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« inserito:: Settembre 23, 2009, 05:59:29 pm » |
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La sfida del clima
Il vuoto dietro i proclami
«Yes we can, ma io non sono pronto», ironizza il negoziatore dell’Onu sull’ambiente, Yvo de Boer, sintetizzando in una battuta le difficoltà di Obama che vorrebbe voltare pagina dopo gli anni di Bush e del rifiuto del protocollo di Kyoto, ma è frenato da mille ostacoli. Il rischio è quello di un «nulla di fatto» al summit di dicembre a Copenaghen, convocato per varare la nuova politica planetaria contro il «global warming».
Dal presidente «petroliere» del Texas che addirittura negava l’esistenza del problema al nuovo leader amico dei «verdi», sul banco degli imputati finisce l’America che, da sola, emette un quarto dei «gas serra» prodotti nel mondo. Ma la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, fortemente voluta dal segretario generale Ban Ki-Moon per suscitare una reazione a quella che ha definito la «lentezza glaciale» dei negoziati, ha dimostrato ieri che i problemi non vengono solo da Washington: gli Usa sono oggi la maggior fabbrica di CO2, ma Cina e India, che presto le contenderanno il primato dell’inquinamento, continuano a non accettare, a loro volta, limiti severi e vincolanti. Ieri i leader dei due giganti asiatici hanno ammesso che è venuto anche per loro il momento di assumersi alcune responsabilità sul clima, ma hanno ribadito di non accettare impegni quantitativi.
Una posizione, tutto sommato, non molto distante da quella degli Usa: davanti a cento capi di Stato, ieri Obama ha assicurato che l’America farà la sua parte perché «se non agiamo ora le generazioni future andranno incontro a una catastrofe irreversibile». Ma intanto il suo negoziatore, Todd Stern, ha rifiutato di assumere impegni quantitativi precisi verificabili e sanzionabili da un’autorità internazionale. Davanti al malumore degli europei, Stern ha accusato i partner di non capire le dinamiche della politica americana. Che oggi è dominata dalla battaglia campale sulla riforma sanitaria ed è condizionata da un Senato che, per l’accavallarsi degli appuntamenti in calendario e la difficoltà di costruire una solida maggioranza sull’ambiente, difficilmente voterà le misure anti «global warming» prima di Copenaghen.
Difficoltà che trovano l'Europa impreparata, senza idee. I partner della Ue ieri hanno convinto a fatica un indispettito Rasmussen, il premier danese, a non annunciare all’Onu che tra 75 giorni a Copenaghen verrà discussa solo una dichiarazione politica, non un trattato. Poco prima il francese Sarkozy, che parlava anche lui alla conferenza convocata per sbloccare il negoziato, non aveva trovato di meglio che proporre un altro summit preparatorio, da tenere a novembre. Si spera nell’impegno personale dei leader, ma nemmeno loro possono molto perché spesso parlamenti e opinioni pubbliche sono contrari a cessioni di sovranità anche sull’ambiente: negli Usa Kyoto, approvato da Clinton, fu affondato dal Congresso assai prima che da Bush. Obama non vuole rischiare il «bis». Pragmaticamente il suo ministro dell’Energia, Steven Chu, dice che, contro i «gas serra», spera più nelle nuove tecnologie pulite che nelle conferenze internazionali. La prima centrale a carbone che immagazzina il CO2 nel sottosuolo, anziché disperderlo nell’aria, entrerà in funzione dopodomani in West Virginia. Se funziona, può aiutare a voltare pagina.
Massimo Gaggi 23 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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