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Autore Discussione: «C’è voglia di pace per la stanchezza della continua emergenza»  (Letto 2226 volte)
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« inserito:: Agosto 09, 2007, 11:11:17 pm »

«C’è voglia di pace per la stanchezza della continua emergenza»
Umberto De Giovannangeli


«Se penso che un anno fa di questi giorni discutevamo di guerra e distruzione, mentre oggi parliamo, e a ragione, di nuovi spiragli di pace, beh, questo mi porta ad essere un po’ più ottimista sulla natura umana, tanto da farmi venire voglia di scrivere un elogio alla stanchezza; sì, a quella benefica stanchezza di chi non ce la fa più a vivere in uno stato di perenne emergenza; la stanchezza che porta con sé, in dote, un insopprimibile desiderio di normalità». A tessere l’elogio della stanchezza è uno dei più affermati scrittori israeliani: Meir Shalev. L’occasione di questo colloquio ci viene offerta dal «piano-Peres».

In Israele molto si discute sui punti per un piano di pace indicati da Shimon Peres. Qual è la sua posizione a riguardo?
«Mi permetta prima una battuta: finalmente si torna a discutere di un presidente per le idee che avanza, giuste o sbagliate che siano, e non dei suoi illeciti appetiti sessuali. È un bel passo in avanti. Detto questo…».

Detto questo, il piano-Peres.
«Che sia il benvenuto. Lo ritengo un contributo importante per realizzare le fondamenta di un accordo di pace globale. In tempi passati, quando si voleva criticare Peres, lo si definiva un "sognatore" e in quanto tale un condannato alla sconfitta. A parte che ritengo quella dei "sognatori" una categoria benemerita, in questo "piano" Peres ha tradotto un "sogno" in proposte concrete, addirittura misurabili chilometricamente».

A cosa si riferisce?
«Mi riferisco alla proposta di scambio di territori nell’ambito di una definizione negoziata dei confini dei due Stati. La proposta di Shimon Peres tiene conto di una realtà che non è più quella di 30 anni fa, ma, e questo è il vero punto di svolta, Peres non usa questo argomento per imporre soluzioni unilaterali».

È il principio della reciprocità.
«Reciprocità. Questa è la parola chiave che va praticata non solo nel ventilato scambio di terre, ma anche nella rilettura del passato dei due popoli. Reciprocità storica, culturale, e non solo geopolitica. Ciò significa, per quanto concerne noi israeliani, riconoscere non solo l’esistenza come popolo dei palestinesi, ma anche la loro identità nazionale. Al tempo stesso ai palestinesi, nel nome della reciprocità, chiedo di riconoscere non solo il diritto all’esistenza di Israele, ma la nostra identità nazionale, che affonda le sue radici nell’ebraismo secolarizzato. Una identità che si è fatta Stato e che chiede di essere riconosciuta e rispettata per ciò che essa è».

Dalla cultura alla terra. Come si coniuga il concetto di reciprocità evocato da Peres?
«Il discorso rivolto ai palestinesi mi pare chiaro: non vogliamo sottrarvi la vostra terra, anche noi siamo disposti a cederne della nostra, cerchiamo assieme una spartizione condivisa. So bene che il diavolo si nasconde nei dettagli ma in questo momento ciò che conta, a mio avviso, è difendere il principio stesso, ed è ciò che sto cercando di fare».

Un principio, quello della reciprocità, contestato dalla destra israeliana.
«La destra è prigioniera del passato e, soprattutto, è ancorata ad una ideologia nazionalistica-messianica che ho sempre ritenuto foriera di disastri: è l’ideologia di Eretz Israel, del Grande Israele. Per quanto mi riguarda, resto convinto che la democrazia di un Paese, in questo caso di Israele, non si misuri nell’estensione forzata del suo territorio. Non siamo democratici perché siamo più grandi. Semmai, è vero il contrario. Sicurezza, democrazia, identità ebraica: sono tre valide ragioni per cercare di fare la pace con i palestinesi».

Una pace che viene osteggiata da Hamas.
«Vede, ciò che mi sono sempre chiesto è cosa realmente abbia portato tanti palestinesi a votare liberamente per Hamas. Non credo che siano diventati tutti dei fanatici fondamentalisti, un popolo che si alza la mattina e si corica alla sera con un unico assillo: come distruggerci. Si tratta di capire, non di giustificare. Personalmente, credo che una parte importante dei consensi ad Hamas siano il prodotto della frustrazione per una pace spesso evocata ma mai realizzata, e questo anche per responsabilità della passata dirigenza palestinese. Sarò un po’ naif politicamente parlando, ma penso e dico che il modo migliore, l’unico che possa funzionare, per "deconsensualizzare" Hamas, e sostenere davvero Abu Mazen, è quello di accelerare il negoziato. Ed è per questo che ripeto: benvenuto sia anche il piano-Peres».

Tra i nodi cruciali di un accordo di pace c’è anche quello dei rifugiati. Anche qui: come coniugare la «reciprocità»?
«Si tratta da parte nostra di riconoscere che quello dei rifugiati non può essere considerato, né risolto, come un problema umanitario ma ne va riconosciuta la valenza politica perché quella ferita è parte degli eventi che portarono alla nascita dello Stato d’Israele. Al tempo stesso, però, i palestinesi non possono usare la questione del diritto al ritorno come una "bomba demografica" scagliata contro l’identità ebraica d’Israele. Al risarcimento storico, va accompagnato quello politico ed economico, ciò che non possono chiedere è il suicidio di una Nazione».

In precedenza, Lei ha fatto riferimento ad una «reciprocità» nella lettura del passato. Se dovesse tradurre questo principio in un libro di storia per bambini israeliani e palestinesi, cosa scriverebbe?
«Scriverei che il grosso errore di Israele è stato di creare le colonie che sono un ostacolo alla pace, e il grosso sbaglio dei palestinesi è di non aver accettato di convivere con un altro Stato. Ma spero di poter scrivere un secondo capitolo: quello del ripensamento, e dell’incontro. Un capitolo festoso».

E ai giovani israeliani, sul futuro del Paese, cosa direbbe?
«Di riuscire a distinguere tra Stato e Patria. Lo Stato è uno strumento di gestione: con considerazioni pragmatiche, confini legali e politiche proprie. La patria no. La patria è un’idea storica e spirituale, e coloro che la "venerano" sono inclini all’estremismo. Direi loro: rinunciamo a una parte della nostra patria per uno Stato migliore e più normale».

Pubblicato il: 09.08.07
Modificato il: 09.08.07 alle ore 14.18   
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