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Autore Discussione: Livia TURCO.  (Letto 9437 volte)
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« inserito:: Agosto 10, 2007, 05:12:23 pm »

Una sfida per il bene comune

Livia Turco


Sono grata ad Alfredo Reichlin per avere, con la consueta profondità e passione, richiamato noi tutti ad una forte assunzione di responsabilità verso il progetto che abbiamo deciso di perseguire con la nascita del PD. E di aver rammentato la densità di quel progetto e il senso di un passaggio storico. Richiamando ciascuno di noi a svolgere una funzione dirigente. Che vuol dire: responsabilità di mettere in campo idee; responsabilità di costruire una solidarietà tra persone a partire dal reciproco riconoscimento; responsabilità di costruire i luoghi e le regole perché ciascuno sia protagonista e dia il meglio.

Il discorso di Veltroni a Torino ci sollecita a questo esercizio della responsabilità.
Mi interessa il punto centrale attorno a cui si snoda la riflessione di Reichlin. L’Italia ha bisogno di una rivoluzione democratica per rendere più efficienti ed inclusive le forme e le regole della democrazia. Solo così, infatti, l’Italia potrà tornare a crescere e competere sul piano globale e potrà diventare attore di uno sviluppo umano e sostenibile. Io credo, anche sulla base di ciò che sto imparando dall’esperienza di governo, che questa rivoluzione democratica debba riconsiderare, rivalutare e promuovere una più forte percezione del senso del «bene comune» debba proporsi come democrazia dell’«individuo responsabile» per costruire una «società dei diritti e dei doveri».

Ecco, vorrei che tra le parole chiave del PD ci fossero proprio queste: la responsabilità, i diritti e i doveri. Perché esse nel nostro tempo possono essere in grado di scandire la cittadinanza come promozione della dignità della persona ed arricchire la libertà personale. D’altra parte, come ci conferma l’esperienza di governo, per far tornare a crescere l’Italia, per renderla più equa, più autorevole e capace di svolgere una funzione sul piano globale, bisogna vincere egoismi, corporativismi, ed avere come missione proprio la promozione dell’interesse nazionale, del bene Paese, insomma del bene comune. Il che richiede che l’Italia si ricomponga, diventi unitaria e, a partire dai suoi Comuni e dalle sue Regioni, diventi una Nazione. È la sua collocazione geopolitica che sollecita questa sua ricomposizione: pienamente in Europa e pienamente nel Mediterraneo. E questa duplice integrazione corrisponde alla vocazione del nord e del sud dell’Italia. Che però non possono dividersi i compiti e dunque separarsi ma, al contrario, devono interagire e diventare sempre più parti di un unico e unitario Paese. Per questo non mi convince un’impostazione del problema del nord quasi in termini secessionisti e comunque rinunciatari della costruzione dell’unità del Paese. Ma non c’è solo bene comune inteso come crescita e sviluppo del paese. Ci sono tanti «beni comuni» indispensabili per la vita e il benessere delle persone. La salute, l’ambiente, la formazione, l’informazione, la legalità, sono beni primari della vita delle persone. Ma essi non sono godibili e fruibili solo in termini di diritti individuali. Essi richiedono una cura comune, una presa in carico da parte di tutti. Essi non solo devono essere goduti ma devono essere promossi, tutelati dalla responsabilità delle istituzioni e di tutti i cittadini. Per questo i diritti sono anche doveri. Anche perchè molti problemi, come quelli ambientali, cambiamenti climatici inclusi, o quelli della salute non hanno solo a che fare con la scarsità delle risorse. Semmai con il loro uso sconsiderato.

Per questo è essenziale mettere l’accento sulla responsabilità, sul dovere verso se stessi e verso gli altri. Penso alla salute. Le patologie responsabili dell’oltre 60% delle morti dei nostri cittadini (cardiovascolari, tumorali, diabete, ed altre) sono prevedibili ed evitabili con stili di vita corretti, a partire dall’alimentazione, dal movimento, dal rifiuto del tabagismo e dell’alcolismo. L’adozione di stili di vita salutari, gli unici che possono davvero prevenire patologie invalidanti e far risparmiare i sistemi sanitari (come ci ricordano la UE e i successi conseguiti da Paesi quali la Finlandia e l’Inghilterra), presuppone che il diritto alla salute sia declinato non solo come diritto ad avere le cure e le prestazioni necessarie ma anche come «dovere di non ammalarsi». Ciò richiede che il cittadino sa informato e diventi competente nella promozione della sua salute e che la sua competenza sia utilizzata per valutare l’efficacia dei sistemi sanitari. Insomma, il riconoscimento di un diritto e l’esercizio di un dovere sono le due facce della stessa medaglia. Sono i due aspetti inscindibili della dignità e libertà personale. E l’esercizio di un dovere non si configura solo come rispetto delle regole ma come contributo attivo del singolo alla promozione della comunità e della cosa pubblica. La strategia dei diritti e dei doveri è, peraltro, quella che consente il riconoscimento della dignità dell’«altro» e dunque la costruzione di una società plurale ed aperta. Si tratta solo di uno spunto, che considero però cruciale e che mi piacerebbe sviluppare con altri/e.

Pubblicato il: 10.08.07
Modificato il: 10.08.07 alle ore 10.11   
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 09, 2007, 07:37:10 pm »

Livia Turco: «Tolleranza zero contro la povertà»
Andrea Carugati


«Basta con la retorica del meno tasse. Il welfare non è solo una questione di prestazioni, ma un'idea di società, di comunità. E per il Pd la vera missione deve essere la tolleranza zero verso la povertà. Non possiamo ricordarci che esiste a giorni alterni, o pensare che sia qualcosa di ineluttabile». Livia Turco, ministro della Salute, si schiera in modo netto. E lo fa rispondendo alla lettera (il contenuto riportiamo in alto in questa pagina) di un nostro lettore, Aldo Assoni, iscritto ai Ds, lavoratore autonomo.
Ministro Turco, siete troppo distratti verso i cosiddetti "ceti medi"?
«L'impegno per il risanamento che il governo ha affrontato quest'anno riguarda tutti, compresi i ceti medi. Era necessario farlo, altrimenti il Paese non ripartiva. Poi abbiamo scelto di aiutare i ceti più deboli, con un aumento delle detrazioni Irpef per i figli a carico e assegni familiari per i lavoratori dipendenti e per gli autonomi con reddito basso. Siamo partiti da qui, è stata una scelta precisa. L'altra cosa che abbiamo fatto, e che faremo anche con la manovra di quest'anno, è stato investire sulla sanità pubblica, che serve ai più deboli ma anche al ceto medio. Come ci ricorda anche Michael Moore, non è una cosa scontata: senza la sanità pubblica quante famiglie, anche di ceto medio, farebbero fatica a pagarsi una polizza che copra tutte le patologie? La lettera del vostro lettore però non deve essere delusa perché individua un problema grande: il welfare, che è stato costruito storicamente sul maschio adulto capofamiglia e lavoratore dipendente, deve cambiare, per colmare due vuoti: i più poveri e gli autonomi.
Cambiare in che modo?
«Nel Dpef ci sono due elementi fondamentali in questa direzione: una "dote fiscale" per i figli a carico, che vuol dire una generosa detrazione fiscale che riguarderà tutte le famiglie, naturalmente sulla base del reddito. E poi una riduzione Ici e uno sgravio Irpef analogo per gli affitti. Queste sono misure pensate appositamente per il ceto medio. E poi c'è il piano per gli asili nido...».
A proposito, non sarà che voi tagliate l'Ici e poi i Comuni alzano le rette per gli asili, le mense. E solo i più poveri vengono esentati?
«Siamo stati noi, con il primo governo di centrosinistra, a introdurre l'accertamento del reddito per accedere alle prestazioni sociali: mi sembra una scelta equa. Il problema degli asili è far sì che accedano più famiglie possibile, per questo ne vogliamo costruire di nuovi. Se li aiutiamo, i Comuni potranno anche abbassare le tariffe. Asili e anziani non autosufficienti sono le due vere emergenze che incidono sui redditi familiari, anche quelli non bassi. E infatti con il ministro Ferrero stiamo preparando una legge per gli anziani che presenteremo nei prossimi giorni. Nella scorsa finanziaria c'è stato una stanziamento simbolico su questo: ora serve un vero incremento di risorse.
Il nostro lettore ci scrive che nelle periferie del Nord, nelle famiglie "normali", si sta «esaurendo la riserva di solidarietà». e un concetto duro ma chiaro...
«Per evitare che queste batterie si scarichino bisogna collocare in modo giusto se stessi, il proprio benessere e il proprio futuro: c'è benessere per tutti se ciascuno ha la percezione che il Paese ce la fa, che rinasce. Il problema non è dividere l'Italia in categorie, ma pensare all'insieme: quando penso al futuro di mio figlio non riesco a disgiungere le sue opportunità da quello che sarà l'Italia nel suo insieme. Se si assume quest'ottica si possono ricaricare le riserve della solidarietà. Se non pensiamo, anche alle periferie, come luoghi in cui ci incontra, si può stare bene insieme, è difficile pensare di poter essere davvero sicuri. Il nostro messaggio è questo: porre l'accento sul "noi", sul bene comune, combattere i corporativismi, parlare di diritti ma anche di doveri. Altrimenti saremo tutti più poveri, insicuri e soli».
Belle parole, ma poi l'andazzo di questa Italia è un altro. Lei crede che il centrosinistra abbia davvero proposto un modello diverso?
«Nel descrivere la nostra idea di società siamo stati un po' contraddittori. Al nostro lettore voglio dire che è giusto allargare le tutele anche al ceto medio, ma la vera tolleranza zero è quella contro la povertà. Secondo me è questa la vera missione del Pd. Non possiamo scoprire la povertà solo a ondate alterne. Non ci può essere relativismo etico verso la legalità? Sono d'accordo, le regole le devono rispettare anche i lavavetri. Ma non si può pensare che la povertà sia inevitabile.
Insomma, lei non vuole un Pd che si sposta verso i ceti medi e dimentica gli ultimi. Non vuole rubare a Pisanu i voti moderati?
«L'ho già detto: il welfare si deve allagare. Dico di più: ha senso che esistiamo solo se questi due aspetti, i più poveri e i ceti medi, li "teniamo" entrambi. Ma il patto deve essere chiaro: welfare per tutti, ma questo ha un costo. E le tasse vanno pagate. Prodi ha ragione: è l'evasione l'emergenza italiana».
Cosa pensa della richiesta di abbassare le tasse, che arriva anche dal cuore del nascente Pd? Per lei è la priorità?
«Welfare significa un giusto equilibrio tra tasse e politiche pubbliche. La destra vuole ridurre le tasse e propone zero welfare: ma così anche il reddito più alto non ce la fa, perché poi ha bisogno della sanità pubblica, di qualcuno che si occupi degli anziani. Dunque basta con la retorica del meno tasse».
Lo dice anche ai suoi colleghi del Pd?
«Io penso questo, se qualcuno si sente chiamato in causa... Ma se sto agli atti di governo mi pare che la mia sia l'impostazione del Dpef».



Pubblicato il: 09.09.07
Modificato il: 09.09.07 alle ore 15.04   
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 19, 2007, 12:26:44 am »

Il Pd guardi a sinistra
Livia Turco


Una casta di privilegiati apparentemente incapace di risolvere i problemi, di indicare obiettivi, mete, traguardi. Lontana dal bene comune e poco incline a promuovere un senso civico condiviso. Questa è la politica oggi per molti cittadini. In questa percezione pesano sicuramente elementi di autoreferenzialità, di inefficienza, di privilegio che dobbiamo combattere e superare. A partire dalla riforma della legge elettorale e delle regole istituzionali. Ma questo malessere diffuso è anche frutto di una martellante campagna che tende volutamente ad indebolire la politica, liquidando l’idea della democrazia basata su grandi soggetti collettivi per sostituirla con una politica debole anche se incarnata da un leader carismatico.

Debole perché priva della forza collettiva della partecipazione, in balia del potere mediatico e dei poteri forti della società. Per questo la costruzione del Pd come partito popolare radicato nella società, aperto e plurale, è la risposta più efficace alla strategia dell’antipolitica. È un pezzo fondamentale della riforma del sistema politico.

Dunque è importante che tanti partecipino alle primarie del 14 ottobre. È importante avere tra questi coloro che oggi sono silenti e che percepiscono la politica come inutile o come un «rumore» lontano rispetto ai loro assilli quotidiani, dal costo dei figli al costo della casa, dal reddito insufficiente alla solitudine di fronte alla malattia. C’è una crisi della politica anche perché c’è una crisi sociale. C’è un distacco dalla politica anche perché per tanti essa non risulta capace di promuovere i diritti fondamentali. A loro prima di tutto deve rivolgersi il Pd. Ed è questo il contributo che vorrei dare. Per dire che il Pd non si limita a parlare di equità ma si impegna ogni giorno per superare le discriminazioni, per migliorare i redditi bassi, per combattere la precarietà, per praticare la tolleranza zero contro la povertà. A partire dallo scandalo della povertà minorile. Per dire che il Pd vuole costruire una società in cui non ci siano più gli ultimi e i penultimi perché tutti siano primi nella dignità e nel rispetto della persona.

D’altra parte il superamento delle disuguaglianze è questione che attiene alla qualità dello sviluppo di un Paese perché esse sono un ostacolo e un limite allo sviluppo medesimo e non soltanto una ingiustizia. La lotta alla povertà e alle disuguaglianze deve configurarsi al contempo come fine e mezzo della crescita economica e dello sviluppo. Questa è la sfida del governo di centrosinistra, questa è la sfida del Pd. Ricordandoci la lezione di Norberto Bobbio, «l’eguaglianza è la stella polare della sinistra», dobbiamo essere consapevoli che promuoverla è la più impegnativa azione di governo perché richiede il massimo di coerenza, di rigore nella definizione del rapporto tra obiettivi e compatibilità. E la promozione dell’eguaglianza coincide in larga parte con la costruzione di un’equità tra le generazioni. Lavorare tutte e tutti, lavorare meglio, lavorare più a lungo: questi i pilastri del nuovo patto generazionale che dobbiamo costruire.

Ma eguaglianza oggi significa anche ricostruire la società del «noi», della responsabilità, del rispetto verso chiunque e ciascuno. Per questo la promozione dell’uguaglianza richiede una forte innovazione delle politiche di tutela della cittadinanza. Richiede che l’universalismo sia selettivo, cioè capace di differenziare le politiche per essere realmente inclusivo. Richiede che ai diritti si accompagnino i doveri e che l’equità si accompagni con l’efficienza nell’uso delle risorse.

Del resto anche le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche, le nuove opportunità di cura, come i rischi di manipolazione e commercializzazione del corpo umano e il vivere più a lungo con la malattia, creano nuove forme di disuguaglianza e delineano la promozione dell’uguaglianza come cura intransigente della dignità umana.

In questo senso l’eguaglianza è legata alla democrazia perché ne costituisce la sostanza. L’eguaglianza è legata alla laicità perché senza di essa prefigura esclusioni e discriminazioni e ci ricorda come l’agenda politica di un paese non sia più un’agenda nazionale ma globale.

È decisivo allora che il riformismo del Pd sia ogni giorno un riformismo europeo. L’Europa è la dimensione entro cui collocare la nostra azione quotidiana di governo, il nostro pensiero, la nostra battaglia politica e culturale anche per far crescere nel Paese la consapevolezza di una cittadinanza europea. Ed allora la collocazione internazionale del Pd è questione cruciale. Ora lasciata sullo sfondo. Ma su cui sarà necessario costruire la mediazione necessaria all’interno di scelte chiare. Resto convinta che la strada non sia quella di un Ulivo europeo ma di una profonda trasformazione di quella che oggi è la casa dei riformisti, vale a dire il socialismo europeo, per renderlo capace, con le tappe necessarie, di diventare la casa dei socialisti e dei democratici. Questi sono i contenuti e i valori che più mi stanno a cuore nella costruzione del Pd.

Ci sono tre liste a sostegno di Veltroni. Non sono tra loro in competizione. Per promuovere la partecipazione è importante dare il senso dell’impegno comune. Della nostra unità. Mi era naturale scegliere la lista «Uniti per Veltroni» e candidarmi nel mio collegio, come mi avevano chiesto molti compagni. Ho scelto invece la lista «A sinistra». L’ho fatto per raccogliere una sollecitazione che mi è pervenuta da compagni molto seri come Massimo Brutti, Vincenzo Vita e Marco Paciotti. L’ho fatto perché sono convinta che il Pd si nutre anche di radici, di storia, di memoria, di sentimenti. E allora «A sinistra» anche per dire a tanti, che fino ad ora non ci hanno creduto o si sentono spaesati, che il Pd è la casa di chi si è speso nelle battaglie per la giustizia sociale, di chi non solo ha creduto ma ha amato la sinistra italiana.

Il Pd ha nelle sue radici la sinistra. Deve diventare centrosinistra ed elaborare un nuovo pensiero riformatore. Perché c’è bisogno di innovazione per governare le sfide che ci pone la società di oggi. In questo processo il Pd potrà attingere dalla tradizione della sinistra. Come da quella del cattolicesimo democratico. Perché le tradizioni culturali non sono degli inutili ingombri ma sono giacimenti, serbatoi di idee e di insegnamenti, sono «lezioni viventi». In un partito pluralista dovremo tutti lavorare per un progetto condiviso, attraverso la mescolanza, lo scambio, il reciproco riconoscimento.

Il Pd dovrà essere il partito in cui si sta bene insieme perché, come in una famiglia allargata, si condivide ciò che si porta in dote e soprattutto si condivide la progettazione del futuro e la costruzione del giorno per giorno. L’etica della condivisione ed il rispetto delle regole saranno fondamentali. Ma lo sarà anche l’espressione della pluralità. Non attraverso tribù separate o correnti. Ma aree culturali.

Ed io credo sia importante che nel Pd ci sia un’area culturale di sinistra. Un cantiere che si ponga anche l’obiettivo di riaprire la discussione con le compagne e i compagni che non hanno condiviso il progetto del Pd, con tutte le componenti dell’area socialista. Insomma, ciò che accade a sinistra riguarda il Pd. Perché la sinistra è composta da esperienza sociali, saperi e pratiche che non possono frammentarsi ulteriormente. Devono contare e pesare in un progetto di governo e cambiamento della società. E il Pd ha bisogno di questa ricchezza. Deve raccoglierla e valorizzarla.

Anche perché l’alleanza che governa il Paese, il centrosinistra, è stata una scelta, un progetto, un investimento, per rendere più forte la nostra democrazia. È l’espressione di un blocco sociale. Credo che l’esperienza di governo, con tutte le sue difficoltà, e la vicenda politica e istituzionale del nostro Paese consiglino di confermare quella scelta strategica e di irrobustirla rendendo più efficace e stringente la sua azione riformatrice. Più chiara e forte la sua azione nella società.

Pubblicato il: 18.09.07
Modificato il: 18.09.07 alle ore 8.37   
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 02, 2007, 02:57:40 pm »

Livia Turco: «Destra o sinistra? Sulla sicurezza basta col relativismo legale»

Natalia Lombardo


«La sicurezza è un valore universale, quotidiano, che va garantito in silenzio agendo giorno per giorno», e senza steccati ideologici, secondo Livia Turco, ministra della Sanità che firmò la legge sull’immigrazione con l’attuale Capo dello Stato.



Il governo ha varato il decreto sull’onda dell’emergenza. Come coniugare le misure per garantire sicurezza ai cittadini e l’integrazione in una società multietnica?



«Siamo di fronte a un fatto molto duro, che colpisce e al quale va risposto con strumenti adeguati. Ma il decreto che dà ai prefetti il potere di espulsione non è una novità, semplicemente anticipa il pacchetto sicurezza, ne fa parte. E contiene la risposta giusta, perché l’ottica dell’emergenza fa solo danni e non risolve».



Cosa risolve, invece?



«Un menu di interventi: la rapidità dei processi, la certezza della pena. Il pacchetto sicurezza inasprisce le pene per chi abusa di minori di 14 anni, rafforza le condanne per gli abusi sessuali e le violenza sulle donne».



E il decreto che poteri dà?



«Il prefetto può espellere il cittadino comunitario quando delinque».



Secondo Fini, che ha cavalcato la tragedia attaccando Veltroni, Rutelli e Amato, i cittadini comunitari devono essere espulsi se non hanno un reddito certo.



«Fini strumentalizza un fatto così drammatico con una polemica indecorosa e nociva. E ricordo che la legge sull’immigrazione in vigore è ancora la Bossi-Fini, altrettanto dannosa. Non si tratta di cedere alla paura, facciamo un salto di qualità: finché si resta allo scontro ideologico o sull’emergenza non ne usciamo, ognuno faccia il suo. Sulla sicurezza sì che faccio l’“appello dei volenterosi” per una svolta culturale.



Come si arriva a questa «svolta»?



«Con tre punti fermi. Primo: la sicurezza è un valore universale e riguarda anche la dignità e l’integrità della persona. Basta con l’essere di sinistra, di destra o di centro, basta con il relativismo legale».

Che vuol dire?



«Quando si dice che una persona più debole non va perseguita proprio perché è debole; su questo sbaglia la sinistra. Secondo: la sicurezza è un valore quotidiano, bisogna lavorare in silenzio giorno per giorno, senza tanti annunci. Terzo: un menu ricco di interventi, come gli accordi bilaterali e il coinvolgimento delle comunità straniere. Perché un delitto simile condanna tutti i cittadini rumeni a sentirsi mortificati per il proprio nome».



Esiste una «ricetta» per garantire la sicurezza?



«No, serve solo più impegno per garantire la casa, il lavoro, la fine della precarietà. Periferie, immigrazione, anche il Pd si deve chiedere cosa fare nel territorio. E serve una svolta culturale nel centrosinistra: non possiamo contrapporci fra chi ritiene un valore la sicurezza, per altri l’integrazione. Le due cose vanno realizzate insieme, la sicurezza non è negoziabile e la convivenza si costruisce»



Il sindaco Veltroni è sotto attacco dalla destra.



«Walter Veltroni è uno straordinario sindaco, l’esperienza di Roma è importante, nella ricerca faticosa del negoziato e del coinvolgimento della persona. La lotta al degrado e il rispetto della legge riguarda tutta la comunità. Nelle città siamo di fronte a processi duri: ho visto a Pietralata (quartiere della prima periferia romana) e l’insofferenza di tanti vecchi «comunisti» verso le baracche dei rumeni.

Facciamo meno teatrino, meno politichetta e meno ideologie».



Il governo ha approvato il decreto all’unanimità. Un buon auspicio anche per la Finanziaria?



«L’unanimità era ovvia, il decreto era un anticipo del pacchetto sicurezza. Questo era partito male, con la campagna sui lavavetri portata come una bandiera, ma nel Cdm le convergenze sono state molte più di quelle che sono state rappresentate, Spero che sia un esempio per il centrosinistra»



Da ministra della Sanità, come affronta casi come la morte del dodicenne in Calabria per ritardi nell’intervento?



«Ho fatto aprire un’indagine che sta accertando i fatti. Le cose non sono andate come è stato scritto, in Calabria c’è una sola sala di neurochirurgia che opera un paziente alla volta. Per questo chiediamo alla Regione Calabria di accelerare le azioni riformatrici nella Sanità, già avviate. Le risorse ci sono, il governo ha approvato il piano per gli ospedali. Insomma, adesso si muovano loro».



Il governo regge, secondo lei?



«Se uno guarda ai fatti, il governo sta operando bene: la Finanziaria coniuga sviluppo ed equità, è in arrivo l’aumento per le pensioni più basse, le riforme nella sanità, la legge sull’autosufficienza, il pacchetto sicurezza, sono solo gli ultimi provvedimenti.

Credo sia giunta l’ora della verità: se si ha interesse a che il governo operi bene, allora si faccia squadra; ma se si vogliono cambiare gli scenari, ci si assuma la responsabilità senza nascondersi dietro gli impiegati precari o nel dire che non si è fatto nulla».

Pubblicato il: 02.11.07
Modificato il: 02.11.07 alle ore 11.56   
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 07, 2007, 08:00:55 am »

In viaggio sul pullman dei rumeni che fuggono dalle nostre case

Enrico Fierro


Il pugno nello stomaco arriva al posto della dogana di Arad. La frontiera che divide l’Ungheria dalla Romania. Quando sale a bordo di quel torpedone anni Ottanta dove da decine di ore sono ammassati uomini, donne e bambini, una commissaria della «Politia de Frontiera». «Commissar Sef», c’è scritto su una delle mostrine che porta attaccata alla giubba. Capelli biondi, corpo massiccio, volto duro e sguardo preoccupato. «Come vi stanno trattando in Italia?». Occhi bassi e silenzio. «Il nostro governo è allarmato e vi dice che chi di voi non ha un lavoro regolare in Italia deve andar via. In altri paesi dell’Unione europea. In Francia, in Germania, in Spagna. Dovunque ma non lì. L’Italia per i romeni è un paese a rischio. Non ci tornate».

Gli occhi della commissaria sono sempre duri, severi, sembrano rifiutare ogni barlume di dolcezza, ma miracolosamente riescono ad infondere calore, e finanche fiducia. E allora la gente stremata dal sonno, piegata in due da quei sedili troppo stretti che ammazzano le ginocchia, umiliata da corpi che non si lavano da ore, sfinita da un viaggio che promette di non aver mai fine, si scioglie. E parla. Finalmente uomini e donne possono liberare le loro paure. Sfogarsi. Sono nella loro terra. Di fronte hanno un rappresentante del loro governo. Le voci si accavallano, le parole si confondono, i racconti no, perché sono sempre uguali.

Cambiano le città, i nomi dei «padroni», i luoghi, i lavori, la quantità di maledetti euro che ognuno è riuscito a raggranellare per assicurare una vita al limite della dignità a figli, mogli o mariti rimasti nelle sfortunate terre di Romania, ma il denominatore comune è sempre lo stesso. Perché parla di sfruttamento. Parola antica, desueta. Pericolosa da usare oggi che il vocabolario della storia è stato frettolosamente riscritto e i padroni non ci sono più e gli operai sono stati catalogati da moderni intellettuali nella odiosa categoria dei «fannulloni». Ma parola straordinariamente moderna. Attualissima in questa nostra Italia che ha paura dello «straniero». Ieri l’albanese dalla fame antica e dalla mano lesta, o il nigeriano dalla pelle nera come il carbone, oggi il rumeno. Troppo uguale a noi per origini latine, con una lingua che batte sugli stessi denti e produce le stesse identiche parole, troppo simile a noi civilissimi italiani finanche nelle forme bestiali di violenza che riesce a provocare. Forse è per questo che lo odiamo.

Eppure il rumeno ci serve. Per costruire a poco prezzo le nostre case, per lavorare nelle nostre fonderie, per servire ai tavoli dei nostri ristoranti, per accudire, fin nell’intimità estrema di un corpo che non riesce più a contenere i propri stimoli, i nostri vecchi. Per soddisfare le nostre voglie, di sera sul ciglio di una strada consolare, se la rumena è bella e possibilmente ragazzina.

Il cronista non capisce. Sarà il lungo viaggio e quell’idea balsana di farsi venti ore di pullman insieme ai rumeni che dall’Italia tornano a casa, ma la frase di quella commissaria («L’Italia per i rumeni è un paese a rischio») proprio non riesce a comprenderla. Cosa sta accadendo? Cosa è successo in poche ore che abbia potuto far ritenere a un governo di un paese vicino che l’Italia, il paese dell’accoglienza, della civiltà, delle porte aperte da millenni, sia considerato un luogo insicuro per altri europei? Il brutale assassinio di una donna, è la risposta. Ma non basta. E allora, il cronista cerca negli sguardi di quella gente, nel racconto delle storie delle loro vite accenni di risposte.

La ragazza che sta dietro il banco della «Atlassib» (una società rumena che sposta gente da tutta Europa), mi avverte: «Affrettati a fare il biglietto, perché i rumeni partono. Neppure a ferragosto è stato così». «Perché?», chiedo. Lei sorride. «Hanno paura». Compro un posto sul pullman Taranto-Suceava. Arrivo alle 8,30 di domenica mattina alla stazione Tiburtina. Bancarelle, la solita sporcizia da Bronx capitolino, gente che vorrebbe partire e non ha neppure gli 80 euro del biglietto, gente che aspetta. E carabinieri. Manganello in mano scrutano i volti degli stranieri. Si caricano i bagagli. Borsoni made in China, cartoni legati col nastro (caffè, pasta, maglie, vestiti. Pezzetti d’Italia da portare a casa), una bicicletta imballata con la carte dei giornali. Alle nove si parte. I volti sul pullman sono di anziani e giovani, ragazze e uomini fatti. Una donna piange. È venuta a trovare la figlia e il nipotino che vivono a Roma. Il bambino le manda bacetti. «Nonna, nonna». Lei si asciuga gli occhi. Il distacco è duro. Sull’ultima fila di sedili (la più scomoda, che nessuno vuole, con gli spazi più angusti dove avverti tutti i sobbalzi, senti le curve come se fossi su un motoscafo d’altura) una famiglia diversa. Papà, mamma e due ragazzini. Hanno la pelle scura, sono malvestiti. Lei indossa una gonna larga e lunga. Lui un maglione che di battaglie ne ha fatte troppe e le ha perse tutte. Sono rom. Zingari. «Sono quelli che hanno ucciso la donna italiana e fanno vergognare tutti noi rumeni. Gli zingari sono la nostra rovina, e ora il governo italiano ci caccia tutti».

L’autista, prima di partire, ha imbracciato il microfono di bordo e fatto il suo sermone. La gente applaude, dice «da, da», sì, sì. Quei quattro poveri cristi seduti sui sedili in fondo non fiatano neppure. Il razzismo e gli odii che riesce sempre a partorire non sono un monopolio dei ricchi. Accanto a me c’è George. Ha quarant’anni e parla malvolentieri. «Torno a casa, a Ploiesti. Ho lavorato quattro mesi in Italia come fabbro. Porto 700 euro ai miei figli». Quattro mesi in un cantiere edile a piegare ferri, sempre senza contributi, sempre in nero. Come un fantasma del lavoro. «Pagavo 200 euro per l’affitto di un letto in una casa dove c’erano altri rumeni. Mangiavo poco, non uscivo mai, spendevo solo per telefonare a casa. Ecco quello che ho risparmiato».

La prima sosta è in un autogrill di Arezzo. Quindici minuti per svuotarsi la vescica, mangiare qualcosa e fumare. La scena che si vede si ripeterà per le altre cinque soste che faremo in Italia, Austria, Ungheria e poi nelle città della Romania. La gente usa i cessi degli autogrill (tutti sporchi, puzzolenti e tutti a pagamento: 50 cent per liberarsi in quelli italiani, 40 negli ungheresi), ma passa oltre quando attraversa i banchi pieni di ogni ben di dio. Non si spende. Per mangiare tutti tirano fuori dai borsoni panini, mele, bottiglie di acqua minerale. Quelle facce, quel vestire dignitoso, la cura attenta dei soldi guadagnati con fatica, riportano volti e storie che il cronista ha già visto e sentito nella sua gioventù di ragazzo meridionale. Gli zii (Ciccio, Tonino, Gerardo - che in Inghilterra chiamavano chissà perché Charlie - e Carmela, Sabatino che quasi bambino partì dal Molo Beverello di Napoli per il Brasile), una tribù sterminata di cugini con i loro figli che non hanno mai visto l’Italia disseminata in ogni angolo del mondo. Facevano i servi in ogni pizzo del pianeta, ma quando venivano giù al Sud erano vestiti così, come i rumeni: con dignità, perché non volevano sfigurare con i paesani. La signora Paola è triste. «Cinque anni di lavoro buttati via in Italia. Ero badante, curavo sei vecchi a Sacrofano. Dopo l’assassinio di quella povera donna, il mio padrone mi ha cacciata via. Senza un perché. Io e te non abbiamo rapporti, mi ha detto. Non avevo diritti, né contributi. Torno a casa, quei pochi soldi che ho risparmiato facendo di tutto in quella casa, dalla spesa al lavoro più degradante che è quello di pulire un vecchio quando se la fa addosso, serviranno per l’ultimo anno di università di mio figlio». Mi mostra la foto: un ragazzone che vive a Galati, Moldava, città antica (Kalas, la chiamavano i turchi) e poverissima. «Perché - spiega Paola - sono venuti tutti, italiani, turchi, cinesi: hanno comprato le fabbriche dei combinat per quattro soldi e hanno licenziato gli operai. Io ho 57 anni, per vivere devo emigrare ancora».

Sono passate dodici ore, l’Italia è alle nostre spalle. Il pullman è pieno dei nostri odori. Sì, la puzza è davvero portatrice di democrazia. Non distingue: rumeni, italiani, zingari, puzziamo tutti allo stesso modo. Siamo in Ungheria, al primo autogrill. C’è tutto. Finanche un «casino» (senza accento e non si gioca a poker). Le foto delle girls esposte sono una tentazione troppo costosa anche per i viaggiatori più giovani. Due ragazze bionde di Brasov vengono dalla Basilicata. «Siamo badanti. Le famiglie che ci ospitano sono brave, ma quando hanno letto del massacro della povera signora italiana hanno cominciato a guardarci con occhi diversi». Alina, una delle due, torna a casa perché si sposa il fratello. «Mangeremo e faremo il ballo del bacio. Una danza antica, la donna si inginocchia e cinge l’uomo con un fazzoletto di seta». È notte fonda, fa freddo e la sua amica si lascia tentare da due figuri che fanno il gioco del bianco e nero, una sorta di gioco delle tre carte. Le rubano cento euro. Sul pullman gli autisti si danno il cambio alla guida. E all’uso del lettore di cd. Al primo piacciono orrendi rap made in Usa, l’altro, invece, adora le musiche balcaniche. Tutti e due ce le propinano a palla per l’intero viaggio. Liviu è giovane e gli piace scherzare con una bella ragazza mora. «Tu la faccia di uno che lavora non ce l’hai proprio», gli faccio. Lui non si offende.

«In Italia non ci torno più, troppo male. Sono un muratore, ma anche pittore, come dite voi. Il lavoro è tanto, ma sempre in nero. La mattina andavo sulla Palmiro Tiogliatti, a Roma, alle cinque. Lì passano i caporali con i furgoni e ci prendono. Ci portano nei cantieri, lontano, non sappiamo neppure il nome del padrone. Dopo dieci ore di lavoro ci mettono in mano 40 euro ed è finita». E se ti fai male? «Beh, sono cazzi tuoi».

Ore 9,30 del mattino, frontiera di Arad. Prima di arrivarci gli autisti si fanno consegnare 20 euro a passeggero. «Dieci per la polizia ungherese e dieci per i rumeni, così non controllano i bagagli». Paghiamo. Pochi minuti dopo arriva la commissaria. «Non tornate in Italia. Per i rumeni è un paese a rischio». In fondo al pullman, la famiglia di zingari non dice una parola. L’Europa è lontana.



Pubblicato il: 06.11.07
Modificato il: 06.11.07 alle ore 12.56   
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 22, 2007, 03:18:12 pm »

22/11/2007

La Turco: "Siete bande in guerra"
 
Il ministro della salute Livia Turco

Il ministro striglia i ricercatori: commissione indipendente per i fondi delle staminali

PAOLO BARONI


ROMA
Livia Turco questa volta non la manda a dire. Sul caso Garaci alza i toni il responsabile della Salute, che risponde per le rime ai tre ricercatori che hanno lamentato la gestione clientelare dei fondi per la ricerca sulle staminali. «Portatemi fatti concreti - è la replica seccata del ministro -. La verità è che siamo di fronte a una vergognosa guerra per bande». Per l’assegnazione dei finanziamenti, puntualizza l’esponente democratico, «ho sempre seguito la linea del bando pubblico, in discontinuità con i criteri adottati dal mio predecessore».
«Vogliamo dircela tutta: questa è una vergognosa guerra per bande». Alza il tono della voce il ministro della Sanità Livia Turco, difende la riconferma di Enrico Garaci alla presidenza dell’Iss («ho valutato il curriculum, senza dare ascolto alle richieste dei politici») e di fronte alla lettera dei tre ricercatori che lamentano una gestione clientelare dei fondi per la ricerca mette subito in chiaro che «un conto è chiedere dei chiarimenti ed un conto è fare delle denunce, in quest’ultimo caso bisognerebbe fondarle su dei fatti».

E non è così?
«Assolutamente no, perchè i fondi in questione non sono stati assegnati ad alcuno, perchè la somma complessiva ammonta a 8 milioni di euro e non a 3, perchè nelle more dell’assegnazione abbiamo acquisito altri 5 milioni, e questo fatto da solo meriterebbe un plauso. E perchè ho dato disposizione affinchè l’assegnazione di questi finanziamenti avvenga attraverso un bando pubblico e che la valutazione dei progetti sia fatta da figure esterne. Questi per me sono i fatti».

Allora quando deciderete?
«La riunione della Commissione ricerca è prevista per il prossimo 5 dicembre. E si tratta di una commissione completamente rinnovata, che ha come vicepresidente una persona di indiscussa indipendenza come il professor Alessandro Liberati, che da anni è alla guida dell’ente di valutazione delle ricerche cliniche e della medicina basata sull’evidenza, uno tra gli esperti più quotati nel mondo».

Come spiega la protesta di tre dei maggiori ricercatori italiani sulle staminali, Paolo Bianco, Elena Cattaneo e Ranieri Cancedda, oltre alle accuse della rivista «Nature»? «Non lo so, bisognerebbe chiederlo a loro. Forse il mondo della ricerca non è così santo, non è esente da contrapposizioni». Per l’Istituto superiore di sanità, però, non è la prima volta che si parla di poca trasparenza nella gestione dei fondi.

La radicale Poretti ha segnalato tempo fa la vicenda davvero poco chiara dei bandi del 2001. Che cosa risponde?
«Rispondo per la mia gestione: sono ministro dal maggio 2006 e il mio primo atto è stato l’annullamento del decreto con cui Storace aveva stabilito di erogare i finanziamenti per la ricerca senza alcuna procedura di avviso pubblico, ma con l’assegnazione diretta ai centri di ricerca: quel decreto l’ho stracciato e dal luglio 2006 l’unico criterio che vale è il bando pubblico». Ma nella lettera che le hanno inviato si parla di persone che già si vantano di avere ottenuto i fondi della Finanziaria 2007. «Quando si solleva una questione del genere, soprattutto se si è dei ricercatori, non si può usare il sentito dire, non ci si può rifare a delle supposizioni, ma agli atti, ai decreti. Io parlo con dei decreti e coi bandi pubblici. Quest’anno ho trovato 8 milioni per la ricerca sulle staminali e almeno mi sarei aspettata un riconoscimento: se questi soldi li avessero ricevuti da Garaci, gli avrebbero fatto un plauso, no? Perchè funziona così questo “mitico” mondo della ricerca. È una guerra per bande, altro che competenza e trasparenza! Competenza e trasparenza li ho introdotti io: saranno tutti valutati seriamente».

In questi giorni, anche alla luce di queste polemiche, si sono sollevate molte critiche a proposito della riconferma di Enrico Garaci alla guida dell’Iss. Perchè questa scelta?
«Ho semplicemente valutato il merito e la competenza della persona. Ed ho seguito la procedura che prevede che la nomina sia fatta dal Consiglio dei ministri previa segnalazione del ministro della Salute e parere del Parlamento». Però le Commissioni di Camera e Senato hanno dato pareri discordi. «La Camera ha dato parere favorevole ed il Senato no, ma solo nel voto. Perchè nelle dichiarazioni di voto una larga maggioranza di senatori era d’accordo. Anche qui si apre un interrogativo: come mai i pareri erano quasi tutti in una direzione è poi l’esito della votazione è stata un’altra? Rispetto il Parlamento, ma in questo caso non mi si venga a parlare di trasparenza».

Insomma, lei della conferma di Garaci è convinta?
«Molto».

Per quali ragioni?
«Perchè conosco l’Istituto e so di cosa parlo: ho seguito molto l’Iss, mi ci sono dedicata tanto a partire dalla norma che l’anno scorso ha consentito di assorbire i ricercatori precari. Ho incontrato i capi dipartimento, ho costruito con loro e col presidente un rapporto di confronto e collaborazione. Ed ho potuto sentire da parte di tutti i ricercatori una richiesta di continuità nella gestione dell’ente. C’è stato pieno consenso sulla scelta di riconfermare Garaci e la cosa è stata formalizzata in una lettera dei capi dipartimento, le persone più autorevoli dell’Iss, fior di ricercatori, che conservo come preziosa. Infine ho rilevato un gradimento generalizzato da parte della comunità scientifica nazionale ed internazionale, da cui sto ricevendo tante lettere di consenso».

Tutto ciò, però, non le ha risparmiato critiche...
«Ho valutato il curriculum e l’attività dell’Iss, fatti concreti, tutte cose pubbliche, che si possono trovare su Internet. Ed ho valutato il giudizio interno, che in questi casi è importante. Che cosa dovevo fare d’altro? Ascoltare il politico di turno? Crede che nessuno mi abbia telefonato per darmi dei suggerimenti su chi fare presidente? Dovevo dare retta a queste richieste o valutare curriculum e risultati? Ci si metta d’accordo, perchè le segnalazioni politiche non vanno bene nè quando arrivano da destra nè quando arrivano di sinistra».
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 17, 2007, 03:30:35 pm »

Livia Turco: «Basta autolesionismi. E non spingiamo la sinistra all’opposizione»

Federica Fantozzi


Va bene la verifica, ma senza malafede: «Ognuno si chieda se vuole che il governo continui. Se sì, troveremo l’accordo». Livia Turco, ministro della Salute, affronta l’agenda della maggioranza per il 2008. La legge elettorale va avanti perché «è caduta la pregiudiziale anti-Berlusconi, ora si discute nel merito».

Avverte: «Sì al Pd a vocazione maggioritaria senza forzature. No allo schema sinistra di governo e sinistra di opposizione, no al centro ago della bilancia». E sulla questione Fiamme Gialle assolve Tps: «Qualche imperizia tecnica ma nella sostanza ha ragione. Il generale è stato scorretto».

Ministro, se il governo supera l’ultima settimana di passione avrà mangiato, pur litigiosamente, il secondo panettone. A gennaio però bisognerà ripartire. Come?
«Intanto valorizzando quello che è stato fatto. Insisto a correggere l’autolesionismo. Stiamo per varare una Finanziaria e un pacchetto Welfare che, dal punto di vista del Paese e della vita delle persone, contengono misure importantissime. Spero che a gennaio parta una grande campagna che le spieghi, fatta dal governo, dai singoli ministri e dalle forze politiche. L’azione del governo va raccontata e sostenuta».

D’accordo. Ma al di là di protagonismi personali, quale strada imboccherà l’esecutivo sui tanti temi spinosi? Questioni etiche, politica fiscale, lavoro...
«Non c’è dubbio che siano emersi nodi politici. L’azione del governo va anche rilanciata. All’inizio dell’anno faremo il punto per capire le urgenze del Paese. Credo che se si farà uno sforzo di capire le priorità per gli elettori dimenticando le identità politiche l’accordo si troverà».

Come si può conciliare il rigorismo invocato da Dini con le politiche sociali che vuole Rifondazione? Non sono due linee oggettivamente diverse?
«Io le intendo come accentuazioni dello stesso progetto. L’Italia ha bisogno della crescita che vuole Dini e dell’equità garantita da un maggior potere d’acquisto. Sono due facce della stessa medaglia. La Finanziaria è un esempio calzante: è fortemente redistributiva con una politica della casa senza precedenti».

Insomma, il Natale la rende ottimista...
«Ogni forza politica eviti di farsi scudo delle questioni di merito e risponda a una domanda preliminare: vogliamo che l’esperienza di governo prosegua o no? Se sì, l’accordo si trova. Come è stato trovato finora, sempre».

Con la spada di Damocle del referendum, i tempi per la legge elettorale sono strettissimi. Veltroni persegue il dialogo ma appare isolato. Vede il clima per una stagione di riforme condivise?
«La riforma elettorale e istituzionale è fondamentale. Fa bene Veltroni a perseguire le convergenze. Non mi sembra isolato: il dialogo con Berlusconi è stato giudicato necessario anche da Rifondazione. Significa che la pregiudiziale è caduta, e ora il dibattito è sul merito».

Tra la bozza Bianco e i correttivi alla tedesca. Lei quale modello di riforma giudica auspicabile?
«È importante consolidare il bipolarismo e l’alternanza, superare la frammentazione, dare ai cittadini la possibilità di scegliere la coalizione. Senza forzature: bipolarismo non deve significare bipartitismo. E senza poteri di interdizione: serve una politica che decida».

Non c’è un rischio di Pd «asso pigliatutto» a spese dei «nanetti» della coalizione?
«È giusto avere forze politiche che nei rispettivi schieramenti si propongano come centrali. Ed è importante un Pd a vocazione maggioritaria come delineato da Veltroni, come è chiara e condivisibile l’opzione di successive alleanze sulla base del programma. Attenzione però a non disperdere il punto di ricchezza dell’Unione creando una sinistra che, per usare le parole di Bertinotti, ritrova l’autonomia strategica e si colloca all’opposizione. E proprio per questo credo sia importante la funzione politica che proprio nel Pd riveste la lista “A sinistra per Veltroni”: dobbiamo essere plurali, non si torni alle separazioni».

Ha paura di un bis del ‘98?
«Sto ragionando su scenari futuri. Il grande merito dell’esperienza del centrosinistra è stato che tutte le sinistre, tutte le culture politiche si sono misurate con il governo del Paese. Dietro il dibattito sulla legge elettorale c’è il ridisegno dei campi politici. Non torniamo allo schema sinistra di governo e sinistra di opposizione».

E il centro? Lo stesso discorso può valere dall’altro lato del Pd, per l’ala anche lei insofferente...
«Infatti. Trovo inevitabile che in un Paese con la peculiarità culturale dell’Italia esista una forza di centro. Un partito a vocazione maggioritaria di solito rende il centro poco determinante perché lo ingloba. Non so se qui possa accadere, mi sembra poco realistico».

La Cosa Bianca potrà diventare realtà?
«I movimenti tra Casini, Pezzotta, Montezemolo sono interessanti. Hanno un loro profilo quindi è difficile fagocitarli. Però non si deve rendere il centro determinante: bisogna insistere per regole che favoriscano l’alternanza».

L’ultima spina per Palazzo Chigi è il caso Speciale. La pronuncia del Tar ne sconfessa la revoca. Secondo Anna Finocchiaro a Via xx Settembre sono stati «commessi errori». Come giudica la vicenda?
«Padoa-Schioppa ha detto e fatto cose giuste. Non so se c’è stata qualche imperizia tecnica ma la sostanza politica non è quella di un abuso di potere da parte dell’esecutivo bensì di un comportamento non corretto, oltre che poco lusinghiero, del comandante generale della Guardia di Finanza».


Pubblicato il: 17.12.07
Modificato il: 17.12.07 alle ore 8.51   
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 08, 2008, 05:59:08 pm »

Livia Turco: «Gli incerti? Convinti dai programmi, non dall’appello al voto utile»

Bruno Miserendino


«Gli indecisi? Li sento, li vedo, ci interrogano. Ci parlano di precarietà e di laicità. Si convincono spiegando i nostri programmi, non battendo sul tasto del voto utile». Il ministro della Sanità Livia Turco è in Abruzzo, gira per paesi e ospedali, ha la voce roca, però è ottimista, perchè sente il Pd in crescita. E sul dopo avverte: «La scelta di correre liberi, puntando sul programma, è vissuta come una liberazione dai nostri cittadini, ma attenti a non scavare fossati incolmabili con la sinistra radicale».

Ministro, cosa vede in questi ultimi giorni di campagna elettorale?
«Sto battendo i piccoli paesi, diciamo che sono in contatto con l’Italia profonda».

E cosa sente?
«Avverto un recupero, i famosi incerti si materializzano, si vedono, si interrogano e ci interrogano».

Chi sono gli incerti?
«Quelli che ho visto sono di centrosinistra. Si chiedono se è il caso di votare ancora. Si informano, vogliono sapere, attendono risposte. Però l’altro dato è che ovunque si tocca con mano la novità del Pd, fatta anche di tante persone nuove che si affacciano alla politica, e soprattutto tante donne, e tanti giovani».

Come viene percepito il Pd?
«Come una novità vera: lo si capisce dai giovani che parlano per primi alle manifestazioni, dalle persone che si occupano di politica grazie al Pd. Ma lo si capisce anche da come la gente accoglie il messaggio politico: la nostra scelta di andare liberi, con un’assunzione di responsabilità che vuol dire basta litigi, basta frammentazione, è vissuta come liberatoria. Poi ci sono i contenuti programmatici: io batto molto su precarietà e crescita».

Secondo Lei arriva il messaggio sul voto utile?
«Francamente questo argomento non lo trovo particolarmente efficace. All’elettorato di centrosinistra recalcitrante non basta dire, dài un voto utile, se no torna Berlusconi. Oltretutto è un messaggio contraddittorio, visto che abbiamo messo al bando l’antiberlusconismo. Poi sono d’accordo col presidente Napolitano, ogni voto è utile. Gli indecisi li convinci molto di più se dimostri che proprio le questioni a cui tiene più un elettore di centrosinistra trovano risposte convincenti nei nostri programmi. A partire dalla precarietà».

Esempio?
«Molti mi chiedono se davvero si può fare una lotta contro questo fenomeno. Ecco, per tutti questi è molto più convincente l’argomento che la precarietà si combatte puntando sulla crescita, rilanciando il patto tra produttori, col salario minimo legale».

E sulla laicità?
«Convince l’argomento che un conto è testimoniare la laicità, un conto è renderla solida. Il Pd può puntare a renderla solida e concreta, proprio perchè all’interno c’è un confronto diretto su questo tema, perchè c’è l’obbligo della sintesi tra culture diverse».

Che rapporti vede in futuro con la sinistra radicale?
«La scelta politica del Pd, la novità di puntare sul programma e non sull’alleanza, la considero strategica. Ma questo non vuol dire riprodurre la vecchia contrapposizione tra un centrosinistra di governo e una componenente di sinistra ontologicamente votata all’opposizione. La sfida del Pd è per il governo del paese e riguarda tutto il campo del centrosinistra».

Pecoraro Scanio dice che non appoggerà mai un governo del Pd.
«In politica mai dire mai. La nettezza delle posizioni e la novità strategica non significano solchi incolmabili».

Sbagliato tenere toni soft di fronte alla campagna della destra?
«No, penso che sia stato importante mettere l’accento sulla novità, liberandoci definitivamente dall’antiberlusconismo. Certo in questo rush finale bisognerà pur ricordare ai cittadini alcune verità. Purtroppo tra i difetti degli italiani c’è la memoria corta, ed è il caso di ricordare cosa abbiamo ereditato, mostrando anche un po’ di orgoglio su qualche risultato del governo Prodi. Sarebbe utile ricordare che se vince la Destra tornano quelli che hanno davvero messo l’Italia in ginocchio, con la crescita zero e il deficit alle stelle. Non è demagogia, è una forma doverosa di pedagogia civica».

Si era aperto un dibattito sulla soglia del succeso del Pd...
«Un surreale dibattito, aperto e chiuso. Non c’è alcuna soglia, la partita è aperta. E comunque vadano le cose, un successo già c’è: la novità del Pd va ben oltre questo passaggio elettorale, si è seminato molto e bisognerà avere molta cura di questo seme. Il nostro dibattito dovrà essere all’altezza della sfida che abbiamo proposto al paese. Altrimenti che diciamo a questi meravigliosi giovani che si sono affacciati alla politica?»

Se alle elezioni sarà pareggio?
«Io punto a vincere, e sono del parere che chi vince anche con tre voti governa. Dopodichè ci sarà bisogno nel paese di collaborazione. Se andrà all’opposizione il Pd non si comporterà come ha fatto Berlusconi invocando ogni giorno la spallata».

Con Bossi che minaccia i fucili, che riforme si fanno?
«Un motivo in più perchè perdano, per ricordare che hanno vecchie ricette, vecchi linguaggi e come coalizione sono ancora peggio di prima, più a destra, con Mussolini e Ciarrapico e Bossi che comanda ancora di più. Ecco, questo sì, andrebbe ricordato bene agli italiani».



Pubblicato il: 08.04.08
Modificato il: 08.04.08 alle ore 8.31   
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« Risposta #8 inserito:: Aprile 27, 2008, 07:07:12 pm »

Dentro la vita reale

Livia Turco


È tempo di analisi. Come è ovvio dopo una tornata elettorale. Soprattutto se alle elezioni si è perso. Il dibattito di questi primi dieci giorni post voto si è incentrato, con poche eccezioni, sulla questione settentrionale. Una scelta ovvia, visto il successo della Lega. Tuttavia non penso sia saggio limitare le nostre analisi esclusivamente al perché molti elettori di sinistra abbiano optato per il Carroccio. C’è infatti un altro terreno di riflessione pressoché inesplorato.

Mi riferisco alla galassia giovani e al loro modo di sentire, praticare e sperare nella politica.

E penso che un partito nuovo e giovane, se non altro anagraficamente, come il PD, non possa pensare al domani senza tener conto di come, quel domani, è pensato, sognato o temuto dalle giovani generazioni. E di come, in questo sogno, si collochi la politica e l'impegno. Per farlo siamo partiti da loro. Ascoltandoli attraverso un'indagine che l'associazione “a sinistra” ha commissionato alla SWG, prima delle ultime elezioni del 13 e 14 aprile. Un'indagine che aveva come scopo principale quello di cogliere il significato, o meglio le suggestioni, che la parola “sinistra” ha, se ce le ha ancora, tra i giovani dai 16 ai 35 anni. Ma che, in più, ci ha offerto materiali preziosi anche per capire, e torniamo così alle riflessioni post elettorali, che cosa, dalla politica, le giovani generazioni si aspettano.

Partiamo dalla prima domanda. Ti interessa la politica? La risposta non è scontata: più di 6 su dieci si sono dichiarati tra il molto e l’abbastanza interessati. Ma solo 7 su cento vi partecipano attivamente. O, come loro stessi hanno detto: si sentono «politicamente impegnati». Il perché di questo distacco, tra interesse e impegno, è facilmente intuibile guardando la distanza tra ciò che la politica dovrebbe essere e ciò che la politica è, sempre secondo i nostri giovani. La politica dovrebbe essere prima di tutto «giustizia, democrazia, ideale». Nei fatti la si vive come «corruzione, potere, ipocrisia». Si manifesta così una forbice drammatica tra ciò che si vorrebbe e ciò che si vive o quantomeno si percepisce. Una forbice che si allarga paurosamente quando entra in campo la fiducia verso il politico di professione. Solo 11 su cento ne hanno fiducia. Un dato che accomuna giovani di destra e di sinistra. E anche questo penso debba farci riflettere.

E sulla sinistra, sull’essere di sinistra e il suo significato, cosa dicono i ventenni e i trentenni di oggi? Per il 46% è un valore positivo per il Paese. Lo è oggi ma lo sarà anche per il futuro. E lo è perché la sinistra si fa carico dei lavoratori e difende le fasce più deboli. Perché difende democrazia e libertà. Perché è pacifista e solidale e predica la parità tra i sessi e l'uguaglianza sociale. Una piramide valoriale che si rispecchia anche guardando al totale del campione, compreso l’elettorato giovanile di centro destra, che riconosce anch'esso che la parola sinistra evoca ancora oggi queste battaglie e queste bandiere.

E il neonato PD? È di destra, centro o di sinistra? Per il 44% del campione non c’è dubbio, è di sinistra e lo diventa per il 54%, se si considera il solo elettore di centro sinistra. C’è comunque un buon 37% di intervistati che lo ritiene in realtà «poco di sinistra». Una percezione spiegabile forse con quel 61% di intervistati che sostiene come oggi «le divisioni tra destra e sinistra non hanno più senso perché il mondo e la politica si organizzano in base ad altre categorie». E queste categorie sono quelle di tipo economico, ambientale, più l'ampia sfera dei diritti civili. Su questi temi si giustifica una divisione e una chiave di lettura diversa della società, mentre sinistra e destra, di per sé, appaiono oggi troppo a rischio di ridursi a mere “gabbie” ideologiche.

Che fare? E' un po’ il senso dell'ultima domanda dell’inchiesta, con la quale ci siamo posti il “dove” lo Stato, inteso come istituzione rappresentativa al livello più alto della politica, debba investire e impegnarsi. Le risposte sono chiare e ci indicano tre priorità, sulle quali converge più della metà degli intervistati: lavoro, sanità, scuola e formazione. Seguono le politiche di sostegno ai giovani e alla famiglia, la sicurezza, l’ambiente e il sostegno alle imprese. Solo all’ultimo posto l'impegno per le pari opportunità. Un ultimo posto condiviso, da notare, sia dagli uomini che dalle donne.

Insomma. La politica c’è, eccome, in queste risposte. C’è come ideale di impegno per gli altri, di giustizia sociale. E c’è anche in quella diretta traduzione “dal pensiero al fare” per il bene del Paese, intesa come capacità della politica di fissare priorità che siano corrispondenti a quelle avvertite dal cittadino.

Così la pensa questo pezzo ampio della nostra società. Quel pezzo che sarà classe dirigente tra pochi anni e che oggi ci guarda con attenzione, per valutarci e per decidere, anche nell’urna. Sia al Nord che al Sud. Se ”sinistra” ha ancora un significato e lo ha, questi ragazzi e ragazze italiani ci dicono che esso va ricercato nella sua capacità di farsi carico dei problemi e delle aspettative delle persone reali. Un po’ più fuori dai palazzi e molto più dentro i luoghi e il sentire degli uomini e delle donne di questo Paese.

Pubblicato il: 27.04.08
Modificato il: 27.04.08 alle ore 14.52   
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« Ultima modifica: Giugno 29, 2008, 06:49:40 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 22, 2008, 08:46:24 am »

L’immigrazione non è reato

Livia Turco


Chi è l’immigrato clandestino? Domanda cruciale alla quale è bene rispondere con rigoroso spirito di verità visto che, stando a quanto affermato l’altra sera dal ministro Maroni durante la trasmissione «Porta a Porta», sarà deliberato dal governo il reato di immigrazione clandestina. Ci sono persone che entrano clandestinamente nel nostro Paese commettendo atti di violazione delle regole, altri che delinquono. È giusto e doveroso essere inflessibili. Applicando le stesse sanzioni che vengono applicate nei confronti degli italiani. Magari prevedendo possibili aggravanti per reati particolarmente gravi.

La stragrande maggioranza di quelli che noi chiamiamo clandestini sono persone che lasciano la loro terra per cercare lavoro ed un futuro migliore. Sono persone inermi che portano con se stesse la propria capacità, la disponibilità ad accettare qualunque condizione di lavoro pur di costruirsi un futuro e di stare meglio. Tante volte sono persone che fuggono dalla guerra e dalla violenza. Sono uomini. Sono anche tante donne. Spesso con i loro figli. Hanno il torto di affidarsi alle carrette del mare, a scafisti scriteriati per i quali mai nessuna pena sarà fino in fondo adeguata a risarcire l’onta della disumanità di cui sono capaci. Questi clandestini hanno il torto di non essere riusciti a conoscere le regole con cui si emigra e di non essersi adoperati per ottenere un regolare visto di ingresso o permesso di soggiorno.

Ora questi clandestini che vengono dal mare e che poi generalmente vengono rispediti nei loro Paesi si vedono di meno. I clandestini che allargano le file del lavoro irregolare sono sempre più invisibili. Entrano con normale visto turistico per ricercare lavoro; sanno che un lavoro lo troveranno più facilmente se sarà irregolare perché così conviene a tante aziende e a tanti italiani. Le cifre parlano chiaro. Nel 2008 sono state presentate 724.000 domande di lavoro regolare ed il decreto flussi del governo Prodi ha previsto 170.000 mila ingressi. Le altre persone che stanno lavorando e che vogliono mettersi in regola dobbiamo chiamarli e considerarli clandestini?

Nel 2002 con il governo Berlusconi furono fatte 646.000 regolarizzazioni a fronte di 705.000 domande. Prima erano clandestini? E se sì, perché sono stati regolarizzati? Come spiegare il dato contenuto nel Primo Rapporto sull’Immigrazione del ministero dell’Interno che dice che c’è più lavoro irregolare là dove sono molte le persone con regolare contratto e permesso di soggiorno?

Brescia, Mantova, Verona, Reggio Emilia; Lombardia, Veneto, Emilia: sono le situazioni in cui più alta è la presenza sia di regolari che di irregolari. Perché più forte è la domanda di lavoro e l’attrazione di forza lavoro.

Guardiamo l’andamento degli ingressi per lavoro nel corso degli ultimi anni. Nel 2003 (ministro del Lavoro il ministro Maroni) la quota di ingresso per lavoro fu di 11.000 ingressi a tempo indeterminato. Nel triennio 2003-2005 erano state fissate in media delle quote massime annue di 30.000 ingressi non stagionali all’anno, contro una domanda di difficile misurazione ma sicuramente almeno 4 o 5 volte superiore.

C’è un dato interessante che vorrei ricordare al ministro Maroni. Riguarda il 2004, l’anno dell’allargamento della Ue a otto Paesi . L’Italia decise un’apertura verso l’immigrazione europea con il convincimento che essa avrebbe contenuto quella del resto del mondo ed era più compatibile con la nostra società e cultura. Furono pertanto decise per i nuovi comunitari quote massime separate ed aggiuntive rispetto alla programmazione dei flussi dei lavoratori extra comunitari, fissandoli ad un livello molto superiore rispetto alla domanda di ingresso in Italia.

Gli ingressi regolari per lavoro passarono così da 11.000 del 2003 a 54.000 nel 2005 a 120.000 nel 2006. Nel marzo 2006 sono state depositate 520.000 domande di regolarizzazione. Come definire quelle persone: clandestine? Ho voluto richiamare questi dati relativi agli anni del governo di centro destra perché essi ci dicono due cose importanti. Che la clandestinità è in grande parte generata dai meccanismi inefficaci di ingresso per lavoro e dalla permanenza di un dato ideologico che fa velo sulla realtà e che occulta il bisogno che l’economia italiana ha degli immigrati. Occulta la forte presenza di una economia sommersa che genera irregolarità ed illegalità. Questa realtà fu così forte da obbligare l’allora ministro del Lavoro a correggere la sua politica delle quote passando da 11.000 ingressi nel 2003 a 120.000 nel 2005.

Che cosa significa allora il reato di immigrazione clandestina quando la clandestinità in larga parte coincide con la irregolarità e quando la irregolarità è determinata da una forte presenza di economia sommersa e da una inadeguata ed inefficace regolazione degli ingressi regolari per lavoro?

Bisogna promuovere una immigrazione regolata e bisogna superare ogni forma di relativismo legale: tutti devono imparare a rispettare le regole. Tutti, in ogni parte remota del mondo ed in ogni angolo della terra, devono imparare che per entrare in un altro Paese non basta dire “parto, vado”. Bisogna conoscere, riconoscere ed accettare le regole di quel Paese. Se c’è un diritto universale alla emigrazione non c’è un diritto di ingresso. Bisogna trovare un equilibrio tra diritto ad emigrare e le possibilità dell’ingresso. Tra il diritto ad emigrare e la capacità di accoglienza di un paese. Ma perché questo avvenga bisogna che tale messaggio arrivi in ogni parte del mondo, in ogni angolo della terra. Quel messaggio sarà credibile quando le persone per emigrare non troveranno solo le carrette dello scafista, ma un ufficio del Consolato che funzioni in modo efficiente e paesi che regolano l’ingresso e l’apertura in modo realistico e non solo egoista.

Nel frattempo bisogna sapere fare delle distinzioni: tra chi è entrato in modo regolare e poi è diventato irregolare; chi è entrato senza documenti ma porta con se solo la usa dignità e la sua mitezza ed è animato da lealtà verso il paese dove spera di trovare lavoro; chi invece dimostra concretamente di non avere rispetto per quel paese e addirittura delinque.

Il reato di immigrazione clandestina considera reato penale il semplice ingresso senza documenti. È una misura sproporzionata che umilia il principio della dignità umana perché presuppone uno Stato che esercita il massimo di coercizione nei confronti di una condizione di illiceità ma non di offesa verso il proprio territorio. E non vede la obiettiva debolezza umana e sociale che sottende quella slealtà. Il reato di immigrazione clandestina è un messaggio culturale di rancore, di arroccamento, di rinuncia. Oltre che di egoismo. Sulla inefficacia di tale misura hanno scritto in molti in questi giorni. Vorrei ricordare che esiste già il reato di permanenza clandestina introdotto dalla Bossi-Fini. Che il 20% degli immigrati reclusi in Italia sono stranieri e sono reclusi per violazione delle norme sull’immigrazione. In grande parte arrestati perché non si sono allontanati spontaneamente dal territorio nazionale dopo la permanenza nel Cpt. La realtà, le stesse leggi volute dal centro destra dicono che lo strumento penale è inefficace per regolare l’immigrazione.

Pubblicato il: 21.05.08
Modificato il: 21.05.08 alle ore 8.18   
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 04, 2008, 12:07:25 am »

Il Pd, la Chiesa e la persona

Livia Turco


Conviene ritornare sul tema del rapporto tra il sentimento religioso e la politica. Vorrei farlo a partire da una considerazione, svolta da Massimo D’Alema al seminario di ItalianiEuropei, secondo cui la destra avrebbe vinto perché la migliore interprete di quel che si muove nel fondo della società occidentale.

E perché capace di offrire una risposta che si basa sull’alleanza tra potere e religione. Questa affermazione, se collocata nel contesto della riflessione svolta, propone secondo me un terreno di discussione che va al di là del rapporto tra le gerarchie ecclesiastiche e la politica.

Propone una riflessione che riguarda il rapporto tra il sentimento religioso e il sentimento di solidarietà sociale, di spaesamento culturale e di paura rispetto al rischio di perdita dell’identità e del ruolo della nazione che investe l’Europa rispetto ai processi di globalizzazione. Di fronte a ciò il cattolicesimo per molti cittadini è vissuto come una risposta di ordine, di identità, di senso. Con la sua proposta di centralità della famiglia, di dignità della persona, di morale sessuale, di dialogo tra interessi sociali diversi e di solidarietà.

Non è un fenomeno solo italiano. La religione torna alla ribalta della sfera pubblica internazionale anche per l’esigenza che c’è di valori sostantivi, di risorse simboliche, di istanze positive capaci di fondare il senso della presenza individuale e collettiva. Si potrebbe obiettare che non c’è nulla di nuovo in questa constatazione, dato che storicamente il cattolicesimo costituisce un ingrediente della nostra identità nazionale. Non è così. Non solo perché i processi di modernizzazione e secolarizzazione che hanno riguardato anche il nostro Paese avrebbero potuto portare ad una marginalizzazione e ad una perdita di influenza della Pastorale cattolica. E in effetti in taluni punti della morale spirituale il messaggio della gerarchie ecclesiastiche non ha un riscontro maggioritario nel Paese, come nel caso della legge 194. La novità risiede nella capacità della Chiesa di proporsi come portatrice di un ordine sociale e di un’identità nazionale. Una proposta non calata dall’alto o affidata solo alle prese di posizione o interferenze della gerarchia ma costruita attraverso un rapporto capillare nella società italiana e nella vita quotidiana delle persone. Una Chiesa popolare, tanto più attraverso il pluralismo del suo associazionismo, che tante volte riempie i vuoti delle istituzioni e della politica. Offre aiuto, presenza, conforto e senso. Questo riproporsi del cattolicesimo come religione civile nazionale è frutto di un lungo cammino che iniziò con il pontificato di Wojtyla e con la stagione del Cardinale Ruini che partì dall’intento di saldare i valori cattolici con l’identità nazionale. Una religione che incida nella vita nazionale, sintetizzata nell’affermazione di Giovanni Paolo II «I cattolici non devono essere solo il lievito della società ma impegnarsi direttamente nella testimonianza per il bene comune». Ma anche una religione che accetta la sfida della modernità e che l’affronta sul suo stesso terreno, quello della visione dell’uomo e della sua collocazione nel Mondo. È quella che viene chiamata la svolta antropologica. La Chiesa vede delinearsi un uomo nuovo, dotato di conoscenze tecniche senza precedenti, svincolato da qualsiasi autorità morale, portatore di un’etica relativista, edonista ed utilitaristica. Accompagnare quest’uomo moderno, proporgli un’autorità morale ed un ordine sociale dotato di senso è ciò che la Chiesa si propone. Con la convinzione che nel mondo cattolico vi sia un patrimonio di valori, di pensiero, di modelli di comportamento capace di rappresentare delle risorse irrinunciabili se si vuole tenere insieme il Paese e arricchire la convivenza sociale.

Il fatto nuovo di questi ultimi anni risiede nella diffusione di questa convinzione nel mondo laico e in quote crescenti di opinione pubblica, indipendentemente dal grado di adesione al cattolicesimo o a un altro credo religioso. È questo mutamento del cattolicesimo, che a sinistra abbiamo poco capito limitandoci ad una critica, talvolta difensiva, delle interferenze della Chiesa. Per esempio abbiamo poco discusso del documento preparatorio del centenario delle Settimane Sociali che ha il significativo titolo «Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano». Un tentativo efficace di proporre la Pastorale cattolica come ingrediente fondamentale per costruire una democrazia matura, da cui scaturisce una nuova e più impegnativa sfida per la politica e le istituzioni: la promozione del bene comune sollecita l’assunzione piena dell’etica della responsabilità dei diritti e dei doveri, valorizzando la dimensione relazione e della persona.

Ma c’è anche un rischio. In che misura la dimensione pubblica della religione e la sua ambizione a rispondere alla crisi dell’uomo moderno, non si trasformano, da parte delle gerarchie ecclesiastiche, in tentazione di autosufficienza e di chiusura al dialogo? Di una supplenza all’intervento pubblico che, se risponde a problemi concreti, può configurasi anche come occupazione di spazi e di potere? Se è vero che il 14 aprile non c’è stato uno spostamento del voto cattolico a favore del centro destra, tuttavia questo proporsi della Chiesa e della Pastorale cattolica, come riserva etica del Paese e fattore di guida e rassicurazione, si è più facilmente incontrato con il posizionamento culturale del centro destra. Quest’ultimo ha raccolto, seppure in modo frammentario e incoerente, i temi etici e soprattutto ha assunto l’istanza secondo la quale la cultura giudaico-cristiana è fondamento di un rilancio dell’Europa nel Mondo. L’identificazione tra radice giudaico-cristiana dell’Europa e rilancio dell’Occidente per riaffermare il primato dei valori dell’Occidente sul Mondo. Questa operazione è molto chiara nel libro di Tremonti «La paura e la speranza».

Non credo che il pensiero cattolico sia compatto nell’equazione «radici giudaico-cristiane, primato dell’Occidente, autosufficienza dei valori dell’Occidente». Anche nella forte dimensione universalistica della Chiesa. Ma quella saldatura è elaborata da un centro destra che vuole dotarsi di una coerente cultura politica.

C’è un altro aspetto su cui porre l’attenzione. La perdita di autorevolezza della politica e la pratica, in senso riduttivo, della laicità, là dove essa ha rinunciato troppo spesso a proporsi come spazio di dialogo e reciproco riconoscimento per la costruzione di nuove sintesi. In questo contesto il rapporto tra gerarchie cattoliche e politica ha assunto tante volte la forma dello scambio tra interessi cattolici e potere politico. Ed è evidente la simpatia con cui le gerarchie ecclesiastiche e il Vaticano guardano alla nuova stagione del governo Berlusconi. La questione che sta di fronte al Pd è duplice. Promuovere una qualità nuova della politica che sia capace di essere utile ma anche amorevole e rassicurante.

Attraverso la relazione con le persone. Per questo è importante non solo il radicamento nel territorio ma la costruzione di una forte relazione con tutti i mondi vitali e associativi che operano nella società. L’altra è la qualità del nostro progetto che deve essere di governo della società e capace di elaborare un nuovo umanesimo. Che assuma la persona umana quale fine e mezzo dello sviluppo economico e sociale.

Un nuovo umanesimo che ritrovi linfa dall’universalismo dei valori europei e rilanci la funzione dell’Europa nel Mondo dimostrando che l’apertura può comportare nuove opportunità e anche nuove sicurezze.

Un nuovo umanesimo radicato nel rispetto e nella fiducia della persona umana e nella consapevolezza che attraverso l’esercizio della responsabilità si possa coniugare sviluppo scientifico e tecnologico e cultura del limite. Questo nuovo umanesimo non potrà che avvalersi anche del contributo delle religioni, in particolare del messaggio cristiano che è di un umanesimo radicale.

Pubblicato il: 03.06.08
Modificato il: 03.06.08 alle ore 12.52   
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 29, 2008, 06:46:50 pm »

Salvate l´ospedale dei Poveri

Livia Turco


Signori del governo, ministro Tremonti, onorevoli parlamentari del centrodestra, in questo periodo parlate molto di povertà e di poveri. Ma della povertà non si può solo parlare. Bisogna contrastarla e dunque bisogna agire. Con coerenza. Guardandola in faccia. Soprattutto quando presenta i volti più sofferenti. Come quelli delle persone malate per la loro condizione di povertà estrema. Sono persone senza fissa dimora, rom, immigrati, anziani soli, donne sole con figli a carico. Sono persone che non sanno dove rivolgersi per curarsi perché non solo non hanno le risorse economiche ma neanche la conoscenza dei servizi pubblici. Tante volte sono malate perché povere. La povertà genera malattia. È uno dei fondamentali determinanti della salute. Le malattie connesse alla povertà sono in aumento. Tubercolosi, malaria, malattie oncologiche, malattie neuropsichiatriche. Non sono portate dagli immigrati.

Anzi, gli immigrati vengono nel nostro paese sani e poi si ammalano per le condizioni di lavoro e di precarietà sociale. Il nostro sistema sanitario pubblico che è un ottimo sistema, non sempre è in grado di rivolgersi ai gruppi più vulnerabili e marginali. Deve diventare pertanto capace di attivare interventi mirati, come la medicina di iniziativa, che alcune Regioni hanno indicato tra le priorità dei loro programmi.

A Roma è attivo dal 1987 l´Istituto dermatologico Santa Maria-San Gallicano. Ha accolto nel corso di vent´anni oltre centomila di quelle persone malate per colpa della povertà. Una struttura che cura promuovendo l´eguale rispetto verso ciascuna persona. Una struttura di eccellenza per generosità, apertura, capacità assistenziale ma anche competenza clinica e capacità di ricerca. Per questo il governo Prodi volle fare del San Gallicano il nucleo di un Istituto Nazionale per la salute dei migranti e le malattie della povertà. Lo abbiamo fatto d´intesa con la Regione Sicilia e Puglia che hanno aperto strutture assistenziali per l´accoglienza degli immigrati a Foggia e ad Agrigento. Ma è diventato riferimento di tutte le regioni. È stato individuato dall´Organizzazione Mondiale della Sanità un suo centro di riferimento per la prevenzione delle malattie della povertà. L´Istituto svolge attività di assistenza, di ricerca e di formazione degli operatori sulle malattie di migranti e della povertà. Tra i più importanti programmi di formazione vi è quello rivolto alle comunità degli immigrati per corsi di educazione sanitaria al fine di prevenire l´aborto. Questo Istituto interromperà tra pochi mesi la sua attività. Lei, ministro Tremonti, che ha indossato i panni del Robin Hood del terzo millennio, ha finanziato la cancellazione dell´Ici sulla prima casa per i ceti più abbienti (l´Ici per la stragrande maggioranza delle famiglie l´ha tagliata la finanziaria del governo Prodi) falcidiando tanti capitoli di spesa dedicati alle politiche sociali e alla integrazione degli immigrati. Ha cancellato anche l´accantonamento dei dieci milioni di euro rispettivamente per l´anno 2009 e 2010 per l´Istituto nazionale per la salute dei migranti e il contrasto delle malattie della povertà. Non si è trattato di un refuso o di una dimenticanza o di uno sbaglio dovuto a una non conoscenza del progetto (cose che possono accadere). Perché in commissione Affari Sociali la questione è stata sollevata e ampiamente dibattuta e gli onorevoli colleghi del centrodestra non hanno che potuto convenire e condividere la necessità di confermare il finanziamento per il San Gallicano. Ma quando si è arrivati alla prova dell´aula, le malattie della povertà e la salute dei migranti hanno trovato lo sbarramento del centrodestra capitanato dalla veemenza leghista. Tant´è che il rappresentante del governo non ha voluto neanche prendere la parola per spiegare le ragioni per cui nemmeno un cenno di attenzione si dedicava al nostro istituto che combatte le malattie della povertà. Neanche attraverso un ordine del giorno che impegni il governo a prendere in considerazione il problema. Dopo averci proposto il reato di immigrazione clandestina, le impronte digitali etniche per i bambini rom, evitateci almeno la povertà etnica perché i poveri come i bambini rom sono silenziosi, non hanno la forza di protestare e neanche di farsi vedere. Ma quando in un paese ci si ammala perché poveri ed immigrati e si umiliano coloro che combattono le malattie della povertà, allora quel paese diventerà sempre più fragile perché perde le ragioni del suo essere comunità, non è più capace di elaborare le ragioni del proprio stare insieme, della propria unità. Fermate l´ossessione contro gli immigrati. Perché combattendo l´immigrato colpite il bambino, l´ammalato, l povero, il nullatenente. Colpite la dignità delle persone e la dignità umana. Fate crescere la mancanza di rispetto. Vi troverete tra qualche anno una società ancora più sofferente. Ancora più sfiduciata, ancora più insicura. Una società attraversata da passioni tristi. Altro che speranza! Sono le piccole cose che costruiscono i grandi progetti. Sono le piccole cose che lasciano il segno. Sono le piccole cose che costruiscono la convivenza e la speranza. Per questo, signori del governo, parlamentari del centrodestra, salvate il San Gallicano. Salvate l´Istituto Nazionale per la salute dei migranti e la prevenzione delle malattie della povertà.


Pubblicato il: 29.06.08
Modificato il: 29.06.08 alle ore 10.18   
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 13, 2008, 04:39:40 pm »

Il bluff del ticket

Livia Turco


Bluff, cinismo, gioco delle tre carte: come altro definire l’abrogazione del ticket che in realtà non è abrogato? Se non fosse che è in gioco la salute dei cittadini l’articolo 60 bis del Governo, inserito di soppiatto, nel decreto sullo sviluppo economico potrebbe essere motivo d’ironia e non solo di polemica politica. Ma, appunto, è in gioco la salute dei cittadini. E, di fronte ad essa, vogliamo cercare sempre una scrupolosa, soluzione dei problemi. È innanzitutto la serietà ciò che manca a questo governo. infatti, il citato emendamento prevede l’abolizione del ticket di 10 euro sulla specialistica per il 2009, ma lo Stato mette a disposizione soltanto 50 milioni su 834 milioni necessari. I rimanti 707 milioni sono a carico delle Regioni le quali, potranno anche ripristinare il ticket medesimo. 7 milioni derivano dalla riduzione dell’indennità dei direttori delle aziende delle ASL e dei Direttori Sanitari! Altri 60 milioni dalla riduzione d’organismi politici e apparati regionali. È bene ricordare che il Governo Prodi considerando l’introduzione di quel ticket un errore compiuto, stanziò per la sua sospensione 350 milioni di euro nel 2007 e 834 milioni di euro nel 2008.

Dunque come abbiamo fatto noi possono fare anche loro decidendo di cancellare definitivamente una misura iniqua e sbagliata. Il governo sceglie invece di fare lo scaricabarile sulle regioni dimostrando irresponsabilità e cinismo e provocando una rottura del rapporto di fiducia tra Istituzioni. Purtroppo il bluff del ticket non è l’unico aspetto grave della politica del Governo Berlusconi nel confronto della Sanità. Si ritorna ai tagli e si dimenticano i grandi temi della sanità pubblica come la messa in sicurezza degli ospedali, la prevenzione del rischio clinico, la promozione della medicina territoriale attraverso un sistema di cure primarie, la formazione dei medici e operatori ed il raccordo tra Università e Ospedali. Per non parlare del rinnovo del contratto dei medici e l’assorbimento delle situazioni di precarietà nel servizio sanitario nazionale. Al contrario, la sanità torna ad essere solo un problema finanziario di razionamenti delle risorse anzi di tagli. Torna ad essere materia di grave conflitto istituzionale ed è quello che più ci preoccupa. Il diritto alla salute ha bisogno di regole e risorse certe, di condivisione, di gioco di squadra: tra i livelli istituzionali, tra istituzioni, manager, operatori ed associazioni dei cittadini. Con il decreto sullo sviluppo le regioni si trovano obbligate a discutere "Un Patto dei Tagli" e non l’aggiornamento del "Patto della Salute" siglato nel 2006, aggiornamento che dovrebbe partire da un a valutazione dei risultati ottenuti. Nel decreto sullo sviluppo invece il governo decide in modo unilaterale il finanziamento statale per l’anno 2010- 2011 alla sanità pubblica. Alla sanità è assegnato il compito di un risparmio sul tendenziale che dovrebbe ammontare a 2 miliardi di euro per il 2010 e 3miliardi di euro per il 2011. Questo senza tenere conto del fatto che il settore sanitario aveva gia contribuito al riequilibrio dei conti pubblici nel 2007 grazie ad una diminuzione del tasso d’incremento della spesa pari allo 0,9% e grazie alla riduzione del rapporto tra spesa sanitaria pubblica e pil che è passato dal 6,85% nel 2006 al 6,66% nel 2007.

Quando definimmo il «Patto per la Salute» partimmo dalla condivisione del fabbisogno in termini di finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale e costruimmo una politica che cercava di coniugare l’equità con l’efficienza, il contenimento dei costi con la promozione della qualità delle prestazioni. Le cifre parlano da sole: il finanziamento statale del Servizio Sanitario Nazionale passò da 90 miliardi nel 2006 a 102,500 miliardi nel 2008. Le risorse per investimenti destinate all’ammodernamento e per la messa in sicurezza degli ospedali da 17 a 23 miliardi di euro. A questo vanno aggiunte le risorse per il vaccino Papilloma Virus per prevenire il tumore alla cervice uterina, interventi per la salute delle donne, le «Case della Salute», la previsione d’indennizzo per danneggiati da emotrasfusioni, il potenziamento delle cure palliative e degli interventi per le cure di fine vita.

Nel decreto sullo sviluppo inoltre il Governo impone alle Regioni la riduzione dello standard dei posti letto, la riduzione stabile degli organici in sevizio e il conseguente ridimensionamento dei fondi per la contrattazione integrativa. Interviene anche sulle condizioni dei medici del Servizio Sanitario Nazionale attraverso una modifica del Decreto Legislativo 66/ 2003 in materia di organizzazione dell’ orario di lavoro, disponendo che al personale delle aree dirigenziale degli Enti e delle Aziende del Servizio Sanitario non si applichino i limiti dal citato decreto legislativo,relativi alla durata massima settimanale dell’orario di lavoro e alla durata minima dell’orario giornaliero, ledendo cosi il diritto di tutti i lavoratori nel recupero delle energie psicofisiche. Ancora più grave è la visione delle Politiche Sociali. Il Fondo per le Politiche Sociali ottiene 300 milioni di euro per il solo 2009 e restano cancellati il Fondo per le Politiche di Integrazione degli immigrati e fino ad ora il fondo per il «Centro Nazionale per le Politiche dei Migranti e le Povertà». In nome della semplificazione delle procedure e dei minori costi delle imprese, si indeboliscono gli obblighi del datore di lavoro nell’assunzione delle persone disabili cosi come previsto dalla legge 68/99. In nome della lotta agli abusi e gli sprechi si predispone per il 2009 un piano straordinario di 200 mila accertamenti nei confronti di persone con invalidità civile da cui , il governo prevede un risparmio di 100 milioni annui, mettendo così in discussione il decreto da noi fatto lo scorso anno che prevede per le invalidità gravi l’esonero della ripetizione dell’accertamento dello stato di invalidità.

Poi ancora un’altra perfidia! I permessi previsti dall’articolo 33 della legge 104/92 a tutela delle persone con grave inabilità potranno essere usufruiti alternativamente soltanto in ore e non i giorni. Per non parlare della «Carta Sociale» per l’acquisto di beni alimentari e degli sconti sulle bollette della luce che al di la di qualsiasi considerazione di efficacia e di dignità della persona, può contare di una dotazione certa di soli 200 milioni di euro per il 2008. Ciò che colpisce è una visione della politica sociale come fatto residuale, affidato alla discrezionalità del potere pubblico e alla filantropia.

Pubblicato il: 13.07.08
Modificato il: 13.07.08 alle ore 7.55   
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 04, 2008, 07:43:45 pm »

Chi straccia l’assegno sociale

Livia Turco


Il governo ha riparato il colpo maldestro di subordinare l’assegno sociale all’obbligo di dieci anni di contribuzione lavorativa. Colpo che era stato puntualmente denunciato nelle commissioni Affari sociali e bilancio e con un ordine del giorno in Aula per altro accolto dal governo. L’assegno sociale è l’unica forma di contrasto della povertà che esiste nel nostro Paese. È una prestazione di assistenza, cioè prescinde da qualsiasi versamento contributivo, introdotto dalla legge 335/1995 in sostituzione della precedente pensione sociale. L’assegno viene rilasciato al compimento del sessantacinquesimo anno di età e non è reversibile. Resta però la proposta del governo di elevare da cinque a dieci anni, per gli immigrati comunitari ed extracomunitari e per gli italiani emigrati all’estero che rientrano, la presenza continuativa nel nostro Paese per accedere all’assegno sociale. Così come è stato approvato il requisito di dieci anni di permanenza continuativa per accedere all’edilizia popolare.

C’è stata una sorta di imbarazzo a denunciare questa misura perché essa può godere di una qualche popolarità. Sappiamo quanto sia difficile parlare dei diritti delle persone migranti e di quanto sia facile contrapporre i diritti dei migranti a quelli degli italiani più deboli. Quando si tratta di assegno sociale, di accesso all’abitazione popolare o alle prestazioni sanitarie. Ma è una responsabilità che una forza come il Pd deve assumersi. Altrimenti l’Italia verrà travolta dalla retorica anti-immigrati diventando un Paese più rozzo, più fragile, più insicuro, più lontano dall’Europa. Elevare da cinque a dieci anni la permanenza continuativa per accedere all’assegno sociale è in contrasto con le direttive europee. Attualmente l’accesso all’assegno sociale per gli immigrati è regolamentato dal decreto legislativo numero 3 dell’8 gennaio 2007, di attuazione della direttiva comunitaria 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo. Questa norma istituisce il permesso di soggiorno CE (Comunità europea) per lungo periodo. L’articolo 11 di tale decreto afferma la parità di trattamento tra gli stranieri lungo soggiornanti e i cittadini nazionali per quanto riguarda, tra l’altro (lettera D) le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale. Faccio notare poi che i cittadini stranieri per accedere all’assegno sociale devono essere in possesso del permesso di soggiorno di lunga residenza per il quale devono comunque aver maturato un reddito senza il quale non avrebbero ottenuto il permesso per lungo soggiornanti. Questo è un requisito non richiesto agli italiani e non mi sembra che siano state sollevate obiezioni su una possibile discriminazione.

Anche l’Inps individua la residenza effettiva in Italia, quindi la territorialità, come elemento costitutivo del diritto alla prestazione assistenziale, cioè all’ottenimento dell’assegno sociale. Pertanto, se ne afferma il diritto per chi risiede sul territorio (nei limiti stabiliti dal nostro ordinamento) sostiene anche la necessità della sospensione per coloro, stranieri, che risiedono all’estero per più di un mese (circolare Inps n. 12889 del 4 giugno 2008). Un invito ad un’interpretazione più favorevole all’integrazione degli immigrati deriva anche dalla recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 306 del 29-30 luglio 2008) che ha dichiarato l’illegittimità di alcuni articoli del Testo Unico sull’immigrazione e della Finanziaria 2001, nella parte in cui escludono che l’indennità di accompagnamento possa essere concessa agli stranieri non comunitari che non hanno il requisito del reddito per l’accesso al permesso di soggiorno di lunga durata.

Dice la Corte Costituzionale che «sia manifestamente irragionevole subordinare l’attribuzione di una prestazione assistenziale quale l’indennità di accompagnamento, i cui presupposti sono la totale disabilità al lavoro, nonché l’incapacità alla deambulazione autonoma o al compimento da soli degli atti quotidiani della vita, al possesso di un titolo di legittimazione alla permanenza del soggiorno in Italia che richiede per il suo rilascio, tra l’altro, la titolarità di un reddito». Anche in questo caso è il criterio della territorialità che ha prevalenza sugli altri.

L’elevamento a dieci anni di permanenza continuativa è inoltre in contrasto con la direttiva comunitaria recepita dal decreto legislativo 6 febbraio 2006 relativo alla libera circolazione dei cittadini comunitari. Secondo tale direttiva il cittadino comunitario può acquisire la residenza dopo tre mesi a fronte di precisi requisiti come il reddito e il lavoro. La libera circolazione dei comunitari deve accompagnarsi con il mantenimento dei fondamentali diritti sociali i quali devono essere regolati attraverso accordi tra gli Stati. Per non parlare degli italiani emigrati all’estero che tornano in Italia senza aver maturato una pensione. Sono sicuramente poche persone ma sono le più deboli e sfortunate. L’elevamento del periodo necessario per l’accesso all’assegno sociale potrebbe avere come conseguenza l’ampliamento delle sacche di povertà nel paese, l’ampliamento dell’emarginazione e dell’esclusione sociale di fasce seppure ridotte di popolazione che non saremmo mai in grado (e forse non potremmo) rimandare al loro paese, con conseguenze negative sulla sicurezza, sul benessere della comunità e anche sul bilancio dello Stato.

È importante però anche alzare lo sguardo su ciò che gli immigrati fanno in Italia, sul contributo che danno all’economia e al benessere sociale nel nostro Paese, riconducendo alla sua dimensione reale anche l’entità dei costi dell’estensione del sistema di welfare agli stranieri regolarmente residenti sul territorio italiano. È necessario tener conto che gli stranieri presenti sul territorio hanno una struttura per età fortemente sbilanciata sulle età centrali, da lavoro (gli ultrasessantacinquenni sono 56.130 su un totale di 2.938.922, pari all’1,9%, dati 2007 contro il 18,86 della popolazione italiana); molti degli stranieri presenti lavorano regolarmente e, quindi, in vecchiaia avranno diritto alle pensioni alle quali hanno contribuito. Molti stranieri svolgono lavoro nero e non per scelta, forse questi, in vecchiaia potrebbero accedere all’assegno sociale, pur avendo comunque lavorato forse per più degli anni necessari per avere il permesso di soggiorno di lunga durata. Solo il 2% dell’insieme delle pensioni di vecchiaia, invalidità e reversibilità riguardano gli immigrati e tra essi in modo particolare riguardano le donne. La quota di abitazioni di edilizia popolare destinata ai cittadini extracomunitari è del 4% a fronte dell’11% per famiglie a basso reddito e del 24% ad anziani. L’indagine sulle forze di lavoro dell’Istat, al primo trimestre 2008, rileva in Italia 1milione e 678mila forze di lavoro straniere (popolazione in età lavorativa) e un milione e 519mila occupati ai quali dobbiamo aggiungere tutti coloro che svolgono lavoro irregolare. Un importante istituto di ricerca, l’Ismu, dice che sono 400mila le colf e badanti irregolari in Italia, cui si aggiungono 250mila uomini che lavorano come operai, addetti al settore della pesca e dell’agricoltura, alle vendite, alla ristorazione e ad altro. Molti di loro sono in Italia da più di tre anni, una su cinque da più di sei anni, saltando diverse possibilità di regolarizzazione. Interi settori sono ormai in mano agli immigrati e non solo nei servizi alla persona: agricoltura, allevamento del bestiame, alcuni settori industriali. Insomma, i lavori che gli italiani non vogliono più fare.

Il Pd deve alzare lo sguardo. Non solo contrastare e criticare i provvedimenti del governo ma deve elaborare una politica organica sull’immigrazione. Deve finalmente stralciare il velo su come vivono gli immigrati nel nostro Paese e su come possono incontrarsi immigrati ed italiani. Vecchi e nuovi cittadini italiani. Per aprire finalmente un dibattito pubblico su quale è la convinvenza possibile e auspicabile. Riconoscendo finalmente anche i vantaggi dell’immigrazione. Per fare sì che l’Italia torni ad essere un Paese competitivo, giovane e moderno. Potremmo cominciare dalla importante manifestazione del 25 ottobre. Sarà importante far vivere questi temi nella piattaforma della manifestazione e coinvolgere per quell’appuntamento tanti “nuovi cittadini” le persone straniere che vivono con noi e ci aiutano a vivere meglio.

Pubblicato il: 04.08.08
Modificato il: 04.08.08 alle ore 11.32   
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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 17, 2008, 11:05:56 pm »

Povertà senza freni

Livia Turco


Il recente rapporto Caritas sulla povertà ci dice che accanto ai sette milioni e mezzo d’italiani che vivono al di sotto della soglia di povertà relativa ce ne sono altrettanti che si trovano appena sopra e che quindi facilmente potrebbero trovarsi nella condizione d'indigenza. Gli italiani “coinvolti” nel fenomeno povertà sono circa 15 milioni.

Questi dati ci confermano quanto è urgente una politica contro la povertà e la disuguaglianza sociale. Il Parlamento ne ha recentemente discusso grazie a una mozione parlamentare presentata dal Partito Democratico.

Anche se il tema avrebbe meritato un dibattito ben più ampio e attento è stato importante che tutte la forze politiche ed il governo siano state costrette a confrontarsi con le proposte dell’opposizione e che ne abbiano accolte alcune.

Il rapporto Caritas conferma che per combattere le povertà non bastano singole misure ma è necessario un programma integrato di interventi che affronti le diverse cause che producono la povertà e le diverse forme che essa assume. Un programma di contrasto delle povertà deve innanzi tutto prevenirle attraverso la promozione della occupazione, dell’occupazione femminile in particolare,la promozione dei servizi sociali e socio sanitari, la formazione, un adeguata politica dei redditi, la promozione del diritto alla salute, attraverso il potenziamento della sanità pubblica e l’attivazione di politiche mirate verso i gruppi sociali più vulnerabili.

Un programma per contrastare le povertà è il cuore di una politica sociale attiva che voglia valorizzare tutte le capacità delle persone, combattere l'assistenzialismo ma anche l’abbandono attraverso la promozione di una cittadinanza attiva.

Un programma per contrastare le povertà è dunque il cuore di quel welfare delle capacità di cui parla Amartyia Sen che non a caso definisce la povertà come il fallimento delle capacita umane.

Bisogna innanzi tutto dotare il nostro Paese di una rete di servizi sociali e socio sanitari che, insieme ai servizi per l’impiego e alle istituzioni scolastiche siano di sostegno e accompagnamento delle persone fragili per impedire che la fragilità si traduca in marginalità sociale e per inserire ciascuna persona nel lavoro e nel circuito delle relazioni sociali. Una rete integrata di servizi sociali che sia anche capace di sostenere le relazioni familiari e le responsabilità genitoriali nella loro quotidianità.

Per questo è fondamentale dotare di adeguate risorse il fondo nazionale per le politiche sociali e definire finalmente il livelli essenziali delle prestazioni sociali. Questo governo invece nella finanziaria ha falcidiato sia il fondo per le politiche sociali che il fondo per le famiglia, ha ridotto di 5 miliardi il fondo sanitario nazionale per il prossimo triennio e, ultimo colpo di mano ha cancellato le risorse già stanziate dal centro sinistra, (1 miliardo e 200 milioni sul 2008 e neanche un euro per gli anni successivi) per ammodernare gli ospedali, metterli in sicurezza, per promuovere le case della salute e i servizi territoriali.

I livelli essenziali delle prestazioni sociali per quanto riguarda la lotta alla povertà dovrebbero prevedere in modo uniforme sul territorio nazionale sia risorse adeguate per il mantenimento della persona sia opportunità per l’inserimento sociale. Questo al fine di assicurare ad ogni famiglia, che non disponga di un reddito superiore alla soglia di povertà la possibilità di esigere un erogazione monetaria transitoria di integrazione del proprio reddito, un reddito di solidarietà attiva da conseguire attraverso un imposta negativa, che potrebbe sostituire i trasferimenti monetari elargiti a livello locale. Questi ultimi potrebbero essere impegnati per incrementare la rete integrata dei servizii.

Il reddito di solidarietà attiva dovrebbe accompagnarsi a misure di inserimento sociale e lavorativo da articolarsi in una serie di azioni quali la fuoriuscita sia da situazioni di illegalità, percorsi di superamento dalle dipendenze, completamento dell’istruzione scolastica e professionale, assunzione di oneri di cura familiare, percorsi di inserimento lavorativo.

L’Italia è l’unico Paese in Europa insieme alla Grecia e all’Ungheria che non ha una misura universalistica di integrazione al reddito per le persone che, per qualsiasi ragione, si trovano al di sotto della soglia di povertà. L’introduzione di un reddito di solidarietà attiva cosi come era stato sperimentato dal primo Governo Prodi costituisce una misura urgente sia per aiutare chi è gia in condizione di povertà sia per prevenire lo scivolamento nelle povertà, che secondo il rapporto delle Caritas riguarda quasi 15 milioni di persone.

Per prevenire il cosiddetto scivolamento nella povertà dei cittadini presenti nella “fascia di vulnerabilità” sarà necessario creare un “punto unico di accesso” alla rete integrata dei servizi per consentire la presa in carico della persona, accompagnandola nell’utilizzo appropriato dei servizi e delle prestazioni sociali. Sarà inoltre necessario sostenere l’occupazione, sostenere gli affitti ed interessi passivi sulla prima casa anche attraverso l’istituzione di un fondo per l’affitto da destinare in particolare ai giovani, sollevare dall’indebitamento, promuovere il microcredito ed il prestito d’onore, potenziare l’assistenza domiciliare agli anziani, promuovere con gli Enti locali il mutuo aiuto fra le famiglie.

In Italia, a differenza del resto dell’Europa, la povertà riguarda in modo particolare i minori. Secondo l’Istat, gli individui con meno di 18 anni che vivono in famiglie relativamente povere sono 1 milione e 728 mila (il 17,1 per cento). Il 72 per cento dei minori poveri vive nel Mezzogiorno, dove risiede “solamente” il 40 per cento del totale dei minori; al contrario, nel nord dove risiede il 42 per cento dei minori, vive appena il 16,5 per cento dei minori poveri. Particolarmente critica e in peggioramento nel corso degli anni, è la situazione delle famiglie con tre o più minori,che sono povere nel 30,2 per cento dei casi. Sono necessari quindi interventi per contrastare le povertà minorile e bloccare la trasmissione intergenerazionale della povertà attraverso un adeguato sostegno al reddito delle famiglie, con la promozione dell’occupazione e misure economiche quali al dote fiscale per i figli e lo sviluppo di una rete dei servizi socio educativi per la prima infanzia a partire dal rifinanziamento della legge n. 285.

Vi sono inoltre le forme di povertà estreme che producono anche marginalità sociali e che in genere sono prese in carico da uno straordinario volontariato. Ma è doveroso un intervento pubblico che le sostenga attraverso la creazione di un fondo nazionale per il contrasto della grave emarginazione, rifinanziando l’articolo 28 della legge 328 sui servizi sociali, con l’obbiettivo di implementare il sistema dei servizi dedicati all’accoglienza, all’accompagnamento ed alla protezione delle persone in grave emarginazione, di contrastare il disagio nelle periferie urbane e di migliorare il percorso e l’accoglienza umanitaria dei migranti alle frontiere, soprattutto marittime.

La lotta alle povertà ha bisogno di un’azione integrata costante e rigorosa. Ha bisogno che siano di volta in volta valutati i risultati che consegue. Per questo è necessario che il Governo ogni anno promuova una tavola rotonda sull’inclusione sociale, analoga a quella europea, con il coinvolgimento di tutti i livelli istituzionali e gli attori sociali. Una vita dignitosa per tutti è obiettivo irrinunciabile per un Paese civile.

Pubblicato il: 17.10.08
Modificato il: 17.10.08 alle ore 8.35   
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