meno accettabile è che in nome del primato della politica (una politica trasversale, visto che negli anni si sono alternati governi di segno opposto) una verità parziale sia stata offerta ai famigliari delle vittime come frettoloso risarcimento al lutto. Né ciò che si profila all’orizzonte sembra poter sanare il deficit di verità. Esposti al fuoco incrociato mediatico restano le solite prime file, spesso in funzione di parafulmini. Sullo sfondo restano le responsabilità politiche, spesso pronte a scaricare in basso il peso delle sconfitte e a rivendicare il merito dei successi. Si intravede già oggi la necessità della riapertura del processo sulla strage di via D’Amelio, minato dalle rivelazioni giunte da Gaspare Spatuzza e Massimo Ciancimino che inficiano indagini non esaltanti del passato. Sarebbe auspicabile che non venisse praticata la via breve della ricerca di un capro espiatorio, uno qualunque.

da lastampa.it
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